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    Non ci sono più mufloni sull’isola del Giglio

    Caricamento playerIl 28 febbraio il tribunale amministrativo della Toscana (TAR) ha firmato un’ordinanza per sospendere le uccisioni dei mufloni sull’isola del Giglio da parte dei cacciatori, fino alla fine della stagione di caccia. La misura, che è stata decisa in seguito al ricorso di alcune organizzazioni animaliste, ha una durata molto limitata, dato che la stagione di caccia terminerà il 15 marzo. Probabilmente però sia il ricorso sia la sospensione non hanno avuto particolari effetti, perché sembra che già il 28 febbraio sull’isola del Giglio non ci fosse nessun muflone. Negli ultimi cinque anni infatti il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha portato avanti un progetto di eradicazione della specie dall’isola e lo scorso dicembre ha dichiarato conclusa l’operazione.
    Capire come si è arrivati a questo provvedimento, apparentemente insensato, è importante perché da tempo si sta parlando di una possibile eradicazione dei mufloni anche sulla vicina isola d’Elba, che è molto più grande dell’isola del Giglio: uno studio sulla fattibilità del progetto è atteso per la fine di marzo.
    Molto in breve, i mufloni si potrebbero descrivere come pecore selvatiche. Il tema è ancora dibattuto nella comunità scientifica, ma è molto probabile che le pecore siano state ottenute attraverso la domesticazione, cioè con un processo di selezione artificiale, proprio dai mufloni, che in origine vivevano in Asia. I mufloni che oggi si trovano in Italia e in altri paesi europei invece discendono quasi sicuramente da pecore primitive, quindi non del tutto domesticate, che ancora in epoca antica sfuggirono ai loro allevatori e si rinselvatichirono.
    Tutti i mufloni che vivono in libertà in Europa arrivano dalla Sardegna: si ritiene che furono portati sull’isola dagli esseri umani in epoca neolitica, circa 6mila anni fa, e che lì siano sopravvissuti per secoli dopo essersi rinselvatichiti mentre i mufloni sul continente diventavano sempre più simili alle pecore di oggi. Dalla fine del Settecento, e per vari decenni, gruppi di mufloni sardi vennero portati in varie zone d’Italia e d’Europa, dove diedero origine a nuove popolazioni selvatiche. In tutti questi contesti i mufloni sono considerati una specie aliena (o “alloctona”), mentre nella sola Sardegna sono considerati “para-autoctoni” perché pur se introdotti dagli esseri umani fanno parte della fauna locale da vari millenni.
    Per questo quasi ovunque in Europa e in Italia i mufloni non sono una specie protetta e possono essere cacciati. Solo in Sardegna sono tutelati, anche perché nei decenni passati il loro numero era molto diminuito (si stima che oggi possano essercene circa 8mila nell’intera regione).
    Mufloni in una zona del porto di Arbatax nell’agosto del 2023 (ANSA)
    Nell’Arcipelago toscano, di cui l’isola del Giglio e l’isola d’Elba fanno parte, i mufloni vennero portati in epoca molto recente, negli anni Cinquanta. All’epoca le leggi sulla fauna erano molto permissive, sia per la caccia che per l’introduzione di animali alloctoni in nuovi territori. Il proprietario terriero e cacciatore Ugo Baldacci, che possedeva un’azienda faunistico-venatoria (cioè una riserva di caccia) in provincia di Pisa e dei terreni al Giglio, portò sette mufloni sull’isola, all’interno di un’area recintata. All’epoca si pensava che i mufloni sardi avrebbero potuto estinguersi, cosa che Baldacci voleva evitare, e le conoscenze sull’impatto dannoso delle specie alloctone non erano le stesse di oggi.
    Quattro dei mufloni portati da Baldacci provenivano direttamente dalla Sardegna, altri tre dalla Germania: discendevano da mufloni sardi portati in Ungheria nell’Ottocento. Gli animali si trovarono bene al Giglio e si riprodussero. Negli anni Ottanta, a causa dell’incuria della recinzione, si diffusero in tutta l’isola.
    Sono animali molto adattabili ed è possibile che nel loro periodo di massima prosperità sull’isola fossero tra 50 e 150. Il Giglio ha meno di 1.500 residenti e ha un’area di 24 chilometri quadrati, di cui una buona parte rientra nel Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, dove fauna e flora sono protette.
    Diffondendosi nell’intero territorio dell’isola, i mufloni diventarono una delle specie che si potevano cacciare al Giglio, almeno nelle aree al di fuori del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. Dentro ai parchi nazionali infatti le uniche uccisioni di animali selvatici sono quelle compiute dagli enti che gestiscono i parchi stessi, allo scopo di preservare al meglio la biodiversità sulla base di conoscenze scientifiche condivise.
    Dal punto di vista della biodiversità, cioè della ricchezza di specie animali e vegetali, le piccole isole sono luoghi particolari. Da un lato sono molto più vulnerabili agli effetti negativi dell’invasione di una specie alloctona: avendo un territorio ridotto possono essere interamente colonizzate in tempi brevi, e quindi in tempi brevi una specie aliena può portare all’estinzione di una locale. Dall’altro però sono anche luoghi in cui è più facile eradicare una specie dannosa. Al Giglio sono (o erano) presenti varie specie alloctone, animali e vegetali: per questo nel 2019 è iniziato il progetto “LetsGo Giglio”, portato avanti dal Parco nazionale dell’Arcipelago toscano e finanziato dall’Unione Europea, con l’obiettivo di rimuoverle o ridurle in maniera consistente per preservare le specie locali.
    Per quanto riguarda i mufloni, la principale specie minacciata è il leccio (Quercus ilex), un albero tipico della regione del Mediterraneo, ma anche varie specie di arbusti: i mufloni mangiano queste piante quando sono molto giovani, impedendo che crescano. Gli effetti possono essere considerevoli.
    Uno studio realizzato nel 2019 dall’Università di Firenze sul territorio dell’Elba ha mostrato che nella parte occidentale dell’isola, dove i mufloni sono presenti, la vegetazione boschiva si rinnova molto più lentamente rispetto alla parte orientale dell’isola. Nel 2021 peraltro questi animali sono stati giudicati i più dannosi tra gli ungulati (cioè tra i mammiferi erbivori che hanno gli zoccoli) quando si diffondono in ambienti in cui sono alieni: è la conclusione di uno studio che ha preso in considerazione gli effetti a livello globale.
    Inizialmente il progetto “LetsGo Giglio” prevedeva che i mufloni fossero eradicati dall’isola in due modi: attraverso l’abbattimento o la cattura e la sterilizzazione. «Per arrivare a un’eradicazione la cosa migliore è utilizzare tecniche miste», spiega Giampiero Sammuri, zoologo e presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano: «Ci sono animali che è più facile catturare, proprio per via del loro comportamento individuale, e altri che è più facile abbattere. In tutte le operazioni di eradicazione di ungulati si privilegia la forma mista».

    Con i primi abbattimenti cominciarono anche le proteste delle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti degli animali. Il Parco allora si confrontò con le organizzazioni e nel novembre del 2021 fece un accordo con due di queste, il WWF e la LAV: si impegnò a sospendere gli abbattimenti e a proseguire con l’eradicazione aumentando le catture. Da parte loro le due organizzazioni promisero di occuparsi del mantenimento dei mufloni catturati e sterilizzati in strutture private sulla penisola, come il Centro di recupero per animali selvatici ed esotici di Semproniano, in provincia di Grosseto, che è gestito dall’associazione Irriducibili Liberazione Animale.
    Altri gruppi animalisti e il comitato di residenti del Giglio “Save Giglio”, che non avrebbe voluto né l’abbattimento dei mufloni né il loro trasferimento, continuarono comunque a protestare in vari modi, ottenendo anche un’interrogazione parlamentare nel marzo del 2023. Negli ultimi due anni ENPA, LNDC Animal Protection, VITADACANI e la Rete dei Santuari hanno comunicato in più occasioni la loro contrarietà all’eradicazione dei mufloni e portato avanti varie iniziative, tra cui il ricorso al TAR.
    Secondo quanto riferito dal Parco, qualcuno avrebbe inoltre compiuto «numerose azioni di disturbo» durante le pratiche di cattura dei mufloni: gli addetti a queste operazioni «sono stati pedinati e filmati mentre lavoravano e numerose sono state le azioni di sabotaggio, danneggiamento e, addirittura, di furto delle attrezzature utilizzate per le catture». Per questo il Parco aveva chiesto l’aiuto dei carabinieri per completare l’eradicazione e aveva vietato il passaggio su alcuni sentieri.
    A dicembre il Parco ha dichiarato conclusa l’eradicazione e ha fatto sapere che dopo l’accordo con WWF e LAV sono stati abbattuti 35 mufloni mentre altri 52 sono stati catturati e trasferiti. Per più di un anno dall’accordo non sono stati fatti abbattimenti.
    Più di recente è arrivata la decisione del TAR, che però non riguarda il progetto di eradicazione ma il piano della Regione Toscana che autorizzava le uccisioni dei mufloni sul territorio per la stagione di caccia 2023-2024, iniziata il primo ottobre. Il TAR ha sospeso per le ultime due settimane il permesso di cacciare mufloni sull’isola del Giglio, dunque di ucciderli al di fuori del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano.
    «Penso che in realtà in questa stagione venatoria di caccia al muflone non ci sia andato nessun cacciatore a caccia di mufloni al Giglio», commenta Sammuri: «All’inizio di ottobre qualche muflone c’era ancora, perché gli ultimi li abbiamo prelevati tra ottobre e dicembre, ma erano pochissimi. Chi vuole andare a caccia di mufloni va dove ce ne sono molti».
    Ad esempio sull’isola d’Elba, dove secondo Sammuri sono stati cacciati circa 150 mufloni nella stagione che sta finendo. Nello stesso periodo all’interno del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, che si estende in parte anche sull’isola d’Elba, sono stati abbattuti circa 400 mufloni. «Quest’anno è stato un po’ un record, però almeno 300 all’anno nel Parco li abbiamo sempre abbattuti», dice ancora Sammuri, «e io non ho mai capito perché di 300 all’isola d’Elba non gliene importa niente a nessuno e invece queste poche decine dell’isola del Giglio hanno avuto questa grande attenzione».
    All’Elba sembra prevalere un’opinione pubblica favorevole alla possibilità di un’eradicazione della specie: ci sono ben due comitati locali che chiedono di eliminare mufloni e cinghiali dall’isola per via dei danni all’agricoltura e ai giardini e agli incidenti stradali causati da impatti con gli animali. I comuni dell’isola hanno finanziato uno studio di fattibilità per stimare costi e tempi necessari per l’eradicazione delle due specie. Servirebbero probabilmente molti più soldi di quelli con cui è stato finanziato “LetsGo Giglio” (1,6 milioni di euro) e in parte usati per i mufloni: l’isola d’Elba ha una superficie quasi dieci volte superiore a quella del Giglio, una popolazione venti volte superiore e centinaia di mufloni e cinghiali.
    In un incontro pubblico organizzato per discutere della possibile eradicazione delle due specie c’erano anche alcune persone contrarie, ma su fronti opposti: si dividevano tra animalisti e cacciatori che vorrebbero continuare ad andare a caccia sull’isola.
    Il TAR si esprimerà nuovamente sul ricorso che riguarda il Giglio a luglio. Per allora saranno stati fatti i controlli per verificare che davvero sull’isola non siano rimasti più mufloni, come previsto dai protocolli di “LetsGo Giglio”, e secondo Sammuri «mancherà il tema del contendere». Il presidente del Parco è certo che l’anno prossimo la Regione Toscana non farà un piano di caccia al muflone per l’isola, perché non ce ne sarà nessuno. LEGGI TUTTO

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    È stata trovata una nuova sottospecie di Xylella in provincia di Bari

    Caricamento playerA Triggiano, in provincia di Bari, è stata trovata una nuova sottospecie del batterio Xylella fastidiosa, quello che negli ultimi anni ha causato la morte e l’abbattimento di milioni di ulivi. La nuova specie è stata trovata su sei mandorli. Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura della Puglia, ha detto all’agenzia di stampa ANSA che gli alberi su cui il batterio è stato trovato saranno abbattuti e verranno fatte analisi sulle piante presenti in un’area di 800 metri di raggio intorno. Il nome della sottospecie individuata sui mandorli è Xylella fastidiosa fastidiosa, mentre la sottospecie già ben nota è la Xylella fastidiosa pauca.
    La Xylella è la causa del “disseccamento rapido”, una malattia che se colpisce gli ulivi li porta a non produrre più olive e a morire in poco tempo. Si trasmette da un albero all’altro grazie ad alcuni insetti vettori, e principalmente attraverso il Philaenus spumarius, noto con il nome comune di “sputacchina”. È stato ricostruito che il batterio arrivò in Salento, nel sud della Puglia, nel 2008, trasportato da una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica. Della sua presenza ci accorgemmo solo nel 2013, quando in Salento molti ulivi cominciarono a morire per il disseccamento rapido, per cui non esiste una cura. Da allora il batterio ha continuato a diffondersi verso nord e negli ultimi due anni è arrivato in provincia di Bari.
    Da anni la Regione Puglia contrasta la diffusione del batterio facendo ripetuti controlli su ampie aree di territorio agricolo. Il Piano d’azione per contrastare la diffusione di Xylella fastidiosa in Puglia 2023-2024 prevede zone dette “cuscinetto” e “di contenimento” a nord delle zone infette in cui vengono fatte analisi a campione sugli insetti vettori e, se è confermata la presenza della Xylella, su piante della zona. È stato così che è stato trovato il batterio nei mandorli, dopo una raccolta di campioni fatta a gennaio.

    Dall’inizio dell’anno le operazioni di monitoraggio hanno già interessato 2.614 ettari di terreno, cioè circa 26 chilometri quadrati; le piante ispezionate sono state più di 17mila. Tra gennaio e febbraio gli abbattimenti sono stati 237, ma finora nessuno ha riguardato piante infette: sono state abbattute anche quelle valutate a rischio per contenere la diffusione del batterio.
    «Non dobbiamo creare allarmismi», ha detto Pentassuglia, «ma nemmeno abbassare la guardia». L’assessore ha poi aggiunto che non si sa ancora se la sottospecie di Xylella sia più o meno dannosa per gli ulivi o altre piante, ma ha ricordato che la sputacchina si nutre anche della linfa della vite, un’altra pianta fondamentale per l’economia agricola non solo pugliese, e anche per questo bisogna continuare a fare attenzione alla diffusione del batterio. LEGGI TUTTO

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    ”In Italia abbiamo la cultura di fregare la gente, i nostri alberghi fanno schifo, Grecia e Turchia ci sorpassano”: lo sfogo di Flavio Briatore

    Alla kermesse di Atreju si scaglia contro il modo in cui vengono trattati i turisti nel Bel Paese
    L’imprenditore 73enne categorico: “Io che non vivo in Italia posso dare un giudizio e dico quello che penso”

    Flavio Briatore è un fiume in piena alla kermesse di Atreju, il suo è uno sfogo molto sentito: si scaglia contro il modo in cui vengono trattati i turisti nel Bel Paese. “In Italia abbiamo la cultura di fregare la gente, i nostri alberghi fanno schifo, Grecia e Turchia ci sorpassano”, sottolinea.
    ”In Italia abbiamo la cultura di fregare la gente, i nostri alberghi fanno schifo, Grecia e Turchia ci sorpassano”: lo sfogo di Flavio Briatore
    “Il turismo si deve insegnare alle elementari perché è la più grande azienda che abbiamo in Italia. Ma perché la gente non viene da noi? Ogni volta che cerchiamo di fare gli investimenti è una follia: permessi e contro-permessi, commissioni formate da gente che è contro le imprese. Tutte queste commissioni, enti e sigle, sono tutti contro. Loro sperano che tu non apra mai”, esordisce il 73enne.
    Poi Briatore aggiunge: “Già per un italiano si fatica a capire, ma se viene uno straniero gli sembra un manicomio. Ora però finalmente abbiamo un ministero. Ma dobbiamo trattare meglio i turisti. E poi abbiamo degli alberghi che fanno schifo. Io che non vivo in Italia posso dare un giudizio e dico quello che penso. Ognuno di noi si deve prendere le sue responsabilità”.
    Alla kermesse di Atreju si scaglia contro il modo in cui vengono trattati i turisti nel Bel Paese. L’imprenditore 73enne categorico: “Io che non vivo in Italia posso dare un giudizio e dico quello che penso”
    “Perché la Grecia e la Turchia ci sorpassano? Qui lo sci d’acqua non si può fare, ci vuole la patente pure per mangiare una focaccia. L’Italia è il Paese in cui i turisti stanno meno perché li fregano sempre – continua l’ex manager di Formula Uno – Abbiamo quella cultura di fregare la gente, tanto dicono: ‘questo è arrivato dalla Polonia, viene due giorni e non lo vedo più e il cappuccio invece di 5 euro lo faccio pagare 10 euro, gli do la mer*a da mangiare, tanto non lo vedo più, vaffancu*o’”.
    “Non dimentichiamo che abbiamo 7 mila chilometri di costa e non abbiamo una bandiera welcome perché pensano che chi ha le barche sia un evasore fiscale. Io sono il classico esempio, mi hanno rotto le pal*e per 10 anni, poi mi hanno assolto, perché sembrava che avessi rubato chissà che cosa. Il turismo nautico è un turismo che l’Italia abbandona: i comandanti si parlano, dicono non andate in Italia. Per questo la Grecia e la Turchia ci sorpassano”, prosegue ancora. Lui ha la ricetta giusta: “Dobbiamo avere un turismo che lasci del denaro sul Paese: un turismo ricco lascia un indotto, un turismo povero porta via la roba a te. Dobbiamo pensare quale turismo vogliamo e semplificare tutto, gli alberghi devono essere ristrutturati. Abbiamo degli alberghi che fanno schifo in Italia”. LEGGI TUTTO

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    Uno dei centri di ricerca medica più all’avanguardia in Italia rischia di chiudere

    Nell’ultimo anno Holostem, una delle aziende di ricerca medica e farmacologica più all’avanguardia in Italia e in Europa, ha cercato di trovare un sostegno economico per continuare a sviluppare una cura per i cosiddetti “bambini farfalla”, pazienti affetti da una grave e rara malattia che attacca la pelle. Una soluzione era stata trovata: nei mesi scorsi la fondazione Enea Tech e Biomedical, creata nel 2020 dal governo proprio per investire nel settore biomedico, aveva dato disponibilità a rilevare Holostem.L’ultimo passaggio richiesto è l’autorizzazione del ministero delle Imprese e del Made in Italy che controlla la fondazione. L’investimento tuttavia è stato bloccato. Senza un rilancio economico, Holostem chiuderà e le ricerche saranno interrotte. Il 30 novembre è l’ultimo giorno disponibile per ottenere l’autorizzazione del ministero: senza una prospettiva economica, dal primo dicembre l’azienda sarà liquidata e per i ricercatori inizierà la procedura di licenziamento.Holostem si trova a Modena. È un grande laboratorio di ricerca, molto all’avanguardia, nato da una collaborazione tra l’Università di Modena e Reggio Emilia, Chiesi Farmaceutici, una multinazionale farmaceutica con sede a Parma, Michele De Luca e Graziella Pellegrini, che da oltre 30 anni studiano l’utilizzo delle cellule staminali per sviluppare terapie dedicate soprattutto alla cura di malattie rare. Negli ultimi anni De Luca e Pellegrini hanno ricevuto diversi premi e grazie ai risultati ottenuti con le loro ricerche sono diventati tra gli esperti più noti al mondo di medicina rigenerativa, la branca che studia i modi di ristabilire l’integrità dei tessuti e degli organi.Nel 2015 De Luca e Pellegrini, alla guida di una squadra di ricercatori, applicarono i loro studi su un caso particolarmente grave della malattia che avevano studiato per anni. L’epidermolisi bollosa, conosciuta anche con l’acronimo EB, è una malattia genetica rara e molto invalidante che provoca lesioni e lacerazioni sulla pelle, sintomi che possono essere causati da una lieve frizione o possono comparire persino spontaneamente. È una malattia nota anche come “sindrome dei bambini farfalla” per via della fragilità dei pazienti. Colpisce mediamente meno di un bambino ogni 20mila nati, ne soffrono oggi circa 500mila persone nel mondo. In Italia le persone malate sono poco più di un migliaio. Nelle forme più gravi, questa malattia ha una mortalità elevata entro i 2 anni di vita.De Luca e Pellegrini dovettero valutare un possibile intervento per curare Hassan, un bambino siriano di 7 anni ricoverato in Germania dopo essere scappato insieme ai genitori dal regime di Bashar alAssad. Hassan era ricoverato nel reparto ustionati dell’ospedale di Bochum: l’80 per cento della sua epidermide, ovvero lo strato superiore della pelle, era scomparso. La schiena, i fianchi e gli arti erano coperti di ferite aperte, molto dolorose.Uno dei medici tedeschi che lo avevano in cura conosceva le ricerche di De Luca e Pellegrini che avevano dedicato anni a sviluppare una possibile cura attraverso l’utilizzo delle cellule staminali epiteliali, cioè utilizzate per la rigenerazione dei tessuti. Semplificando molto, la tecnica consiste nel prelevare cellule malate dal paziente, modificare i geni che causano la malattia, utilizzare le cellule corrette per far crescere un nuovo tessuto da reinnestare infine sul paziente.Dopo aver raccolto un centimetro quadrato di pelle dall’inguine di Hassan, una delle poche parti del corpo in cui la pelle era intatta, De Luca e Pellegrini applicarono le loro ricerche e trapiantarono i nuovi tessuti sul bambino sostituendo circa l’80 per cento della sua vecchia pelle. Nel febbraio del 2016 Hassan fu dimesso dall’ospedale, a marzo riuscì a tornare a scuola. È guarito, ora ha una vita sociale normale. Negli ultimi anni Pellegrini e De Luca hanno continuato gli studi sperimentali sulla terapia e hanno ottenuto le autorizzazioni necessarie a estenderla su larga scala: è una procedura molto complessa, per cui servono anni di ricerche e lavoro.Un’altra cura sviluppata da Pellegrini e De Luca si chiama Holoclar e consiste in un trattamento con cellule staminali per sostituire le cellule danneggiate sulla superficie della cornea, la membrana trasparente che riveste l’iride, la parte colorata dell’occhio.Questo trattamento è usato in pazienti adulti affetti da una carenza di cellule staminali causata da ustioni dell’occhio. I pazienti in queste condizioni non hanno un numero sufficiente di cellule staminali che normalmente intervengono nel processo di rigenerazione della cornea sostituendo le cellule esterne danneggiate o che invecchiano. Holoclar è un medicinale per terapia avanzata, cioè contenente cellule prelevate dal paziente e successivamente coltivate in laboratorio e utilizzate poi per riparare la superficie della cornea. È una terapia unica in Europa, la prima a base di cellule staminali, e finora ha restituito la vista a 500 persone.Fino ai primi anni Duemila Pellegrini e De Luca avevano diretto laboratori sulle cellule staminali in diversi centri di ricerca italiani. L’apertura di Holostem, che di fatto è un’azienda biofarmaceutica, è la conseguenza di un nuovo regolamento europeo, il 1394 del 2007, che introdusse regole molto più stringenti per chi studia i cosiddetti farmaci avanzati, cioè realizzati con cellule e non solo con composti chimici.Il nuovo regolamento impose ingenti investimenti per realizzare laboratori molto avanzati e l’introduzione di figure professionali tipiche delle aziende farmaceutiche, come esperti dedicati al controllo della produzione. Questo regolamento ha assicurato maggiori controlli, ma ha reso questo tipo di ricerche insostenibili economicamente per le università. In molti casi i centri di ricerca si sono quindi affidati a investimenti privati, soprattutto di aziende farmaceutiche.Da questa situazione è emersa una vistosa contraddizione: le aziende farmaceutiche sono molto attente al profitto, mentre le malattie rare sono poco profittevoli per definizione. Quasi sempre la ricerca di una terapia dura anni, è molto costosa, e quando viene trovata una cura viene messa in commercio per aiutare poche persone. Anche se i farmaci sviluppati costano molto, il numero di pazienti con malattie rare sono troppo bassi per sostenere grandi investimenti.Per anni Holostem, i cui costi complessivi vanno da 8 a 10 milioni di euro all’anno, è stata sostenuta dall’azienda Chiesi Farmaceutici, che tuttavia lo scorso anno ha comunicato la volontà di uscire dalla società. Chiesi Farmaceutici, che nel 2022 ha raggiunto un fatturato di 2,7 miliardi di euro, ha messo a disposizione 17 milioni di euro per il periodo di transizione.Holostem sembra essere l’investimento perfetto per la fondazione Enea Tech e Biomedical, creata dal governo nel 2020 per «sostenere la sperimentazione pre-clinica e clinica». La fondazione ha a disposizione 500 milioni di euro per «partecipare, concorrere e investire anche in start-up e PMI [piccole e medie imprese, ndr] ad alto potenziale innovativo e spin-off universitari e di centri di ricerca e sviluppo per offrire soluzioni tecnologicamente avanzate, processi o prodotti innovativi, ovvero per rafforzare le attività di ricerca, consulenza e formazione».Con queste premesse Holostem ed Enea Tech hanno avviato una trattativa interrotta dall’opposizione del ministero delle Imprese e del Made in Italy. Il ministero sostiene che questo investimento possa essere considerato un aiuto di Stato, una forma di concorrenza sleale vietata dalle direttive europee. In questo preciso caso, tuttavia, non esiste concorrenza perché Holostem è l’unica azienda in Europa che fa ricerca su questa terapia. I regolamenti europei, inoltre, prevedono che l’aiuto di Stato possa essere concesso quando rappresenta uno strumento per correggere i cosiddetti fallimenti del mercato, cioè quando lo Stato interviene per garantire la produzione di un bene necessario. La fondazione Enea Tech ha presentato un ricorso argomentato alla mancata autorizzazione del ministero, anche perché da quando è stata creata non è riuscita a spendere nemmeno un euro dei 500 milioni messi dal governo.Negli ultimi giorni molti ricercatori europei e italiani hanno scritto al ministero per sostenere la causa di Holostem. «I ricercatori di Modena hanno già compiuto il loro miracolo trovando cure a malattie incurabili. Ora sta al governo dimostrare di essere all’altezza dei suoi cittadini», ha scritto sulla Stampa Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova. Le associazioni che assistono i pazienti affetti da epidermolisi bollosa hanno organizzato una raccolta firme.Dall’inizio dell’anno l’incertezza sul futuro ha portato molti ricercatori a dimettersi per cercare nuovi posti di lavoro. Fino al 2022 i dipendenti erano circa 80, oggi sono 43. Negli ultimi anni Pellegrini e De Luca hanno rifiutato diverse proposte di lavoro di ospedali e centri di ricerca esteri per continuare gli studi in Italia. LEGGI TUTTO

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    Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha 100 anni

    Caricamento playerPer molti secoli la scienza è progredita in buona parte attraverso scoperte di persone che potevano dedicarsi ai propri studi grazie a risorse economiche di famiglia, al sostegno di persone facoltose o all’esercizio di professioni svolte in parallelo. Nel corso dell’Ottocento poi le università hanno cominciato ad avere un ruolo sempre maggiore, via via che si definivano le diverse branche della scienza per come la conosciamo oggi e si aprivano facoltà scientifiche. Nell’ultimo secolo infine si sono sviluppati istituti dedicati esclusivamente alla ricerca, molto spesso voluti dai governi: è il caso del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano, il CNR, che fu fondato esattamente cento anni fa.Oggi è il principale ente di ricerca italiano per numero di ricercatrici e ricercatori, 5.559, che lavorano in 88 istituti e 228 sedi con laboratori sparsi nel territorio nazionale, ed è anche l’ente non universitario che finanzia più dottorati. Si occupa di un gran numero di ambiti di studio, dalla fisica alle scienze agroalimentari, dalla chimica ai beni culturali, dalle scienze biomediche all’ingegneria.La storia del CNR inizia dopo la Prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto molti paesi, interessati dalle tecnologie usate dall’esercito tedesco come i sottomarini e i gas velenosi, vollero favorire il progresso scientifico e le sue applicazioni pratiche, sia in campo militare che industriale. Si pensò allora di creare organizzazioni che coordinassero le nuove ricerche tra università, aziende ed esercito: in Italia venne istituito, nel 1923, il CNR. Il suo primo presidente fu l’importante matematico e fisico Vito Volterra, che durante la guerra mondiale si era occupato di dirigibili maturando una certa esperienza nelle applicazioni pratiche delle scoperte scientifiche.– Leggi anche: Vito Volterra e la libertà della scienzaInizialmente il CNR si occupava soprattutto di fisica e chimica. Quando nel 1927 Volterra dovette rinunciare alla presidenza dell’ente in quanto antifascista (nel 1931 fu uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo), il regime di Benito Mussolini nominò al suo posto Guglielmo Marconi, che nel 1909 era stato insignito con il premio Nobel per la Fisica per «lo sviluppo della telegrafia senza fili» ed era quindi molto noto e stimato anche all’estero. Marconi tentò, come Volterra prima di lui, di creare laboratori di ricerca al di fuori del contesto universitario, ma non riuscì davvero in questo intento: i principali risultati scientifici italiani degli anni Trenta furono ottenuti dal gruppo di Enrico Fermi che lavorava all’interno del Regio istituto di fisica dell’università di Roma.Alla morte di Marconi nel 1937, Mussolini nominò presidente del CNR il capo di Stato maggiore Pietro Badoglio, che avrebbe poi firmato l’armistizio del 1943. Mussolini scelse un militare perché già all’epoca si parlava della possibilità di una nuova guerra in Europa e voleva che gli scienziati e l’esercito collaborassero. La cosa non funzionò mai davvero, e così il regime ridusse i finanziamenti al CNR. In quegli stessi anni la comunità scientifica italiana aveva peraltro subìto grandi danni a causa delle leggi razziali contro gli ebrei che avevano spinto molti scienziati, tra cui Fermi, vincitore del Nobel per la Fisica nel 1938, a trasferirsi all’estero.Il periodo di maggior rilevanza della storia del CNR iniziò dopo la Seconda guerra mondiale, quando fu riformato in senso democratico, ampliò i propri campi di attività e collaborò alla ricostruzione del paese. Infatti il CNR ebbe un ruolo importante nella pianificazione territoriale e negli studi ingegneristici necessari per costruire il gran numero di abitazioni che servivano nelle città italiane in quel periodo. Fece anche studi per la costruzione del gran numero di ponti e viadotti realizzati negli anni Quaranta e Cinquanta, e sviluppò le normative tecniche per le attività produttive, quelle che garantiscono la sicurezza dei lavoratori dell’industria, dell’edilizia e non solo.Ma il CNR si occupò molto anche di fisica nucleare e dei suoi possibili impieghi nel campo dell’energia e di ricerca spaziale. Nel 1951 fu fondato l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), che sarebbe diventato un ente di ricerca autonomo negli anni Sessanta, e nel 1959 la Commissione per le ricerche spaziali, l’origine dell’Agenzia spaziale italiana (ASI) creata nel 1988. L’ambito delle ricerche spaziali è uno di quelli in cui il CNR collaborò di più con le aziende: negli anni Settanta questa collaborazione portò al lancio nello Spazio di SIRIO, il primo satellite geostazionario europeo per le telecomunicazioni.L’Istituto per le applicazioni del calcolo (IAC), che era stato fondato nel 1927 e fu il primo degli istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ne fa tuttora parte. Nel 1955 fu il secondo ente italiano dopo il Politecnico di Milano ad assemblare un computer, il FINAC, che fu usato per fare calcoli per il ministero del Bilancio, oltre che per la ricerca nucleare.Ancora negli anni Sessanta il CNR continuò la propria espansione. Prima di tutto perché nel 1962 l’allora presidente Giovanni Polvani volle aggiungere alle discipline scientifiche di cui si era occupato il CNR fino ad allora anche quelle umanistiche, in particolare nel campo delle scienze umane e del patrimonio culturale. Oggi fanno parte del CNR anche enti di ricerca come l’Istituto di studi giuridici internazionali (ISGI), l’Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSIRFA) e l’Istituto opera del vocabolario italiano (OVI), che ha il compito di elaborare il vocabolario storico italiano.Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta tuttavia il CNR ebbe un periodo di crisi a causa della diminuzione delle risorse finanziarie stanziate dai governi per la ricerca (erano più o meno sempre gli stessi fondi, ma nel frattempo aumentava l’inflazione) e della sempre maggiore burocratizzazione dei progetti di ricerca, che di fatto la rallenta. Le cose migliorarono con l’intervento di Antonio Ruberti, ingegnere, ex rettore della Sapienza di Roma e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica dal 1988 al 1992, che riprese a finanziare il CNR.Oggi il Consiglio Nazionale delle Ricerche continua a essere la più importante istituzione di ricerca pubblica in Italia, ma da tempo si discute della necessità di rivederne parte dell’organizzazione e di modificare alcuni sui meccanismi legati sia all’assegnazione delle borse sia ai criteri di ricerca stessa.– Leggi anche: Cosa ci facciamo in Antartide LEGGI TUTTO

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    L’ultima grande epidemia di colera in Italia, 50 anni fa

    Il 20 agosto 1973, cinquant’anni fa, una donna inglese morì all’ospedale dei Pellegrini di Napoli: le era stata diagnosticata una enterocolite, un’infiammazione intestinale, ma poi si sarebbe scoperto che era stata la prima persona morta per l’epidemia di colera che interessò la città e poi si estese in altre parti dell’Italia meridionale nelle settimane successive, diventando l’ultima grande epidemia di colera nel paese.Il colera è un’infezione dovuta al batterio Vibrio cholerae che ha come sintomo principale la diarrea, e che nei casi più gravi porta alla morte per disidratazione. Il batterio si trasmette per via orale, diretta o indiretta, se in qualche modo del materiale fecale entra in contatto con degli alimenti (crudi o poco cotti) o con l’acqua che si beve: per questo le epidemie di questa malattia sono legate a problemi dei sistemi fognari e nell’approvvigionamento di acqua potabile. Dato che il batterio del colera può vivere anche nei fiumi e nelle zone costiere, le epidemie possono essere legate al consumo di molluschi.In origine il colera era endemico, cioè periodicamente presente, in India e in Bangladesh. Nel resto del mondo si è diffuso più volte a partire dall’Ottocento, dando origine a sei pandemie che causarono la morte di milioni di persone. La settima iniziò in Asia nel 1961 e arrivò a essere contenuta nel 1975, ma in un certo senso si può considerare ancora in corso perché i ceppi batterici che ne furono responsabili sono tuttora in circolazione: di fatto ha reso la malattia endemica in molti altri paesi. Fu proprio nel corso di questa pandemia che il colera arrivò a Napoli.Un cartello vieta la raccolta di mitili nello specchio di mare antistante il Castel dell’Ovo, a Napoli, il 21 ottobre 1973 (ANSA/ARCHIVIO CARBONE/PRIMA PAGINA)Le prime infezioni note si ebbero nei giorni dopo Ferragosto. Dopo Linda Heyckeey, la donna inglese, morirono il 22 agosto Adele Dolce e, all’ospedale Maresca di Torre del Greco, un comune vicino a Napoli, Rosa Formisano il 26 agosto e Maria Grazia Cozzolino il 27. Fu il primario dell’ospedale di Torre del Greco, Antonio Brancaccio, a ipotizzare che la malattia che aveva causato la morte delle donne potesse essere una forma di colera. Il 29 agosto il Mattino diffuse la notizia dell’epidemia, parlando di cinque morti e cinquanta persone infette ricoverate.Napoli era già stata interessata da grandi epidemie di colera in passato, nel 1837, nel 1884 e nel 1910-11, ma si pensava che in un paese ormai industrializzato non potesse più succedere. In ogni caso già il primo settembre cominciò una campagna vaccinale, che venne portata avanti nei luoghi più diversi, dalle farmacie alle sezioni dei partiti politici, a un palazzetto. In alcuni casi le tante persone radunatesi per farsi vaccinare protestarono contro la lentezza delle procedure e le lunghe attese; ci furono anche tentativi di assalto ai centri di vaccinazione e ai furgoni che trasportavano i vaccini. Nonostante questo moltissime persone furono vaccinate in poco tempo: più di un milione in una settimana.– Leggi anche: Il 1973 fu anche l’anno dell’austerity per la crisi petroliferaLa campagna vaccinale contribuì ad arginare la diffusione del batterio insieme ad altre pratiche igieniche e alla chiusura temporanea di luoghi di socialità. A Napoli l’ultimo caso fu registrato il 19 settembre e già il 12 ottobre l’epidemia poteva considerarsi conclusa nella città. Le morti accertate furono 24, la maggior parte (15) a Napoli; le altre città dove ci furono più infezioni furono Bari (6 morti) e Foggia, in Puglia. È possibile comunque che sia i casi di infezione che i morti siano stati di più.All’epoca la diffusione del colera venne ricondotta all’importazione di cozze dalla Tunisia, dove il colera si era diffuso nel maggio del 1973, e si pensò che i molluschi fossero il principale mezzo di trasmissione del batterio e per questo vennero distrutti gli allevamenti di cozze presenti lungo le coste napoletane. In realtà poi si verificò che nei molluschi non era presente il ceppo responsabile dell’epidemia, che era invece diffuso nelle acque marine (dove ad agosto in molti facevano il bagno) a causa dell’inadeguatezza del sistema fognario di Napoli, che risaliva agli anni Ottanta dell’Ottocento.Un gruppo di vigili del fuoco distrugge delle cozze nel mare di Napoli, il 9 settembre 1973 (AP Photo, LaPresse)Dopo il 1973 non ci furono più estese epidemie di colera in Italia. Nel 1994 a Bari ci fu una ventina di casi, legati a problemi di igiene nel mercato del pesce ed efficacemente curati fin dall’inizio. Quest’estate in due occasioni si è parlato di presunti nuovi casi di colera in Italia: all’inizio di luglio in Sardegna e all’inizio di agosto a Lecce, in Puglia. In entrambi i casi è stato verificato che sebbene nelle feci dei pazienti in questione ci fossero batteri Vibrio cholerae, non erano dei ceppi che causano la malattia.– Leggi anche: Perché Napoli non è Londra, spiegato col colera da Antonio Pascale LEGGI TUTTO

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    In Italia le grandinate sono aumentate

    I nubifragi, le trombe d’aria e le grandinate che negli ultimi giorni hanno colpito il Nord Italia, dal Friuli Venezia Giulia alla Lombardia, sono stati dovuti allo spostamento verso sud dell’anticiclone responsabile della precedente ondata di calore: l’incontro tra correnti d’aria fredda provenienti da nord con l’aria calda e umida sopra la Pianura Padana ha causato una serie di temporali molto intensi. È un fenomeno tipico della stagione estiva e che tuttavia secondo studi recenti è diventato più frequente negli ultimi anni, probabilmente per via del cambiamento climatico.«Dal 1999 al 2021 nel bacino del Mediterraneo le grandinate sono aumentate», spiega Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) ed esperto dell’uso dei satelliti per la meteorologia: «In particolare nell’ultimo decennio sono aumentate del 30 per cento, lo abbiamo misurato grazie ai satelliti». Laviola è uno degli autori di alcuni studi che hanno permesso di capire delle cose in più sulla grandine, un fenomeno meteorologico ancora relativamente poco compreso a causa della storica difficoltà di raccogliere dati al riguardo.Le grandinate possono verificarsi in qualunque punto del pianeta ma avvengono con frequenza molto maggiore in alcune regioni per via della morfologia del loro territorio: c’è più probabilità che si generino dove ci sono alte montagne che influiscono sulla circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera. Ad esempio grandina con particolare frequenza nella grande pianura al centro degli Stati Uniti, tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose, che è anche detta “Tornado Alley”, “corridoio delle trombe d’aria” (le trombe d’aria sono spesso associate alla grandine). Anche l’Italia, avendo due estese catene montuose, è molto soggetta a grandinate, specialmente nella Pianura Padana e ancora più in particolare in Friuli Venezia Giulia, le cui aree pianeggianti sono quasi completamente circondate dalle montagne.Non è comunque solo la forma del territorio a influire sulla probabilità che avvenga una grandinata, ma anche le condizioni atmosferiche, e per questo ci sono stagioni dell’anno in cui grandina più di frequente. In Italia la stagione delle grandinate è storicamente compresa tra aprile e ottobre, anche se in anni recenti sembra essersi estesa fino a novembre.È più probabile che grandini d’estate perché questo fenomeno si crea all’interno delle cosiddette nubi convettive, che sono dovute alla presenza di masse d’aria calda e umida nell’atmosfera e si possono riconoscere perché si sviluppano molto in verticale. Quando la superficie terrestre è particolarmente calda e lo è per molte ore al giorno, l’aria più vicina a terra sale verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata dal suolo e dagli specchi d’acqua. Se salendo in quota le masse d’aria calda e umida incontrano aria più fredda, il vapore acqueo condensa, formando una nube: è detta convettiva perché in fisica si definisce “moto convettivo” quel fenomeno per cui un fluido riscaldato si muove verso l’alto, mentre quello più freddo e denso va verso il basso.«All’interno delle nubi convettive», spiega Laviola, «le correnti ascendenti e discendenti sollevano ingenti quantità di masse d’acqua sotto forma di goccioline. Nel percorso verso l’alto si accrescono, si raffreddano fino a superare un livello di temperatura che si chiama “zero termico”, cioè dove c’è il passaggio di stato dal liquido al solido: quindi l’acqua ghiaccia. Ai cristalli d’acqua ghiacciata si avvicinano altre goccioline che ghiacciano attorno al nucleo principale, che è l’embrione del chicco di grandine, e lo rendono più grande: immaginiamo nuclei di ghiaccio che si muovono in un mare di piccole goccioline, salendo e scendendo». A volte succede anche che chicchi diversi si uniscano, creando grandine di grosse dimensioni.Legnano poco fa … pic.twitter.com/m6beddy2DG— Roberto Luraghi (@LuraghiRoberto) July 24, 2023A un certo punto le masse di ghiaccio diventano così grandi che la forza di gravità vince la spinta verso l’alto delle correnti ascensionali e quindi inizia a grandinare.È ciò che è successo negli ultimi giorni nel Nord Italia: l’aria vicina al suolo era molto calda per l’ondata di calore causata dall’anticiclone, una zona di alta pressione in cui l’aria tende a spostarsi dall’alto verso il basso. Quando l’anticiclone si è spostato verso sud, l’aria vicina alla superficie ha cominciato a salire, arrivando poi a formare nubi convettive.Fino a qualche decennio fa la grandine poteva essere studiata con molti limiti perché essendo un fenomeno fugace e molto localizzato, cioè che si verifica per poco tempo, di solito mezz’ora al massimo, su aree circoscritte, c’è poco tempo per rilevarla e non è detto che si abbiano gli strumenti adeguati per studiarla: le dimensioni dei chicchi di grandine infatti si misurano a terra coi grelimetri, pannelli orizzontali con una superficie di circa 20 centimetri per 40 che si deforma all’impatto con i chicchi di grandine. In Italia sono sufficientemente diffusi solo in Friuli Venezia Giulia, una regione storicamente molto interessata dalla grandine.Nell’ultima ventina d’anni però le osservazioni dirette coi grelimetri e coi radar meteorologici hanno potuto essere ampliate grazie ai satelliti dotati di strumenti di radiometria a microonde, che permettono di rilevare la presenza di chicchi di grandine all’interno delle nubi, e di farlo per un ampio territorio contemporaneamente. Dato che non misurano i chicchi caduti a terra, restituiscono la probabilità di una grandinata e delle dimensioni dei suoi chicchi, ma grazie a dei modelli matematici possono comunque fornire dati utili agli scienziati per capire quanto spesso grandina in una regione. Permettono inoltre di studiare anche le grandinate che avvengono in mare.Laviola e i suoi colleghi hanno appunto sviluppato un modo per sfruttare i dati dei satelliti a questo scopo e così hanno scoperto che dal 1999 al 2021 la frequenza delle grandinate nel bacino del Mediterraneo è aumentata. Vale sia per le grandinate con chicchi con diametro compreso tra i 2 e i 10 centimetri, che danneggiano sempre le coltivazioni e anche altre cose progressivamente al crescere delle dimensioni, sia per le cosiddette supergrandinate o grandinate estreme, quelle con chicchi dal diametro superiore ai 10 centimetri, che sono distruttive per qualunque cosa.In una delle recenti grandinate in Friuli è stato peraltro battuto il record europeo per chicco di grandine col diametro maggiore: 19 centimetri.Can confirm 19 cm based on the cloth pic.twitter.com/7OGda2s932— Federico Pavan (@PavanFederico00) July 25, 2023Il gruppo di ricerca di cui fa parte Laviola ha anche cercato di capire se il recente aumento delle grandinate possa essere legato al cambiamento climatico. Il problema è che 22 anni di dati non sarebbero sufficienti per dirlo, dato che «tutto quello che accade a una scala inferiore a cinquant’anni non è climatologia». Per questo i ricercatori hanno indagato sui cinquant’anni precedenti utilizzando altri tipi di dati: non sulla grandine, dato che non ce ne sono, ma su altre variabili atmosferiche che però hanno una forte influenza sulla probabilità di grandinate e su cui invece sono disponibili dati storici europei per il bacino del Mediterraneo a partire dal 1949.Una di queste variabili è la temperatura superficiale del Mediterraneo, che influenza la probabilità di grandinate perché più è alta più evaporazione genera: e questa è in aumento da decenni a causa del cambiamento climatico. Le altre sono un indice che dice quanta energia potenziale c’è nell’atmosfera che può generare moti convettivi, la temperatura media alla quota in cui si genera la convezione e l’altezza dello zero termico, cioè la quota in cui l’acqua liquida diventa ghiaccio: tutte queste variabili sono aumentate dal 1949 a oggi, anche per via del cambiamento climatico. E indirettamente hanno permesso di ricostruire che in questi decenni le condizioni favorevoli alle grandinate sono state sempre più frequenti.«Se gli ultimi settant’anni hanno dimostrato un trend in crescita, è abbastanza inverosimile che la tendenza cambi in futuro», conclude Laviola, «ma per il futuro abbiamo degli scenari, non previsioni. Aumenteranno le grandinate? Probabilmente sì, ma non sicuramente sì». LEGGI TUTTO

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    Oggi si dovrà fare attenzione al caldo in 15 città italiane

    Caricamento playerPer la giornata di sabato il ministero della Salute ha previsto il più alto livello di rischio per ondate di calore in 15 diverse città italiane, tra cui Roma e Firenze, e per domenica in 16 città. Il livello di rischio più alto, che corrisponde al 3 ed è colloquialmente chiamato “bollino rosso”, segnala quelle condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi per la salute non solo per le persone più vulnerabili, come anziani, bambini molto piccoli e malati di malattie croniche, ma anche per le persone sane. L’Italia è entrata in una fase di ondata di calore l’8 luglio e secondo le previsioni del Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare oggi si raggiungeranno temperature massime tra i 38 e i 40 °C in Sardegna, Sicilia e Puglia.Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale si parla di ondata di calore quando per almeno sei giorni consecutivi la temperatura massima registrata è superiore al novantesimo percentile delle temperature registrate in quel giorno dell’anno rispetto a un periodo di riferimento (che può essere dal 1981 al 2010 e dal 1991 al 2020, se ci sono i dati disponibili). L’attuale ondata riguarda l’Italia e tutta l’Europa centro-meridionale. Venerdì il sito archeologico dell’Acropoli di Atene, in Grecia, è stato chiuso nelle ore più calde della giornata, dalle 12 alle 17, a causa delle alte temperature, che in questi giorni hanno più volte superato i 40 °C.Le principali raccomandazioni del ministero della Salute da seguire nelle città con il livello di rischio più alto sono: evitare di esporsi al caldo e alla luce diretta del sole tra le 11:00 e le 18:00, che sono le ore più calde della giornata, e in particolare non fare attività fisica all’aria aperta in quegli orari; indossare indumenti di colori chiari e tessuti leggeri, ripararsi la testa con dei cappelli e usare gli occhiali da sole; proteggere la pelle esposta con creme solari; bere molta acqua e ricordarsi di portarsela dietro in caso di lunghi viaggi in macchina; non lasciare persone anziane e bambini non autosufficienti in macchine parcheggiate al sole, anche se per poco tempo.Nel mondo le ondate di calore stanno diventando più frequenti e durature a causa del cambiamento climatico dovuto alle emissioni di gas serra delle attività umane e anche per questo in anni recenti sono stati raggiunti vari record di temperatura più alta. Quello europeo era stato registrato nell’agosto del 2021 a Siracusa, in Sicilia, quando vennero misurati 48,8 °C, e secondo le previsioni nella prossima settimana si potrebbe arrivare a temperature simili. Secondo le osservazioni satellitari dell’Agenzia spaziale europea (ESA) la temperatura del suolo – che deve essere distinta da quella dell’aria, è quella che percepiscono ad esempio i cani sulle zampe quando escono a passeggio – ha già raggiunto i 47 °C il 10 luglio. In aggiunta ai rischi per la salute le ondate di calore aumentano le possibilità che gli incendi boschivi dolosi diventino più ampi e difficili da spegnere.After the hottest June on record, July is not looking so fresh either. 🌡️A major heatwave is predicted to rise temperatures as high as 48°C.This map shows Land surface temperatures reaching 46°C in Rome and Madrid, and 47°C in Seville.#Cerberus🔗 https://t.co/lEwVxkecb2 pic.twitter.com/LAyKdL4LDF— ESA Earth Observation (@ESA_EO) July 13, 2023L’ondata di calore riguarda anche il mar Mediterraneo, che è tra i grandi bacini d’acqua in cui le temperature stanno aumentando di più a causa del riscaldamento globale. Il 13 luglio, sempre secondo le osservazioni satellitari, la temperatura superficiale marina era di almeno 5 °C superiore alla media in gran parte del Mediterraneo occidentale.#ImageOfTheDayAccording to @MercatorOcean, a “moderate” heatwave is ongoing in the western Mediterranean SeaOn 13 July, the Sea Surface Temperature Anomaly along the coasts of Southern Spain & North Africa was ~ +5°C above the reference value for the period⬇️@CMEMS_EU data pic.twitter.com/AVS5OcBc14— 🇪🇺 DG DEFIS #StrongerTogether (@defis_eu) July 14, 2023 LEGGI TUTTO