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    Il Pd “smemorato” attacca sul risiko bancario

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    Nel risiko bancario italiano, l’offerta pubblica di scambio lanciata da Mediobanca su Banca Generali ha scatenato nuove polemiche politiche, pur in assenza, almeno per ora, di interventi governativi. Le opposizioni, capitanate da Pd e +Europa, accusano l’esecutivo di eccessivo interventismo, evocando la gestione contestata del Golden Power su altre operazioni, come quella di UniCredit su Banco Bpm.”Il governo sul risiko bancario ha interferito fin troppo. Ora lasci fare il mercato, evitando su tutte le operazioni in corso – compresa l’iniziativa promossa oggi da Mediobanca su Banca Generali – un interventismo dannoso e controproducente”, ha dichiarato Antonio Misiani, responsabile economico del Partito Democratico. Misiani ha sottolineato come il caso UniCredit-Banco Bpm rappresenti “il più macroscopico” dei “pasticci” dell’esecutivo Meloni, accusandolo di aver usato il Golden Power non per difendere la sicurezza nazionale, ma per alterare gli equilibri di mercato. Da qui l’annuncio di un’interrogazione parlamentare volta a ottenere chiarimenti sulle basi giuridiche delle decisioni del governo.Su toni simili Benedetto Della Vedova, deputato di +Europa, ha affermato: “Il Golden Power usato dal Governo Meloni su operazioni bancarie italiane non serve l’interesse nazionale ma le ambizioni del Governo di imporre una torsione politica alle dinamiche di mercato”. Della Vedova ha anche sottolineato l’anomalia del doppio ruolo del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che sarebbe al tempo stesso “arbitro e giocatore”, essendo il Tesoro azionista di maggioranza relativa di Mps.Emerge, però, un elemento di coerenza intermittente da parte delle opposizioni. Se oggi PD e +Europa accusano il governo di manipolare il mercato scegliendo “figli e figliastri” – non intervenendo ad esempio su Mps-Mediobanca e Bper-Pop Sondrio mentre agiva su UniCredit-Banco Bpm – va ricordato che lo stesso Pd ha chiesto il Golden Power sull’annunciata joint venture tra Generali e Natixis, temendo un’eccessiva influenza francese sulla gestione del risparmio italiano. Un liberalismo, dunque, a corrente alternata, che evidenzia quanto nel risiko.Occorre poi ricordare che l’iniziativa di Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, nasce come mossa difensiva per contrastare l’Ops lanciata da Mps, sostenuto da soci come Delfin e Caltagirone, a loro volta azionisti di Piazzetta Cuccia. Sul piano industriale, la fusione creerebbe un player di gestione patrimoniale da 210 miliardi di masse gestite e una forza di raccolta di 15 miliardi l’anno. Tuttavia, l’operazione può avere effetti dirompenti anche su altri fronti: se Mediobanca riuscisse nell’intento, uscirebbe dall’azionariato del Leone lasciando campo aperto a una nuova possibile competizione per il controllo della compagnia assicurativa triestina dalla quale non sarebbero certo esclusi i grandi player nazionali del settore. Insomma, tutto il contrario della descrizione di un sistema sclerotizzato dagli interventi di Palazzo Chigi e del Tesoro.In questo contesto, invece, va sottolineato come le accuse dell’opposizione pecchino di una certa smemoratezza storica. Se oggi il Pd e +Europa si ergono a paladini della neutralità del mercato, non va dimenticato che la crisi di Mps stessa è figlia di una lunga stagione di commistione tra politica e finanza, in cui la Fondazione Monte dei Paschi – dominata dal centrosinistra locale – ha orientato la banca verso operazioni “politicamente gradite” piuttosto che perseguire una sana e prudente gestione. Lo stesso schema si è replicato in istituti come Banca Marche, CariChieti, CariFerrara e Banca Etruria, tutti risolti nel 2015 e tutti legati ad aree politicamente influenzate dal Pd.Anche in episodi più antichi, come il tentativo di scalata di Unipol a Bnl nel 2005, il legame tra il Partito Democratico (e le sue formazioni antenate) e la finanza italiana è stato evidente. Dunque, il moralismo odierno suona quantomeno stonato: la storia insegna che il Pd non è mai stato estraneo né alle grandi stanze della finanza né ai salottini del potere politico.Va ricordato, infine, che anche all’interno della maggioranza di governo non mancano voci critiche: Forza Italia ha formalmente messo a verbale il suo dissenso sull’applicazione del Golden Power all’Ops UniCredit-Banco Bpm. E, comunque, anche in questo caso le motivazioni non sono peregrine perché attengono alla difesa del risparmio e al finanziamento all’economia reale, sebbene sia sempre preferibile lasciare al libero gioco del mercato. LEGGI TUTTO

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    Il “Caro energia e il sovraindebitamenti di famiglie e imprese”. Se ne parla nello speciale Cnpr forum

    Nella foto da sinistra in senso orario Luigi Nave, Marco Cuchel, Elvira Capentieri e Francesco Cacciola

    Il “caro energia” è uno dei problemi più stringenti del momento che impatta pesantemente sulle famiglie italiane. Dell’argomento si è discusso oggi nel corso del Cnpr forum speciale “Il caro energia registra nuovi sovraindebitamenti di famiglie e imprese”.Le parole del senatore Nave“Se vogliamo fronteggiare efficacemente gli effetti devastanti che il caro-energia sta producendo ai danni di famiglie e imprese italiane bisogna procedere con tre linee d’intervento: disaccoppiare il costo dell’energia rinnovabile da quella prodotta col gas, tassare gli extraprofitti per sostenere le aziende energivore e le famiglie con basso Isee, e tassare i sussidi ambientali dannosi. Si tratta di misure di buon senso, proposte in Senato per superare l’inerzia di un governo che da tre anni non ha agito su questi temi”, ha spiegato Luigi Nave, senatore del Movimento 5 stelle in Commissione Ambiente a Palazzo Madama.Il presidente dell’AssociazioneAlle parole di Nave si sono poi unite quelle di Marco Cuchel, presidente dell’Associazione Nazionale Commercialisti: “I commercialisti svolgono un ruolo fondamentale nel supportare debitori in situazioni di sovraindebitamento, guidandoli attraverso le procedure previste dalla normativa vigente per il risanamento finanziario. La loro consulenza specializzata non solo facilita il recupero dell’equilibrio economico di famiglie e imprese, ma contribuisce anche a prevenire il ricorso a soluzioni illegali o all’usura, promuovendo la legalità e la coesione sociale. Tuttavia, persistono criticità legate alla complessità delle procedure, evidenziando la necessità di semplificazioni per ridurre i tempi di attuazione e rendere gli strumenti più accessibili”.L’impatto sul tessuto imprenditoriale…L’impatto della crisi economica sul tessuto imprenditoriale è stato evidenziato da Francesco Cacciola, presidente dell’Osservatorio sul debito con banche e finanziarie: “Il rischio di un credit crunch è concreto: l’inasprimento dei criteri bancari penalizza le PMI, aggravando la crisi. Serve un intervento pubblico per garantire liquidità, sostenere investimenti in innovazione ed energia, e strumenti finanziari flessibili. Anche le banche devono adottare una visione lungimirante, superando la logica del profitto a breve termine. Le Pmi sono il motore dell’economia italiana: proteggerle significa salvaguardare il futuro del Paese”…. e quello sulle famiglieL’impatto del caro-energia sulle famiglie italiane è stato illustrato da Elvira Carpentieri, presidente del Centro studi sulla crisi economica delle famiglie italiane: “Il caro energia aggrava l’indebitamento delle famiglie: l’aumento delle bollette riduce le risorse disponibili, soprattutto per i redditi più bassi, spingendo a tagliare spese o indebitarsi. Inoltre, il caro energia alimenta l’inflazione, riducendo ulteriormente il potere d’acquisto. Bankitalia evidenzia l’effetto negativo su redditi e vulnerabilità finanziaria. L’indebitamento ha anche gravi conseguenze sociali e psicologiche, aumentando lo stress familiare”.Le possibili soluzioniSulle possibili soluzioni è intervenuto Sandro Martorano, presidente dell’Istituto Nazionale Economico: “Accelerare gli investimenti nelle fonti rinnovabili e promuovere l’autoproduzione energetica attraverso comunità energetiche locali e sistemi di autoconsumo collettivo è fondamentale per ridurre la dipendenza dal mercato energetico internazionale e abbattere i costi strutturali a lungo termine. È necessario implementare sgravi fiscali selettivi per le imprese ad alta intensità energetica e per le famiglie a basso o medio reddito. La rateizzazione agevolata delle bollette dovrebbe diventare una misura stabile, non solo emergenziale. Inoltre, è importante incentivare l’adozione di tecnologie intelligenti per l’efficienza energetica, supportando le imprese nell’implementazione di sistemi avanzati per il monitoraggio e la gestione dei consumi”.Secondo Amedeo Di Pietro, presidente dell’Osservatorio nazionale sul Diritto, “bisogna prime di tutto estendere il bonus energia per una platea più ampia di beneficiari; prevedere un Fondo di garanzia per le imprese per coprire parte dei costi energetici straordinari; tassi agevolati sui prestiti destinati alla copertura dei costi energetici; Incentivare l’uso degli strumenti di composizione della crisi per famiglie e imprese; promuovere accordi con i fornitori di energia per piani di pagamento flessibili”. LEGGI TUTTO

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    Dazi, la Cina va in cortocircuito

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    I dazi bussano due volte. Per i produttori stranieri che producono in Cina spunta la doppia stangata se allo stesso tempo vanno a importare dagli Stati Uniti materie prime o componenti da assemblare in prodotti che poi vengono esportati. Questo fa sì che da un lato si trovano a pagare le tariffe del 145% per esportare i beni negli Stati Uniti e dall’altro le contro-tariffe al 125% decise da Pechino per quanto concerne le componenti importate nella direttrice opposta.Realtà quali Apple e Tesla, così come tanti piccoli produttori, si trovano nella condizione di dover pagare i dazi due volte sulle stesse merci. Si tratta di casi non isolati in quanto le aziende internazionali e le joint venture rappresentano quasi un terzo del commercio cinese. Per la precisione l’anno scorso, stando ai calcoli fatti dal Financial Times sulla base dei dati delle dogane cinesi, le società totalmente o parzialmente straniera presenti sotto la Grande Muraglia hanno rappresentato 980 miliardi di dollari di esportazioni cinesi, più di un quarto del totale, e 820 miliardi di importazioni, più di un terzo.Intanto, a fare scalpore negli States è il nuovo listino prezzi di Shein che ha riversato di fatto sui consumatori buona parte degli extra costi legati ai dazi. Il gigante cinese del fast fashion online ha alzato i prezzi in un range che va dall’8% al 377% a seconda della categoria dei prodotti. Secondo i dati raccolti da Bloomberg, il prezzo medio dei 100 prodotti più venduti nella categoria bellezza e salute è aumentato del 51% dallo scorso 25 aprile, con diversi articoli che hanno più che raddoppiato il loro prezzo. Per i prodotti per la casa, la cucina e i giocattoli, l’aumento medio è di oltre il 30% con il picco di +377% del prezzo di un set da 10 pezzi di strofinacci da cucina. In media, i prezzi di Shein negli Stati Uniti sono aumentati del 10% circa sulla base di un carrello campione composto da 50 articoli. Shein, insieme a Temu, aveva visto a marzo e a inizio aprile un’impennata delle vendite in virtù della corsa dei consumatori Usa ad anticipare l’imminente stangata sui prezzi.Continua nel frattempo il ping-pong circa l’effettivo avvio dei negoziati tra le due superpotenze. Da Pechino bocche cucite, mentre il Segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent non ha confermato il colloquio tra Trump e Xi Jinping, spiegando che durante le interazioni avute con le sue controparti cinesi durante le riunioni del Fondo monetario internazionale non si è discusso della situazione di stallo sui dazi. Bessent spinge per un accordo di de-esclation, per il quale a suo avviso potrebbero volerci mesi, e manda un messaggio ai cinesi: «Credo che capiranno da soli che questi livelli delle tariffe sono insostenibili per il loro modello di business». LEGGI TUTTO

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    Trump chiama Xi, no negoziati sui dazi

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    La linea tra Washington e Pechino sul fronte dazi continua a essere disturbata. Mentre il presidente statunitense Donald Trump professa ottimismo in un’intervista concessa al Time, indicando di aver parlato telefonicamente con Xi Jinping e confidando in un’intesa nelle prossime tre-quattro settimane, dalla Cina i segnali sono tutti improntati alla cautela.«Non stiamo conducendo alcuna consultazione o negoziazione sui dazi. Gli Stati Uniti dovrebbero smettere di creare confusione», è stata la risposta dell’ambasciata cinese a Washington sui social media a quanto detto da Trump. Nel frattempo, il gigante asiatico sta mettendo appunto piani di emergenza per prevenire gli choc esterni dovuti in particolare alla guerra commerciale innescata dagli Usa. «È essenziale rafforzare sia la riflessione sui risultati finali sia quella sugli scenari estremi, con una forte attenzione alla prevenzione e al disinnesco dei rischi commerciali», ha riferito il ministero del Commercio. Dalla riunione di ieri del Politburo, massimo organo decisionale del Partito comunista cinese, è emersa l’intenzione di portare avanti un approccio pazienze andando a migliorare la cassetta degli attrezzi politici per stabilizzare l’occupazione e l’economia. Nonostante la retorica della linea ferrea, Pechino sta valutando la possibilità di esentare alcune importazioni statunitensi dai suoi dazi del 125%, una mossa che consentirebbe di alleviare le ricadute della guerra commerciale su alcuni settori.Lato Stati Uniti, il colosso Apple si prepara intanto a ridurre la dipendenza dalla Cina spostando in India l’assemblaggio di tutti gli iPhone venduti negli Usa già a partire dall’anno prossimo.Le ricadute sull’economia dell’escalation delle tensioni commerciali si faranno sentire a livello globale. La presidente della Bce, Christine Lagarde, ha spiegato nel suo intervento al meeting del Fondo Monetario Internazionale che l’imposizione di dazi ha creato forti venti contrari per l’economia globale.«L’aumento dell’incertezza sulle politiche è senza precedenti e sta pesando sugli investimenti. I rischi di rallentamento si sono intensificati», ha sottolineato la numero uno dell’Eurotower. Le ha fatto eco l’Fmi con Alfred Kammer che ha posto l’accento sulle ricadute per l’economia Ue. Da Washington è arrivato l’apprezzamento del Fmi al lavoro del governo sul Pnrr («buoni progressi») con gli anni a venire che potranno essere sfruttati per accelerare le riforme strutturali interne. LEGGI TUTTO

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    L’era imprevedibile dei giganti d’argilla

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    La disputa dei dazi ha messo nudo tutte le debolezze delle superpotenze planetarie, o presunte tali. L’America di Donald Trump, fa sparate spavalte su presunte trattative sui dazi, prontamente smentite da Pechine. Annuncia tariffe e poi le sospende, le rivede. La stessa Cina risponde, rispedisce al mittente aerei di cui ha più che bisogno. Toni sopra le righe e volontà da penultimatum che rivelano delle vulnerabilità, emerse con forza alla prova dei mercati con gli scossoni di Wall Street e il nervosismo sui rendimenti dei titoli di Stato americani.La Cina, che possiede il circa il 10% del mostruoso debito pubblico americano che supera i 34mila miliardi di dollari, se lo vendesse massicciamente potrebbe mettere in seria difficoltà la tenuta dei conti di Washington.Allo stesso modo, però, Pechino non può fare a meno degli Usa come mercato di sbocco per le sue esportazioni dal momento che l’America vale 420 miliardi di dollari l’anno. Una quota non elevatissima sul totale dell’export cinese, ma con un impatto significativo sull’occupazione: si stima, infatti, che tra i 10 e i 20 milioni di lavoratori siano impiegati in settori collegati alle vendite negli Stati Uniti. Può un Paese vocato all’export come la Cina rinunciare a un approdo cruciale come la prima economia al mondo? Evidentemente no, perché il mercato interno cinese non cresce abbastanza con un Paese che ha ancora grosse sacche di povertà nelle aree rurali. Inoltre, l’ex Celeste Impero ha a sua volta dei seri problemi con il suo debito pubblico, con molte amministrazioni locali che scontano il crollo del mercato immobiliare. Senza un tasso di crescita del Pil sufficientemente elevato la sostenibilità di un’economia fortemente basata sui sussidi statali è a rischio. Goldman Sachs, stima che la crescita del Pil cinese potrebbe scendere quest’anno al 4% (l’obiettivo di crescita del governo è al 5%), per poi calare ancora al 3,5% nel 2026. Il tutto, in un Paese che a breve assaporerà gli effetti di una popolazione che sta invecchiando e ha già incominciato a diminuire, a causa di un tasso di fertilità che è paragonabile a quello dell’Italia (ovvero molto basso).In questo quadro generale c’è la posizione dell’Europa, che ha uno scarso peso sia a livello geopolitico che economico se si parla di singoli Paesi. Ma il mercato unico, nel suo complesso, ha una dimensione dell’economia pressoché pari a quella di Pechino ed è uno sbocco ricco e irrinunciabile quanto per la Cina che per gli Stati Uniti, con quest’ultimi che vendono all’Europa principalmente armi e tecnologia. Bruxelles, quindi, è debole militarmente, non ha satelliti e non ha una piattaforma cloud proprietaria, né un suo sistema di pagamenti (in attesa che arrivi l’euro digitale). Ma ha dalla sua il fatto di essere il più grande riferimento oltre confine per le big tech americane, dal momento che la Cina è messa molto bene sul fronte tecnologico ed è autonoma per rivaleggiare con gli Usa su (quasi) tutto. La stessa vocazione esportatrice di Pechino non può fare a meno dell’Unione europea (e viceversa). Nessuno dei tre grandi agglomerati economici del mondo, insomma, può fare a meno a cuor leggero dell’altro, a meno che non si mettano in conto costi enormi. LEGGI TUTTO

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    “Incontro costruttivo”. Giorgetti a Washington incontra Bessent

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    Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha incontrato quest’oggi a Washington il segretario al Tesoro Usa, Scott Bessent. “Abbiamo avuto una conversazione lunga e amichevole”, ha dichiarato il ministro tramite l’account social del dicastero. L’incontro “costruttivo” è stato concentrato sui dazi, il commercio, la tassazione digitale e la difesa. Il titolare del Mef si è detto “molto felice di aver incontrato oggi a Washington il Segretario al Tesoro Scott Bessent. Abbiamo avuto una lunga e cordiale conversazione. L’incontro è stato costruttivo e si è concentrato su dazi, commercio, tassazione digitale e difesa”. L’incontro si è tenuto presso il dipartimento del Tesoro americano a Washington a margine dei lavori del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale.Giorgetti ha avuto un colloquio anche con il suo omologo canadese Philippe Champagne. Il ministero dell’Economia ha reso noto che i due ministri hanno affrontato temi di attualità e di economia anche in vista del prossimo appuntamento del G7 in Canada. “In un clima molto informale e amichevole, i due ministri hanno affrontato temi di attualità e di economia, anche in vista del prossimo appuntamento del G7 in Canada”, si legge sul sito de ministero dell’Economia. LEGGI TUTTO

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    Automotive tra dazi e regole green: “Effetto domino devastante, pagano i consumatori”

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    Mentre le immatricolazioni di auto in Europa Occidentale (Ue, Efta e Regno Unito) segnano, a marzo, una crescita del 2,8%, ma sempre inferiore del 19,7% se confrontata con il 2019, l’anno pre Covid-19 e pre crisi di tutti i generi, il nodo dei dazi resta sempre al centro delle preoccupazioni. E a lanciare un forte appello al presidente americano Donald Trump sono ora le associazioni Usa che rappresentano costruttori, concessionari e fornitori che intravedono «impatti devastanti con un effetto domino che porterà a listini più alti per i consumatori, vendite ridotte e costi per la manutenzione più cari». Inoltre, a pagarne le conseguenze sarà anche la forza lavoro nel Paese. «Basta il fallimento di un fornitore – recita l’appello alla Casa Bianca – per determinare lo stop della linea produttiva di una casa automobilistica».Da parte sua, Trump non esclude la possibilità di ridurre le tariffe doganali sulla Cina. Un tira e molla, quello sui dazi, che rende, comunque, la situazione sempre più incerta.A risentirne è ovviamente anche l’Europa dove, afferma Gian Primo Quagliano (Centro studi Promotor) – la politica per la transizione energetica ha aperto il mercato a produttori esterni particolarmente agguerriti e competitivi (il riferimento è ai cinesi, ndr) in termini di prezzi e di qualità del prodotto, senza contare i nuovi problemi che stanno derivando dalla politica del presidente Trump». «A questo punto – sottolinea Quagliano – la questione che si pone con sempre maggior urgenza e con sempre maggior forza non è più tanto quella del trionfo dell’auto elettrica, ma di quella di come salvare l’auto europea dalla catastrofe».Il primo trimestre del 2025 si è chiuso, nel Vecchio Continente, con vendite in calo dello 0,4%, ma giù del 18,4% rispetto al corrispondente periodo dell’ultimo anno di «normalità», il 2019.Secondo Quagliano, «le gravi difficoltà del mercato dell’auto dipendono da molti fattori tra cui, in particolare, la forte crescita dei prezzi che sta rendendo sempre più difficile l’acquisto della nuova auto o la sostituzione di quella posseduta». Che aggiunge: «Tra i fattori che stanno fortemente ostacolando la domanda di automobili vi è anche la transizione energetica imposta dall’Ue che impone l’auto elettrica come unica soluzione per la mobilità su quattro ruote a partire dal 2035».Intanto, guardando alle auto a sola batteria, la quota di mercato risulta aumentare dopo la contrazione subita nel 2024 a causa dello stop agli incentivi in diversi Paesi. Nel primo trimestre del 2025 la quota delle auto elettriche è salita, infatti, al 17% contro il 13,2% dello stesso trimestre del 2024, «ma non sfugge a nessuno – puntualizza il presidente del Centro studi Promotor – che gli obiettivi posti dalla Ue risultano ancora molto lontani». Sono comunque le motorizzazioni ibride senza spina quelle che accolgono di più le preferenze degli automobilisti, rappresentando il 35,5% di penetrazione nel mercato. LEGGI TUTTO