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    L’impazienza aumenta quando l’attesa è quasi finita

    L’impazienza è uno stato d’animo che può manifestarsi in circostanze molto varie e creare, in alcuni casi, anche qualche disagio. Può accrescere il nervosismo prima dell’inizio di una gara, per esempio, o rendere insopportabile l’attesa di un mezzo pubblico.Una ricerca condotta da una coppia di ricercatrici della University of Texas e della University of Chicago ha analizzato come l’esperienza dell’impazienza evolva nel tempo prima di determinati eventi, notando che il disagio aumenta man mano che la fine reale o presunta dell’attesa si avvicina, indipendentemente dalla durata dell’attesa.
    Pubblicata a dicembre sulla rivista Social Psychological and Personality Science, la ricerca ha utilizzato tre studi longitudinali (quelli che effettuano ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo) basati su sondaggi rivolti a diversi campioni di popolazione statunitense, che descrivono la variazione dei livelli di impazienza riferiti dalle persone intervistate. Uno fu condotto nei tre giorni prima di conoscere i risultati delle elezioni presidenziali americane del 2020. Un altro nei mesi trascorsi tra l’annuncio del successo della sperimentazione del primo vaccino per il Covid-19 e la comunicazione della disponibilità del vaccino per la popolazione. Un terzo studio misurò infine un’impazienza di tipo completamente diverso: quella provata da diversi gruppi di pendolari in attesa di salire su un autobus a una fermata.
    Ai partecipanti degli studi sulle elezioni e sul vaccino fu chiesto in più momenti durante l’attesa di valutare quanto si sentissero impazienti. I risultati mostrarono che mediamente l’impazienza aumentava a ridosso del momento in cui era prevista la fine dell’attesa: l’annuncio dei risultati dell’elezione e la comunicazione della data prevista per ricevere il vaccino.
    Il terzo studio suggerì che l’impazienza aveva più a che fare con un senso di frustrazione tipico di quella fase dell’attesa, la fine, che non con la quantità di tempo atteso nel complesso. Le persone più impazienti erano infatti quelle che aspettavano l’arrivo dell’autobus da un momento all’altro, non necessariamente quelle che attendevano da molto tempo. I risultati del terzo studio, secondo le ricercatrici, potrebbero spiegare perché l’impazienza per la fine della pandemia misurata nel secondo studio è rimasta costante nel tempo ed è aumentata soltanto dopo che le persone, una volta appresa la data della disponibilità del vaccino, hanno intravisto concretamente la fine dell’attesa.
    In generale l’impazienza è un fenomeno molto studiato nella psicologia del marketing, l’insieme di ricerche che si occupano dell’analisi dei comportamenti dei consumatori. Questa ricerca è stata condotta da Ayelet Fishbach, professoressa di scienze comportamentali e marketing alla Booth School of Business della University of Chicago, e Annabelle Roberts, professoressa di marketing alla McCombs School of Business della University of Texas a Austin. Secondo entrambe uno dei fattori che contribuiscono ad accrescere l’impazienza man mano che ci avviciniamo alla fine dell’attesa è il nostro desiderio di concludere un’attività: il desiderio «di cancellarla dalla lista di cose da fare», ha detto Roberts alla rivista Psyche.

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    I risultati della ricerca sono in parte coerenti con l’“effetto gradiente della meta”, una teoria nota del comportamentismo (lo studio scientifico degli aspetti direttamente osservabili e misurabili del comportamento) formulata nel 1932 dallo psicologo statunitense Clark Hull. In base a questa ipotesi le persone investono più risorse nel raggiungere i propri obiettivi, e cioè sono più motivate, quanto più sono vicine a una ricompensa o a un qualche tipo di traguardo, e la loro velocità tende ad aumentare man mano che l’obiettivo è vicino.
    In un’altra ricerca condotta con Alex Imas, anche lui professore di scienze comportamentali della University of Chicago, Fishbach e Roberts hanno analizzato come il desiderio della conclusione influenzi anche i processi decisionali, condizionando per esempio la scelta di completare un’attività subito anziché in seguito.
    In una serie di esperimenti hanno scoperto che, a parità di ricompensa economica, le persone preferivano lavorare un po’ di più (il 15 per cento in più) ma prima, anziché lavorare un po’ di meno ma più tardi. Erano anche tendenzialmente disposte a rinunciare a una parte minima di profitto economico pur di completare in tempi più rapidi un’attività la cui mancata conclusione sarebbe altrimenti rimasta nei loro pensieri. E preferivano fare un’ora di straordinario non retribuito pur di finire un lavoro prima delle ferie, anziché essere pagati per finirlo dopo.

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    Da questo punto di vista, secondo Roberts, l’impazienza può essere descritta come la frustrazione che proviamo in una circostanza in cui saremmo tendenzialmente portati a investire più risorse nel raggiungere un traguardo, ma non possiamo farlo perché raggiungerlo non dipende dai nostri sforzi. È possibile di solito avere un’idea approssimativa del tempo che è necessario attendere prima che arrivi l’autobus che stiamo aspettando, o che si liberi un tavolo al ristorante, per esempio. Ma non c’è niente che possiamo fare in questi casi per raggiungere l’obiettivo più velocemente.
    La ricerca di Fishbach e Roberts fornisce indicazioni potenzialmente utili anche a chi nel marketing si occupa di gestione delle esperienze di attesa. In una serie di studi supplementari l’impazienza riferita dai partecipanti che immaginavano di ricevere un pacco entro un certo numero di giorni (6) era più alta nel giorno previsto per la ricezione del pacco che nei giorni precedenti. L’impazienza riferita tendeva inoltre a variare anche in relazione alla distanza fisica dall’oggetto atteso: era maggiore quanto più il pacco era vicino.
    Sulla base dei risultati della ricerca, secondo le ricercatrici, sovrastimare i tempi di attesa al momento dell’invio di un pacco può essere utile a ridurre l’impazienza della persona destinataria. Ma può essere utile anche in altre circostanze, come per esempio quando serve far sapere a una persona che dobbiamo incontrare quanto tempo manca all’incontro.
    Sapere che l’impazienza è massima nel momento in cui presumiamo che una certa attesa debba finire può essere di aiuto anche nella gestione delle esperienze in cui prevediamo che l’impazienza possa crearci un eventuale disagio. Negli ultimi minuti prima di un certo evento su cui non abbiamo alcun controllo – la partenza di un treno, per esempio – può essere una buona idea, secondo Roberts, distrarsi con un’attività che non c’entra niente con l’evento: ascoltare un podcast, per esempio, anziché controllare compulsivamente l’orologio in attesa dell’orario di partenza.

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    Perché ci si può sentire alticci anche con le bevande analcoliche

    Da diversi anni una più diffusa e profonda consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla salute ha fatto crescere la domanda di versioni analcoliche di note bevande alcoliche: principalmente birra e vino, ma anche distillati come rum e gin. A sostenere la domanda è il desiderio di continuare a gustare queste bevande ma senza subire gli effetti provocati dalle versioni tradizionali. Alcune persone, dopo aver bevuto bibite analcoliche, riferiscono tuttavia di sentirsi più rilassate, o persino leggermente alticce: un effetto tipicamente provocato dall’alcol, che quindi sembra inspiegabile.Sebbene sia un fenomeno ancora poco studiato in modo specifico e approfondito, si ritiene che la sensazione di rilassatezza, appagamento o persino lieve ebbrezza che le bevande analcoliche possono talvolta indurre in alcune persone abbia principalmente a che fare con condizionamenti psicologici e abitudini personali. Sul piano neurobiologico, questa reazione potrebbe derivare dagli stessi meccanismi del cervello che controllano il sistema di ricompensa (quello che ci fa sentire appagati in varie circostanze) e da cui deriva in parte anche la reazione al consumo di bevande alcoliche. Lo suggeriscono indirettamente diversi esperimenti di psicologia condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle bevande placebo, e direttamente alcuni studi più recenti sull’attività del cervello in risposta al consumo di bevande alcoliche e analcoliche.
    Per uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Behavioural Brain Research un gruppo di ricerca della University of Texas a Austin esaminò il cervello di 22 giovani adulti dopo che avevano bevuto una bevanda analcolica pensando di berne una alcolica. Le risonanze magnetiche funzionali (fMRI) mostrarono un aumento significativo dell’attività cerebrale in due delle aree del cervello maggiormente coinvolte nei processi cognitivi della ricompensa. L’aumento era maggiore di quello determinato dall’assunzione di una bevanda “di controllo” dichiaratamente analcolica (un integratore di sali minerali). Il gruppo di ricerca riscontrò inoltre una correlazione tra l’aumento di quella particolare attività cerebrale e la sensazione dei partecipanti di essere brilli, suggerendo che l’aspettativa di consumare una bevanda alcolica può influenzare in parte l’esperienza stessa del bere, indipendentemente dal contenuto di alcol ingerito.

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    Negli studi sulle bevande alcoliche il coinvolgimento del sistema di ricompensa – un fattore alla base di molte forme di dipendenza – è noto da tempo. In uno studio pubblicato nel 2013 un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della Indiana University eseguì una serie di scansioni del cervello (in questo caso PET, tomografie a emissione di positroni) su 49 bevitori abituali di birra a cui erano stati serviti 15 ml di birra. Nonostante i partecipanti avessero ingerito una quantità troppo piccola per sentire gli effetti dell’alcol (più o meno l’equivalente di un cucchiaio da tavola), le scansioni mostrarono che quel semplice assaggio era bastato a determinare un aumento dei livelli di dopamina – il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – nelle aree del cervello associate all’aspettativa di una ricompensa.
    Il fatto che le bevande alcoliche e quelle analcoliche attivino in parte le stesse risposte neurobiologiche è anche una delle ragioni per cui molte persone che si occupano di dipendenze sconsigliano le bevande analcoliche ad alcuni soggetti a rischio. Secondo una revisione di dieci studi pubblicata nel 2022 sulla rivista Nutrients le persone con problemi di dipendenza dall’alcol o anche solo problemi di consumo eccessivo sperimentano un aumento del desiderio di alcol quando consumano bevande analcoliche. Mostrano anche alcune risposte fisiologiche simili a quelle che si verificano quando assumono alcol, tra cui un aumento della sudorazione e della frequenza cardiaca.
    Un cocktail analcolico servito durante un evento organizzato dalla rivista Teen Vogue a New York, il 2 giugno 2018 (Cindy Ord/Getty Images)
    In base alle leggi italiane è considerata alcolica qualsiasi bevanda con una gradazione superiore a 1,2 gradi: è una birra analcolica, per esempio, qualsiasi birra con una gradazione alcolica uguale a o minore di 1,2 gradi. Alcune birre analcoliche sono infatti minimamente alcoliche, perché hanno una gradazione maggiore di 0 gradi (in questo caso sono infatti presenti sull’etichetta i simboli che indicano il divieto di assunzione per le donne in gravidanza e per chi deve guidare).
    In Australia, negli Stati Uniti e in altri paesi la soglia stabilita dalle leggi per definire analcolica una bevanda è di 0,5 gradi. È una quantità di alcol paragonabile a quella che si sviluppa durante i processi di fermentazione nelle banane mature o nel succo d’arancia: troppo esigua per considerarla la ragione dell’apparente ebbrezza sperimentata da alcune persone dopo aver bevuto bevande analcoliche.
    Alcune persone attribuiscono peraltro lo stesso effetto a bevande esplicitamente descritte sull’etichetta come bevande “0,0%”. In questo caso i produttori assicurano che la bevanda sia completamente priva di alcol, a differenza delle analcoliche, il cui eventuale contenuto di alcol può appunto variare tra 0 e 1,2 gradi (ma di solito, per renderle esportabili come analcoliche in più paesi, non supera 0,5). Dagli studiosi che se ne sono occupati le ragioni del rilassamento e delle altre particolari sensazioni associate da alcune persone al consumo di bevande analcoliche sono ricondotte perlopiù a fattori psicologici.

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    Molti dati provenienti da esperimenti condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle “finte” bevande alcoliche e analcoliche indicano che le persone sono generalmente in grado di riconoscere la presenza di alcol in bevande descritte come analcoliche e in cui è stato aggiunto dell’alcol a loro insaputa. Sono invece molto meno abili nel caso opposto: quando devono riconoscere l’assenza di alcol in bevande presentate come alcoliche. Lo mostrano, tra gli altri, i risultati di un esperimento condotto su 720 persone, pubblicati nel 2012 in un ampio studio su Psychological Science.
    Ad alcuni partecipanti riuniti in gruppi di tre persone fu servito un cocktail preparato versando della vodka da una bottiglia di vodka Smirnoff e del succo di mirtillo rosso: solo che la bottiglia, a insaputa dei partecipanti, conteneva in realtà acqua tonica. Tutti i partecipanti tranne uno, pur non mostrando segni di ebrezza, affermarono di aver bevuto un cocktail alcolico. A farglielo credere, oltre all’osservazione delle fasi di preparazione e alle indicazioni degli sperimentatori, contribuirono altri fattori tra cui la temperatura bassa della bevanda. Uno studio più recente condotto su quegli stessi dati indicò inoltre che il consumo di gruppo di finte bevande alcoliche generava reazioni simili a quelle riscontrate in altri esperimenti in cui i partecipanti bevevano finte bevande alcoliche da soli: il fatto che il consumo avvenisse in gruppo era quindi ininfluente rispetto alla convinzione delle persone di aver bevuto un cocktail alcolico.
    Il professore di psicologia Denis M. McCarthy, direttore del centro di ricerca sulle dipendenze della University of Missouri, ha detto a Slate che in questo tipo di esperimenti i partecipanti non solo credono di aver assunto alcol, ma spesso mostrano anche alcuni cambiamenti nel loro comportamento in base a quella convinzione. E quei cambiamenti tendono a riflettere le passate esperienze delle persone quando bevono alcolici, caso per caso: alcune diventano meno ansiose, altre più loquaci e allegre. In generale si aspettano di sentirsi come si sentono dopo aver bevuto, anche se su un piano farmacologico non è cambiato niente nel loro corpo.

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    Esistono tuttavia dei limiti a questo tipo di reazione alle finte bevande alcoliche. In generale, indipendentemente da come si comportano, le persone non arrivano a ubriacarsi: tendono a non accorgersi dell’assenza di alcol finché bevono due o tre drink, ma dopo quattro o cinque cominciano a scoprire la manipolazione. Inoltre non mostrano nel loro comportamento le difficoltà e le alterazioni tipiche del comportamento delle persone ubriache. In alcuni casi, dopo aver bevuto bevande analcoliche credendo di assumere alcol, le persone ottengono in alcuni test cognitivi risultati persino migliori rispetto alle persone che non hanno bevuto: probabilmente perché prestano maggiore attenzione a ciò che stanno facendo, pensando di dover compensare un deficit da loro attribuito al presunto effetto dell’alcol.
    Il limite delle osservazioni basate sui risultati dei molti studi esistenti sugli effetti placebo delle finte bevande alcoliche è che nella maggior parte di quegli esperimenti le persone sono intenzionalmente tratte in inganno. I risultati forniscono informazioni utili, ma fino a un certo punto: nel caso delle sensazioni di rilassatezza comunemente attribuite da alcune persone alle bevande analcoliche, quelle persone sanno di non aver assunto alcol. E gli effetti delle bevande sul loro comportamento sono verosimilmente meno forti rispetto a quelli sperimentati dai partecipanti degli studi sugli effetti placebo. Quello che servirebbe, ha detto a Slate la neuroscienziata Dylan Kirsch, è una maggior quantità di studi sugli effetti del consumo consapevole di una bevanda senza alcol esplicitamente progettata per imitare aspetto e sapore di una corrispondente bevanda alcolica.
    Una bottiglia di birra senza alcol, servita durante una conferenza stampa di presentazione di un accordo pubblicitario tra il Comitato Olimpico Internazionale e la società Anheuser-Busch InBev, a Londra, il 12 gennaio 2024 (AP Photo/Kin Cheung)
    È possibile che una parte dei condizionamenti psicologici derivi dalle somiglianze tra bevande alcoliche e analcoliche, che spesso condividono la stessa bottiglia o la stessa lattina, sia per dimensioni che per colore. «Una delle cose che sappiamo essere fondamentali per potenziare gli effetti placebo sono i simboli che li circondano», ha detto a Slate Kathryn T. Hall, professoressa della Harvard Medical School e autrice del libro Placebos, pubblicato nel 2022. Un certo tipo di lattina o di bottiglia associata al bere una birra, alla sensazione di freddo nella mano che la regge, ai simboli presenti sull’etichetta o anche soltanto a un certo rituale, come bere una birra davanti alla TV, secondo Hall, «stimolerà tutti quei percorsi che erano stati condizionati in precedenza dalle tue abitudini nel bere».

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    Diverse ricerche nel campo delle neuroscienze suggeriscono che, a determinate condizioni, le aspettative possono avere un impatto molto significativo sulla reazione a sostanze di qualsiasi tipo, non soltanto l’alcol. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience la caffeina, per esempio, non è l’unica molecola responsabile dell’impatto del caffè sui nostri livelli di attenzione. Le ricercatrici e i ricercatori riscontrarono in un gruppo di partecipanti che avevano bevuto caffè un aumento di attività cerebrale nelle regioni associate al controllo cognitivo, alla memoria di lavoro e al comportamento orientato agli obiettivi. Non riscontrarono però gli stessi effetti neurobiologici quando i partecipanti assumevano la stessa quantità di caffeina attraverso un’altra bevanda diversa dal caffè.
    Gli studi sull’impatto dei condizionamenti psicologici e degli effetti placebo tendono a suscitare una certa sorpresa nelle persone, ma secondo Hall non dovrebbero. Ogni giorno e per tutto il giorno, ha detto a Slate, le cose che pensiamo cambiano come ci sentiamo e il modo in cui funziona il nostro corpo. Se qualcuno entrasse in ufficio gridando che c’è un incendio e che bisogno uscire di corsa, la nostra frequenza cardiaca aumenterebbe, per esempio, e si verificherebbero altre reazioni: «tutta la nostra fisiologia cambierebbe in risposta a un’informazione che può essere vera o meno». LEGGI TUTTO

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    L’annosa questione di chi si alza appena l’aereo atterra

    Sia in aeroporto che a bordo di un aereo, al momento di salirci sopra o prima di uscirne alla fine del volo, trovarsi in una fila è una delle esperienze più comuni. Il desiderio condiviso di ridurre il rischio di trovarsi in questa condizione e dover affrontare possibili disagi è la causa di comportamenti competitivi che paradossalmente finiscono spesso per generare anziché evitare ritardi e rallentamenti. Molte delle cose che facciamo quando prendiamo un aereo, in generale, riguardano fenomeni studiati nelle scienze del comportamento, l’insieme di varie discipline – tra cui psicologia, economia e scienze cognitive – che analizzano il comportamento umano e l’impatto che ha sul gruppo nel suo insieme.È abbastanza frequente notare alcuni passeggeri che subito dopo l’atterraggio si alzano in piedi e si affrettano a prendere il loro bagaglio dalla cappelliera, nonostante l’invito dell’equipaggio a tenere le cinture di sicurezza allacciate finché l’aereo non si ferma. Ed è altrettanto comune vedere persone in piedi affollare i gate in aeroporto e formare una fila prima ancora che comincino le operazioni di imbarco. Altre scelgono invece di attendere sedute che la fila si accorci, per rimanere meno tempo possibile in piedi ed essere tra le ultime persone a salire a bordo.
    Alla base di questi comportamenti possono esserci ragioni diverse da caso a caso, a volte anche urgenze particolari. Come ha detto al Washington Post Drake Castañeda, responsabile delle comunicazioni aziendali della compagnia Delta Air Lines ed ex operatore responsabile degli imbarchi, alcune persone possono essere semplicemente molto emozionate e impazienti all’idea del viaggio. O magari preferiscono sgranchirsi le gambe prima dell’imbarco e rimanere in piedi prima di un viaggio in cui resteranno presumibilmente sedute per molto tempo, soprattutto nei voli più lunghi. Ma indipendentemente dalle loro intenzioni, ha aggiunto Castañeda, i passeggeri che si mettono in fila troppo presto rischiano di rendere i tempi di attesa più lunghi per tutti.

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    In generale l’affollamento è una conseguenza del desiderio di ottenere un vantaggio competitivo sulle altre persone in un contesto in cui tutte devono fare la stessa cosa, senza un ordine prestabilito: salire su un aereo e poi scendere. I passeggeri che si alzano prima degli altri all’atterraggio e prendono il bagaglio per dirigersi verso una delle uscite dell’aereo contano di anticipare altri passeggeri – sia quelli seduti nelle file davanti che quelli seduti dietro – che stanno per fare o stanno già facendo la stessa cosa, in un modo più o meno veloce.

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    — Jeremy Danner (@Jeremy_Danner) December 2, 2022

    Un discorso simile ma con ulteriori variabili in gioco vale per le persone che si accalcano nei gate intasando l’area dell’imbarco (a volte chiamate in inglese gate lice, “pidocchi del gate”). Come quelle che scattano in piedi subito dopo l’atterraggio, attirano spesso l’antipatia sia di altri passeggeri che del personale responsabile dell’imbarco.
    Nella maggior parte dei casi la ragione per cui cercano di precedere altre persone è perché contano in questo modo di avere più spazio a bordo per muoversi e per riporre i bagagli a mano nelle cappelliere, rispetto alle persone che si imbarcano dopo. In alcuni casi, a seconda della compagnia aerea e della quantità di passeggeri già imbarcati, ai passeggeri che salgono per ultimi può tra l’altro essere chiesto di consegnare il bagaglio a mano affinché sia caricato in stiva (gratuitamente), se lo spazio a bordo per i bagagli è già esaurito. E per le persone che viaggiano soltanto con quello significa aggiungere al tempo di viaggio previsto un tempo imprevisto di attesa nell’aeroporto di destinazione per recuperare il bagaglio, o anche considerare il rischio di smarrire un bagaglio che contavano di avere sempre a portata di mano e che per questo può magari contenere oggetti di valore.
    La conseguenza spiacevole di questa competizione è che provoca spesso rallentamenti per tutti i passeggeri, come spiegato a Business Insider da Rich Henderson, assistente di volo da oltre dieci anni e coautore del sito Two Guys on a Plane. L’affollamento nell’area dell’imbarco ostacola il passaggio di gruppi di passeggeri che hanno priorità sugli altri, e può provocare confusione e ritardi se un passeggero su una sedia a rotelle, per esempio, per imbarcarsi deve attendere che le persone ammassate nell’area dell’imbarco si facciano da parte e siano ricacciate in coda alla fila.

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    I due principali fattori alla base del comportamento delle persone in situazioni come l’imbarco e lo sbarco dall’aereo sono il conformismo e la concorrenza, ha detto al Washington Post la psicologa Shira Gabriel, professoressa alla University at Buffalo. «Le persone usano altre persone come fonti di informazioni sia riguardo a cosa stanno facendo, sia riguardo a quale sia la cosa giusta da fare», ha detto Gabriel.
    La prima persona che si alza dal proprio posto, in altre parole, fornisce a tutte le altre informazioni su come possono e forse dovrebbero comportarsi, il che porta un maggior numero di passeggeri ad alzarsi e unirsi al primo che si è alzato, in un circolo di informazioni che passano di persona in persona. «Se vedi che le persone si mettono in fila, che si preparano, pensi che ci sia un vantaggio competitivo nel farlo», ha detto Gabriel, aggiungendo che le persone «fanno qualsiasi cosa bizzarra, se pensano che sia quello il modo di comportarsi». Questa attitudine è incentivata in parte anche dalle politiche stesse delle compagnie, che come nel caso dei bagagli a mano imprevedibilmente caricati in stiva al momento dell’imbarco possono determinare uno svantaggio concreto per le persone che arrivano dopo le altre.
    «La conseguenza di questi problemi strutturali [delle compagnie aeree] è che creano incertezza e competizione», ha detto al Washington Post lo psicologo sociale Stephen Reicher, professore alla University of St. Andrews, in Scozia. Questa situazione di incertezza motiva le persone a mettersi in fila anche a scapito di altre, perché comportarsi come se non ci fosse competizione quando la competizione c’è è da loro percepito come svantaggioso rispetto a comportarsi come se ci fosse competizione quando la competizione non c’è. Nel primo caso rischiano di perdere una coincidenza all’atterraggio, mentre nel secondo rimangono in piedi per qualche minuto senza una buona ragione, ha detto Reicher. Senza considerare il rischio dei costi sociali – fare la figura del «fesso» – nell’essere l’ultima persona in fila e per questo motivo non poter portare il bagaglio a bordo.
    Il momento dello sbarco è un altro momento del viaggio che tende a irritare molte persone, perché alcune si alzano spesso dal proprio posto prima che l’atterraggio sia concluso, e cioè prima che il segnale delle cinture allacciate venga spento, e questo comporta un rischio in termini di sicurezza. In molti casi genera anche un rallentamento delle operazioni di sbarco, spiegò al Washington Post nel 2019 l’assistente di volo newyorkese Jennifer Johnson, perché rende necessario avvisare il pilota e dirgli che un passeggero si è alzato, intasando le comunicazioni a bordo.
    Il comportamento più appropriato una volta concluso l’atterraggio, scrisse il Washington Post condividendo alcune indicazioni utili su come lasciare l’aereo in modo ordinato e rispettoso verso gli altri passeggeri, è attendere seduti il turno della propria fila prima di spostarsi nel corridoio e prendere i bagagli dalla cappelliera. Il proprio turno può variare in determinate situazioni, ma nella maggior parte dei casi è quando i passeggeri nelle file davanti alla propria hanno già preso il bagaglio e stanno uscendo dall’aereo.
    Un altro consiglio condiviso da un’assistente di volo consultata dal Washington Post, rivolto alle persone preoccupate di perdere una coincidenza, è di non aspettare lo sbarco per mettere l’equipaggio al corrente di quella particolare urgenza. Informare gli assistenti di volo già durante il viaggio, riguardo a un’eventuale coincidenza da prendere in tempi molto ristretti, può permettere loro di fornire aggiornamenti sul volo da prendere e, se possibile e utile, scambiare di posto alcuni passeggeri spostando nella parte anteriore quelli con particolare urgenza di scendere subito dopo l’atterraggio. LEGGI TUTTO

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    Come mai a un certo punto cominciano a piacerci anche i broccoli

    Nelle conversazioni ricorrenti sul cibo capita a volte di parlare della qualità delle materie prime descrivendo un certo alimento di base, dalla frutta al pane agli ortaggi, come diverso rispetto al passato: spesso meno gustoso. Le ragioni dell’evoluzione sono di volta in volta attribuite a fattori eterogenei come il clima, i processi industriali o le tecniche di conservazione. È invece più raro che in queste conversazioni emerga una considerazione su quanto il nostro stesso gusto sia complesso, influenzato da altre percezioni e, soprattutto, in continua evoluzione mentre cresciamo e invecchiamo.È piuttosto comune e raccontata, per esempio, una certa tendenza ad apprezzare in età adulta cibi e bevande che prima dell’adolescenza erano considerati disgustosi, come verdure e frutti dal sapore amarognolo, aspro o acidulo. In parte è una questione di gusti personali che cambiano, ma in parte no: diverse ricerche mostrano come preferire certi cibi e non altri, a seconda della particolare fase della vita, rifletta anche una certa biologia di base in evoluzione.In un citato articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista scientifica Physiology & Behavior e ripreso in diversi studi successivi, le autrici Julie Mennella e Nuala Bobowski, analizzando i risultati della ricerca sperimentale sul gusto nei bambini, scrissero che questi preferiscono livelli più elevati di dolce e sono più sensibili al gusto amaro fino all’adolescenza. Dopodiché il gusto comincia a diventare più complesso: a subire cioè l’influenza crescente di altri sensi e degli stimoli che i sensi forniscono per formare reti neuronali variamente interconnesse nel sistema nervoso.Secondo diverse ricerche sull’evoluzione del gusto, l’infanzia è uno dei momenti in cui i sensi subiscono più cambiamenti, mediando tra predisposizioni biologiche comuni e condizionamenti ambientali variabili a seconda del contesto. In un certo senso, secondo Mennella e Bobowski, è come se i bambini vivessero in mondi sensoriali completamente diversi da quelli che vivranno in seguito da adolescenti e da adulti. Studi sull’evoluzione del gusto nei primati suggeriscono che la sensibilità dei primati umani rispetto al dolce (da cui sono attratti) e all’amaro (che genera repulsione) nelle prime fasi della vita sia in gran parte un riflesso della loro biologia.I nostri sistemi sensoriali si sono evoluti per rilevare e preferire i cibi ipercalorici e un tempo difficili da reperire, e la dolcezza è una specie di “segnale” naturale di questi cibi. Il gusto salato, per cui i bambini hanno un’altra propensione insieme a quella per il dolce, segnala invece la presenza di minerali. In termini evolutivi, la predisposizione verso cibi dolci e salati deriva da tempi relativamente recenti della storia della specie, in cui i bambini avevano bisogno di tutta l’energia e i minerali disponibili per sopravvivere fino all’età adulta.Per ragioni biologiche siamo quindi molto attratti nei primi anni di vita da fonti di energia e cioè dal dolce, dal momento che dolce e ipercalorico coincidevano nell’ambiente in cui ci siamo evoluti: un ambiente privo di dolcificanti ipocalorici e zuccheri raffinati. Un discorso simile, ma in senso di repulsione anziché di attrazione, vale per l’amaro: come la dolcezza segnala fonti di energia, l’amarezza segnala un possibile pericolo. L’ipersensibilità dei bambini per i sapori amari, secondo le ricerche sui fattori evolutivi del gusto, agisce come un meccanismo di protezione dalla possibile ingestione di tossine durante l’infanzia.– Leggi anche: Perché alcuni cibi ci disgustano?Le predisposizioni filogenetiche della specie interagiscono però con l’insieme dei processi di sviluppo dell’individuo (ontogenesi), condizionati dall’ambiente in cui i bambini crescono. A seconda del contesto e di quanto familiarizzano con determinati sapori a loro disposizione durante l’infanzia, come dimostrato da studi sperimentali, i bambini modellano la loro sensibilità e sviluppano il senso di cosa dovrebbe o non dovrebbe avere un sapore dolce, e quanto dolce rispetto ad altri sapori. Familiarizzano progressivamente anche con i sapori amari, una volta appreso che determinati cibi che hanno quel sapore sono sicuri da mangiare.Secondo i risultati di uno studio pubblicato nel 2022 sulla rivista Psychological Science che coinvolse un gruppo di donne incinte tra la 32a e la 36a settimana di gestazione, le capacità sensoriali legate al gusto potrebbero cominciare a subire un’evoluzione persino prima della nascita, in base all’alimentazione della madre. Già durante lo sviluppo intrauterino, deglutendo e inalando il liquido amniotico, i feti possono percepire i sapori del cibo mangiato dalle madri.Per avere una prova diretta di questa capacità, gli autori e le autrici dello studio osservarono e analizzarono tramite ecografie tridimensionali le reazioni facciali dei feti quando le madri mangiavano determinati cibi. I feti erano più inclini a mostrare espressioni sorridenti quando le madri assaporavano una carota, mentre mostravano smorfie e reazioni di disgusto quando le madri mangiavano cavolo. In questo caso, e non in quello della carota, i risultati mostrarono inoltre che le reazioni facciali diventavano via via più complesse man man che i feti maturavano.(Beyza Ustun, Nadja Reissland, Judith Covey, Benoist Schaal, Jacqueline Blissett, “Flavor Sensing in Utero and Emerging Discriminative Behaviors in the Human Fetus”, 2022, Psychological Science/SAGE Open)Man mano che i bambini crescono e superano l’infanzia e poi l’adolescenza, l’ipersensibilità iniziale all’amaro e la predilezione per il dolce e il salato vengono meno, e a seconda dell’esperienza e dell’esposizione a determinati sapori i gusti cambiano e diventano più complessi. Capita spesso che durante questa fase cibi un tempo disprezzati come cavolo, broccolo e barbabietola, diventino cibi apprezzati e graditi.La maggiore complessità dei gusti è determinata dalle esperienze e dall’apprendimento, che contribuiscono ad accrescere e articolare le interazioni del gusto con altri stimoli sensoriali fondamentali. In un esperimento di psicologia molto conosciuto e citato, i cui risultati furono pubblicati nel 2004 sulla rivista Journal of Sensory Studies, gli autori dimostrarono che il sapore riferito delle patatine in busta cambiava a seconda della croccantezza percepita.I partecipanti potevano ascoltare attraverso le cuffie il suono prodotto dal loro morso, ma non sapevano che i suoni provenienti dal microfono, prima di essere rimandati nelle cuffie, subivano un’equalizzazione per eliminare o accentuare di volta in volta determinate frequenze. Alla fine dell’esperimento, dopo aver descritto alcune patatine come più fresche di altre, quasi nessuno dei partecipanti riuscì a riconoscere che le patatine utilizzate dagli sperimentatori erano tutte uguali.– Leggi anche: Quanto contano gli altri sensi per il gustoUn’altra evoluzione significativa del gusto legata a fattori principalmente biologici avviene intorno ai 50-60 anni, quando cambia il ritmo di rigenerazione cellulare delle circa 9-10mila papille gustative con cui nasciamo. Come spiegò a NPR l’otorinolaringoiatra dell’Albany Medical Center di New York Steven Parnes, ogni papilla gustativa è un fascio di cellule sensoriali (specializzate cioè nel ricevere e tradurre gli stimoli ambientali in segnali elettrici per il sistema nervoso), raggruppate insieme come petali intorno al bocciolo di fiore.Le papille gustative, che coprono la lingua e inviano i segnali al cervello attraverso i nervi, variano nella loro sensibilità ai diversi tipi di gusti. Alcune saranno particolarmente in grado di percepire la dolcezza, altre l’amarezza e così via. Questi recettori del gusto hanno un eccezionale ritmo di ricambio cellulare: muoiono e si riformano più o meno una volta ogni dieci giorni. È il motivo per cui, per esempio, quando capita di bruciarsi la lingua con una bevanda o un cibo troppo caldo, recuperiamo in tempi relativamente brevi la capacità di gustare ciò che mangiamo.Intorno ai 50 anni la frequenza di rigenerazione cellulare delle papille gustative cambia, e questo porta a una progressiva diminuzione dei canali attraverso cui i recettori del gusto inviano segnali sensoriali al cervello. La stessa cosa vale per i recettori olfattivi, che smettono di rigenerarsi rapidamente come prima, man mano che l’età avanza. Questa diminuzione della frequenza di ricambio cellulare può determinare una serie di cambiamenti più o meno rilevanti anche nel gusto, a cui l’olfatto è strettamente legato.I cambiamenti del gusto in età avanzata possono tuttavia essere anche molto limitati e sottili, ha detto Mennella alla rivista di divulgazione scientifica Discover. E in molti casi riguardano soltanto un particolare odore o sapore, non limitano interamente l’esperienza del gusto: «Qualcuno per esempio potrebbe diminuire la propria sensibilità all’odore delle rose, ma non rispetto a quello dell’aglio. Non è una perdita omogenea». LEGGI TUTTO

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    L’influencer e personaggio tv Taylor Mega si è laureata! Dettagli e foto dei festeggiamenti

    Ha concluso il percorso di studi alla facoltà di Psicologia di Milano
    Oggi, 9 novembre, ha discusso la tesi del corso in Scienze e Tecniche Psicologiche

    Taylor Mega si fa vedere nelle sue storie con la corona d’alloro sulla testa. L’influencer e personaggio tv, 30 anni compiuti lo scorso 31 ottobre, si è laureata. Ha concluso il suo percorso di studi alla facoltà di Psicologia. Oggi, 9 novembre, in mattinata, ha discusso la tesi del corso in Scienze e Tecniche Psicologiche. Subito dopo ha celebrato con i genitori e alcuni amici. Per tutti un pranzo nel lussuoso ristorante di Palazzo Parigi Hotel & Grand Spa Milano.
    L’influencer e personaggio tv Taylor Mega si è laureata! Dettagli e foto dei festeggiamenti
    Completo pantaloni nero gessato e camicia in seta bianca. Taylor per il giorno della laurea ha scelto di essere glamour e chic. Ha completato il suo outfit con una Kelly black di Hérmes. Ad attenderla, oltre ai genitori, Jessica Cardinali, Letizia Zanutta e Stefano Pinto. Sorridente, la Mega ha brindato con i suoi cari. Ora tutti la chiamano “dottoressa del mio cuore”, mostrandole tantissimo affetto.
    Ha concluso il percorso di studi alla facoltà di Psicologia di Milano
    Oggi, 9 novembre, la 30enne ha discusso la tesi del corso in Scienze e Tecniche Psicologiche. Poi pranzo in famiglia a Palazzo Parigi
    Modella, imprenditrice, oltre che influencer, Taylor ha iniziato sin da piccola a muovere i primi passi sul social: oggi è seguitissima, con i suoi 2 milioni e 800 mila follower. Ha partecipato all’edizione 2019 de L’Isola dei Famosi. Nasce in una famiglia di allevatori di tacchini ed è stata fidanzata con Tony Effe, 32enne cantante trap/rap della Dark Polo Gang, oggi spesso solista.
    Al suo fianco, fieri ed entusiasti, i suoi genitori
    Spesso al centro del gossip, sia per i suoi presunti ritocchi estetici, sia per flirt o mise super hot, la ragazza, all’anagrafe Elisia Todesco, non è più apparsa in alcun salotto tv e si è messa sotto con lo studio, raggiungendo, finalmente la laurea, a cui teneva moltissimo, così come i suoi genitori. LEGGI TUTTO

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    Ci sono anche psicopatici di successo

    Caricamento playerNel linguaggio comune esiste una tendenza abbastanza diffusa a definire “psicopatiche” persone che presentano un insieme di caratteristiche eterogenee, ma che in generale sono percepite come problematiche, aggressive o pericolose, a seconda dei casi. E di solito l’utilizzo di questo aggettivo non ammette molte sfumature: o si è o non si è psicopatici. Ma in ambito scientifico la psicopatia è una categoria molto più generica e incerta, e non è considerata in sé una malattia mentale, pur essendo un potenziale indicatore di disturbi in grado di influenzare i comportamenti dell’individuo nella società e le sue condizioni psichiche.Da una quindicina di anni un gruppo di ricerche scientifiche con un approccio dimensionale anziché “binario” cerca di mettere in discussione l’idea che la psicopatia sia un attributo che può essere soltanto o presente o assente. E suggerisce che i tratti e i sintomi che la caratterizzano siano diffusi nella popolazione più di quanto si creda, associati alla personalità di ciascun individuo fin dall’adolescenza e dalla prima età adulta, e tendenzialmente distribuiti lungo ampie scale di intensità. Una persona, in altre parole, può essere lievemente o gravemente psicopatica. E non è detto che esserlo lievemente comporti un’alterazione psichica tale da compromettere la vita sociale dell’individuo.Secondo alcuni ricercatori e ricercatrici nel campo della psicologia e della psichiatria l’attenzione prevalente ai comportamenti psicopatici violenti e criminali nel Novecento ha reso marginale lo studio di un’altra categoria abbastanza ampia di persone psicopatiche, cioè quelle «di successo»: persone con tendenze psicopatiche ma la cui personalità nella maggior parte dei casi non genera sofferenza, e che anzi in alcuni casi riescono a trarre beneficio da quei tratti. Ma dal momento che non esiste un consenso riguardo alle caratteristiche che distinguono gli psicopatici di successo da tutti gli altri sta emergendo da alcuni anni una tendenza a studiare quei tratti con maggiore cautela, evitando sia di celebrarli che di stigmatizzarli.Nello stesso filone di ricerche recenti che hanno esteso la descrizione delle tendenze psicopatiche si inserisce peraltro una serie di studi già oggetto nel 2011 di un libro del giornalista e scrittore gallese Jon Ronson, Psicopatici al potere. Nel libro, risultato di conversazioni con psicologi, esperti e manager, Ronson sollevò una serie di dubbi sulla possibilità di tracciare confini netti nella definizione di psicopatia. Descrisse quindi il potere manipolatorio e di seduzione di cui si servono le persone psicopatiche per controllare le altre persone e soddisfare il proprio ego. E mostrò come alcuni di quei tratti permettano alle persone di trovarsi a loro agio in posizioni di potere politico o economico.– Leggi anche: Psicopatici al potereNelle attuali classificazioni internazionali la psicopatia non esiste in senso stretto, se non come indicatore di altri disturbi psichici. Nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V) è associata al disturbo antisociale di personalità (DAP), definito come «un quadro caratterizzato da inosservanza e violazione dei diritti degli altri». Come altri disturbi di personalità, il disturbo antisociale di personalità «esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione», oltre che comportamenti marcatamente devianti rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo. Ma nonostante siano stati e siano ancora spesso utilizzati come sinonimi, disturbo antisociale di personalità e psicopatia non definiscono lo stesso quadro, da cui l’ambiguità della definizione stessa di psicopatia.Gli studi più recenti sugli psicopatici di successo richiamano in parte alcune tesi contenute in uno dei libri più importanti e citati nella storia della ricerca psichiatrica sulla psicopatia, scritto nel 1941 dall’influente psichiatra statunitense Hervey Cleckley: La maschera della salute. Secondo Cleckley la persona psicopatica è in grado di mostrare un normale «funzionamento sociale», quantomeno nella valutazione tramite criteri psichiatrici standard, ma è anche persuasiva, egocentrica, priva di scrupoli e impulsiva: possiede cioè diversi tratti di una personalità antisociale.A differenza di altri psichiatri che dopo di lui studiarono la psicopatia prevalentemente nelle carceri, contribuendo ad associarla a comportamenti criminali e violenti sia nell’opinione pubblica che nell’approccio accademico, Cleckley trasse molte delle sue intuizioni dall’osservazione di persone nei centri di cura psichiatrica. Lì incontrò persone in grado di nascondere e controllare gli aspetti peggiori della loro personalità e del loro comportamento, e ipotizzò che quella capacità fosse diffusa anche nella società e in diversi contesti professionali di prestigio. Delineò, per esempio, il profilo di un uomo d’affari psicopatico che lavorava alacremente e la cui vita sembrava del tutto normale, tranne che per i continui tradimenti coniugali, l’insensibilità verso le altre persone, la spregiudicatezza e l’alcolismo.Il lavoro di Cleckley fu in parte ripreso soltanto negli anni Settanta, dallo psicologo canadese Robert D. Hare, ideatore della PCL-R, la Psycopathy Checklist, un test per diagnosticare la psicopatia attraverso il punteggio ottenuto valutando 20 elementi del carattere di una persona. Hare associò all’individuo psicopatico comportamenti antisociali e specifici tratti di personalità, come il disprezzo per i diritti e i sentimenti delle altre persone e l’incapacità di provare compassione e rimorso.Le intuizioni di Cleckley e Hare sono considerate fondamentali e influenti nelle ricerche più recenti sulla psicopatia perché permisero di studiarla nella popolazione generale, selezionata per particolari tratti della personalità, e analizzare quindi anche il comportamento di persone con psicopatia lieve o di successo. «La maggior parte degli individui psicopatici vive intorno a noi», ha detto alla rivista Knowable Magazine Désiré Palmen, ricercatrice di psicologia clinica presso la Avans University of Applied Sciences nei Paesi Bassi.– Leggi anche: Le rage room servono davvero a gestire meglio la rabbia?Secondo l’approccio più comune la psicopatia è un insieme di diversi tratti di personalità che interagiscono tra loro. Nel modello tradizionale, in parte sviluppato a partire proprio dalle tesi di Hare, i due tratti fondamentali sono la disinibizione, cioè la mancanza di controllo degli impulsi, e la meschinità (meanness), cioè la ricerca aggressiva di risorse senza il rispetto per le altre persone. La presenza di alti livelli di disinibizione e meschinità induce le persone a provare un’empatia molto limitata o nulla, e ha spesso conseguenze violente.L’orientamento più recente, basato sul cosiddetto modello di psicopatia triadico (TriPM), suggerisce tuttavia l’integrazione di un terzo fattore nel modello tradizionale: l’audacia (boldness). Secondo lo psicologo clinico della Florida State University Christopher Patrick, autore di un articolo sulla psicopatia pubblicato nel 2022 sulla rivista Annual Review of Clinical Psychology, l’audacia del modello triadico sarebbe costituita da una forma di coraggio espresso nelle interazioni con le altre persone, e una tendenza a non essere facilmente intimiditi e a essere più assertivi e dominanti.Una persona audace non è necessariamente psicopatica, secondo questo modello, ma una persona con alti livelli di audacia, meschinità e disinibizione potrebbe essere in grado di usare la propria sicurezza sociale per nascondere gli altri tratti più estremi della sua personalità ed eccellere in posizioni di leadership. È possibile anzi che un alto livello di altri tratti tradizionalmente associati alla psicopatia, secondo questo modello, sia strettamente correlato alla capacità di ottenere successo in determinate professioni.La meschinità, per esempio, si manifesta spesso come una mancanza di empatia. E nelle aziende è spesso richiesta in alcuni ruoli la capacità di agire sotto pressione e prendere decisioni rapidamente e spietatamente, senza cioè mostrare alti livelli di empatia, ha detto a Knowable Magazine Louise Wallace, docente di psicologia forense alla University of Derby, in Inghilterra.– Leggi anche: Quanto è libero il libero arbitrio?Per dimostrare come alcuni tratti della personalità psicopatica possano fornire un vantaggio selettivo in alcuni ambienti aziendali, uno studio del 2016 analizzò il comportamento dei dipendenti di un’agenzia pubblicitaria australiana, misurando i livelli di psicopatia attraverso due diversi test di valutazione sviluppati a partire dal modello di Hare (il PCL-R). Scoprì che i dirigenti con più anzianità di servizio ottenevano punteggi più alti rispetto al personale più giovane nelle misurazioni dei comportamenti associati ai tratti psicopatici, tra cui essere persuasivi e affascinanti, ma anche egocentrici, spietati e incapaci di provare rimorso.Uno studio della Ontario Tech University, pubblicato nel 2019, analizzò una serie di annunci di lavoro di varie aziende – del settore sanitario, tecnologico, dei media, dei trasporti e di altri settori – e scoprì che in alcuni casi il linguaggio utilizzato per descrivere i candidati ideali era in grado di attrarre persone psicopatiche. In un caso eccezionalmente esplicito in un annuncio pubblicato nel 2016 un’azienda inglese aveva definito la posizione per cui ricercava candidati «psicopatica superstar responsabile delle vendite in una nuova azienda dei media». E più in basso aveva scritto: «Non stiamo cercando uno psicopatico, ma qualcuno con alcune delle qualità positive che hanno gli psicopatici».Alcune ricerche hanno poi ipotizzato che altri tratti comuni nelle tendenze psicopatiche, in particolare l’audacia e l’inclinazione a correre dei rischi, siano associati a un maggiore impegno in atti altruistici e di eroismo quotidiano. In uno studio del 2018 il personale di primo soccorso ottenne rispetto al resto della popolazione punteggi significativamente più alti nella misurazione dell’audacia, della tendenza alla leadership e alla ricerca di sensazioni forti, e di altre variabili associate alla psicopatia.– Leggi anche: L’espressione “salute mentale” è abusataL’idea che alcuni tratti della personalità psicopatica possano anche portare a comportamenti prosociali, e non soltanto antisociali, è tuttavia criticata in alcuni studi che contestano l’inclusione dell’audacia come tratto significativo. Per uno di questi, condotto nel 2021, un gruppo di ricerca della University of Georgia chiese a 1.015 studenti di esprimere accordo o disaccordo con affermazioni che misuravano i tratti del modello triadico della psicopatia: meschinità («Non mi importa se qualcuno che non mi piace si fa male»), disinibizione («Ho preso dei soldi dalla borsa o dal portafoglio di qualcuno senza chiedere il permesso») e audacia («Sono un leader nato»).I risultati mostrarono una correlazione significativa tra meschinità e disinibizione da una parte, e violenza, aggressività, violazione delle regole e comportamenti antisociali auto-riferiti dall’altra parte. Non trovarono però una correlazione tra quelle manifestazioni e l’audacia, che invece era correlata a un maggiore «funzionamento adattivo», cioè a comportamenti prosociali e a una emotività nella norma.Una contro-obiezione a questi studi è che persone con alti livelli di meschinità e disinibizione, secondo altre ricerche, riescono a non finire nei guai – e quindi a non avere comportamenti antisociali da riferire – proprio grazie alla concomitanza di un alto livello di audacia. Uno studio del 2022, per esempio, suggerì che tra gli psicopatici di successo l’audacia sia un fattore protettivo in grado di mitigare gli effetti negativi della meschinità e migliorare il benessere soggettivo.Secondo Wallace gran parte del dibattito accademico sulla psicopatia continua ancora oggi a subire l’influenza storica della letteratura basata sullo studio delle persone responsabili di crimini e atti violenti, utilizzate come metro per valutare e diagnosticare la psicopatia. «Una volta etichettata la psicopatia come un disturbo clinico caratterizzato da estrema violenza, tutti i tratti positivi dell’adattamento vengono messi da parte», ha detto Wallace a Knowable Magazine, descrivendo quegli aspetti come invece meritevoli di maggiori attenzioni. LEGGI TUTTO

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    Perché scrivere molte volte una parola può renderla strana

    Il déjà vu, che in francese significa “già visto” e descrive la sensazione ingannevole di aver già vissuto un’esperienza in realtà mai vissuta prima, è uno dei fenomeni più studiati nelle moderne scienze cognitive, tra quelli già descritti oltre un secolo fa da autori famosi e influenti come il filosofo francese Henri Bergson e il neurologo austriaco e fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. In tempi recenti alcuni dei ricercatori che da diversi anni analizzano e riproducono in laboratorio l’esperienza del déjà vu hanno ampliato le conoscenze su un fenomeno opposto, in un certo senso, oltre che più raro e meno studiato: il jamais vu (in francese, “mai visto”).Se il déjà vu è definito come un’impressione illusoria di familiarità di un’esperienza presente in rapporto a un passato indefinito, il jamais vu è un’impressione illusoria di estraniazione di un’esperienza presente rispetto a un passato in cui quell’esperienza si è già certamente verificata altre volte. Il jamais vu, in altre parole, si verifica quando una qualsiasi situazione che dovrebbe essere estremamente familiare non viene riconosciuta come tale dall’osservatore. Implica spesso un senso di disagio e inquietudine, perché l’impressione di trovarsi in una certa situazione per la prima volta coesiste con la consapevolezza che non sia la prima volta.Un’esperienza di jamais vu nella vita quotidiana, spesso riportata dalle persone coinvolte negli studi su questo fenomeno, è scrivere a mano più volte una stessa parola, correttamente, al punto da soffermarsi poi su quella parola con l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato o di anomalo nel modo in cui è scritta. Un’altra è ripetere a voce una parola più e più volte, e avere a un certo punto l’impressione che quella parola sia un suono privo di significato.Situazioni di questo tipo furono ricreate in laboratorio da un gruppo di psicologi e neuroscienziati dell’Università di Grenoble in Francia, di Helsinki in Finlandia e di St. Andrews in Scozia per un esperimento sull’«alienazione delle parole e la sazietà semantica», condotto su 94 studenti di psicologia della University of Leeds. I risultati furono pubblicati nel 2020 in una ricerca recentemente premiata con l’Ig Nobel, i premi attribuiti ogni anno alle ricerche più bizzarre e insolite.– Leggi anche: L’importanza delle ricerche scientifiche strambeIl primo esperimento della ricerca prevedeva che i partecipanti trascorressero del tempo scrivendo ripetutamente una stessa parola. Come possibile stimolo del jamais vu furono scelte dodici parole, alcune molto comuni come door, money e room, e altre meno come ting (“tintinnio”) e ague (“febbre malarica”). I ricercatori chiesero a ciascun partecipante di scrivere a mano una parola più volte il più velocemente possibile, e strutturarono l’esperimento in modo che i partecipanti potessero smettere di scrivere nel momento in cui fossero sopraggiunti o male alla mano, o noia o un senso di estraniazione.Il senso di estraniazione fu la ragione più frequente per cui i partecipanti, circa il 70 per cento, decidevano di smettere di scrivere. E si verificava di solito per parole familiari e dopo circa un minuto, cioè dopo aver scritto la stessa parola mediamente 33 volte. La stessa sensazione fu riportata dal 55 per cento dei partecipanti ma in un tempo ancora più breve – in media dopo aver scritto la stessa parola 27 volte – anche in un secondo esperimento, per cui fu utilizzata come parola soltanto l’articolo the, scelta dai ricercatori in quanto una tra le più comuni in assoluto nella lingua inglese.I ricercatori trovarono le descrizioni dei partecipanti riguardo all’esperienza da loro provata pienamente compatibili con la caratteristiche del jamais vu: la non familiarità e la dissociazione delle parole dal loro significato. Alcuni dissero che più osservavano le parole, più le parole sembravano strane e prive di significato. «Sembrano soltanto serie di lettere invece che parole intere», disse uno dei partecipanti. «Sembra quasi che non sia nemmeno una parola, ma che qualcuno mi abbia ingannato facendomi credere che lo sia», disse un altro. La maggior parte di loro disse inoltre di aver provato un’esperienza del genere altre volte in passato, in contesti quotidiani e non sperimentali.Come hanno scritto su The Conversation due coautori della ricerca, il neuropsicologo inglese Chris Moulin e il neuroscienziato cognitivo inglese Akira O’Connor, il metodo da loro seguito – chiedere di scrivere ripetutamente una parola – non è una novità nella ricerca scientifica nel campo della psicologia. Nel 1907 la psicologa statunitense Margaret Floy Washburn, una delle più influenti del XX secolo, pubblicò i risultati di un esperimento simile condotto sui suoi studenti, da cui emerse una «perdita del potere associativo» delle parole quando gli studenti fissavano le parole per tre minuti.Sul piano teorico il jamais vu condivide inoltre alcune caratteristiche con un concetto reso noto nel 1919 da Freud, il «perturbante» (Unheimliche), poi diventato una delle più importanti categorie filosofiche ed estetiche del Novecento. Freud definì perturbante il sentimento che si prova quando qualcosa di massimamente familiare diventa nella percezione soggettiva il contrario di sé: qualcosa che turba, familiare e allo stesso tempo per niente familiare. E l’effetto perturbante, scrisse Freud, può scaturire in particolare dalle situazioni in cui uno stesso fatto, gesto o fenomeno si ripete identico a sé stesso.– Leggi anche: Che rapporto abbiamo con i noi stessi del passatoSecondo Moulin e O’Connor il jamais vu è un fenomeno che richiede maggiori studi e approfondimenti, ma la loro ipotesi è che sia una particolare impressione che può presentarsi quando la ripetizione porta in generale a una trasformazione e a una perdita di significato delle parole e delle esperienze. O’Connor ha citato un altro esempio, un caso di jamais vu capitato a lui direttamente: stava guidando in autostrada, quando a un certo punto provò un senso di estraniazione e sentì il bisogno di fermarsi sulla corsia di emergenza per «resettare» l’elaborazione delle informazioni e ritrovare familiarità con i pedali e il volante.Il jamais vu potrebbe essere, secondo Moulin e O’Connor, un sorta di segnale cognitivo che qualcosa è diventato «troppo automatico, troppo fluido, troppo ripetitivo». E potrebbe essere un modo per interrompere una sensazione di irrealtà emergente e recuperare il controllo sulle cose, in modo da dirigere l’attenzione dove è necessario e non rischiare di perderla durante l’esecuzione di compiti ripetitivi per un lungo periodo di tempo.La ricerca sul jamais vu potrebbe inoltre espandere le conoscenze su altri fenomeni che hanno caratteristiche simili. La perdita di significato dovuta alla ripetizione continua di una stessa parola è associata, per esempio, all’effetto della trasformazione verbale nella percezione dei suoni delle parole. Si verifica quando sentire ripetere una stessa parola più volte porta l’ascoltatore o l’ascoltatrice a distorcere la percezione del suono, dopo un certo numero di ripetizioni, fino a renderlo compatibile con parole diverse da quella iniziale e quindi con altri significati.Capire perché scrivere una parola ripetutamente genera un senso di estraniazione e fa sì che la realtà cominci a sfuggire, secondo Moulin e O’Connor, potrebbe anche servire a spiegare alcuni comportamenti studiati in relazione al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), tra cui la tendenza a controllare di continuo e fissare a lungo gli oggetti che possono generare incertezza, come i fornelli del gas o le porte. Controllare più volte che la porta sia chiusa – come scrivere ripetutamente una parola, appunto – potrebbe rendere quel compito privo di significato e quindi inefficace, rendendo difficile o impossibile sapere se la porta sia chiusa oppure no, in un circolo vizioso. LEGGI TUTTO

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    Quanto cambia nella vita avere fratelli e sorelle

    Secondo una delle più conosciute frasi fatte sui rapporti familiari nessuna persona sceglie la propria famiglia: i propri genitori, prima di tutto, ma nemmeno fratelli e sorelle. Che è sicuramente vero, nella misura in cui è vero che non “decidiamo” in quale ambiente nascere: per quanto riguarda la famiglia, appunto, ma anche molto altro. Tra le molte influenze che subiamo e a nostra volta esercitiamo nel corso della vita quella tra fratelli e sorelle è di un tipo abbastanza eccezionale: può essere più forte dell’influenza dei genitori, e il più delle volte dura più a lungo. Ma allo stesso tempo è completamente diversa, e tende a subire un’evoluzione man mano che fratelli e sorelle lasciano la casa in cui sono nati e cresciuti.Nella ricerca scientifica i legami familiari, soprattutto quello tra gemelli, sono considerati una preziosa opportunità di studiare l’influenza dei fattori sia ambientali che ereditari nella definizione delle caratteristiche fisiche e psichiche delle persone. Ma i rapporti tra fratelli e sorelle sono anche un frequente spunto di conversazioni comuni. Capita spesso di parlare di una persona ponendola in relazione con i suoi fratelli e le sue sorelle, per valutarne somiglianze e differenze. E capita spesso di chiedersi se e in che misura questi particolari rapporti siano importanti nella costruzione dell’identità delle persone, anche per la loro semplice presenza, e senza che le persone stesse ne abbiano consapevolezza.È molto probabile che l’influenza reciproca tra fratelli e sorelle abbia a sua volta subito un’evoluzione storica significativa sul piano collettivo, dovuta all’allungamento dei tempi di coabitazione nello stesso ambiente familiare rispetto al passato: un fenomeno da tempo noto e diffuso in Italia, ma anche in altri paesi dell’Europa mediterranea e in aumento anche negli Stati Uniti. In Italia, secondo un rapporto dell’ISTAT pubblicato nel 2022, la tendenza a lasciare la famiglia di origine più tardi che in passato rende la coabitazione tra fratelli e sorelle un fenomeno piuttosto normale nella fascia più giovane della popolazione.Il 68,2 per cento delle persone tra 18 e 24 anni vive con almeno un fratello o una sorella. Questa percentuale scende al 23,1 se si considera la fascia di età 25-34 anni, e diminuisce progressivamente man mano che l’età aumenta. Ma la solidità dei legami si manifesta anche in seguito, come attestato dal fatto che molti fratelli e sorelle non conviventi abitano a poca distanza tra loro. Circa una persona su due (50,7 per cento) vive infatti in un’altra abitazione ma nello stesso comune del fratello o della sorella più vicini.– Leggi anche: Perché i gemelli identici ci affascinanoSebbene tutte le famiglie differiscano le une dalle altre per molti aspetti e sfumature, tanto più in contesti sociali e culturali diversi, l’influenza del rapporto con fratelli e sorelle nella definizione dei caratteri e di altre caratteristiche delle persone è da tempo oggetto di molte ricerche, principalmente su campioni di famiglie europee e statunitensi. Sono studi accomunati prima di tutto da un accresciuto interesse per le relazioni sociali in generale e per come siano cambiate a seguito del progressivo calo della mortalità e della fertilità: condizioni che hanno reso possibili legami più durevoli, attivi e intensi, familiari e non, ma anche più complessi, ambigui e incerti.I fratelli della famiglia Jackson: Michael, Tito, Jackie, Jermaine, e dietro di loro Randy e Marlon, nell’ottobre 1972 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)Per le persone che hanno fratelli o sorelle è probabile che i rapporti con loro – intensi o no, conflittuali o meno – siano i più lunghi di tutta la vita. Se questi rapporti determinino poi un miglioramento o un peggioramento della qualità della vita dipende da molte variabili ed è una questione discussa da diversi punti di vista. Una ricerca pubblicata nel 2012 e basata sull’analisi di diversi studi sulle relazioni tra fratelli e sorelle nell’infanzia e nell’adolescenza, condotti nei precedenti due decenni, suggerisce che le interazioni positive con un fratello o una sorella durante l’adolescenza favoriscano l’empatia, il comportamento prosociale e il rendimento scolastico.Altri studi indicano però che questi effetti positivi variano al variare del numero di componenti della famiglia. Nella letteratura scientifica esiste infatti un rapporto inverso molto chiaro tra numero di fratelli o sorelle e buoni risultati scolastici e prestazioni nei test di intelligenza psicometrica. Ma l’universalità di questo rapporto è a sua volta messa in discussione da altre ricerche che includono altre variabili specifiche come l’ordine di nascita e il genere, e suggeriscono che non tenere conto di questi altri fattori per studiare i risultati scolastici ed economici possa restituire stime distorte dell’influenza di avere uno o più fratelli e sorelle.– Leggi anche: L’altissimo QI dei geni è una ballaSecondo un ampio studio del 2005 sull’intera popolazione norvegese, per esempio, la dimensione della famiglia sul livello di istruzione dei figli ha effetti meno importanti rispetto all’ordine di nascita. Avere o non avere fratelli e sorelle risultò infatti piuttosto ininfluente per il livello di istruzione del primogenito o della primogenita, che tendeva a essere lo stesso indifferentemente dal numero di fratelli e sorelle più piccole che aveva. Era però influente per i nati successivamente, penalizzante in particolare per le donne: quelle nate più tardi avevano guadagni più bassi (che fossero impiegate a tempo pieno o meno), meno probabilità di lavorare a tempo pieno e maggiori probabilità di avere il primo parto da adolescenti. Al contrario, anche se gli uomini nati più tardi avevano un reddito a tempo pieno più basso rispetto ai nati prima, non avevano meno probabilità di lavorare a tempo pieno.L’ordine di nascita all’interno delle famiglie numerose non è invece un fattore altrettanto influente nella definizione del carattere e dell’identità delle persone, contrariamente a quanto suggerito da molte teorie incerte e luoghi comuni, come quello sui presunti tratti ricorrenti nei figli di mezzo, per esempio. Una ricerca condotta da un gruppo del dipartimento di psicologia dell’Università di Lipsia e dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica PNAS, analizzò un ampio insieme di dati relativi a tre campioni di popolazione degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania. E non riscontrò effetti dell’ordine di nascita sull’estroversione, sulla stabilità emotiva, sulla piacevolezza, sulla diligenza e sull’immaginazione delle persone.I fratelli Marx, da sinistra Zeppo, Harpo, Chico e Groucho, nel 1933 (AP Photo)Ovviamente le relazioni tra fratelli e sorelle possono anche essere negative, e in alcuni casi pessime, al punto da condizionare pesantemente tutta la vita. Avere cattivi rapporti con fratelli e sorelle aumenta le probabilità di abuso di sostanze, depressione e ansia durante l’adolescenza. E due studi longitudinali su un campione piuttosto esteso di popolazione del Regno Unito indicano che il bullismo tra fratelli adolescenti aumenti il rischio di compiere atti di autolesionismo nella prima età adulta e il rischio di soffrire di psicosi (varie condizioni patologiche caratterizzate da un’alterazione del rapporto con la realtà).Alcune riflessioni e studi recenti si sono concentrati su quanto le relazioni tra fratelli e sorelle siano soggette a un’evoluzione nel corso del tempo e possano cambiare anche molto, specialmente in seguito alla fine della coabitazione, o alla morte dei genitori. In un recente articolo sul rapporto tra fratelli e sorelle, intitolato Le relazioni più lunghe della nostra vita, l’Atlantic ha scritto che questo rapporto ha generalmente due fasi distinte: una prima fase in cui è molto radicato nel tessuto familiare e guidato dai genitori, e un’altra in cui sopraggiunge l’indipendenza.Le tenniste statunitensi Venus e Serena Williams durante un match del torneo di doppio femminile a Wimbledon, a Londra, il 25 giugno 2014 (AP Photo/Alastair Grant)In questa seconda fase quello tra fratelli e sorelle diventa un caso piuttosto unico di legame in parte ancora «involontario», perché nessuno sceglie i propri fratelli o le proprie sorelle, appunto, ma in parte anche «volontario». Continuare a frequentare i propri fratelli e sorelle, così come smettere di farlo, tende infatti a non essere più un atto condizionato da dinamiche familiari e obblighi morali o di altro tipo. Tant’è che allontanarsi da un fratello o da una sorella è solitamente considerato un fatto meno eccezionale e in un certo senso meno grave che allontanarsi da un genitore o da un coniuge. In estrema sintesi, scrive l’Atlantic, fratelli e sorelle sono «persone costrette a stare insieme che poi all’improvviso non lo sono più».La seconda fase della relazione tra fratelli e sorelle è tendenzialmente caratterizzata da un’indipendenza economica e affettiva che può dare l’opportunità di costruire una relazione diversa rispetto a quella della giovinezza. A volte le persone rimangono bloccate nei ruoli interpretati nella fase precedente, a volte riescono a liberarsene. E una delle ragioni per cui capita di avere un rapporto completamente diverso, secondo la statunitense Katherine Jewsbury Conger, sociologa della University of California Davis, è il venir meno di un particolare fattore a volte percepito all’interno del contesto familiare: i favoritismi.I fratelli Noel e Liam Gallagher ritratti su un cartello retto da un fan fuori da un negozio, a Glasgow, il 7 gennaio 2012 (Jeff J Mitchell/Getty Images)Utilizzando il campione di uno studio longitudinale su tre generazioni di famiglie rurali dell’Iowa cominciato alla fine degli anni Ottanta (il Family Transitions Project), Conger ha intervistato coppie di fratelli e sorelle, sia insieme che separatamente, dagli anni della scuola media fino all’età adulta. E ha scoperto che ricordavano anche a distanza di anni quale dei due condividesse più interessi con la madre o con il padre, o avesse più bisogno di aiuto per i compiti a casa o per altro, e che questa condizione non era causa di dissidi. Nei racconti emergevano invece conflitti e tensioni nei rapporti nei casi in cui fosse presente la percezione di favoritismi slegati da necessità particolari e specifiche.L’eventuale risentimento per questo tipo di dinamica familiare, in cui coesistono sentimenti sia positivi che negativi verso il fratello o la sorella, tende a raggiungere il picco prima dell’adolescenza. Dopodiché le persone cominciano a essere più indipendenti e a trascorrere più tempo con gli amici e meno con i genitori. E comincia a emergere per la prima volta la natura «volontaria» delle relazioni tra fratelli e sorelle, e l’idea che sia necessaria una qualche forma di impegno per mantenerle. L’adolescenza è per questo motivo considerata un punto di svolta nel rapporto tra fratelli e sorelle, dal momento che pone in molti casi le basi delle relazioni future: quanto saranno attive e impegnate, o distanti e poco coinvolgenti, in età adulta.Non significa che quanto emerge nella relazione tra fratelli e sorelle durante l’adolescenza sia destinato a rimanere immutato per sempre: come affermato da Conger è possibile che più avanti nella vita quel legame venga in parte riscritto a seguito di un «ricentramento dinamico». La parola «ricentramento» si riferisce al fatto che rispetto all’infanzia, una fase in cui i bambini e le bambine vedono i genitori come il centro della famiglia, il legame tra fratelli e sorelle e il cambiamento di quella relazione diventa il nuovo centro.Spesso gli eventi e i passaggi più significativi nel corso della vita delle persone, sia positivi che negativi, possono contribuire a un ricentramento della relazione tra fratelli e sorelle: un matrimonio, una gravidanza, una nascita o un lutto. Ma queste stesse occasioni possono anche lasciare inalterati o peggiorare i rapporti, come nel caso dell’assistenza ai familiari, che secondo una ricerca del 2014 può far riemergere in alcuni casi risentimenti del passato legati ai favoritismi nel nucleo familiare d’origine.Una conclusione condivisa da molte ricerche e riflessioni sul rapporto tra fratelli e sorelle è che l’influenza reciproca sia comunque duratura. Per molte persone la relazione con fratelli e sorelle è infatti la più lunga di tutta la vita: precede quella con il o la partner, e sopravvive generalmente a quella con i genitori. Spesso è anche una delle relazioni più intense. Uno studio del 2013 condotto su oltre un milione di svedesi riscontrò una correlazione tra la morte di un fratello o una sorella in età adulta e il rischio di morire di infarto fino a 18 anni dopo il lutto. E citò come possibili cause sia le predisposizioni genetiche condivise che lo stress causato dal lutto, fattori di rischio di infarto miocardico.È probabile che la maggior parte delle persone con fratelli o sorelle sia diversa da come sarebbe stata senza. Come ha scritto l’Atlantic «fratelli e sorelle sono una parte viva della storia di qualcuno e una forma di memoria che vive al di fuori di noi stessi». LEGGI TUTTO