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    Le Nazioni Unite hanno adottato il primo trattato per proteggere la vita marina in alto mare

    Lunedì i 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno adottato il trattato per proteggere la vita marina in alto mare. Il trattato mira a proteggere la biodiversità nelle acque al di fuori dei confini nazionali (l’”alto mare”), che coprono quasi la metà della superficie terrestre ma sono finora state in larga parte escluse da tutti i trattati esistenti sulla preservazione della biodiversità. Nelle Nazioni Unite si discuteva di questo trattato da vent’anni, ma si è trovato un accordo sul testo soltanto nel marzo di quest’anno.Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Per entrare in vigore il testo dovrà essere ratificato da 60 paesi: lo si potrà fare a parrtire dal 20 settembre, quando i leader mondiali si troveranno per l’incontro annuale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il nuovo accordo contiene 75 articoli: tra le altre cose, verrà creato un nuovo organismo per gestire la conservazione della vita oceanica e istituire aree marine protette in alto mare, con l’obiettivo di trasformare il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto in aree protette entro il 2030. Verranno inoltre stabilite delle regole su come svolgere le valutazioni di impatto ambientale sulle attività commerciali negli oceani.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora (Pixabay) LEGGI TUTTO

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    Una femmina di coccodrillo si è riprodotta da sola

    Una femmina di coccodrillo in uno zoo del Costa Rica si è riprodotta da sola, in un raro caso di partenogenesi in questa specie. Nel gennaio del 2018 l’animale aveva deposto 14 uova, nonostante fosse vissuto in isolamento per 16 anni senza avere contatti con altri simili. Sorpresi dalla circostanza, i responsabili dello zoo avevano selezionato sette uova e le avevano messe all’interno di una incubatrice. Dopo tre mesi le uova non si erano ancora schiuse e si era quindi deciso di analizzarle, scoprendo che all’interno di una c’era il feto di un coccodrillo completamente formato, ma non vitale. Servivano però ulteriori analisi per confermare che la femmina di coccodrillo si fosse riprodotta autonomamente.Come racconta uno studio sulla vicenda pubblicato sulla rivista scientifica Biology Letters, i test del DNA avevano rivelato che la madre e il feto erano sostanzialmente identici dal punto di vista del materiale genetico, fatta eccezione per le estremità dei cromosomi del feto. Possiamo immaginare i cromosomi come matasse a forma di X (fatta eccezione del cromosoma Y) per la trasmissione delle informazioni genetiche.Le differenze riscontrate con le analisi suggerivano che la cellula uovo prodotta dalla madre non si fosse unita con uno spermatozoo, come avviene normalmente nella fecondazione, ma con un “globulo polare”, una delle piccole sacche cellulari che si formano insieme alla cellula uovo vera e propria contenenti cromosomi molto simili a quelli materni. Di solito i globuli polari diventano materiale di scarto e non sono coinvolti direttamente nella riproduzione, ma in alcuni casi si possono fondere con la cellula uovo, completando il materiale genetico in assenza di uno spermatozoo e portando quindi alla partenogenesi.Il fenomeno è abbastanza comune in varie specie di uccelli, pesci, serpenti e lucertole, mentre non era mai stato osservato tra i Crocodylia, l’ordine di rettili che comprende i coccodrilli, gli alligatori e i caimani, per citarne alcuni. La femmina di coccodrillo nel Costa Rica era stata portata al Parque Reptilandia, un parco per i rettili, quando aveva due anni, nel 2002, e da allora non aveva avuto contatti con propri simili. Questa circostanza esclude la possibilità di un concepimento ritardato, dove uno o più spermatozoi riescono a sopravvivere a lungo (sono stati osservati casi di anni) nell’apparato riproduttivo della femmina prima di fecondare una cellula uovo.Non è ancora chiaro come mai alcuni animali riescano a riprodursi per partenogenesi. Un’ipotesi è che questa capacità possa rivelarsi utile nei periodi di prolungata assenza di maschi disponibili per la riproduzione, in modo da garantire comunque il proseguimento della specie. Una teoria simile contempla la possibilità che la partenogenesi avvenga con più probabilità nelle specie a rischio di estinzione. Altri ipotizzano che si tratti semplicemente di un fenomeno del tutto casuale e che non abbia una grande utilità per buona parte delle specie viventi odierne. Se la partenogenesi fosse molto comune, la varietà genetica degli esemplari sarebbe molto più bassa e indebolirebbe le specie.La maggiore disponibilità di sistemi per le analisi genetiche ha comunque reso evidente negli ultimi anni una quantità di partenogenesi superiore alle aspettative, come dimostra anche il caso della femmina di coccodrillo nel Costa Rica. La sua storia potrebbe aggiungere qualche elemento affascinante sui lontani parenti degli odierni coccodrilli come i dinosauri e gli pterosauri, che si sospetta da tempo avessero la capacità di riprodursi da soli in determinate circostanze. I fossili non permettono di recuperare il materiale genetico di quegli animali, quindi forse non sapremo mai se la partenogenesi fosse effettivamente comune tra alcune delle loro specie. LEGGI TUTTO

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    È sbagliato dare a una nuova specie il nome di una persona?

    Caricamento playerNell’aprile del 2022 l’entomologo statunitense Derek Hennen descrisse in un articolo scientifico pubblicato insieme a due suoi colleghi 17 nuove specie di millepiedi del genere Nannaria (detti anche millepiedi dagli artigli ritorti) scoperte nella catena montuosa degli Appalachi, nella parte orientale dell’America del Nord. Nel dare un nome a due nuove specie da lui scoperte Hennen si ispirò al nome di sua moglie Marian per una delle due (Nannaria marianae) e a quello della cantautrice Taylor Swift, di cui è un grande fan, per l’altra specie (Nannaria swiftae).Per quanto stravagante possa sembrare in alcuni casi, la prassi di utilizzare il nome di una persona per decidere la definizione scientifica di un organismo vivente è abbastanza comune. Si stima che circa il 20 per cento di tutti i nomi in uso per le specie animali siano eponimi, cioè nomi dati in onore di una o più persone specifiche. Taylor Swift è soltanto una delle migliaia di persone famose da cui sia stato tratto il nome di una specie, di cui esiste peraltro una raccolta su Wikipedia talmente ampia da essere suddivisa per periodi storici.A marzo, riprendendo una discussione in corso già da tempo, un gruppo internazionale di ricercatori e ricercatrici dell’Università di Porto (UP), in Portogallo, e di altre sei università in diversi paesi del mondo ha pubblicato su una rivista del gruppo Nature un articolo in cui propone di rimuovere gli eponimi dalle modalità di attribuzione dei nomi alle nuove specie. La critica condivide qualche principio con quella che all’interno del movimento “Black Lives Matter” portò nel 2020 all’abbattimento di alcuni monumenti dedicati a personaggi del passato coloniale e razzista dei paesi occidentali. Ma si basa principalmente su considerazioni più ampie e generali.L’idea alla base dell’articolo, intitolato Non c’è più posto per gli eponimi nella nomenclatura biologica del XXI secolo, è che questa prassi sia «ingiustificabile» a prescindere da chi sia la persona a cui la nuova specie viene dedicata, perché riflette un approccio riduttivo e intrinsecamente colonialista. «La biodiversità della Terra fa parte di un patrimonio globale che non dovrebbe essere banalizzato dall’associazione con un singolo individuo umano, qualunque sia il suo valore percepito», affermano gli autori e le autrici dell’articolo, aggiungendo che l’eliminazione di questa prassi comporterebbe diversi benefici sia per la conservazione delle specie che per la società.Altri studiosi, pur condividendo in parte questo punto di vista, sostengono che l’utilizzo degli eponimi possa essere – e di fatto è, in molti casi – un giusto riconoscimento ai ricercatori che più si sono occupati dello studio di una determinata specie e meritano di essere ricordati. Suggeriscono quindi una riforma della tassonomia degli organismi viventi che, anziché eliminare la possibilità degli eponimi, includa piuttosto un processo di valutazione preliminare dell’adeguatezza delle proposte da parte della comunità scientifica. Tale processo potrebbe tuttavia comportare di volta in volta una serie di rallentamenti e complicazioni, obiettano altri studiosi ancora, e in generale richiederebbe una valutazione “politica” che non rientra nei compiti degli scienziati.– Leggi anche: La scienza non è “neutra”Avere nomi scientifici stabili e universalmente accettati è una condizione fondamentale per una condivisione e una comunicazione dei dati chiara e inequivocabile nelle scienze moderne. L’attuale classificazione tassonomica degli organismi deriva da un metodo introdotto nel XVIII secolo dall’influente naturalista e accademico svedese Carlo Linneo, basato sulle somiglianze tra gli esseri viventi. Linneo codificò una nomenclatura binomiale, in base alla quale ciascuna specie è definita dalla combinazione di due nomi: il genere a cui appartiene la specie (Nannaria, per esempio) seguito da un epiteto per distinguere quella specie dalle altre appartenenti allo stesso genere (swiftae da marianae, per esempio).Nel caso di moltissime specie gli epiteti sono eponimi risalenti a quel primo periodo in cui naturalisti e collezionisti classificarono migliaia di nuove specie utilizzando la nomenclatura binomiale. E queste attività rientrarono il più delle volte in più ampi programmi di colonizzazione delle potenze europee nel corso del XVIII, XIX e XX secolo. Il risultato è che nella lista degli eponimi esiste una sproporzione nettissima verso quelli derivati da nomi di comandanti, conquistatori, collezionisti e studiosi che, nel caso dell’avifauna degli Stati Uniti, per esempio, trasformarono il continente in un insieme di omaggi alla conquista e alla colonizzazione, ha scritto recentemente sull’Atlantic il giornalista scientifico Ed Yong, riassumendo la discussione in corso.Negli ultimi anni, all’interno di un processo più ampio di rivalutazione degli effetti del colonialismo e del razzismo sistemico sulle istituzioni pubbliche, anche la scelta degli eponimi di alcune specie è stata oggetto di contestazioni. Nel 2018 gli ornitologi Robert Driver e Alexander Bond proposero all’American Ornithological Society, la principale organizzazione statunitense di ornitologia, di cambiare il nome di una specie di uccello passeriforme, lo zigolo di McCown (Rhynchophanes mccownii), ma la loro proposta fu respinta. Questa specie prende il nome da un naturalista dilettante e ufficiale dell’esercito, John P. McCown, che nel 1851 sparò a uno stormo di allodole e colpì anche un esemplare di passeriforme mai classificato prima di allora.A parte l’idea contestabile di nominare una specie dopo che il primo europeo ne raccolse un esemplare «quando indubbiamente i popoli indigeni conoscevano quella specie da millenni», scrissero Driver e Bond, McCown fu un comandante in capo dell’esercito degli Stati confederati impegnato durante la Guerra civile nella battaglia per la conservazione della schiavitù. Condusse missioni contro diverse tribù indigene lungo il confine canadese, tra il 1840 e il 1841, e contro la popolazione dei Seminole in Florida, tra il 1856 e il 1857.Descrivendo le ragioni del rifiuto della proposta, i membri di un comitato dell’American Ornithological Society obiettarono che «giudicare le figure storiche in base agli attuali standard morali è problematico». E si dissero preoccupati riguardo a quali potrebbero essere i criteri su «dove tracciare la linea per questo tipo di cambiamento», sostenendo che chi si occupa di tassonomia e nomenclatura dovrebbe piuttosto «lottare per la stabilità nei nomi», a meno che non ci siano motivi straordinariamente convincenti per cambiarli.– Leggi anche: L’ornitorinco ci ha sempre mandati in crisiL’orientamento dell’organizzazione cambiò nel 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e i successivi movimenti di protesta, che coinvolsero anche il mondo dell’ornitologia nel dibattito sulle discriminazioni razziali in corso in tutto il paese. Molti naturalisti, osservatori e appassionati sostennero che fosse necessario cambiare gli eponimi problematici (sono eponimi i nomi di circa 150 specie di uccelli del Nord America). Due ornitologi, Jordan Rutter e Gabriel Foley, avviarono a giugno del 2020 la campagna Bird Names for Birds, con l’obiettivo di rinominare tutti gli uccelli americani il cui nome fosse un eponimo.A luglio l’American Ornithological Society riconsiderò la proposta di Driver e Bond a causa «dell’accresciuta consapevolezza sulle questioni razziali», e ad agosto il nome comune dello zigolo di McCown fu cambiato in zigolo dal becco grosso. Gruppi di studiosi motivati da questi stessi sentimenti chiesero e ottennero anche in Europa una modifica dei nomi comuni di altri animali, tra cui una specie di falena (Lymantria dispar dispar) il cui nome comune gypsy moth, “falena zingara”, fu modificato in spongy moth, “falena spugnosa”.Tra le istituzioni scientifiche responsabili dell’approvazione dei nomi delle nuove specie esistono posizioni generalmente meno inclini all’introduzione di cambiamenti. Secondo il ricercatore portoghese Luis Ceríaco, membro della Commissione internazionale di nomenclatura zoologica (International Commission on Zoological Nomenclature, ICZN), un gruppo di 26 scienziati che fornisce le linee guida per la denominazione degli organismi viventi, l’obiettivo della nomenclatura deve essere garantire l’uniformità in diversi campi di ricerca. Le regole, ha detto Ceríaco alla rivista Undark, dovrebbero «consentire alle persone di sapere davvero di cosa stanno parlando quando si riferiscono alle specie».Per questo motivo la tendenza dell’ICZN, così come quella della International Association for Plant Taxonomy, l’organizzazione internazionale che si occupa di tassonomia e nomenclatura nella botanica, è di dare priorità ai nomi che esistono da più tempo e modificarli soltanto per motivi scientifici. I nomi possono cambiare perché una specie viene riclassificata o suddivisa in diverse nuove specie, per esempio, o quando gli scienziati scoprono un nome alternativo che era stato assegnato in precedenza e poi dimenticato. Le proposte di modificare i nomi delle specie per ragioni sociali o politiche sono invece controverse: criticate da alcuni e sostenute da altri.Ceríaco è uno dei commissari dell’ICZN autori di un articolo pubblicato a febbraio scorso sulla rivista Zoological Journal of the Linnean Society e contrario alla ridenominazione delle specie per motivi etici da parte dell’ICZN. Decidere quali eponimi debbano essere modificati perché percepiti come offensivi, secondo Ceríaco e gli altri, non è un compito della commissione. «A causa della natura intrinsecamente soggettiva di queste valutazioni, sarebbe inopportuno per la commissione esprimere giudizi su tali questioni di moralità, perché non esistono parametri specifici per determinare le soglie di offensività di un nome scientifico per una determinata comunità o individuo, nel presente o nel futuro».– Leggi anche: Se volete chiamare col vostro nome una nuova specie, vi basta vincere un’astaUn esempio citato spesso tra i più problematici è quello di una rara specie di coleottero cieco, l’Anophthalmus hitleri, presente soltanto in alcune grotte in Slovenia. A scegliere il nome di questo coleottero fu un naturalista austriaco, Oskar Scheibel, che lo scoprì nel 1933 e decise di dedicarlo al neocancelliere tedesco Adolf Hitler, che apprezzò la scelta e scrisse a Scheibel per ringraziarlo. A causa di questo particolare eponimo, al di là delle considerazioni di tipo etico, gli esemplari di questo coleottero sono diventati nel corso del tempo un obiettivo di molti collezionisti di cimeli nazisti, e questa specie è attualmente considerata a rischio di estinzione.Nemmeno il caso dell’Anophthalmus hitleri è stato ritenuto dall’ICZN un esempio di ragioni appropriate per cambiare il nome di una specie, nonostante le numerose richieste. «Siamo assolutamente fermi nel non regolamentare sulla base dell’etica, non è il nostro mandato», ha spiegato all’Atlantic il presidente della commissione Thomas Pape.In un numero del 2010 della rivista American Entomologist l’importante entomologa statunitense May Berenbaum scrisse che la logica nel preservare “hitleri” è che il nome di per sé non è offensivo. «Francamente, però, un nome scientifico che condanni una specie all’estinzione per mano di fanatici collezionisti di cimeli fascisti provoca un’offesa considerevole, almeno per me», aggiunse Berenbaum, suggerendo che il coleottero «meriterebbe di essere liberato dalla sua sfortunata storia etimologica».Un esempio problematico citato in botanica riguarda l’estesa e da alcuni criticata diffusione della radice linguistica “rhodes-” nella nomenclatura delle piante, in onore dell’imprenditore e politico inglese Cecil John Rhodes, a cui fu intitolata l’intera colonia britannica della Rhodesia (che occupava il territorio dello stato oggi chiamato Zimbabwe). Arrivato in Sudafrica alla fine del XIX secolo, Rhodes ebbe un ruolo rilevantissimo nell’evoluzione storica dell’Africa coloniale e nell’ispirazione delle politiche segregazioniste. Nel 2015, a fronte delle proteste di centinaia di studenti, la statua di Rhodes posta davanti all’università sudafricana di Città del Capo venne rimossa su richiesta del consiglio dell’università.Le richieste di modificare la nomenclatura hanno tuttavia portato alcuni tassonomisti a sostenere che l’introduzione di valutazioni politiche nella tassonomia aprirebbe una serie di questioni spinose. In un articolo pubblicato nel 2022 il botanico ucraino Sergei Mosyakin si è chiesto quali dovrebbero essere le linee di demarcazione utili per gli scienziati per distinguere gli epiteti buoni da quelli cattivi. «Dovremmo sbarazzarci dei nomi scientifici delle piante associate alla regina Vittoria, che governò il più grande impero coloniale del XIX secolo?», si è chiesto Mosyakin. In questo caso servirebbe trovare nuovi nomi, «politicamente neutri», sia a tutto un genere di piante acquatiche dedicato alla regina Vittoria, il genere Victoria, che a numerose specie tra cui l’Agave victoriae-reginae e il Dendrobium victoriae-reginae. E un discorso simile vale anche per George Washington e Thomas Jefferson.Esiste un codice etico fornito dall’ICZN in base al quale nessuno scienziato dovrebbe consapevolmente scegliere un nome offensivo per una nuova specie, ha detto Ceríaco a Undark. Ma la commissione è comunque molto attenta a lasciare alle persone una certa libertà nella scelta dei nomi, ragione per cui anche quelli che potrebbe infrangere il codice etico tendenzialmente non vengono modificati.«Raccomandiamo vivamente alle persone di essere sicure che ciò che sceglieranno non offenderà nessuno», ha detto Ceríaco, sostenendo che scegliere in alternativa di giudicare quali nomi siano accettabili e quali no scoperchierebbe «un vaso di Pandora». Sottoporre la scelta dei nomi a una valutazione collettiva di questo tipo, secondo Ceríaco, influenzerebbe significativamente il lavoro dei ricercatori in tutto il mondo, che dipende da un quadro tassonomico stabile. E cambiare i nomi finirebbe probabilmente per provocare più complicazioni che mantenerli.– Leggi anche: I “pesci” non esistonoConsapevoli del fatto che cambiare tutti gli eponimi problematici già in uso da secoli sarebbe impraticabile, gli autori e le autrici dell’articolo pubblicato a marzo su Nature Ecology and Evolution sostengono che l’ICZN potrebbe rafforzare le regole del codice per limitare al massimo l’utilizzo degli eponimi in futuro. E potrebbe incaricare i tassonomisti delle regioni native delle varie specie di rinominare le proposte che giungono alla commissione.Il problema della prassi degli eponimi, secondo il gruppo, è che è indissolubilmente legata alla storia coloniale della scienza: ragione per cui molte specie finirono per prendere il nome da europei bianchi, maschi e di classe elevata. In Africa 1.565 specie di uccelli, rettili, anfibi e mammiferi (ossia un quarto dei vertebrati endemici) sono eponimi, osservano gli autori e le autrici dello studio, e «i ricercatori delle ex colonie potrebbero sentirsi giustamente a disagio, risentiti o addirittura arrabbiati per i continui richiami ai regimi imperiali e/o politici che si riflettono nei nomi delle specie autoctone ed endemiche».Finché gli organismi prenderanno il nome da persone, secondo la ricercatrice portoghese Patrícia Guedes, coautrice dell’articolo, queste discussioni continueranno. «Sono sicura che esistono altri modi di onorare le persone che hanno contribuito alla scienza, diversi dall’attribuire il loro nome a un altro essere vivente», ha detto Guedes.Secondo altri studiosi, la prassi di attribuire degli eponimi alle nuove specie può però avere anche risvolti positivi. Scegliere personaggi famosi può coinvolgere la comunità e attirare l’attenzione verso scoperte e ricerche che potrebbero passare altrimenti inosservate, come per esempio quella di una specie di vipera che prende il nome da James Hetfield dei Metallica (Atheris hetfieldi) o quella di un serpente non velenoso che prende il nome da Leonardo DiCaprio (Sibon irmelindicaprioae).Inoltre, come del resto sostenuto anche dagli autori e dalle autrici dell’articolo uscito a marzo, gli eponimi danno ai ricercatori la possibilità di scegliere come nome da dare a una nuova specie quello di scienziati dei paesi in cui quelle specie vengono scoperte, come per esempio un geco endemico in Angola (Pachydactylus maiatoi) che prende il nome dal biologo angolano Francisco Maiato Gonçalves. LEGGI TUTTO

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    Perché ci sono orche che attaccano le barche vicino alle coste iberiche?

    Caricamento playerLa notte del 4 maggio, al largo di Gibilterra, la barca a vela “Champagne” che era in viaggio tra le isole Canarie e le Baleari è stata attaccata da tre orche che hanno colpito il timone. L’equipaggio, soccorso dalla Guardia costiera spagnola, è riuscito a mettersi in salvo abbandonando l’imbarcazione, che a causa dei danni provocati alla fine è affondata.È stato un evento straordinario, ma non così raro nella parte di oceano Atlantico più vicina alle coste di Spagna e Portogallo. Dal maggio del 2020 è successo più di 500 volte che vicino allo Stretto di Gibilterra o al largo della Galizia, nel nord della Spagna, le orche si mettessero a colpire delle imbarcazioni, nella maggior parte dei casi barche a vela monoscafo (in altre due occasioni ne avevano affondata una). È un comportamento che non è ancora stato del tutto spiegato, ma gli scienziati hanno fatto un’ipotesi: una singola orca ferita avrebbe cominciato ad attaccare le barche per difendersi e le altre avrebbero cominciato a colpire le barche a loro volta imparando da lei.Ci sono orche (Orcinus orca) in tutti gli oceani del mondo, ma i comportamenti delle diverse popolazioni possono variare parecchio da zona a zona, tanto che i biologi hanno ipotizzato che in realtà ne esistano diverse sottospecie o specie, e non solo una come dice l’attuale classificazione scientifica dei mammiferi marini. Alcuni gruppi di orche vivono per tutto l’anno nelle stesse acque e per questo sono dette “residenti”. Altri si spostano molto, sempre restando lungo le coste: per questo sono dette “transienti”. Ci sono poi orche che vivono in mare aperto e per questo vengono chiamate “offshore”.Da un tipo di gruppo all’altro variano anche le abitudini alimentari (ci sono orche che mangiano solo salmoni, altre non interessate al pesce ma solo alle foche), i suoni con cui comunicano e altri comportamenti.Al largo delle coste iberiche vivono sei comunità di orche, alcune molto numerose altre ristrette, che in parte interagiscono tra loro e i cui territori possono essere più o meno ampi (alcune si trovano solo nello Stretto di Gibilterra, altre da lì al Golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia) e più o meno sovrapposti. In totale le orche che abitano questa parte di oceano sono una cinquantina. Quelle che attaccano le barche però sono solo 15, secondo le stime del Grupo de Trabajo Orca Atlántica, il gruppo di scienziati spagnoli e portoghesi che le studiano.Il gruppo sta cercando di capire esattamente perché le orche attacchino le barche e come evitare che questo comportamento metta in pericolo delle persone. Ma lavora anche per impedire che le interazioni dannose con le barche portino le persone a odiare le orche, comprese quelle che non mostrano interesse per le barche. «Pensiamo che in una data zona le orche interagiscano solo con una barca su cento», ha detto al sito di notizie scientifiche Live Science Alfredo López Fernandez, biologo dell’Università di Aveiro, in Portogallo, e membro del gruppo di ricerca, per dare una dimensione del fenomeno. Inoltre nella maggior parte dei casi le orche sembrano perdere interesse per le barche una volta che queste si sono fermate.Il Grupo de Trabajo Orca Atlántica gestisce un sito in cui sono registrati tutti gli episodi di interazioni tra orche e barche e che dà alcune raccomandazioni a chi naviga per evitare problemi.Dato che è solo dal 2020 che le orche iberiche hanno cominciato ad attaccare le barche e che inizialmente erano solo tre animali a colpirle, gli scienziati hanno ipotizzato che il comportamento sia cominciato dopo un evento traumatico accaduto a un’orca specifica. Le altre avrebbero gradualmente imparato da lei a colpire le barche. Le orche infatti sono animali sociali che oltre ai comportamenti innati ne possono imparare di nuovi dai propri simili: per questo nelle diverse popolazioni e comunità di orche si trovano vocalizzi (i suoni che producono) e comportamenti diversi, che possono essere trasmessi di generazione in generazione come una forma di cultura animale.L’orca da cui sarebbe iniziato tutto è stata chiamata Gladis Negra dal gruppo di ricerca e ha una grossa ferita sul dorso, dietro la pinna dorsale. Il trauma che ha subito sarebbe all’origine del comportamento aggressivo verso le barche, secondo l’ipotesi degli scienziati.La ferita dietro la pinna dorsale dell’orca Gladis Negra, che peraltro permette di identificarla facilmente (Grupo de Trabajo Orca Atlántica)López Fernandez ha spiegato che lui e i suoi colleghi non pensano che le orche che attaccano le barche «insegnino» a farlo alle altre: «Il comportamento si è diffuso dalle più anziane alle più giovani semplicemente per imitazione, e poi in modo orizzontale, tra giovani, perché per loro è qualcosa di importante». Per qualche ragione insomma per le orche le interazioni con le barche devono essere “vantaggiose”, nonostante i rischi che corrono ad avvicinarsi.È anche possibile che nonostante dal punto di vista umano le interazioni siano definibili come “attacchi”, cioè come un comportamento aggressivo, per la maggior parte delle orche che li compiono siano una forma di gioco.A prescindere da cosa l’ha causato però questo modo di fare delle orche è rischioso sia per chi naviga che per le orche stesse, che sono a rischio d’estinzione in questa parte dell’Atlantico. LEGGI TUTTO

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    La linea immaginaria che separa gli animali dell’Asia da quelli dell’Oceania

    Caricamento playerLe più note linee immaginarie che nei secoli l’umanità ha disegnato sulla Terra, o meglio sulle sue rappresentazioni come planisferi e mappamondi, non separano regioni geografiche diverse. Se si attraversano i meridiani, le cui posizioni sono arbitrarie, ma anche l’Equatore, che invece si trova dov’è per definizione (sul parallelo corrispondente alla circonferenza massima del nostro pianeta), non cambiano le caratteristiche naturali circostanti. La stessa cosa vale per la maggior parte dei confini terrestri degli stati.C’è però una linea immaginaria, meno conosciuta, che invece corrisponde a una rilevante differenza tra i territori che separa, e che anzi si può dire sia stata “scoperta” proprio per questa differenza: si chiama linea di Wallace e si trova nel sud-est dell’Asia, dove divide in due l’Indonesia. A ovest della linea vivono le specie animali tipiche dell’Asia, come ad esempio gli elefanti, le tigri e i rinoceronti, ma anche scimmie come gli oranghi, a est invece ci sono le specie dell’Oceania, come i marsupiali, gli ordini di mammiferi a cui appartengono i canguri.La linea di Wallace deve il suo nome ad Alfred Russel Wallace, un naturalista britannico di cui quest’anno ricorre il secondo centenario della nascita che capì il meccanismo della selezione naturale nello stesso periodo in cui ci arrivò Charles Darwin, ma oggi è molto meno conosciuto.Negli anni Cinquanta dell’Ottocento Wallace viaggiò tra le isole che oggi fanno parte dell’Indonesia o dei paesi vicini per studiarne la biologia. In una lettera del 1856, indirizzata all’agente con cui collaborava per fare arrivare animali impagliati di vario genere agli studiosi del Regno Unito, raccontò di essersi accorto di una interessante differenza tra le isole di Bali e Lombok, che sono molto vicine tra loro: «Zoologicamente parlando appartengono a due province distinte, di cui rappresentano i limiti estremi». A Bali infatti ci sono animali simili a quelli del Borneo e di Sumatra, mentre le specie presenti a Lombok somigliano di più a quelle delle isole più orientali e dell’Australia.In particolare, Wallace si accorse che specie di uccelli molto comuni sull’isola di Giava erano molto presenti a Bali, ma mancavano da Lombok.Le differenze nella fauna delle due isole erano particolarmente sorprendenti e difficili da spiegare considerando che lo stretto di Lombok, il tratto di mare che le separa, non è tanto ampio: nei punti più vicini Bali e Lombok distano circa 35 chilometri in linea d’aria. Entrambe sono molto più lontane da isole che invece hanno una fauna simile. E nonostante la prossimità geografica le differenze tra gli animali balinesi e quelli lombokiani sono molto maggiori di quelle tra animali che vivono in terre lontanissime, come l’Europa e il Giappone.Wallace ipotizzò che in passato il livello del mare fosse più basso e che le isole fossero collegate ad altre terre, da cui erano state raggiunte dagli antenati degli animali suoi contemporanei; pensò anche che forse i fondali marini dello stretto di Lombok fossero così profondi da non essere mai stati privi di acqua e che per questo le faune di Bali e Lombok fossero rimaste isolate.A quei tempi ancora non si sapeva che i continenti che conosciamo non sono sempre stati dove sono oggi. Il geologo tedesco Alfred Wegener avrebbe cominciato a parlare della deriva dei continenti solo nel 1912 e solo negli anni Sessanta, grazie ai progressi della geologia marina e allo sviluppo della teoria della tettonica a placche, la comunità scientifica internazionale si sarebbe convinta del fatto che fino a 200 milioni di anni fa tutte le terre emerse fossero unite in un unico supercontinente.Nel Novecento lo studio della crosta terrestre ha dimostrato che Bali e Lombok appartengono a due diverse piattaforme continentali, la piattaforma di Sunda a ovest e quella di Sahul a est. Wallace non poteva sapere che più di 20 milioni di anni fa le due isole erano molto più distanti di oggi, ma ipotizzò comunque che la geologia avesse un impatto sulla loro ecologia, cioè sulla distribuzione delle specie e dei rapporti in cui convivono, e di fatto trovò un importante indizio sulla storia geologica dell’Oceania e sull’origine dei suoi animali, che si sono evoluti indipendentemente da quelli asiatici.Sebbene Bali e Lombok oggi siano molto vicine in linea d’aria, e in generale non ci siano grandissime distanze a separare molte delle isole indonesiane, la differenze faunistiche dovute al passato geologico si sono conservate. Per gli animali terrestri è impossibile attraversare a nuoto i tratti di mare profondi e agitati da correnti oceaniche che le separano, e i venti impetuosi sopra l’oceano impediscono l’attraversamento della linea di Wallace anche a insetti volanti e uccelli.Non fu Wallace a dare il proprio nome a questo confine, ma un altro naturalista britannico, Thomas Henry Huxley, che fu un importante sostenitore delle teorie di Darwin ed è noto anche in quanto nonno dello scrittore Aldous Huxley. Studiando gli animali delle Filippine, Huxley propose di spostare un po’ la linea immaginaria che di fatto Wallace aveva tracciato nei suoi studi, arrivando a includere l’arcipelago nella regione più orientale, e nel 1868 parlò per la prima volta di “linea di Wallace”.Per i suoi studi oggi Wallace è considerato il fondatore della biogeografia, la branca della biologia dedicata alle relazioni tra la distribuzione geografica delle specie e degli ecosistemi e alla loro storia.– Leggi anche: Il ghiacciaio che sposta i confini tra Italia e Svizzera LEGGI TUTTO

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    Cosa succederebbe ai cani se sparissero gli umani?

    Caricamento playerImmaginare cosa succederebbe al mondo se la specie umana scomparisse da un momento all’altro, del tutto o in grande parte, è un esperimento mentale che hanno fatto moltissimi scrittori e sceneggiatori e probabilmente anche tante altre persone: le fantasie sull’apocalisse esistono da millenni e sono sia una fonte di intrattenimento sia un modo per riflettere sull’esistenza. C’è però anche chi si è figurato possibili scenari di estinzione umana per fare ragionamenti scientifici: ad esempio su cosa succederebbe ai cani.I cani sono stati i primi animali a essere domesticati e quindi in una certa misura a essere “creati” dagli esseri umani: nel corso dei millenni, favorendo gli accoppiamenti tra animali con certe caratteristiche di comportamento e di aspetto fisico piuttosto che altre, gli umani hanno condotto progressive selezioni artificiali che hanno portato dal lupo (Canis lupus) al cane (Canis lupus familiaris), che ne è una sottospecie, e poi alle diverse e numerose razze che distinguiamo. Come per tutte le specie domestiche, la vita dei cani dipende da quella degli umani, sia nel caso dei cani che hanno qualcuno che li nutre regolarmente, sia nel caso dei randagi, che sopravvivono in gran parte grazie ai rifiuti prodotti dalle persone.Per questo la prima difficoltà che i cani dovrebbero affrontare in caso di sparizione di tutte le persone sarebbe la ricerca di fonti di cibo, ragionano la bioeticista Jessica Pierce e l’ecologo Marc Bekoff in I cani senza di noi, pubblicato in italiano da Haqihana, una casa editrice specializzata in saggi divulgativi sul comportamento canino.Secondo i due studiosi, autori di vari libri sui cani e sul nostro rapporto con loro, è «quasi certo» che i cani sopravviverebbero a una scomparsa improvvisa degli umani «ammesso che non avvenisse su un pianeta diventato completamente invivibile per la crisi climatica». Questa conclusione deriva dal fatto che i cani che attualmente vivono in libertà in diverse zone del mondo riescono a sopravvivere abbastanza bene (secondo una stima citata da Pierce e Bekoff i cani randagi sarebbero 800 milioni nel mondo, quelli con una famiglia 200 milioni) e dalla flessibilità alimentare dei cani, che si adattano a mangiare anche cose diverse dalla carne: potrebbero sostentarsi con piante, frutti e insetti, oltre che con piccoli mammiferi e uccelli.Nell’immediato è verosimile che molti cani morirebbero – alcuni, più piccoli e deboli, anche uccisi e mangiati da altri cani – ma è probabile che nel complesso riuscirebbero ad adattarsi a nuovi stili di vita, facendo affidamento sugli istinti che hanno in comune con i lupi e gli sciacalli. Ovviamente le cose andrebbero in modo diverso in diverse parti del mondo a seconda delle specifiche caratteristiche climatiche, delle risorse naturali di cibo e della competizione con altre specie di predatori: in alcune regioni i cani prospererebbero, in altre potrebbero scomparire a loro volta. In generale però la specie continuerebbe a scorrazzare per il pianeta.– Leggi anche: I cani di ChernobylPierce e Bekoff hanno poi provato a immaginare cosa ne sarebbe dei cani nel più lungo periodo successivo alla scomparsa degli umani, e più in particolare a come i cani sarebbero cambiati dalla selezione naturale, tolta di mezzo quella artificiale. Per i due studiosi tentare di rispondere a questa domanda, anche senza poter mai verificare la bontà delle proprie ipotesi, è utile per capire meglio che animali sono i cani e i rapporti che abbiamo con loro.Il punto di partenza del loro ragionamento è che i cani non tornerebbero a essere lupi.Sappiamo che quando un gruppo di animali domestici si trova a vivere in libertà e perde ogni contatto con gli umani avviene un processo di feralizzazione, cioè di adattamento a uno stato selvatico. Le caratteristiche proprie delle specie domesticate – una maggiore mansuetudine, in aggiunta a tanti aspetti fisici – non scompaiono, quindi non si può parlare di una “de-domesticazione”, ma di un avvicinamento dei singoli animali ai comportamenti delle specie selvatiche sì. Nel caso in cui il gruppo di animali feralizzati continui a vivere in libertà per diverse generazioni, e in cui quindi la selezione naturale inizi ad agire, gli scienziati parlano di inselvatichimento secondario.Non sappiamo quante generazioni di cani dovrebbero susseguirsi per arrivare ai «cani post-umani», ma secondo Pierce e Bekoff è probabile che sarebbero molto diversi dai cani di oggi e diversi tra loro in base al contesto geografico. I cani più piccoli potrebbero specializzarsi nella caccia di insetti, piccoli rettili e anfibi, mentre quelli più grandi dovrebbero trovare altre strategie di adattamento e nel tempo diverse popolazioni di cani potrebbero evolvere in specie canine diverse.Ma si può anche ipotizzare che il rimescolamento dei geni canini portato dalla nuova libertà di accoppiamento porti a cani post-umani tutti di “taglia media”, cioè con un peso intorno ai 15 chili – ci sono cani che pesano poco più di un chilo e altri che superano i 100.Le altre caratteristiche fisiche sarebbero a loro volta influenzate dall’ambiente: ad esempio, ipotizzano Pierce e Bekoff, nei climi più freddi potrebbero essere favorite e dunque prevalere le orecchie più piccole, che disperdono meno il calore; nei climi miti invece è possibile che le orecchie di dimensioni maggiori, più adatte a captare i rumori, si rivelerebbero più utili nella caccia.Di certo scomparirebbero quei tratti fisici dei cani che gli umani hanno selezionato per ragioni estetiche ma che sono legati a problemi di salute, come i musi schiacciati dei carlini che causano problemi respiratori e l’eccesso di pieghe della pelle degli shar pei. Sparirebbero anche le orecchie pendule dei cocker e le code arricciate dei chow chow, perché sia le code che le orecchie sono usate dai cani per comunicare tra loro, e sarebbero favorite quelle che permettono di farlo meglio. Potrebbero scomparire anche le pellicce a macchie e di colori diversi, che non hanno alcuna funzione biologica.– Leggi anche: Il governo olandese vuole vietare il possesso di cani e gatti di certe razzeNel campo della riproduzione ci sarebbero sicuramente dei cambiamenti, ed è possibile che le femmine andrebbero in calore solo una volta all’anno invece che due (una più frequente disponibilità all’accoppiamento rispetto alle specie selvatiche è una delle caratteristiche comuni a tutte le specie domesticate). Un’altra possibilità è che, come succede nei branchi di lupi, la collaborazione dei padri, zii e altri membri di un gruppo di cani diventerebbe un elemento importante per la crescita dei cuccioli. Ma può anche darsi che i cani – o certe specie evolute dai cani – svilupperebbero stili di vita solitari.È più difficile immaginare cosa succederebbe ai tratti comportamentali dei cani selezionati dalla domesticazione: l’ipersocialità sviluppata stando con gli umani verrebbe sfruttata con altri scopi dai cani post-umani o si perderebbe come tratto caratteriale di specie?Pierce e Bekoff hanno finito il loro ragionamento cercando di stabilire se in prospettiva per i cani un mondo senza umani sarebbe un mondo migliore: sono giunti alla conclusione che i vantaggi (come la scomparsa di patologie dovute agli incroci tra cani della stessa razza, un maggior spazio in cui muoversi e maggiori possibilità di socialità) supererebbero gli svantaggi (come la maggiore esposizione alle malattie, l’assenza di cure e di cibo disponibile in abbondanza).Per i due studiosi portare avanti l’esperimento mentale, riflettere su questi vantaggi e svantaggi ma anche dedicare maggiori studi ai cani randagi e feralizzati potrebbe aiutarci a comportarci meglio nei confronti dei cani: capendo meglio la loro natura, saremmo più in grado di garantirgli buone condizioni di vita. Ad esempio, evitando che nascano animali sofferenti a causa di certe caratteristiche fisiche comuni a certe razze create dagli umani, ma anche facendo passeggiare e correre i cani in spazi sufficientemente grandi, e facendo interagire i cani tra loro nel modo migliore per dargli una buona qualità della vita.– Leggi anche: Il più noto libro di “biologia speculativa” LEGGI TUTTO

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    I polpi assaggiano con i tentacoli

    Caricamento playerI polpi e i calamari hanno un modo particolare di assaggiare le loro potenziali prede e scoprire se corrispondono ai loro gusti prima di mettersele in bocca. Le immobilizzano con i tentacoli e usano poi le loro ventose per sentirne il sapore e decidere se valga la pena mangiarle. È una caratteristica nota da tempo tra chi studia questi animali, ma due nuove ricerche da poco pubblicate sulla rivista scientifica Nature offrono nuovi dettagli e informazioni su come un tentacolo si comporti più o meno come la nostra lingua, facilitando le attività di caccia e scoperta del cibo di numerose specie di polpi e calamari.I cefalopodi sono molluschi particolari: alcuni sono semplici da studiare perché facilmente osservabili in mare, mentre altri sono più sfuggenti e schivi come i calamari giganti. In particolare i polpi suscitano grande interesse perché hanno una sorta di cervello diffuso in tutto il loro organismo: la quantità di neuroni nei loro tentacoli, per esempio, è superiore a quella del loro cervello vero e proprio. Questa caratteristica fa sì che ogni tentacolo sia indipendente dagli altri e dal cervello stesso, con grandi capacità di autonomia e di controllo sulle proprie strutture.Le più evidenti in molte specie sono le ventose, utilizzate sia per manipolare prede e oggetti, sia appunto per assaggiare ciò che viene in contatto con la loro superficie. Nel corso dell’evoluzione, i polpi e i calamari hanno affinato questa capacità, con specie che sono in grado di distinguere facilmente il sapore dell’acqua in un certo tratto di mare da quello delle prede vere e proprie. Non è una capacità da poco e supera quella olfattiva di altri animali che vivono fuori dall’acqua e che talvolta si fanno ingannare da un profumo molto forte nell’aria, che maschera il sapore di qualcosa.Come spiega nella sua ricerca da poco pubblicata, il biologo Nicholas Bellono dell’Università di Harvard (Stati Uniti) stava studiando con il proprio gruppo di ricerca il polpo a due punti della California (Octopus bimaculoides) quando ha notato la presenza di particolari strutture sospettando che si trattasse di recettori sulla superficie delle cellule che costituiscono i tentacoli. I recettori sono strutture proteiche che rispondono alla presenza di una certa sostanza, portando poi a una risposta della cellula cui sono legati e a un effetto biologico di qualche tipo (i recettori olfattivi, per esempio, sono le proteine che innescano i meccanismi che ci consentono di percepire gli odori).Bellono si era quindi messo in contatto con un neurobiologo, Ryan Hibbs, dell’Università della California San Diego (Stati Uniti) e che in passato aveva condotto studi su alcune strutture proteiche simili. Una analisi del genoma, cioè di tutto il materiale genetico contenuto nelle cellule di quella specie di polpi, aveva portato all’identificazione di 26 geni coinvolti nella produzione di quei recettori, che possono essere moltissimi e diversi tra loro a seconda della combinazione dei 26 geni di partenza contenenti le istruzioni per produrli. Ogni combinazione porta a una diversa capacità per i polpi di assaggiare con i tentacoli ciò che stanno manipolando.Lo studio spiega che i recettori sono tarati in modo da reagire soprattutto alle sostanze grasse e oleose, che non si sciolgono nell’acqua, rendendo quindi più semplici gli assaggi escludendo il sapore dell’acqua marina. Questa caratteristica sembra essere inoltre ideale per assaggiare la pelle dei pesci, di solito grassa, ma anche per distinguere altri animali e sostanze sul fondale dove i polpi passano la maggior parte della loro esistenza.Un’ipotesi affascinante del gruppo di ricerca è che i tentacoli dei polpi siano autonomi nelle loro degustazioni: assaggiano e scoprono che cosa c’è intorno alle loro ventose senza necessità di inviare un segnale al cervello. In pratica i dati raccolti vengono tradotti istantaneamente in informazione, dando al polpo uno strumento più veloce e flessibile per capire che cosa gli accade intorno e cosa sta tenendo tra i tentacoli.Bellono e Hibbs hanno poi provato a ricostruire l’evoluzione di queste caratteristiche nella grande classe dei cefalopodi. Hanno messo a confronto i recettori nei tentacoli dei polpi con quelli del calamaro dal pigiama a righe (Sepioloidea lineolata), notando come quelli di quest’ultimo siano soprattutto specializzati nel riconoscere sapori che per i nostri gusti sono piuttosto amari. Questa specie di calamari potrebbe quindi decidere se nutrirsi o meno di ciò che ha tra i tentacoli in base a questo sapore, forse con un meccanismo meno elaborato rispetto a quello osservato in alcuni polpi.L’ipotesi è che i recettori sui tentacoli abbiano seguito percorsi evolutivi differenti quando i lontani parenti dei polpi e dei calamari iniziarono a differenziarsi circa 300 milioni di anni fa, dando origine alle sottoclassi che possiamo osservare oggi. E proprio nel corso dell’evoluzione le cose sono cambiate, secondo il gruppo di ricerca riflettendo le diverse attività di caccia tra calamari e polpi.In generale, i calamari passano la loro esistenza nuotando a una certa distanza dal fondale e quando sono in prossimità di una preda estendono repentinamente i loro tentacoli per immobilizzarla. Ciò significa che scoprono che sapore ha ciò che hanno cacciato già nel momento in cui c’è quel rapido contatto. I polpi vivono per lo più sul fondale e sondano costantemente l’ambiente che hanno intorno con i tentacoli, quindi recettori più differenziati e raffinati possono essere utili per distinguere ciò che sfiorano con i loro arti. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 8 aprile 2023

    Nelle foto di animali raccolte in giro per il mondo nell’ultima settimana ci sono i bellissimi colori di una lucertola spinosa del Guatemala, una piccola tartaruga con la testa così grande da non poterla ritrarre nella corazza, uno scoiattolo teso verso una mano umana e un macaco che si lecca le dita. Insieme a un po’ di foto da una nuova sezione dello zoo Taronga di Sydney dedicata alle specie australiane, come i dingo, gli emu, i koala e i wallaby..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO