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    I maglioni non durano più come una volta

    In un episodio della serie televisiva statunitense Seinfeld, il protagonista Jerry è a colazione con gli amici Elaine e George e indossa un vaporoso quanto improbabile maglione di lana, tanto da spingere George a chiedere all’amico dove l’abbia trovato. Jerry spiega che si tratta di uno di quei ritrovamenti che si fanno qualche volta al fondo dell’armadio e George gli risponde: «Penso proprio che i fondi degli armadi siano fatti per lasciarceli». Il maglione non sembra essere in effetti di grande qualità, niente di comparabile con altre maglie di lana diventate famose come il cardigan indossato da Drugo nel Grande Lebowski o il soffice maglione indossato da Harry in una delle scene di Harry ti presento Sally.In un modo o nell’altro, sembrano tutti la testimonianza di un tempo in cui i maglioni di lana erano fatti meglio e per durare più a lungo degli attuali. Non è questione di passatismo, ma di come si è evoluto il settore dell’abbigliamento negli ultimi decenni, con grandi implicazioni non solo per la possibilità di ripararsi dal freddo, ma anche per l’ambiente.Il dibattito intorno ai vestiti che durano molto meno rispetto a un tempo non è certo nuovo, ma di recente è tornato di attualità soprattutto negli Stati Uniti in seguito alla pubblicazione di un post su X (già Twitter) e di un conseguente articolo dell’Atlantic che ha approfondito la questione. L’autrice comica Ellory Smith ha ripreso due fotografie che mettevano a confronto l’iconico maglione di lana bianco indossato da Billy Crystal (che nel film del 1989 interpretava Harry) con uno simile indossato dall’attore Ben Schwartz, sostanzialmente nella stessa posa con jeans e sneaker bianche.Al di là del modo in cui sono fatti – quello di Crystal è più abbondante, mentre quello di Schwarz è più stretto – appare evidente una certa differenza nello spessore e di conseguenza nella qualità della lana. Partendo da quel confronto, Smith il 20 settembre scorso aveva scritto che: «La qualità dei maglioni è peggiorata così tanto negli ultimi venti anni da rendere decisamente necessaria una conversazione sul tema». Da allora, il post su X è stato visto più di 13 milioni di volte, con quasi 300mila “Mi piace” e oltre 27mila condivisioni, senza considerare le centinaia di risposte e commenti, segno di una certa attenzione per un problema che prima o poi notano tutti.The quality of sweaters has declined so greatly in the last twenty years that I think it genuinely necessitates a national conversation https://t.co/sbjNYp4KSy— ellory smith (@ellorysmith) September 20, 2023Il confronto è proseguito con la pubblicazione dell’articolo sull’Atlantic, nel quale si segnala che al netto di alcune differenze intenzionali tra i due maglioni, legate soprattutto a scelte di stile e di design, è comunque palese come quello indossato da Smith appaia di minore qualità e più economico nonostante sia un maglione di un certo rilievo per gli standard attuali. Secondo la rivista è infatti prodotto da Polo Ralph Lauren e venduto a un prezzo intorno ai 400 dollari, una spesa non per tutti, e che in ogni caso suggerisce a chi decide di farla la garanzia di poter utilizzare per lungo tempo il maglione, prima che inizi a deteriorarsi.Eppure, in generale chi acquista oggi un maglione prodotto dalle multinazionali dell’abbigliamento sa che non durerà molto a lungo: perderà la forma, alcune rifiniture cederanno in fretta e si formeranno pallini sul tessuto. A seconda dei casi, il maglione terrà troppo caldo o non sarà sufficiente per riparare dal freddo e non rimarrà morbido a lungo.– Ascolta anche: Non ci sono più i maglioni di una volta | Ci vuole una scienzaLa causa più evidente, almeno per chi acquista un maglione, è la materia prima con cui sono realizzati questi prodotti. In passato per produrli venivano utilizzate esclusivamente fibre “naturali” di lana, ottenute dalla tosatura di pecore, capre, alpaca e altri animali (una definizione univoca di che cosa sia naturale non c’è: in natura ci sono le pecore così come gli elementi per produrre la plastica). All’occorrenza venivano mescolate con altre fibre sempre naturali, ma di origine vegetale, come il cotone o il lino.Lo sviluppo e l’introduzione intorno a metà Novecento di fibre sintetiche cambiò le cose: erano meno costose di quelle impiegate fino ad allora e più facili da lavorare, specie nei processi industriali. Si diffusero soprattutto fibre in poliestere e acrilico, ancora oggi tra le più utilizzate nei capi di abbigliamento. Questi materiali potevano essere trattati per una produzione su scala industriale e promettevano, entro certi limiti, di semplificarci la vita: i capi potevano essere lavati quasi sempre in lavatrice, compresi i maglioni, perché le fibre resistevano meglio alle sollecitazioni meccaniche. Al tempo stesso però, si sarebbe scoperto che durano meno nel tempo e che non sempre convivono bene con le fibre naturali, contribuendo a farle deteriorare.Un misto di fibre naturali e sintetiche tende inoltre a essere meno isolante e a risultare quindi meno caldo quando lo si indossa. Le fibre della lana sono igroscopiche e idrofobiche, attirano cioè l’umidità verso l’interno e mantengono asciutta la superficie. È per questo motivo che un maglione in pura lana riesce ad assorbire molta umidità dall’aria in circolazione prima che la sua superficie diventi umida al tatto. È una caratteristica nota da moltissimo tempo e che ha fatto sì che i capi di lana diventassero molto diffusi alle latitudini in cui fa molto freddo e ci sono periodi dell’anno particolarmente umidi.Le fibre sintetiche cercano di imitare questa capacità della lana, ma hanno una struttura meno complessa e soprattutto meno durevole, di conseguenza tendono a essere meno efficienti non solo nel mantenere il calore, ma anche nella traspirazione. Negli ultimi decenni la situazione è migliorata, per esempio con l’introduzione di nuovi “tessuti tecnici” e particolari membrane molto utilizzate per l’escursionismo e l’alpinismo. I capi per queste attività sono quasi sempre fatti di fibre sintetiche e sono molto apprezzati dagli alpinisti perché sono poco ingombranti, leggeri, si puliscono e asciugano velocemente. Hanno però una durata limitata nel tempo e devono essere sostituiti con una certa frequenza.Capre da cui si ottiene il cachemire (Finnbarr Webster/Getty Images)Oltre ai motivi pratici, le fibre sintetiche si sono affermate moltissimo sul mercato dell’abbigliamento perché sono più economiche di quelle naturali, in particolare delle fibre di lana. Un chilogrammo di fibra acrilica costa meno di due dollari, mentre uno di lana grezza ne costa 4 e si può arrivare a 10-15 dollari al chilo per lane più pregiate come il cachemire. Le grandi multinazionali dell’abbigliamento ci hanno abituati ad avere capi a prezzi relativamente bassi, tali da non rendere sostenibile se non in casi particolari la produzione di maglioni interamente di lana e magari con una lavorazione semiartigianale.Il prezzo non è inoltre sempre un indicatore di qualità in un settore dove le materie prime sono solo una delle numerose variabili che concorrono a costruire il valore di un prodotto. Incidono infatti altri fattori come il marchio, le iniziative di marketing e la moda del momento. I più grandi marchi di moda hanno spesso nei propri cataloghi stagionali prodotti realizzati con fibre naturali e sintetiche, anche se segnalano soprattutto la presenza delle prime. L’articolo dell’Atlantic fa l’esempio di un «cardigan di lana» che Gucci vende a 3.200 dollari e che se si legge l’etichetta è fatto per il 50 per cento di poliammide, una fibra sintetica.Il successo dei marchi della cosiddetta “fast fashion”, cioè le aziende di abbigliamento che producono e vendono capi economici e alla moda proponendone di continuo di nuovi, ha acuito il fenomeno innescando un circolo vizioso. Per vendere a prezzi molto bassi queste aziende fanno ricorso a una manodopera economica e poco specializzata, che assembla materiali senza conoscerne le proprietà a differenza delle persone che lavoravano un tempo nelle sartorie. Il risparmio riguarda inoltre le materie prime, con un ricorso a una quota crescente di fibre sintetiche che non richiedono manodopera specializzata per essere lavorate. Il risultato è che si riducono moltissimo i costi di produzione, ma a scapito della durata dei capi e del modo in cui vengono realizzati.Il problema è particolarmente sentito per la lavorazione dei tessuti a maglia, dove è richiesta una manodopera altamente specializzata, in grado per esempio di realizzare i dettagli e le intricate decorazioni di un maglione, come quello di Harry ti presento Sally. Per ridurre i costi e accelerare i processi di produzione si fa a meno di questa manodopera e si semplificano le caratteristiche dei capi di abbigliamento, in modo da poterli realizzare più facilmente e velocemente a macchina. I maglioni diventano più noiosi, come quello di Smith, e al tempo stesso si perde la specializzazione acquisita dai lavoratori generazione dopo generazione.In questo contesto, un’azienda che volesse entrare nel mercato facendo le cose diversamente non faticherebbe soltanto perché dovrebbe offrire i propri prodotti a prezzi più alti, ma anche perché non troverebbe sufficiente manodopera specializzata per lavorare alle sue creazioni. Avrebbe inoltre difficoltà a reperire a prezzi sostenibili la lana da utilizzare e a garantirsi forniture prive di fibre sintetiche. I controlli alla fonte sono spesso difficili, così come lo è la sorveglianza della filiera produttiva che avviene spesso in più continenti con la produzione della maggior parte dei capi di abbigliamento in Asia.Prezzi bassi, grande ricambio dell’offerta e una certa pressione all’acquisto hanno portato a una crescita significativa dell’industria tessile negli ultimi decenni. Si stima che tra il 1995 e il 2018 la produzione di fibre tessili pro capite sia pressoché raddoppiata e che ogni anno siano acquistati circa 60 milioni di tonnellate di prodotti di abbigliamento. L’industria produce quasi il doppio dei capi rispetto al 2000, con la maggior produzione in Cina e in altri paesi a medio reddito come Turchia, Bangladesh e Vietnam. Tra persone direttamente dipendenti e indotto, il settore impiega circa 300 milioni di persone.I volumi sono enormi e probabilmente senza le fibre sintetiche non si riuscirebbe a produrre una quantità così grande di capi di abbigliamento a ciclo continuo. Al tempo stesso, l’impiego di fibre che durano più a lungo potrebbe contribuire a rendere più sostenibile il settore, a patto di una modifica ad alcune logiche di mercato e a una domanda ormai abituata da tempo alla “fast fashion”.Da tempo viene inoltre studiato l’impatto di queste dinamiche sull’ambiente, considerato che le fibre sintetiche si degradano durante i lavaggi e rilasciano microplastiche nell’acqua che finiscono nell’ambiente. Le ricerche sono ancora in corso, ma sono stati trovati indizi sul ruolo dei cicli di lavaggio lunghi e ad alte temperature in lavatrice, che comportano la produzione di grandi quantità di microfibre di plastica a partire dai materiali sintetici. Alcuni studi hanno inoltre rilevato come alcuni componenti dei detersivi in polvere tendano a indurre un maggiore consumo dei tessuti, così come i cestelli delle lavatrici a carica dall’alto, forse a causa del maggiore attrito dei vestiti quando entrano in contatto con la cerniera del cestello per la chiusura.Come in molti altri ambiti, negli ultimi anni si è comunque assistito a un aumento di attenzione e sensibilità da parte delle persone sulla sostenibilità dei loro acquisti e sulle conseguenze di certi stili di vita per l’ambiente. Alcune grandi aziende hanno fatto proprie queste preoccupazioni, cercando di migliorare le cose e di migliorare la propria immagine nella percezione dei loro clienti. Le iniziative riguardano un maggior riciclo dei materiali sintetici, più controlli sulla filiera produttiva delle fibre naturali e un impegno in generale nella riduzione della produzione di plastica. In parte della popolazione è inoltre aumentato un certo interesse verso i capi di abbigliamento usati e vintage, dove non a caso i capi di pura lana alla Harry ti presento Sally sono tra i più richiesti e spesso non mostrano più di tanto i segni del tempo. LEGGI TUTTO

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    La nuova vita delle foglie morte

    In questo periodo dell’anno nel nostro emisfero le chiome di miliardi di alberi si tingono di rosso, arancione e giallo, il segno più evidente dell’arrivo della stagione fredda. Man mano che si riducono le ore di luce giornaliere e si abbassano le temperature, le piante caducifoglie rallentano il loro metabolismo e fanno cadere a terra le foglie, che nel corso della stagione calda sono state essenziali per la fotosintesi. Una quantità gigantesca di foglie decidue ricopre quindi il sottobosco, i prati, i campi, i parchi cittadini, ma anche le strade e i marciapiedi, causando qualche disagio ma anche grandissime opportunità talvolta sottovalutate.Soprattutto le persone che vivono in città tendono a vedere le foglie secche a terra come un fastidio e un pericolo nei giorni di pioggia, quando rendono scivolosi i marciapiedi. La loro mancata rimozione è spesso fonte di lamentele e polemiche contro le amministrazioni comunali, accusate di tanto in tanto di non intervenire con tempestività per fare pulizia. Nelle città più grandi, ripulire strade e piazze richiede uno sforzo non indifferente: solo a Milano l’azienda per la raccolta dei rifiuti (AMSA) stima di raccogliere in media 450 tonnellate di foglie alla settimana nel periodo autunnale; corrispondono a un volume notevole, considerato quanto poco pesano le foglie in rapporto allo spazio che occupano.Le foglie secche vengono poi smaltite in vario modo a seconda di come sono organizzati i comuni. In alcuni casi vengono incenerite insieme agli altri rifiuti, in altri smaltite con l’umido oppure riutilizzate per altri scopi, compresi quelli di rigenerazione del suolo. Oltre alle questioni di sicurezza per chi cammina sui marciapiedi o va in bicicletta, le foglie secche su asfalto e cemento vengono di preferenza rimosse perché durano a lungo e nel caso di prolungati periodi senza pioggia si rompono in pezzi sempre più piccoli, producendo polveri che possono contribuire al peggioramento della qualità dell’aria.Le pratiche di rimozione variano moltissimo a seconda delle città, ma in generale interessano soprattutto le foglie cadute sulle aree ricoperte da cemento e asfalto, mentre riguardano in misura minore le zone verdi come quelle dei parchi cittadini. Le foglie secche a contatto diretto con il terreno sono infatti un’ottima risorsa per rigenerare il suolo, arricchendolo di minerali e altre sostanze utili per la crescita delle piante e per la vita di microrganismi, funghi, insetti, uccelli e altri animali di piccola taglia. Per questo viene consigliato di non raccogliere e bruciare le foglie secche, ma di lasciarle dove sono sul terreno o di riutilizzarle in altro modo, per esempio per produrre il compost che potrà poi essere impiegato come fertilizzante.(Spencer Platt/Getty Images)Nel caso di foglie decidue di piccole dimensioni che si depositano su un prato, come quello di un parco pubblico o del giardino di casa, il consiglio è di non fare sostanzialmente nulla. Complice la pioggia, le foglie marciscono e si decompongono durante la stagione fredda, aggiungendo nutrienti al suolo. Nel caso di grandi quantità o di foglie di maggiori dimensioni, c’è il rischio che il prato o piante di piccole dimensioni restino completamente coperti non ricevendo luce e ossigeno a sufficienza, con un conseguente “soffocamento”. In queste condizioni può rendersi necessaria la rimozione delle foglie, che possono però essere trasferite in altre aree del prato o in aiuole dove sono coltivate piante più grandi e vigorose, meno esposte al rischio di soffocamento.Non sempre le foglie che cadono al suolo sono però sane. Un albero malato, per esempio a causa di alcuni parassiti, può contaminare altre piante più piccole. È quindi importante verificare sempre la salute degli alberi caducifogli per decidere se lasciare o meno in terra le foglie che hanno perso. Dovrebbero essere raccolte separatamente, in modo da non utilizzarle per fare il compost dove alcuni parassiti potrebbero proliferare più facilmente, complice l’umidità e il calore che si sviluppa con la decomposizione.(AP Photo/Matthias Schrader)Le foglie secche possono essere utilizzate inoltre per la pacciamatura, il processo con cui si ricopre una porzione di terreno con materiali vegetali (e non solo) di vario tipo, per proteggerlo dall’erosione e mantenerlo più fertile. È un’attività che viene svolta in ambito agricolo, ma anche per il giardinaggio e in misura più contenuta nei parchi urbani. Si utilizzano frammenti di corteccia, aghi di pino, paglia e all’occorrenza anche le foglie secche. Di solito vengono triturate direttamente sul prato, per esempio utilizzando un tagliaerba regolato in modo che lasci il materiale triturato dove si trova invece di raccoglierlo in un contenitore.I prati sottoposti a questi trattamenti nei parchi urbani e nei giardini appaiono molto diversi dall’immaginario collettivo in cui sono sempre verdi, ma non significa che siano meno curati. La presenza delle foglie non è un indicatore della trascuratezza di un prato e ricorda che anche un giardino costituisce un ecosistema, con molte specie diverse che lo popolano e che variano a seconda delle stagioni. C’è un tempo in cui un prato è verde e fiorito e un altro in cui riposa e si rigenera, sotto a uno strato di foglie. LEGGI TUTTO

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    Il grande caldo nell’emisfero boreale

    Caricamento playerDa alcuni giorni in parte dell’Europa, del Nord Africa, dell’Asia e del Nord America si registrano temperature massime molto al di sopra della media per questo periodo dell’anno. Secondo le previsioni in Europa si potrebbero raggiungere nuovi record, specialmente in Italia dove per Sicilia e Sardegna sono previste massime fino a 48 °C martedì. Negli Stati Uniti la grande ondata di calore sta interessando in particolare il sud e gli stati occidentali, con una massima di 53,9 °C registrata nella Death Valley in California, spesso uno dei posti più caldi del pianeta. In Cina sono stati raggiunti i 52,2 °C secondo le prime rilevazioni provvisorie: se confermate, sarebbe un nuovo record per la temperatura più alta mai registrata nel paese.L’Europa sta affrontando una seconda ondata di calore in appena una settimana, con temperature alte soprattutto in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Il caldo interessa inoltre buona parte del bacino del Mediterraneo ed è causato da un sistema di alta pressione proveniente dal Nord Africa, che ha ridotto la probabilità di precipitazioni e portato a condizioni in parte comparabili con quelle dell’agosto del 2021, quando in alcune zone della Sicilia si erano registrate massime intorno ai 48,8 °C.Nei giorni scorsi il ministero della Salute aveva segnalato un alto livello di rischio a causa del caldo in 16 città. Secondo le previsioni martedì 18 luglio ci sarà un aumento marcato delle temperature massime e minime, probabilmente con nuovi record. A Roma si prevedono massime intorno ai 42-43 °C, al di sopra del record dei 40,5 °C registrato nell’agosto del 2007. Il fronte di aria calda in arrivo da sud-ovest sull’Italia è mostrato in buona parte delle elaborazioni effettuate utilizzando dati satellitari, che rilevano gli spostamenti di masse d’aria a diverse temperature nell’atmosfera.⚠️🔴♨️🇮🇹The arrival of the severe #heatwave over #Italy is visible in the RGB Airmass product by #eumetview.Look at the red area of very warm air slowly extending on the peninsula and the islands in the latest 12hrs(until 14.30UTC) #Caronte #Weather @Giulio_Firenze @climatemon pic.twitter.com/ar00cqHj1R— antonio vecoli 🛰️🇪🇺#️⃣ (@tonyveco) July 16, 2023In Spagna sono previste temperature massime ben al di sopra dei 40 °C in buona parte del centro-sud del paese, zone in cui fa già solitamente molto caldo d’estate, ma anche in questo caso con probabili nuovi record rispetto alle rilevazioni degli anni scorsi.#Predicción de #temperaturas máximas y mínimas para #hoy y sus variaciones (2/2). https://t.co/nkt7p7WaxU pic.twitter.com/0lsHkfuS1Q— AEMET (@AEMET_Esp) July 17, 2023L’ondata di caldo sul Mediterraneo e il Sud Europa è dovuta a un anticiclone, cioè un sistema di alta pressione, che si presenta spesso in estate e che comporta periodi con poche piogge, scarsa nuvolosità e poco vento. A differenza dei fronti di bassa pressione, gli anticicloni si muovono più lentamente e possono interessare per giorni, talvolta settimane, estese porzioni di territorio. La loro permanenza in aree dove solitamente fa già molto caldo, come la zona desertica del Sahara, li rende ancora più stabili e caldi. L’anticiclone attuale secondo le previsioni impiegherà almeno un paio di settimane per dissipare parte della propria energia, sotto forma di calore, prima di lasciare spazio alle piogge.Negli ultimi anni è stata osservata una maggiore permanenza degli anticicloni sull’Europa, così come la loro capacità di spingersi più verso nord rispetto a quanto avveniva alcuni decenni fa. Il cambiamento è ormai evidente, ma ricondurre singoli fenomeni agli effetti del riscaldamento globale è difficile e richiede molte analisi. In generale si è comunque osservato un cambiamento delle correnti atmosferiche, con andamenti compatibili con le ondate di caldo rilevate negli ultimi anni e con i prolungati periodi di siccità.Una analisi sull’ultima ventina di anni in Europa ha segnalato come le ondate di calore siano diventate più intense e frequenti. Lo scorso anno vari paesi europei come Spagna, Francia e Italia avevano superato in più occasioni i 40 °C di temperatura massima giornaliera. Il fenomeno era stato ricondotto da alcuni studi al cambiamento climatico, con avvisi sull’aumentato rischio di avere estati più calde con maggiore frequenza.Nel Nord America un altro sistema di alta pressione sta causando un marcato aumento delle temperature massime, con avvisi e allerte da parte delle autorità negli Stati Uniti e che nel complesso riguardano un’area in cui vivono oltre 100 milioni di persone. A Las Vegas, nel Nevada, le previsioni segnalano che si potrebbero raggiungere i 47,2 °C, segnando un nuovo record per la città. Non molto distante, a Phoenix in Arizona, la temperatura media giornaliera non è scesa sotto i 43 °C per più di due settimane, mentre a El Paso in Texas si è attestata intorno ai 38 °C.Una misurazione con un termometro non ufficiale della temperatura a Furnace Creek nella Death Valley, California, Stati Uniti (David McNew/Getty Images)In Asia la situazione non è migliore, con molti paesi che hanno dovuto affrontare più ondate di calore già a partire dallo scorso aprile. In Cina domenica 16 luglio è stato registrato un nuovo record con una temperatura massima di 52,2 °C nella città di Sanbao, nella regione autonoma dello Xinjiang. Il record precedente era di 50,3 °C ed era stato registrato nel 2015 nella depressione in cui si trova il lago di Ayding, sempre nello Xinjiang. Il territorio cinese è molto ampio e comprende aree climatiche diverse tra loro, di conseguenza sono frequenti forti sbalzi di temperatura in alcune aree. Negli ultimi anni, però, i fenomeni estremi sono diventati più frequenti e con maggiori effetti rispetto a un tempo.China just experienced its highest temperature in recorded history, topping out at an unbelievable 52.2°C (126°F).This crushes the country’s previous all-time high by 1.7°C (3°F). pic.twitter.com/CrmdgGgm7g— Colin McCarthy (@US_Stormwatch) July 16, 2023Parte della Cina sud-orientale si sta intanto preparando all’arrivo del tifone Talim, che porterà forti venti e piogge sulla costa. Alcune zone sono state evacuate e ci si attende che le precipitazioni diventino più intense entro martedì. Anche il Vietnam si sta preparando al passaggio del tifone e ha disposto l’evacuazione di circa 30mila persone nelle aree che si prevede saranno maggiormente interessate. Secondo le autorità locali, il tifone potrebbe essere uno dei più intensi degli ultimi anni per il golfo del Tonchino, nel Mar Cinese Meridionale.Il passaggio del tifone Talim a Hong Kong lunedì 17 luglio 2023 (AP Photo/Louise Delmotte)In Giappone sono stati diffusi avvisi alla popolazione per i rischi dovuti alle alte temperature, con massime intorno ai 40 °C. In Corea del Sud il presidente Yoon Suk-yeol ha detto di voler ripensare le strategie adottate per affrontare le ondate di calore e più in generale gli eventi atmosferici estremi, in particolare dopo le forti alluvioni che hanno interessato il paese negli ultimi giorni. Le piogge intense hanno causato inondazioni e allagamenti nei quali sono morte almeno 40 persone, mentre oltre 100mila hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Nel paese ci sono stati estesi blackout e la risposta delle autorità all’emergenza è stata giudicata carente.È probabile che nel corso di questa estate ci saranno altre ondate di calore, così come è possibile che l’anno in corso si riveli il più caldo mai registrato. Sull’andamento delle temperature potrebbe incidere anche “El Niño”, l’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e che influenza buona parte del clima del pianeta, contribuendo a un aumento della temperatura media globale.Domenica intanto la temperatura media globale della superficie marina (SST) ha raggiunto i 20,98 °C, con una nuova anomalia record rispetto al periodo di riferimento 1991-2020: 0,64 °C in più.La prima settimana di luglio è stata definita dall’Organizzazione meteorologica mondiale come la più calda mai registrata, sulla base dei dati preliminari finora raccolti, che saranno poi ulteriormente studiati e analizzati. Secondo gli esperti è probabile che da qui a fine agosto si registreranno nuovi record, dovuti sia agli effetti del riscaldamento globale dovuto alle attività umane sia all’influenza di El Niño. LEGGI TUTTO

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    Il 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato

    Lunedì 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato a livello globale, secondo i dati analizzati dai Centri nazionali per la previsione ambientale (NCEP), che fanno parte del Servizio meteorologico nazionale del governo degli Stati Uniti. La temperatura media globale ha raggiunto i 17,01 °C, segnando un nuovo massimo dopo i 16,92 °C che erano stati registrati nell’agosto del 2016. Al nuovo record hanno contribuito le varie ondate di calore che nell’ultimo periodo hanno interessato diverse aree del pianeta.La giornata di lunedì è stata la più calda da quando è iniziato il rilevamento della temperatura media globale utilizzando i dati satellitari, alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Le notizie sul giorno più caldo sono arrivate a pochi giorni di distanza dalle prime conferme sul mese di giugno appena finito, che si è rivelato il più caldo mai registrato nel Regno Unito.Le ondate di calore delle ultime settimane sono state attribuite alle condizioni atmosferiche locali in combinazione con l’arrivo del nuovo El Niño, sui cui effetti, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, ci sono comunque ancora incertezze. Con “El Niño” si indica l’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e che influenza il clima in buona parte del pianeta, contribuendo tra le altre cose all’aumento della temperatura media globale. Gli effetti di El Niño sono diventati via via più significativi anche a causa degli effetti del riscaldamento globale dovuto all’aumento delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, soprattutto per via delle attività umane.Nella parte meridionale degli Stati Uniti da settimane si registrano alte temperature ed eventi atmosferici estremi, mentre in Cina prosegue da giorni una intensa ondata di calore con temperature al di sopra di 35 °C in buona parte del paese. Nel Nord Africa sono state registrate temperature intorno ai 50 °C. In Antartide, dove ora è inverno, sono state rilevate anomalie nelle temperature con massime più alte del solito, che hanno contribuito a una accelerazione nella fusione del ghiaccio. In una delle stazioni di rilevamento antartiche è stata rilevata una temperatura di 8,7 °C, un nuovo record per il mese di luglio.In questa prima fase dell’estate le ondate di calore hanno interessato soprattutto la Spagna, ma sono state rilevate anomalie anche più a nord. Di recente è stato segnalato un aumento della temperatura nei mari attorno al Regno Unito e all’Irlanda, di 3-4 °C in più rispetto alla media registrata negli anni scorsi in questo periodo.È sempre difficile fare previsioni sull’andamento delle temperature nel breve periodo, ma secondo gli esperti è probabile che nel corso delle prossime settimane saranno superati nuovi record, sempre a causa di El Niño e di altri effetti riconducibili al cambiamento climatico. LEGGI TUTTO

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    Com’è la giornata media di un essere umano nel mondo

    Caricamento playerUn gruppo formato principalmente da ricercatori e ricercatrici della McGill University a Montréal, in Canada, ha utilizzato un insieme molto ampio ed eterogeneo di dati e statistiche – demografiche, economiche e di altro tipo, nazionali e internazionali – per elaborare una stima di quanto tempo le persone dedicano in media ogni giorno ad azioni e attività comuni a tutti come nutrirsi, lavarsi, dormire e lavorare. Le informazioni ricavate sono sorprendenti per alcuni aspetti (lavoriamo “solo” 2,6 ore) e prevedibili per altri, e si spiegano principalmente perché a fare media è l’intera popolazione umana: circa 8 miliardi di persone, di ogni età e luogo geografico.I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e intitolata The global human day, sono considerati dal gruppo un’indicazione fondamentale per comprendere la ripartizione del tempo su scala mondiale nell’arco di una giornata. E si prestano a essere utilizzati in diversi ambiti di ricerca per studiare in dettaglio quali siano i fattori alla base delle differenze nelle ripartizioni tra un paese e l’altro, e su quali sia possibile intervenire per cercare di distribuire il tempo diversamente in modo da ridurre o contrastare eventuali rischi globali.La ricerca si basa sull’aggregazione di dati relativi a 145 paesi, raccolti da enti, agenzie e organizzazioni nazionali e internazionali (Banca Mondiale, OCSE, Unicef e altri), tra il 2000 e il 2019: il periodo successivo non è stato preso in considerazione per evitare condizionamenti dei risultati dovuti alla pandemia. I dati includono sondaggi sul tempo destinato alle varie attività quotidiane, statistiche sull’occupazione e sugli orari di lavoro degli adulti, e sull’istruzione e l’occupazione tra i giovani.La singola categoria più ampia nella ripartizione del tempo è quella del sonno e del riposo a letto: un essere umano trascorre in media circa 9,1 ore al giorno dormendo o riposando. È una media significativamente maggiore rispetto a quella del sonno tra gli adulti: che è 7,5 ore, secondo uno studio danese del 2020 che utilizzò dati ricavati tramite dispositivi indossabili su un campione internazionale di circa 70 mila adulti. Il motivo della differenza è che la ricerca della McGill University include nella stima il tempo trascorso a letto anche senza dormire, e soprattutto include il sonno e il riposo di bambini piccoli e neonati (12-16 ore al giorno).Un bambino dorme in una palafitta a Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni, in Brasile, il 29 luglio 2020 (Pedro Vilela/Getty Images)Le restanti 15 ore al giorno circa non destinate al sonno né al riposo sono state suddivise in tre macro-gruppi, ciascuno dei quali con diverse categorie e sottocategorie. Il macro-gruppo più grande (9,4 ore) riguarda le attività con «risultati umani diretti», cioè svolte dalle persone con l’obiettivo di ottenere un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro menti e sulle loro esperienze.Sono attività di questo tipo, per esempio, la pulizia personale e la cura del proprio aspetto e della propria salute, che occupano in totale poco più di un’ora al giorno. Alla consumazione dei pasti è dedicata in totale poco più di un’ora e mezzo, preparazione dei cibi esclusa (che rientra in un altro macro-gruppo e prende un’altra ora circa). La categoria che all’interno di questo macro-gruppo richiede più tempo di tutte – circa un terzo di tutto il tempo da svegli – sono le «attività passive, interattive e sociali»: occupano in media 4,6 ore al giorno e includono leggere, utilizzare dispositivi con schermi o display, giocare, passeggiare, socializzare e anche star seduti senza fare niente.Il tempo trascorso per l’istruzione e le attività scolastiche e universitarie è poco più di un’ora al giorno, e comprende la frequentazione delle lezioni, lo studio, la ricerca e la didattica a distanza. Circa 12 minuti al giorno è il tempo destinato alle pratiche religiose, incluse le cerimonie, le preghiere e le attività di meditazione: che è più o meno lo stesso tempo dedicato in media alle cure mediche e all’assistenza, inclusa quella domestica e non retribuita, alle persone che ne hanno bisogno.Un ragazzo si lava vicino a una fabbrica di mattoni a Islamabad, in Pakistan, il 27 dicembre 2011 (AP Photo/Muhammed Muheisen)Un altro macro-gruppo riguarda le attività con «risultati esterni», descritte come quelle che hanno lo scopo di produrre cambiamenti fisici nel mondo: occupano complessivamente 3,4 ore al giorno. Includono tutte le attività necessarie alla fornitura di alimenti (1,8 ore circa), inclusa l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, la lavorazione dei prodotti e la preparazione dei pasti. E includono anche l’estrazione di materie prime ed energia dall’ambiente (6 minuti circa), la costruzione di edifici, infrastrutture e manufatti (42 minuti circa), il mantenimento della pulizia e dell’ordine della casa e degli spazi abitati (48 minuti circa), e la gestione dei rifiuti (36 secondi circa).Il terzo e più piccolo macro-gruppo di attività – poco più di 2 ore al giorno – sono quelle con «risultati organizzativi», relative cioè all’organizzazione dei processi sociali e dei trasporti. Includono lo spostamento di persone (quasi un’ora circa) e di merci (18 minuti circa), e ogni attività commerciale, finanziaria, governativa, politica e, in generale, di gestione del tempo e dei diritti delle persone (un’altra ora circa).L’esterno di un locale nel quartiere Soho, a Londra, il 12 aprile 2021 (AP Photo/Alberto Pezzali)La prima grande classificazione utilizzata dai ricercatori e dalle ricercatrici della McGill University si basa quindi sul risultato e sull’obiettivo per cui le attività sono svolte, a prescindere che siano a pagamento oppure no. Per esempio: l’assistenza fisica all’infanzia, che fa parte del primo macro-gruppo e occupa circa 18 minuti al giorno, include sia il lavoro retribuito degli asili che quello non retribuito dei genitori. E la preparazione del cibo, che fa parte del secondo macro-gruppo, include sia cucinare a casa che lavorare in un ristorante.Tenendo invece in conto soltanto le attività economiche considerate un’«occupazione» dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), la media del tempo di lavoro su scala mondiale è di circa 2,6 ore al giorno: circa l’11 per cento della giornata, o un sesto delle ore di veglia. Potrebbe sembrare poco, scrivono gli autori e le autrici della ricerca, ma equivale a una settimana lavorativa di 41 ore per tutta la forza lavoro mondiale (che è circa il 66 per cento della popolazione in età lavorativa, cioè di età compresa tra 15 e 64 anni).Quasi un terzo delle attività economiche quotidiane in tutto il mondo riguarda la crescita e la raccolta di cibo (44 minuti circa), principalmente sotto forma di agricoltura. Circa un quarto (37 minuti circa) è formato dalle attività commerciali, finanziarie, politiche e gestionali. E circa un settimo (22 minuti circa) riguarda la produzione di manufatti, inclusa la fabbricazione di veicoli, macchinari, elettronica, elettrodomestici e tutti gli altri beni mobili e i loro componenti intermedi. Il tempo che resta è perlopiù suddiviso tra costruzione e manutenzione degli edifici, trasporto di merci e altri materiali, preparazione del cibo, istruzione e ricerca.Un contadino in una risaia a Bhaktapur, in Nepal, il 17 ottobre 2022 (AP Photo/Niranjan Shrestha)L’obiettivo della ricerca era ricavare, a partire da dati relativi a tutta la popolazione mondiale, una stima di quanta parte del loro tempo le persone dedicano in media alle diverse attività nell’arco della giornata. Ma i ricercatori e le ricercatrici hanno anche cercato di capire come la ricchezza (in termini di PIL pro capite) influenzi l’utilizzo del tempo, e hanno riscontrato alcune evidenti disparità, in parte prevedibili.Le persone che abitano nei paesi a più alto reddito, rispetto ai residenti nelle aree più povere, trascorrono in media circa 1,5 ore in più al giorno in attività ricreative, interattive e sociali come leggere, utilizzare dispositivi, giocare, passeggiare e altro. Viceversa, nei paesi più poveri le persone dedicano in media oltre un’ora alla coltivazione e alla raccolta del cibo: attività che nei paesi più ricchi occupa in media meno di 5 minuti al giorno.Dalla ricerca emergono anche attività che invece non variano in modo significativo con la ricchezza, come il tempo utilizzato per preparare il cibo, per il trasporto umano, per la pulizia personale e altre, per un totale del 30 per cento del tempo quotidiano delle persone da sveglie. Questo non implica che le parti di tempo dedicate a tali attività siano universali tra gli esseri umani, aggiungono gli autori e le autrici della ricerca: perché certamente variano da individuo a individuo. Solo che la variazione non è coerente con quella del PIL pro capite, e quindi la ricchezza materiale in questi casi potrebbe non essere influente.Una nave portacontainer passa davanti al castello Burg Pfalzgrafenstein, nel mezzo del fiume Reno a Kaub, in Germania, il 12 agosto 2022 (AP Photo/Michael Probst)Un altro aspetto colto dai ricercatori e dalle ricercatrici è la scarsa quantità di tempo dedicato alla gestione dei rifiuti fuori delle abitazioni rispetto al tempo dedicato a mantenere puliti e in ordine gli spazi abitati. «Sembra plausibile che molti problemi di rifiuti, tra cui l’accumulo di plastica negli oceani e la contaminazione tossica delle acque, potrebbero essere notevolmente ridotti attraverso una riallocazione relativamente piccola del budget totale del tempo umano».I risultati della ricerca costituiscono parte di un progetto più ampio, lo Human Chronome Project, che nelle intenzioni degli autori e delle autrici dovrebbe raccogliere e integrare dati tratti da altre fonti e servire come base per futuri lavori di ricerca sulle attività umane nel mondo. Questo approccio, concludono, potrebbe fornire una prospettiva empirica generale su ciò che la nostra specie sta facendo sul pianeta e prendere decisioni più informate su come ridistribuire il tempo per raggiungere obiettivi di sviluppo globale. LEGGI TUTTO

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    Le Nazioni Unite hanno adottato il primo trattato per proteggere la vita marina in alto mare

    Lunedì i 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno adottato il trattato per proteggere la vita marina in alto mare. Il trattato mira a proteggere la biodiversità nelle acque al di fuori dei confini nazionali (l’”alto mare”), che coprono quasi la metà della superficie terrestre ma sono finora state in larga parte escluse da tutti i trattati esistenti sulla preservazione della biodiversità. Nelle Nazioni Unite si discuteva di questo trattato da vent’anni, ma si è trovato un accordo sul testo soltanto nel marzo di quest’anno.Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Per entrare in vigore il testo dovrà essere ratificato da 60 paesi: lo si potrà fare a parrtire dal 20 settembre, quando i leader mondiali si troveranno per l’incontro annuale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il nuovo accordo contiene 75 articoli: tra le altre cose, verrà creato un nuovo organismo per gestire la conservazione della vita oceanica e istituire aree marine protette in alto mare, con l’obiettivo di trasformare il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto in aree protette entro il 2030. Verranno inoltre stabilite delle regole su come svolgere le valutazioni di impatto ambientale sulle attività commerciali negli oceani.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora (Pixabay) LEGGI TUTTO

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    I SUV sono ancora un grande problema per l’ambiente

    Caricamento playerI SUV, gli “sport utility vehicle”, sono tra i veicoli a motore più venduti degli ultimi anni a livello globale, come dimostra la loro crescente presenza nelle città e sulle strade anche in Italia. L’alta domanda è stata assecondata dalle aziende automobilistiche, che nel tempo hanno espanso la presenza dei SUV nei loro cataloghi, concentrando spesso l’offerta di nuove tecnologie e optional accattivanti su questi modelli. La loro grande diffusione ha permesso al settore dell’auto di subire meno le cicliche e ricorrenti crisi che lo interessano, ma ha anche portato a un paradosso: proprio in un momento in cui c’è una maggiore consapevolezza sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale, si vendono automobili più grandi e pesanti di un tempo, che in molti casi inquinano di più o comunque rallentano la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, il principale gas serra.I dati sulle vendite nel 2022 aiutano a farsi un’idea della dimensione del fenomeno. In generale l’anno scorso non è stata una buona annata per il settore dell’auto, con una riduzione dello 0,5 per cento rispetto all’anno precedente e una vendita complessiva di 75 milioni di automobili. La riduzione è stata più marcata nell’Unione Europea (-4 per cento) e negli Stati Uniti (-8 per cento), soprattutto a causa della mancanza dei componenti e delle materie prime.Le vendite dei SUV sono invece aumentate del 3 per cento tra il 2021 e il 2022 e quasi un’automobile su due (46 per cento) venduta lo scorso anno era un SUV. La crescita nelle vendite ha interessato soprattutto l’Europa, gli Stati Uniti e l’India, dove la domanda continua a mantenersi alta e quasi tutti i produttori danno molta più evidenza nelle pubblicità a questi modelli rispetto alle automobili compatte o totalmente elettriche.Naturalmente non tutti i SUV venduti nel 2022 erano a motore termico. Secondo uno dei rapporti dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) il 16 per cento dei SUV venduti erano elettrici, con una offerta di modelli di questo tipo mai raggiunta prima e superiore a quella delle altre tipologie di automobili elettriche. Per avere un’idea della dimensione del mercato, nel 2022 si stima siano stati venduti 10 milioni di automobili elettriche, con un aumento del 50 per cento rispetto al 2021 quando ne erano stati venduti 6,6 milioni.L’aumento dei SUV elettrici è di per sé positivo, ma non rimuove il problema del loro maggiore impatto ambientale rispetto ad altri veicoli. I SUV sono più pesanti e per questo meno efficienti dal punto di vista energetico, semplicemente perché occorre più energia per spostarli (a prescindere da come sia stata generata). Senza contare il maggiore impatto per costruire e trasportare automobili più pesanti e voluminose dalle fabbriche ai punti di vendita, circostanza che incide ampiamente sull’intero indotto dell’automobile.Sempre la IEA segnala che tra il 2021 e il 2022 il consumo di petrolio impiegato per i carburanti delle automobili è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato quello per i SUV. L’incremento stimato è stato di mezzo milione di barili di petrolio al giorno, circa un terzo dell’intera crescita di domanda di questa materia prima nel corso del 2022 rispetto all’anno precedente.Rispetto a un’automobile di medie dimensioni, un SUV consuma circa il 20 per cento in più di carburante, proprio perché è necessario un motore di una cilindrata maggiore per spostarlo. L’impiego di motori ibridi, che mettono insieme un motore termico e uno elettrico, consente di ridurre i consumi, che continuano comunque a essere alti se confrontati con quelli di un’automobile di medie dimensioni sempre dotata di tecnologia ibrida. Il risultato è che le emissioni prodotte non si riducono in maniera significativa.Autovetture totali (in blu), SUV (in verde) e percentuale di SUV (linea celeste) (IEA)L’IEA stima che nel 2022 le emissioni di anidride carbonica prodotte dai SUV siano aumentate di 70 milioni di tonnellate. In tutto il mondo i veicoli di questo tipo sulle strade sono circa 330 milioni che emettono un miliardo di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Un ipotetico luogo fatto solo di SUV sarebbe il sesto paese per emissioni di anidride carbonica annue, dopo il Giappone.Il motivo del successo dei SUV deriva da numerosi fattori che riguardano sia chi compra le automobili sia chi le vende. Fino agli anni Novanta erano poco diffusi, soprattutto in Europa, costosi e ricordavano esteticamente i classici fuoristrada. Alla fine di quel decennio, l’offerta iniziò a differenziarsi con la comparsa di modelli che erano una sorta di via di mezzo tra le normali automobili e i fuoristrada, riscuotendo un certo successo. Man mano che diventavano disponibili nuovi modelli e soprattutto che i prezzi si abbassavano, la domanda si fece più alta e in molti paesi oggi è più probabile che qualcuno esca da un concessionario con un SUV che con una berlina.Al crescente successo di questi veicoli ha contribuito anche una certa percezione sulla loro sicurezza da parte di chi li acquista. I SUV sono visti come automobili più “sicure”, perché più grandi e all’apparenza solide, quindi in grado di proteggere meglio chi si trova al loro interno. È una percezione che riveste un ruolo importante al momento della scelta di una nuova automobile: chi è abituato ad avere auto di medie-piccole dimensioni sa che cosa significa essere nel traffico circondato da auto molto più grandi e pesanti, si sente meno al sicuro e quando deve cambiare la propria automobile valuta di passare a un SUV, per ridurre quel senso di insicurezza.I produttori di automobili promuovono volentieri i loro SUV rispetto agli altri modelli perché da questi riescono quasi sempre ad avere margini di guadagno più alti. I SUV sono più cari, fino al 50 per cento in più rispetto alle berline o alle due volumi di dimensioni comparabili, ma la loro produzione non costa molto di più se confrontata con quella delle altre auto. C’è di conseguenza un forte interesse a orientare gli acquisti verso i SUV, specialmente se con tecnologie ibride sulle quali si può fare comunque leva per vincere le eventuali ritrosie di chi compra e pensa all’impatto ambientale della sua scelta.Oltre a richiedere più materiale per essere costruiti, ad avere un peso maggiore e a produrre più emissioni a parità di persone che possono trasportare, i SUV inquinano di più anche in altri modi. I veicoli più pesanti consumano in modo diverso gli pneumatici, per esempio, portando a una maggiore produzione di polveri sottili che rimangono a lungo in sospensione nell’aria e che possono costituire un rischio per la salute, specialmente nei contesti urbani. Le città in molti casi non sono inoltre attrezzate per veicoli che occupano molto più spazio rispetto alle normali automobili: ciò comporta maggiori problemi di traffico, tempi più lunghi per trovare parcheggi con relativi aumenti delle emissioni e problemi di sicurezza per chi va a piedi o utilizza la bicicletta.In generale, i SUV sono più sicuri per chi viaggia al loro interno e più pericolosi per gli altri, rispetto alle auto di medie dimensioni. Uno studio realizzato un paio di anni fa negli Stati Uniti ha rilevato come sia otto volte più probabile che una persona alla guida di un SUV investa e uccida un bambino in un incidente rispetto alle persone sulle altre automobili, e come quel tipo di veicolo sia più rischioso e a volte letale anche per i pedoni e i ciclisti. I dati e le loro analisi variano molto a seconda degli studi ed è quindi difficile stabilire quale sia l’effettivo impatto dei SUV in termini di sicurezza stradale. È stata comunque rilevata una maggiore pericolosità di questi veicoli nel caso di impatti laterali contro automobili più piccole, i cui sistemi di protezione non sono sempre sufficienti per ridurre gli effetti dello scontro e proteggere chi si trova nell’abitacolo da quel lato.Il problema era presente soprattutto con i primi modelli di SUV ed è stato affrontato, con qualche miglioramento, negli ultimi anni grazie all’introduzione di nuove regole di sicurezza per i costruttori. Le stime più recenti riferite al 2013-2016 dicono che chi si trova in auto ha il 28 per cento di probabilità in più di morire in uno scontro con un SUV rispetto a una normale automobile, rispetto al 59 per cento rilevato nel periodo tra il 2009 e il 2012.I problemi di sicurezza sono anche legati all’ingombro sulle strade più vecchie, dove il passaggio di due veicoli negli opposti sensi di marcia era già normalmente difficoltoso. Essendo più grandi e massicci, i SUV possono interferire con la visibilità nei veicoli di minori dimensioni, per esempio quando si vogliono effettuare sorpassi. Di notte ai problemi di visibilità si aggiungono i rischi legati ai fari più alti rispetto a quelli delle normali automobili, con il rischio di rimanere abbagliati se non sono orientati correttamente.Mentre gli effetti sulla sicurezza sono ancora dibattuti, quelli sull’impatto ambientale dei SUV sono ormai assodati grazie ai dati raccolti negli ultimi anni, nell’ambito di studi e ricerche sulle emissioni prodotte dai mezzi di trasporto. Le aziende che li producono sostengono spesso che con l’elettrificazione il problema sarà risolto, ma – al di là di alcuni processi industriali per la costruzione che avverranno ancora a lungo bruciando combustibili fossili – il consumo di energia continuerà a essere un punto critico soprattutto per un motivo: un’automobile elettrica pesa spesso di più del suo modello equivalente con motore termico. È un problema che riguarda molti modelli e non solo i SUV. Una FIAT 500 ha una massa intorno alla tonnellata, mentre una FIAT 500 elettrica ha una massa di circa 300 chilogrammi in più.L’aumento della massa è dovuto soprattutto alle batterie e alla necessità di rinforzare la scocca per reggerne il peso. Nel caso di alcuni modelli di SUV l’aumento è significativo perché la massa più grande dovuta alle maggiori dimensioni richiede di usare motori più potenti e batterie più grandi, portando a un veicolo piuttosto pesante.È un dilemma difficile da risolvere e che diventerà sempre più centrale se continuerà a esserci un’alta domanda di SUV, specialmente se saranno venduti come una alternativa “verde” perché completamente elettrici. Alcuni esperti segnalano che la soluzione al problema passi dall’introduzione di imposte più alte per l’acquisto dei SUV, in base alla loro massa, in modo da disincentivare almeno in parte l’acquisto di veicoli pesanti e voluminosi. Alcuni governi stanno valutando o hanno introdotto misure simili, che potrebbero aiutare a recuperare parte del denaro che veniva raccolto attraverso le accise sui carburanti, che diventeranno sempre più marginali man mano che si passerà ai motori elettrici.Veicoli più costosi a causa delle imposte potrebbero anche essere un incentivo per spingere i produttori di automobili a investire nella ricerca e nello sviluppo di batterie di nuova generazione, meno pesanti e comunque efficienti. Nell’ultimo decennio i progressi nel settore sono stati notevoli, ma sono stati sfruttati soprattutto per estendere la quantità di chilometri che un veicolo elettrico riesce a percorrere con una sola carica. Di conseguenza man man che diventavano più compatte si aggiungevano batterie, senza riduzioni significative della massa dei veicoli. La progressiva diffusione di stazioni di ricarica e tempi più rapidi per caricare le batterie stanno iniziando a cambiare le cose, rendendo meno centrale nella percezione delle persone l’autonomia. La maggior parte degli spostamenti giornalieri consiste inoltre in poche decine di chilometri, enormemente al di sotto della capacità degli ultimi modelli delle automobili elettriche.Alcune aziende automobilistiche come Tesla e Volvo sono inoltre al lavoro per ottimizzare il peso della scocca, per esempio integrandola con le batterie in modo da ridurre la massa complessiva. È un lavoro di ricerca complesso che richiede la sperimentazione di nuovi materiali da sostituire agli attuali. Rispetto a metà anni Novanta, mediamente un veicolo dei giorni nostri ha il 44 per cento in meno di acciaio, grazie all’impiego di alluminio, di altre leghe metalliche e di materiali come la fibra di carbonio. Non tutti i materiali sono però adeguati o in alcuni casi richiedono comunque molta energia nella loro fase di produzione, in un contesto in cui molta dell’energia viene ancora derivata dall’impiego dei combustibili fossili.Che siano SUV elettrici e a peso ridotto o veicoli compatti, le automobili continuano comunque a essere un sistema di trasporto inefficiente dal punto di vista energetico in buona parte dei contesti, soprattutto se confrontato con i trasporti collettivi. Alcune lo sono più delle altre. LEGGI TUTTO

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    Dovremmo vietare i fornelli a gas?

    Caricamento playerDa qualche settimana negli Stati Uniti si sta discutendo molto di fornelli a gas, della loro sicurezza e dei potenziali rischi che comportano per la salute. Il confronto è nato in seguito ad alcune dichiarazioni di Richard Trumka, un membro della Commissione che si occupa della sicurezza dei prodotti di largo consumo, che ha ipotizzato l’adozione di nuove regole per i sistemi di cottura a gas, che sono presenti nel 35 per cento circa delle abitazioni statunitensi.Le opinioni di Trumka, espresse a livello personale, sono circolate molto sui social network, finendo nel dibattito politico e generando qualche confusione. Negli Stati Uniti non è prevista una imminente messa al bando dei piani a cottura a gas, ma la vicenda ha contribuito a rendere attuale e discusso un argomento su cui da tempo si confrontano ricercatori e medici.Eredi delle stufe a legna e a carbone, i fornelli a gas iniziarono ad affermarsi in Inghilterra negli ultimi decenni dell’Ottocento, complice la progressiva diffusione dei gasdotti che raggiungevano le abitazioni e gli edifici commerciali. Furono poi necessari diversi decenni prima che diventassero comuni in Europa e negli Stati Uniti, dove per ragioni di distanza e difficoltà nel costruire gasdotti molto estesi sarebbero poi prevalsi altri sistemi, come i fornelli elettrici o le vecchie stufe. Oggi le cucine a gas continuano a essere molto diffuse in Europa, in particolare nei paesi dell’est. Si stima che più del 30 per cento dell’energia utilizzata nell’Unione Europea per cuocere gli alimenti derivi dal gas naturale. Il largo utilizzo ha fatto sì che nel tempo ne siano state analizzate le caratteristiche per capire se i fornelli a gas siano nocivi per chi li utilizza normalmente.Oltre all’anidride carbonica, i prodotti derivanti dalla combustione del gas comprendono il diossido di azoto (NO2) e polveri sottili, sostanze che si possono trovare anche nei gas di scarico del traffico veicolare. Nelle proprie linee guida più recenti, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha indicato 10 microgrammi di NO2 per metro cubo come limite per la qualità dell’aria. In una cucina si sviluppa una concentrazione di NO2 molto più alta quando si utilizzano i fornelli a gas, ma è comunque difficile determinare se questa condizione abbia conseguenze concrete per la salute.Nell’aprile del 2022 un gruppo di ricerca aveva pubblicato i risultati di uno studio effettuato su 5mila abitazioni per rilevare e analizzare le sostanze inquinanti presenti in casa. Nelle abitazioni dove erano presenti fornelli a gas, e in cui non c’erano cappe aspiranti, era stata osservata una maggiore incidenza di persone con problemi respiratori e quantità più alte nel sangue dei marcatori associati a infiammazioni (ciò non implica necessariamente che si sviluppino poi particolari malattie).Altri studi si erano concentrati sulle cucine professionali, come quelle dei ristoranti, dove alcune variabili possono essere tenute più facilmente sotto controllo, essendoci norme e regole di sicurezza. Anche queste ricerche avevano rilevato la presenza di problemi respiratori in maggiori quantità nelle cucine che utilizzavano il gas, rispetto a quelle che impiegavano piastre elettriche o a induzione.Ci sono invece elementi un poco più chiari su possibili legami tra l’inalazione di sostanze come il NO2 e l’asma infantile, i cui sintomi tendono a peggiorare. Tra le numerose ricerche che se ne sono occupate, una pubblicata alla fine del 2022 e svolta negli Stati Uniti ha ottenuto grande attenzione ed è una delle cause del recente dibattito statunitense sui fornelli a gas. Il gruppo di ricerca ha calcolato la quantità di persone sotto i 18 anni che vivono in abitazioni dove si utilizzano piani cottura di quel tipo, concludendo che il 12,7 per cento dei casi di asma infantile possano essere attribuiti alla presenza di fornelli a gas nelle abitazioni.Secondo lo studio, passando a piani cottura di altro tipo si potrebbero ridurre di un quinto i casi di asma infantile in numerosi luoghi degli Stati Uniti dove sono più diffusi i fornelli a gas come l’Illinois, la California e lo stato di New York. La ricerca ha ricevuto grandi attenzioni e qualche titolo sensazionalistico, ma come spiegano gli stessi autori ci sono molti elementi da approfondire per valutare eventuali impatti e, di conseguenza, studiare le strategie per ridurre il problema.Intervistato da Bloomberg Trumka, il commissario statunitense, ha espresso opinioni alquanto nette sui fornelli: «Sono un pericolo nascosto. Non escludiamo nessuna possibilità. I prodotti che non possono diventare sicuri possono essere vietati». Lo scorso ottobre Trumka aveva provato a impegnare la Commissione a scrivere nuove regole per i fornelli a gas, senza però ottenere l’assenso da parte degli altri quattro commissari. La Commissione di cui fa parte Trumka è indipendente e la presidenza degli Stati Uniti ha chiarito che non ci sono piani per vietare i fornelli a gas.Nonostante le smentite, vari esponenti politici soprattutto tra i Repubblicani hanno mostrato una certa inquietudine per le dichiarazioni di Trumka, così come vari portatori d’interessi legati ai combustibili fossili. Il presidente dell’American Petroleum Institute, Mike Sommers, ha detto che non ci potrà essere un divieto e che eventuali restrizioni sarebbero male accolte dalla popolazione: «le persone amano i loro fornelli».Ultimamente alcuni stati e amministrazioni statunitensi hanno intanto introdotto limitazioni all’impiego dei fornelli a gas, richiedendo che gli edifici di nuova costruzione non siano collegati ai gasdotti. La legge sull’inflazione proposta da Biden e approvata dal Congresso la scorsa estate, che contiene moltissime voci per la transizione ecologica, prevede finanziamenti e incentivi per chi passa a piani cottura elettrici e che non utilizzano il gas, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra.In Europa, dove i riscaldamenti e i fornelli a gas sono molto più diffusi, il dibattito è passato finora sotto traccia, senza avere grande riscontri né da parte della politica né della popolazione. Solo alcuni paesi hanno avviato iniziative legate a ridurre la propria dipendenza dal gas naturale, sia per motivi ambientali, sia economici e di salute pubblica. Come in parte degli Stati Uniti, anche in Danimarca e nei Paesi Bassi ci sono limitazioni per i collegamenti alla rete del gas delle case di nuova costruzione, mentre altri paesi hanno in programma piani simili.In seguito all’invasione russa dell’Ucraina e alla conseguente crisi energetica, lo scorso anno la Commissione Europea ha intensificato i propri piani per ridurre la dipendenza dal gas naturale, in particolare da quello russo. Le motivazioni sono sia economiche sia ambientali, considerato l’impatto ambientale derivante dalla combustione del gas, mentre non ne sono state presentate di natura sanitaria.I regolamenti dell’Unione Europea prevedono già numerose norme per i produttori di fornelli a gas, compresi requisiti minimi sulla loro sicurezza. Per esempio, «gli apparecchi vanno progettati e fabbricati in modo che, se usati normalmente, il processo di combustione sia stabile e i prodotti della combustione non contengano concentrazioni inaccettabili di sostanze nocive alla salute». I rischi non sono comunque legati alla sola combustione. Fornelli mal funzionanti o con guarnizioni usurate possono portare a microperdite di gas, difficili da rilevare, ma che possono comunque essere inalate e per lunghi periodi di tempo.La Commissione è al lavoro per introdurre nuove regole sulle emissioni nocive, ma al momento non si è parlato esplicitamente di fornelli a gas. Come negli Stati Uniti, un passaggio ai piani cottura elettrici e a induzione potrebbe incontrare resistenze, specialmente nei paesi dove l’impiego domestico del gas naturale è molto diffuso sia per il riscaldamento sia per la cottura degli alimenti. L’abbandono dei fornelli a gas comporterebbe inoltre un maggiore consumo di energia elettrica e non tutti i paesi europei sarebbero da subito attrezzati per rispondere adeguatamente alla maggiore richiesta. LEGGI TUTTO