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    “Successo che può attrarre investimenti”. Soddisfazione nella maggioranza per il rating S&P

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    L’agenzia di rating Standard&Poors ha aumentato il rating italiano da BBB a BBB+ confermando i rating a breve termine ad A-2. L’outlook è stabile. “Grandissima soddisfazione per l’ultimo giudizio dell’agenzia Standard & Poor’s che migliora il rating dell’Italia. Tra le motivazioni della promozione, oltre al miglioramento dell’economia italiana, anche la serietà del Governo Meloni nella gestione delle finanze pubbliche. La continuità politica e la stabilità della maggioranza sono reputate da S&P un valore aggiunto. Si tratta di un successo non solo teorico ma che potrebbe facilitare l’attrazione di investimenti esteri in Italia e l’acquisto dei nostri titoli del debito pubblico”, ha Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per l’Attuazione del programma di governo.Nei documenti pubblicati sul sito di Standard&Poors, l’agenzia ha scritto che la decisione dell’amministrazione Trump di sospendere per tre mesi i dazi nei confronti dell’Unione europea “significa che il colpo sull’economia italiana sarà gestibile”. Il governo del presidente del Consiglio Giorgia Meloni, “oggi tra i più longevi della storia recente d’Italia, gode di un solido sostegno pubblico”, sottolinea S&P. Inoltre, “di una maggioranza parlamentare stabile e di limitate minacce da parte dell’opposizione, il che lo rende probabile che rimanga al potere fino alle elezioni del 2027. Questa continuità politica ha contribuito a mantenere la stabilità dei mercati finanziari e ha sostenuto progressi costanti nell’ambito del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza, evitando nel contempo bruschi cambiamenti di politica”. LEGGI TUTTO

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    Tronchetti: “I contro-dazi sono ottusi. Trattare con gli Usa per evitare crisi globale”

    Presidente Marco Tronchetti Provera, quando alcuni giorni fa è scoppiata la bomba-dazi gettando il mondo nell’incertezza, lei non ha esitato a metterci la faccia come apripista dicendo: «Signori, qui c’è una sola strada, bisogna trattare». E l’ha detto anche con una certa forza. Perché ha preso subito questa posizione?«Quando arriva un nuovo presidente, in qualunque Paese, dobbiamo riflettere su come è arrivato. Donald Trump nella sua campagna elettorale ha detto cose nette, promettendo che le avrebbe realizzate. Quindi la nostra classe politica era avvertita, doveva prepararsi a dare delle risposte. Non lo ha fatto, limitandosi a balbettare con una superficialità che lascia allibiti che allora sarebbero stati applicati dei controdazi. Una risposta ottusa».Perché ottusa?«Perché hai davanti il presidente degli Stati Uniti, che comunque dispone di tecnologie, armi, satelliti di ultima generazione. Noi europei siamo disarmati di fronte a tanta potenza. Se loro girano una chiave, gli F-35 non decollano; se girano un’altra chiave, qualunque arma moderna non è utilizzabile. Se vogliamo fare ritorsioni contro le loro società di servizi, ricordo che noi tutti siamo legati in un’unica rete con gli Stati Uniti. Non esiste un cloud europeo, non esiste un cloud italiano; c’è una piccola cosa francese di nome Mistral. Quando hai davanti il presidente degli Stati Uniti, non c’è storia, devi trattare, sapendo che c’è un altro giudice che non è a Berlino: il mercato».Di fronte a un terremoto di tale portata devi però rispondere in qualche modo, dire che ci sei anche tu. Non crede?«Vero. Ma questi terremoti finanziari Trump li ha provocati con il consenso della gente, della massa popolare che l’ha votato. L’America può essere bella o brutta, ma è una democrazia. Alle elezioni di metà mandato il presidente deve arrivare con dei risultati che gratificano i suoi elettori. Ed è ciò che lui persegue. Se non tratti con uno come Trump, che ha vissuto la vita trattando, allora è il muro contro muro. Ma poichè nessuna guerra dura per sempre, a un certo punto devi sederti al tavolo. Perchè aspettare fino ad allora? Ticosterà sicuramente di più».Personalmente che cosa pensa dei dazi?«Ci sono, quindi vanno negoziati. Naturalmente ci auguriamo tutti che in questa fase l’Europa resti unita mentre prova a normalizzare una situazione che non possiamo sostenere a lungo. Guai se si dividesse ora».Lei dice trattare, ma qui nasce il primo problema. Chi tratta e in nome di chi?E perché lei subito dopo l’annuncio di Trump, mentre invocava la trattativa, diceva testualmente: «Sono stato un europeista convinto, ma adesso non mi sento più tale fino in fondo.Questa Unione non ha muscoli e pretende comunque di essere muscolare». Non le sembra una contraddizione?«No. C’è un’Europa delle origini, c’è l’Europa del Covid e c’è l’Europa di oggi. La prima reazione di Ursula von der Leyen è stata brutale: controdazi subito. Vorrei però che qualcuno mi spiegasse come poi gestiremmo questi controdazi, perché detta così vuol dire solo aumentare l’inflazione ovunque. È questo che vogliamo? Io non credo. Ribadisco: dobbiamo trattare, con i dovuti modi».Ma che carte abbiamo per trattare senza uscire dal negoziato a pezzi?Qualcuna c’è. E viene dall’interno degli Stati Uniti. Per esempio il Congresso americano. Perché alla fine chi deciderà se approvare o meno i dazi sarà il Congresso, che può trasformare Trump in un’anatra zoppa in men che non si dica».Qual è la sua opinione sul ReArm Europe?«Una parola vuota, perché è un debito aggiuntivo che i Paesi utilizzerebbero in altro modo senza uscire dai parametri di Bruxelles. E vedremmo un solo paese riarmarsi rapidamente: la Germania, pronta a mettere sul tavolo 600 miliardi veri. Ha ragione Roberto Cingolani di Leonardo: prima di parlare di difesa comune, dobbiamo armonizzare i sistemi d’armi».Effettivamente, con 12 carri armati diversi e nove caccia diversi non andremmo da nessuna parte. Non c’è però una contraddizione con ciò che lei ha più volte ripetuto sulla necessità di sostenere l’Ucraina anche dal punto di vista militare?«Aiutare l’Ucraina vuol dire fare cose che difendono davvero. Noi siamo entrati nel conflitto spinti dall’amministrazione Biden, perché da soli non abbiamo la possibilità di aiutarli davvero. Se l’America chiude i suoi collegamenti, Putin arriva in tre giorni a Kiev. Diciamolo in modo chiaro: da soli non siamo in grado di difendere l’Ucraina. Se non siamo in grado di essere i motori della trattativa, allora smettiamo di illudere gli ucraini. Dobbiamo certamente stare al loro fianco, ma insieme agli Stati Uniti».Lei vede un legame tra le decisioni che Trump ha preso in campo economico e quelle che sta prendendo in campo militare?«Trovare le convergenze in Trump mi pare complicato. Una missione impossibile. Io ci provo, ma la razionalità di Trump è fatta dell’opposto».Si sostiene che il legame possa essere la Cina.«Sì, la Cina è il nemico strategico degli Stati Uniti, e i due dovranno individuare un punto di mediazione. Tra loro ci sono in ballo 600 miliardi di import-export, sia pure in un rapporto squilibrato. Poi c’è il tema delle materie prime e soprattutto delle terre rare: ci sono cose su questo fronte che neanche l’America è in grado di fare in modo appropriato. Altro punto sul quale vedo una possibile convergenza. Infine Taiwan, una questione molto complessa perché in quella fascia di Oceani passa il 50% del mercato, dei prodotti verso Est. E dovunque ci siano soldi da guadagnare, l’America si impegna sempre».C’è poi un signore che si chiama Elon Musk che rappresenta l’economia e la finanza del nuovo millennio e che è entrato prepotentemente nella stanza del potere politico. La preoccupa questa intrusione?«Musk è un genio, per questo mi preoccupa. Solo Trump può dire basta Elon, fatti da parte per la sicurezza nazionale».Come imprenditore pensa di prendere in seria considerazione l’invito ad andare a produrre direttamente in America? Sarebbe un modo per risolvere molti problemi…«Pirelli come gruppo segue da decenni una logica precisa: local for local. Ovvero produciamo nei luoghi in cui vendiamo. Grazie al Nafta, un accordo di libero scambio che univa Messico, Canada e Stati Uniti, abbiamo avviato impianti proprio in Messico. Poi Trump ha sbaraccato tutto. Premetto che il Nord America è un’area dove stiamo andando molto bene, dove è concentrato il 40% del nostro mercato mondiale degli pneumatici di alta gamma e SZsoftware e gli hardware hanno le maggiori possibilità di crescita. Quindi è logico che noi, se necessario, apriremo impianti negli Stati Uniti. Magari non lo faremo domani, ma lo faremo».Mai come ora lo sviluppo tecnologico si sposa con la sicurezza nazionale. Anche la sua azienda è coinvolta in questo. Nel senso che ormai le tecnologie vanno oltre le bombe. Anzi, le bombe stesse stanno diventando tecnologia oltre che esplosivi. Pensa che il nostro Paese sia sufficientemente tutelato rispetto a un problema di sicurezza nazionale?«Nessuno in Europa oggi è strutturato per difendere il suo territorio. Senza l’America noi siamo ciechi: lo sono i nostri cellulari, i nostri iPad. Se gli americani chiudono il cloud, è finita. In Europa non c’è niente di simile ad Amazon o a Microsoft. Quindi dobbiamo trovare il modo di superare questo passaggio e dovremmo avere una governance europea che ci permette di farlo».Non la convince la governance a ventisette in vigore nell’Unione?«No. Abbiamo subìto il Green Deal: una porcheria terribile. Abbiamo visto le dichiarazioni sul ReArm Europe: sciocchezze. Le garanzie date a Zelensky? False, perché non avevamo gli strumenti. C’è un passaggio obbligato con gli Stati Uniti che, va ricordato sempre, sono una democrazia. Dicevo prima delle elezioni di medio termine: là ogni due anni cambia l’intero Congresso, un terzo del Senato, e poi ogni quattro anni c’è l’elezione del presidente».Dunque, o gli americani vivono meglio o il presidente è finito nel giro di poche settimane. È così?«Esattamente. Credo sia possibile, doveroso e razionale andare d’accordo con l’America. L’Occidente siamo noi. E abbiamo delegato all’America la nostra difesa. Con la Germania che si riarma, io preferisco la difesa americana».Di fronte ai crolli di Borsa di questi giorni, quale consiglio darebbe a un risparmiatore? Perché è vero che ci sono indici che hanno perso il 10-15%, ma è anche vero che negli ultimi due anni avevano guadagnato fino al 60%. Wall Street addirittura il 70%. Che cosa dobbiamo aspettarci ancora?«L’effetto valanga esiste. Abbiamo vissuto il crac dei subprime e sappiamo com’è finita. Allora furono le grandi istituzioni come JpMorgan e Goldman Sachs a sistemare le cose in pochi mesi. Adesso è più complicato. Ci sono dei grandissimi fondi, ma ci sono sempre più automatismi. Se i crolli superano certe soglie, può arrivare la valanga. La cosa preoccupa anche i banchieri americani: lo stanno dicendo a voce sempre più alta».Ma che cosa possiamo consigliare a un piccolo investitore?«Posto che uno confonde i suoi desideri con la realtà, personalmente penso che sia questione di settimane, non di mesi. Entro poche settimane o Trump è diventato un’anatra zoppa per volontà del Congresso oppure gli accordi sono stati raggiunti. La frenata di Musk è del resto un segnale».Presidente, vorrei chiudere con una domanda fuori sacco su due temi che la riguardano molto da vicino: quando porteremo in Italia l’America’s Cup e quando la Ferrari tornerà a essere campione del mondo?«Mi dia il tempo di chiamare Bertelli e sull’America’s Cup le risponderò, ma non sarà una bella risposta. Perché lui usa anche dei metodi diretti per mandare a quel paese. È scaramantico, quindi mi aspetto il peggio».E la risposta alla seconda domanda?«Vorrei evitare di rispondere… ma no, ce la faranno. Hanno bravi tecnici, bravi piloti». LEGGI TUTTO

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    “Moneta”, un occhio indiscreto su fatti e misfatti dell’economia

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    Da Carlo Maria Cipolla al nuovo settimanale di approfondimento economico Moneta la strada è breve. Il celebre storico italiano, specializzato in storia economica, era solito rispondere «moneta» a chi gli chiedeva di spiegare cos’è l’economia in una sola parola. Il nuovo inserto economico, che è disponibile ogni sabato in edicola in abbinamento con Il Giornale, Libero e Il Tempo, si propone di proporre una sintesi virtuosa dell’economia, andando a trattare settimanalmente temi poco arati dai giornali generalisti e talvolta trascurati anche dai giornali prettamente economici. Un esempio è l’agricoltura, con la forte dipendenza dell’Italia dalle importazioni per buona parte di ciò che arriva sulle tavole. «Il 60 per cento della carne bovina che mangiamo in Italia arriva dall’estero, il 40% del mais e del grano arrivano dall’estero. Se i mercati si chiudono diventerà molto più complicato acquistare tutto ciò che serve in quanto per molti cibi siamo dipendenti dall’estero. Non dimentichiamo quello che è successo con l’energia, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina», ha osservato Osvaldo De Paolini, nel corso della presentazione del nuovo settimanale Moneta, del quale è direttore.Moneta nasce in un momento molto particolare in cui gli equilibri economici globali sono messi in discussione dalla guerra commerciale innescata dalla nuova amministrazione Trump. «Di questioni economiche c’è molto da discutere e quindi, anche se qualcuno si stupisce perché in un momento di crisi della carta stampata far nascere un giornale può apparire cosa insolita, c’è bisogno e ci sarà sempre più bisogno perché non credo che questo terremoto, questa scossa globale si fermerà in poco tempo, anzi credo che nei prossimi mesi avremo molto di cui scrivere», ha osservato De Paolini.Dalla cornice dell’ex sala delle grida di Borsa a Palazzo Mezzanotte in Piazza Affari a Milano, non poteva mancare un passaggio relativo alle attuali elevate tensioni sui mercati, con una carrellata delle precedenti grandi crisi borsistiche, tra cui spicca il Black Monday del 19 ottobre 1987, quando in una sola seduta il Dow Jones perse il 22,6%. LEGGI TUTTO

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    S&P alza il rating dell’Italia. Giorgetti: “Premiata serietà del governo”

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    La notizia arriva pochi minuti prima delle 23.00: l’agenzia Standard and Poor alza il rating dell’Italia portandolo da BBB a BBB+. L’outlook è stabile. In un comunicato dell’agenzia di rating si legge che “le prospettive stabili bilanciano i punti di forza fondamentali del credito italiano, la sua economia diversificata, le riserve di risparmio del settore privato e l’appartenenza all’Unione economica e monetaria (Uem) con le sue debolezze creditizie, vale a dire gli elevati livelli di debito pubblico e le sfide demografiche”.”Il giudizio di S&P premia la serietà dell’approccio del governo italiano alla politica di bilancio. Nel clima generale di incertezza, prudenza e responsabilità continueranno a essere la nostra linea di azione”, afferma il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti.S&P stima che il pil dell’Italia “decelererà allo 0,6% nel 2025, leggermente al di sotto dello 0,7% dello scorso anno. Questa performance modesta – sottolinea S&P – riflette l’impatto dei dazi statunitensi sulle esportazioni manifatturiere italiane e il freno dovuto all’elevata incertezza politica globale sia sulla domanda dell’Eurozona che su quella interna, colpendo insieme la crescita economica di circa lo 0,3%-0,4%”. Questa crescita “rileva inoltre la persistente debolezza del settore delle costruzioni, in quanto la scadenza dei crediti d’imposta per l’edilizia abitativa frena gli investimenti immobiliari residenziali, solo parzialmente compensati dai progetti infrastrutturali finanziati dall’Ue. La crescita economica dovrebbe aumentare lentamente nel 2026 all’1,0%, sostenuta dall’accelerazione degli investimenti nell’Ue e dalla ripresa dell’eurozona, ma ancora appesantita dalle tensioni commerciali”. L’Italia, rileva ancora S&P, “è destinata a registrare avanzi primari nel periodo 2025-2028, il che le consentirà di ridurre il suo disavanzo” che dovrebbe ridursi nel 2026-28. “Sebbene il disavanzo di bilancio sia destinato a scendere al di sotto del 3% del pil entro il 2027, in calo rispetto al 3,4% del 2024 e al 7,2% del 2023, il debito pubblico dovrebbe salire al 139% del pil nel 2028, rispetto al 134% del 2024. Ciò riflette il trattamento contabile del Superbonus”.La decisione dell’amministrazione statunitense di sospendere per tre mesi i dazi del 20% annunciati sui beni dell’Ue e di imporre un 10% più moderato significa che le ripercussioni sull’economia italiana “sarà gestibile” e “parzialmente ammortizzato dall’accelerazione degli investimenti pubblici e dallo stimolo fiscale tedesco”.L’agenzia di rating spiega che prenderà “in considerazione la possibilità di abbassare i rating se le posizioni economiche, esterne e di bilancio dell’Italia dovessero deteriorarsi ben oltre le nostre attuali previsioni. Ciò potrebbe verificarsi, ad esempio, se lo shock commerciale in corso causato dai dazi statunitensi minasse in modo significativo la fiducia dei consumatori e delle imprese, nonché la bilancia dei pagamenti e le posizioni di bilancio dell’Italia”. Al contrario, sottolinea S&P, “aumenteremmo i nostri rating se l’Italia continuasse a ridurre il proprio disavanzo di bilancio, portando il debito pubblico in rapporto al pil su una solida traiettoria discendente, o se la crescita economica potenziale migliorasse in modo sostenibile oltre l’1% sulla scia delle riforme volte ad affrontare le sfide economiche strutturali dell’Italia”. LEGGI TUTTO

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    Dazi e incertezza zavorrano la crescita: Pil a rischio dimezzamento nel 2025

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    L’effetto dei dazi potrebbe ridurre il Pil del 2025 al +0,3%, praticamente dimezzandolo rispetto alla stima ufficiale attuale del +0,6%. È uno degli scenari delineati nel Documento di finanza pubblica (Dfp), la nuova versione del Def trasmessa alle Camere nella serata di giovedì. Lo stesso Dfp prevede che un eventuale shock finanziario, combinato all’impatto delle misure protezionistiche, potrebbe appesantire anche il debito pubblico, facendolo salire fino a sfiorare il 140% del Pil nel 2027. Un’evoluzione opposta rispetto alla traiettoria inizialmente prevista, che puntava invece a una discesa verso quota 135%.Un quadro che si fa quindi più fragile e preoccupante per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, alla vigilia del giudizio di S&P sul rating del debito sovrano italiano, che dovrebbe arrivare in serata. Ma secondo il Bollettino economico della Banca d’Italia non è ancora il momento di cedere al pessimismo. Le imprese italiane, infatti, potrebbero riuscire a limitare i danni legati alla guerra commerciale con gli Stati Uniti. “Nonostante la significativa esposizione del nostro sistema produttivo al mercato statunitense”, spiega l’istituto di via Nazionale, molte aziende riuscirebbero a reggere l’urto grazie alla qualità dei loro prodotti: si tratta per lo più di beni di fascia alta, destinati a clienti meno sensibili ai rincari, in grado di assorbire l’aumento dei costi senza ridurre in modo drastico la domanda.Secondo le stime, il fatturato delle imprese esportatrici potrebbe subire un calo di circa un punto percentuale, ma per la maggior parte – circa tre quarti – il margine operativo lordo, in rapporto ai ricavi, si ridurrebbe di non più di mezzo punto. Numeri che testimoniano una certa resilienza del tessuto produttivo italiano, sebbene inseriti in un contesto globale instabile e potenzialmente sfavorevole.Il vero nodo, però, è che l’Unione Europea al momento non sembra intenzionata ad attivare la clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità, non avendo ancora elementi sufficienti per misurare l’effettivo impatto recessivo delle nuove tariffe. In altre parole, senza una chiara evidenza economica, le regole di bilancio europee resteranno pienamente operative, lasciando agli Stati membri – Italia inclusa – margini di manovra molto limitati.In questo scenario a bassa crescita e ad alta incertezza, il governo conferma la volontà di puntare sul sostegno alla natalità e alle famiglie. “Confermerà e amplierà una pluralità di strumenti di policy che intervengano sui fattori che incidono sulla scelta della genitorialità e sulla domanda di servizi per la prima infanzia”, si legge nel Dfp. La strategia dell’esecutivo si muove così su due binari: da un lato la prudenza nei conti, per non incrinare ulteriormente la fiducia dei mercati e delle agenzie di rating, dall’altro l’investimento su politiche sociali ritenute essenziali per il futuro del Paese.Tuttavia, non tutte le misure avviate hanno finora prodotto risultati soddisfacenti. Il piano Transizione 5.0, introdotto nel 2024 per accompagnare le imprese nella doppia transizione digitale ed energetica, ha avuto un avvio sottotono: sono stati erogati solo 500 milioni di euro, mentre restano ancora disponibili circa 5,7 miliardi da destinare entro il secondo trimestre del 2026. LEGGI TUTTO

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    La guerra dei dazi e la rivoluzione Trump: cosa può succedere all’asse Ue-Cina?

    Nonostante Donald Trump abbia messo in pausa il grosso dei suoi dazi globali, i mercati rimangono nervosi. I listini asiatici hanno chiuso contrastati, mentre quelli europei sono deboli. Aleggia nelle borse di mezzo mondo un senso di spaesamento profondo. Mancano certezze, la finanza lo sa, e presto anche l’economia reale dovrà farne i conti. Per queste ragioni l’Unione europea e la Cina sono costrette a trovare una strategia di adattamento per questa nuova stagione dei commerci globali. Questa strategia potrebbe trovare dei punti di contatto. E infatti qualcosa si sta già muovendo.Le parole di XiFa un certo effetto sentire le parole pronunciate da Xi Jinping durante un incontro con il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, a Pechino. Il capo della Repubblica popolare ha invitato l’Unione europea a “resistere insieme” di fronte alla guerra commerciale del presidente americano: “La Cina e l’Ue devono assumersi le proprie responsabilità internazionali, proteggere congiuntamente la globalizzazione economica e l’ambiente commerciale internazionale e resistere congiuntamente a qualsiasi coercizione unilaterale”. Da tempo la Cina, non solo per bocca di Xi, insiste sulla necessità di preservare la globalizzazione. Per farlo, è il piano di Xi, bisogna salvare il sistema degli scambi globali isolando gli Stati Uniti. Restando uniti “non solo salvaguarderemo i nostri diritti e interessi legittimi, ma sosterremo anche l’equità e la giustizia internazionali e garantiremo il rispetto delle regole e dell’ordine internazionale”.Verso un summit Cina-UeL’Europa, che il 10 aprile ha sospeso i contro-dazi contro gli Usa, ascolta. E intanto la diplomazia è al lavoro. Nella notte il South China Morning Post ha rilanciato l’indiscrezione che la diplomazia cinese e quella dell’Unione sarebbero pronte a un summit da tenere in estate. Cinque fonti avrebbero detto al giornale che mentre Xi sarebbe cauto nel recarsi a Bruxelles, i leader Ue, come il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa e quella della Commissione Ursula von der Leyen, sarebbero intenzionati ad andare nella capitale cinese. L’apertura non è banale dato che il formato del summit prevederebbe l’alternanza delle sedi e l’ultima volta si era tenuto proprio a Pechino.A stretto giro un portavoce del Consiglio ha confermato che qualcosa si farà: “Ci stiamo coordinando con la Cina per stabilire una data dell’incontro, che è previsto si tenga in Cina, nella seconda metà di luglio”. Il summit dovrebbe tenersi subito dopo il vertice tra Ue e Giappone, che dovrebbe avere luogo nel Paese asiatico. I contatti tra europei e cinesi sono fitti. Qualche giorno fa Von der Leyen ha sentito il premier cinese Li Qiang mentre il commissario al commercio Maros Sefcovic ha avuto un bilaterale con il ministro del commercio cinese Weng Wentao. A gennaio Costa aveva sentito telefonicamente proprio Xi Jinping.Riannodare le relazioniCome nota il South China Morning Post tempistiche e modalità indicano una certa fretta e rivelano una volontà di riannodare il dialogo lungo l’asse Bruxelles-Pechino proprio per rispondere a un collasso delle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Il segno di questa volontà passerebbe da dossier concreti come quello delle auto elettriche. Sefcovic e Wentao hanno concordato di lavorare a un superamento dei dazi, magari con l’introduzione di prezzi minimi sulle importazioni dalla Cina come alternativa alle tariffe imposte dall’Ue lo scorso anno.La strada è però in salita. Nel dicembre del 2020 Bruxelles e Pechino avevano trovato un’unità di intenti nella firma del Cai, il grande accordo sugli investimenti dopo anni di negoziato. L’intesa era stata trovata su regole quadro per migliorare i rapporti economici tra i due poli, in particolare in materia di accesso paritario ai reciproci mercati, parità di condizioni per tutti gli operatori e regole condivise su dossier come clima, salute e lavoro. Nonostante il Cai, però i rapporti Cina-Ue si sono poi raffreddati, complici i legami che la Repubblica Popolare ha stretto con la Russia e rimostranze economiche che non hanno trovato una risposta adeguata da parte delle autorità cinesi, in particolare in materia di aiuti di stato alle industrie, alle esportazioni di metalli pesanti, auto elettriche e batterie.I rischi nel rapporto con la CinaIl dialogo Cina-Ue in funzione anti-Trump nasconde anche insidie e difficoltà. Le barriere americane ai prodotti cinesi sono un campanello d’allarme per l’Unione dato che flussi ingenti di prodotti “Made in China” rischiano di riversarsi nel mercato europeo. Un diplomatico Ue sentito qualche giorno fa dal Financial Times aveva spiegato che è necessario “adottare misure di salvaguardia per un numero maggiore di settori industriali. Siamo molto preoccupati che questo possa rappresentare un ulteriore punto di tensione con la Cina. Non mi aspetto che cambino il loro modello di esportazione della sovracapacità”.I timori riguardano diversi comparti, dai materiali di consumo come gli elettrodomestici fino all’industria pesante che teme l’acciaio cinese a basso costo. Secondo un dossier di OCSE lo scorso anno la produzione di acciaio nell’Ue è diminuita mentre in altri Paesi è aumentata. Non solo. Tra il 2024 e 2027 la produzione dovrebbe passare da 602 milioni di tonnellate a 721 milioni, cioè oltre cinque volte la capacità produttiva dell’Ue. LEGGI TUTTO

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    “I dazi vanno negoziati, Meloni leader affidabile”. Sallusti intervista Tronchetti Provera

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    I recenti annunci del governo statunitense in tema di dazi e nuove restrizioni tecnologiche impongono scelte strategiche ponderate e condivise. Ecco perché, nonostante uno scenario internazionale certamente sempre più complesso, diventa più che mai necessario ribadire come i rapporti tra Pirelli e i suoi partner cinesi non solo rimangono intatti, ma sono anche sempre di più orientati verso il futuro. A confermalo è Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo del gruppo che opera nel settore automobilistico, durante l’intervista rilasciata al direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, durante la presentazione ufficiale del nuovo inserto di approfondimento economico “Moneta”, che ritorna in edicola domani con l’uscita del suo secondo numero settimanale sotto la direzione di Osvaldo De Paolini.Tronchetti Provera conferma infatti che “gli Usa sono un mercato strategico per Pirelli che punta sull’alto di gamma” e ricorda: “Volevamo e vogliamo crescere in un mercato, quello dell’alto di gamma dove stavamo crescendo e stiamo crescendo molto bene”. Prima però “abbiamo una governance da sistemare”, premette Tronchetti riferendosi al tema della presenza forte di Sinochem nell’azionariato, il socio cinese con cui sono in corso trattative per superare l’ostacolo delle nuove normative americane. Crescere resta un obiettivo e anche se “non lo faremo domani, lo faremo tra un pò” conclude. In mattinata la società, tra l’altro, ha precisato – dopo le indiscrezioni di stampa che indicavano 1 miliardo (e fino a 2 miliardi) l’investimento per aumentare la produzione in Georgia – che “nessuna decisione è stata ancora presa”.Non bisogna dimenticare che la Cina rimanga ancora oggi il grande nemico degli Stati Uniti che un personaggio influente come Elon Musk, “un genio che mi preoccupa” – ha capito che deve cercare un appeasment con lo Stato asiatico: “Non vede un suo futuro senza la Cina”. In ogni caso il dirigente d’azienda è convinto che i controdazi siano “una risposta ottusa”: il presidente Usa è uomo che ha tecnologie, armi, satelliti “e quando sei davanti a lui devi trattare. Altrimenti fai muro e contro muro e porti avanti delle guerre infinite”, dichiara Tronchetti Provera. I dazi, quindi, “vanno negoziati: ci auguriamo tutti che esca da questa trattativa la possibilità dell’Unione europea di rimanere uniti e, per gli importatori ed esportatori, che la situazione venga normalizzata”.Il vicepresidente esecutivo del gruppo Pirelli aggiunge, sempre a tal proposito, che Ursula von der Leyen “mi deve spiegare come funzionerebbero i controdazi, perché il rischio è l’inflazione vada alle stelle”. E, in questo modo, “così non si va avanti i mesi, così si dura per due settimane”. Allo stesso tempo, poi, Tronchetti Provera ammette di avere una “vera repulsione per il ReArm Europe: è un’espressione vuota che porta debito. E poi non è pensabile che avvenga nei prossimi cinque anni, tranne che per la Germania. Io invece preferisco essere legato alla difesa americana Insomma, il piano va assolutamente “razionalizzato: bisogna armonizzare il sistema delle armi”.Molto critico lo è anche nei confronti nella situazione attuale in Ucraina: “Siamo stati trascinati nella guerra dall’amministrazione Biden, ma alla fine a noi europei è rimasto solo il costo senza riuscire a dare il sostegno concreto agli ucraini”, dichiara ancora Tronchetti Provera. Nel frattempo, “per tre anni nessuno ha parlato di trattare. Bisogna aiutarla, ma insieme agli Stati Uniti”. In tutto questo scenario complessivo, tuttavia, il ruolo che potrà concretamente assumere Giorgia Meloni non può essere sottovalutato: “Lei è riconosciuta come una leader affidabile: è certamente la più stabile tra tutti quelli europei”. La premier può ottenere dei “risultati che trascineranno anche l’Europa”. Nel resto del continente la situazione è ben diversa: “Macron ha un consenso bassissimo e si diverte a fare il militarista con la bomba atomica e vuole andare contro la Meloni perché vuole essere lui a dire quello che deve fare, ma i francesi sottovalutano i satelliti americani”. LEGGI TUTTO

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    Novanta giorni per rifare la Ue

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    Novanta giorni, il conto alla rovescia è partito il 9 aprile. Corrisponde alla sospensione dei dazi mondiali annunciata da Donald Trump. Ma può trasformarsi anche in una straordinaria occasione: senza volerlo il presidente Usa ha dato all’Unione europea l’opportunità di fare un esame di coscienza, correggere la montagna di errori fatti in questi ultimi 15 anni e ripartire diventando finalmente un protagonista dei nuovi equilibri mondiali. Ponendosi sullo stesso piano di Cina, Usa e Russia.In questi 90 giorni Bruxelles deve fondamentalmente fare tre cose. La prima è negoziare i dazi con Trump; la seconda – che è condizione necessaria per poter negoziare come si deve – è costruire una nuova cornice di principi economici e finanziari condivisi che la rendano competitiva e compatta; la terza è ripensare una governance che permetta di gestire se stessa con maggiore rapidità ed efficienza.Il primo punto è in fin dei conti il più semplice: preparare un negoziato che trasformi lo zero-a-zero calcistico evocato da Giorgia Meloni in un accettabile dieci-a-dieci: accettare diritti doganali al 10% in cambio dell’abbassamento di quelli già esistenti su acciaio e alluminio e auto allo stesso livello. Per rendere ciò sostenibile è però fondamentale agire sugli altri due punti.Il secondo è quello di un quadro di principi economici che facciano piazza pulita delle ideologie che hanno danneggiato intere filiere industriali europee, soprattutto nel corso della prima Commissione von der Leyen. Ripensando il green deal, tanto per iniziare, ma non solo: ricordiamo anche la riforma delle accise, che sta per arrivare sulle imprese italiane come una mannaia, e tante altre direttive e norme (su imballaggi, etichette, supply chain, solo per citarne alcune). Serve un approccio più pragmatico, da condividere con le Confindustrie degli Stati membri e con i grandi Politecnici universitari per alzare il livello della competizione senza per questo rinunciare a un ambiente climatico migliore (si pensi a tutto il campo dei biocarburanti, per esempio). E poi, per completare il quadro, servono gli eurobond: un meccanismo che permetta di finanziare le iniziative comunitarie senza la paura che il debito comune sia un fardello che passa dalle spalle di chi non ce l’ha a quelle dei Paesi più indebitati. L’eccezione virtuosa del Covid, con il Next generation Eu e il Pnrr dovrebbe indicare la strada.Infine la governance: perché Trump sconvolge il mondo nel giro di poche ore? Perché la più grande democrazia mondiale può essere governata con semplici “ordini esecutivi”: una firma del presidente su un foglio di carta nel cortile della Casa Bianca e via. Nella Ue, invece, servono riunioni su riunioni e l’unanimità di 27 Paesi membri: si parte già sconfitti. Ora, senza bisogno di arrivare agli ordini esecutivi, improponibili anche per un singolo Stato membro, basterebbe passare a decisioni con la cosiddetta “cooperazione rafforzata” o a maggioranza semplice o qualificata, dando eventualmente la possibilità a chi non è d’accordo di sfilarsi (come nel caso dell’euro). Insomma, un meccanismo certo che permetta, in casi urgenti anche nel giro di 24 ore, di assumere una decisione su determinate materie prestabilite. LEGGI TUTTO