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    Cosa ci dice sulla morte la ricerca sulle “near death experience”

    La presenza di funzioni autonome vitali nelle persone in arresto cardiaco è da tempo oggetto di studi, oltre che di riflessioni bioetiche complesse, generalmente basati sui segni rilevabili dall’“esterno” durante il tempo che precede l’eventuale interruzione del supporto vitale. Altri studi, più limitati, si concentrano invece sull’esperienza personale del paziente e in particolare sulle cosiddette esperienze di pre-morte o ai confini della morte (near death experience, NDE): sensazioni di vario tipo riferite da alcune persone che sopravvivono a una condizione di morte clinica reversibile, tipicamente l’arresto cardiaco.Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista medica Resuscitation ha cercato di misurare l’attività cognitiva e il livello di coscienza in pazienti ospedalizzati in fase di arresto cardiaco sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP, la procedura nota come massaggio cardiaco). I parametri dei pazienti sono stati misurati da elettroencefalografia (EEG), l’esame che registra l’attività elettrica spontanea del cervello, e ossimetria cerebrale, che misura la saturazione di ossigeno nel cervello. I risultati dello studio, considerato abbastanza raro nel suo genere (e comunque molto limitato), hanno mostrato una parziale correlazione tra segni di attività cerebrale e presenza di esperienze di pre-morte riferite da alcuni pazienti.Gli autori e le autrici dello studio hanno concluso che la quantità di dati raccolti non permette né di escludere né di dimostrare la presenza di attività cognitiva in persone il cui cuore abbia smesso di battere per un certo periodo di tempo. Lo studio è considerato comunque significativo: sia perché i risultati ammettono che la coscienza possa esistere in casi critici in cui i suoi segni non sono clinicamente rilevati, sia perché cerca di occuparsi in modo rigoroso – pur tra diversi limiti metodologici e strumentali – di un argomento comunemente trattato con approcci metafisici o pseudoscientifici.– Leggi anche: La storia di Eben Alexander, smontataNella letteratura scientifica sulle esperienze di pre-morte (NDE) i resoconti delle persone che le riferiscono tendono ad avere caratteristiche simili. Le esperienze positive includono sensazioni di distacco dal corpo, levitazione, serenità e sicurezza, e quelle negative principalmente sensazioni di angoscia. Alcune persone raccontano di aver visto parenti morti, altre persone figure bianche luminose, e altre ancora di aver rivissuto momenti della loro vita.Gli approcci sperimentali all’argomento e gli studi longitudinali sono tuttavia molto limitati: sia in termini di strumenti a disposizione per indagare il fenomeno (una cui dimensione soggettiva fondamentale rimane non misurabile), sia in termini di quantità di studi e ampiezza dei campioni analizzati. Alla guida del gruppo che ha pubblicato il recente articolo su Resuscitation c’era lo stesso ricercatore che condusse un altro studio simile nel 2013, già considerato tra i massimi esperti al mondo in materia: Sam Parnia, direttore di ricerca in rianimazione cardiopolmonare alla New York University School of Medicine e direttore del The Human Consciousness Project alla University of Southampton nel Regno Unito.Nel 2019 un gruppo internazionale di specialisti di terapia intensiva (tra cui Parnia), anestesisti, psichiatri, neurologi e neurofisiologi si riunì a New York per discutere delle prospettive future della ricerca sulle esperienze di pre-morte. Tra le proposte emerse durante l’incontro, le cui conclusioni furono poi pubblicate nel 2022 in un documento su Annals of the New York Academy of Sciences, ci fu quella di cambiare il nome delle esperienze pre-morte da near death experience (NDE) in recalled experiences of death (RED), qualcosa come “esperienze di morte rievocate”. Secondo il gruppo questa nomenclatura renderebbe più chiaro che il campo di studi è limitato alle esperienze che si verificano quando una persona è in condizioni critiche, quando il cervello non riceve più sangue né ossigeno.La domanda alla base della ricerca sulle NDE, spiegò Parnia alla rivista Nautilus nel 2022, è: «Cosa succede alla coscienza quando muori: muore a sua volta, o continua?». Parnia sostiene che, sulla base dei dati raccolti da lui e dai suoi colleghi e colleghe, l’attività cerebrale e un certo grado di coscienza possano ancora esistere anche quando altri parametri solitamente monitorati in fase di rianimazione cardiopolmonare (RCP) indicano che il paziente è clinicamente morto.– Leggi anche: Quand’è che una persona morta è davvero mortaIn situazioni normali il quadro delle condizioni del paziente è determinato dagli strumenti di monitoraggio della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di saturazione dell’ossigeno, che restano attivi fino a quando non viene accertata la cessazione irreversibile delle funzioni autonome vitali, condizione necessaria per interrompere la rianimazione. Ai 567 pazienti coinvolti nello studio prospettico più recente – ricoverati tra il 2017 e il 2020 in 25 ospedali, perlopiù negli Stati Uniti e in Regno Unito – sono stati applicati anche gli elettrodi per l’EEG in tempo reale e l’ossimetria cerebrale continua.Per poter verificare in caso di successo della rianimazione anche le eventuali percezioni consce o inconsce durante l’emergenza, ai pazienti sono stati applicati degli auricolari Bluetooth, senza interferire con l’intervento dei medici. È stato quindi utilizzato un tablet per mostrare una serie di immagini casuali e per trasmettere tramite gli auricolari una registrazione di tre parole ripetute: “mela”, “pera”, “banana”. Nella ricerca sull’apprendimento implicito diversi studi citati da Parnia indicano che le persone che non ricordano di aver ascoltato questi nomi di frutti – anche persone in coma profondo – e a cui sia chiesto di pensare casualmente a tre frutti possono comunque dare la risposta corretta.Soltanto 53 persone su 567 sono sopravvissute alla rianimazione, e 28 hanno risposto alle successive interviste: 11 hanno riferito percezioni o ricordi della rianimazione, e 6 di queste persone hanno descritto esperienze tipiche di pre-morte (NDE). La ridotta percentuale di sopravvivenza del campione, secondo gli autori e le autrici, ha condizionato in particolare la parte dello studio relativa alla verifica delle percezioni: su 28 pazienti intervistati nessuno ha riconosciuto le immagini proiettate sul tablet e soltanto uno ha riconosciuto lo stimolo sonoro (troppo poco per poter escludere che fosse casuale, secondo Parnia).Secondo il gruppo di ricerca la parte più significativa dei risultati dello studio riguarda l’attività cerebrale. La maggior parte delle 53 persone sopravvissute ha mostrato un EEG “piatto” durante la rianimazione, oltre che una limitata saturazione di ossigeno nel cervello (43 per cento il valore medio). Circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha però dato per brevi istanti segni di attività elettrica spontanea: onde cerebrali normali o quasi normali (Delta, Theta e Alfa), teoricamente compatibili con un qualche livello di coscienza. Inoltre i segni di attività rilevati tramite EEG emergevano in alcuni casi molto tempo dopo l’inizio della rianimazione cardiopolmonare: fino a un’ora dopo.Per ampliare il campione di 28 persone intervistate nel nuovo studio sono state coinvolte altre 126 persone che avevano subìto in passato arresti cardiaci. Quasi il 40 per cento del campione complessivo ha riportato una certa consapevolezza percepita dell’evento, ma senza ricordi specifici: «Ho sentito come se qualcuno mi stesse spingendo forte sul petto, cercavo di spingerli via ma mi sentivo le mani legate», ha detto una persona. Il 20 per cento delle persone ha raccontato esperienze di pre-morte. «Non ero più nel mio corpo. Galleggiavo senza peso. Ero sopra il mio corpo, direttamente sotto il soffitto della sala di terapia intensiva», ha detto una di loro. «Ricordo di essere entrato in un tunnel. Le sensazioni erano molto più intense del solito, la prima è stata di pace intesa», ha detto un’altra.La conclusione tratta dal gruppo di ricerca è che, sulla base dei risultati dell’EEG e compatibilmente con alcuni racconti dei pazienti, alcune persone sottoposte a rianimazione cardiopolmonare potrebbero essere coscienti durante la rianimazione anche in assenza di segni esterni visibili di coscienza.– Leggi anche: Perché sveniamo è un misteroUn’ipotesi di spiegazione delle esperienze di pre-morte proposta dal gruppo guidato da Parnia è che in condizioni normali il cervello disponga di un sistema che filtra la maggior parte degli elementi coinvolti nelle funzioni cerebrali, tenendoli fuori dalla nostra esperienza cosciente. Questo permette alle persone di funzionare normalmente nella quotidianità, dato che in circostanze normali «non potremmo funzionare con un accesso all’intera attività del nostro cervello nella sfera della coscienza», ha detto Parnia alla rivista Scientific American.In caso di morte imminente è invece possibile che nel cervello questo sistema di filtraggio venga rimosso, con il risultato che parti solitamente non attive diventino attive permettendo alla persona morente di avere accesso all’intera coscienza: «Tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato prima», ha detto Parnia. Sebbene il beneficio evolutivo di questo ipotetico meccanismo non sia chiaro, questo tipo di esperienze potrebbe «preparare le persone alla transizione dalla vita alla morte».Indipendentemente dall’ipotesi di spiegazione delle NDE, lo studio pubblicato su Resuscitation pone una serie di domande riguardo alle conoscenze sulla resistenza del cervello a fronte della prolungata privazione di ossigeno. «L’idea tradizionale è che il cervello muoia, una volta privato di ossigeno per 5-10 minuti», ha detto Parnia, aggiungendo che i risultati dello studio suggeriscono una capacità di resistenza a periodi più lunghi, «il che apre nuove strade per trovare trattamenti per i danni cerebrali in futuro».Lakhmir Chawla, un medico dell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Jennifer Moreno di San Diego, in California, e autore di studi sull’attività cerebrale in pazienti morenti sottoposti a EEG, ha detto a Scientific American che i dati raccolti dal gruppo di ricerca guidato da Parnia forniscono alcune importanti indicazioni. Per prima cosa suggeriscono che sarebbe opportuno «trattare le persone che stanno ricevendo la rianimazione cardiopolmonare come se fossero sveglie» (cosa che «raramente facciamo», ha aggiunto). I medici potrebbero inoltre considerare, per quei pazienti che considerano non più salvabili, di permettere ai loro familiari di salutarli, visto che «i pazienti potrebbero ancora essere in grado di sentirli». LEGGI TUTTO

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    Animali, buffi

    È stata annunciata l’immagine vincitrice dei Comedy Wildlife Photography Awards, un concorso che premia ogni anno le foto di animali più divertenti: mostra un canguro che sembra fingere di suonare una chitarra ed è stata scattata da Jason Moore fuori Perth, in Australia, mentre osservava questo e altri individui in un prato.Un canguro grigio occidentale a Perth, Australia, Air Guitar Roo, © Jason Moore/Comedy Wildlife Photography Awards 2023Il concorso è stato fondato nel 2015 da due fotografi professionisti e ambientalisti, Paul Joynson-Hicks e Tom Sullam, con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema della conservazione della fauna selvatica e dell’ambiente in modo leggero e positivo.Altre foto sono state premiate in categorie minori: Jacek Stankiewicz ha scattato quella di due verdoni che sembrano discutere su un ramo e che ha vinto nelle categorie Junior (per fotografi sotto i 18 anni) e Affinity Photo People’s Choice Award (scelta dal pubblico). Poi ci sono un airone striato che cade in acqua, una lontra ballerina, una libellula su una tartaruga e una famiglia di sule..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Fino a poco tempo fa le tartarughe marine erano quasi un mistero

    Le tartarughe marine non sono animali che si incontrano facilmente: a meno che non vivano in cattività, passano sulla terraferma solo i primi momenti della loro vita, quando escono dalle uova su una spiaggia per spostarsi subito nel mare, e anni dopo, se sono femmine, per deporre le proprie uova. Anche per questo per secoli abbiamo saputo pochissime cose sulle sette specie di tartarughe marine esistenti, comprese le tartarughe liuto (Dermochelys coriacea), quelle più grandi (arrivano a 400 chili di peso), e tuttora dobbiamo scoprirne.Lo racconta l’ecologo e divulgatore scientifico statunitense Carl Safina nel libro Il viaggio della tartaruga, appena pubblicato da Adelphi nella sua collana Animalia, dedicata a saggi sul comportamento di altre specie animali: ne pubblichiamo un estratto. Il 9 dicembre Safina parlerà di tartarughe marine e altri animali a Peccioli (Pisa), in occasione della nuova edizione di “A Natale libri per te”, una manifestazione progettata in collaborazione col Post e coordinata dal suo peraltro direttore Luca Sofri.***Nonostante millenni di venerazione e di commercio, le tartarughe marine sono incredibilmente misconosciute. Molti fatti basilari sulle varie specie, sui territori di nidificazione e sul comportamento sono stati oggetto di dibattito fino in tempi molto recenti, e alcuni restano ancora sconosciuti. Era il 1959 quando una Tartaruga Liuto avvistata al largo di Soay, nei pressi dell’isola di Skye in Scozia, non solo finì sulle prime pagine dei giornali, ma divenne argomento di discussione – come possibile mostro marino – perfino nella letteratura specializzata. Un testimone dichiarò quasi fuori di sé: «Rimanemmo pietrificati e lo osservammo mentre si avvicinava sempre di più… come un mostro infernale di tempi preistorici».Un disegno raffigura un serpente marino (che altro, se no?), benché entrambi i testimoni oculari avessero tracciato discreti schizzi di una Tartaruga Liuto sopra il pelo dell’acqua, e nonostante la sobria descrizione del secondo testimone contenesse alcune scrupolose osservazioni («quando la bocca era aperta … potevo vedere delle crescite filamentose simili a viticci pendenti dal palato»: le proiezioni usate per trattenere le meduse). Il punto è che nessuno disse: «Oh, ma si tratta di una grossa tartaruga – potrebbe essere una Liuto»; in molti luoghi al di fuori dei tropici, infatti, la gente non aveva ancora alcuna familiarità con le tartarughe marine.Una tartaruga liuto su una spiaggia di Trinidad, vicino a un cane, nel 2013 (AP Photo/David McFadden)Fino agli anni Sessanta e Settanta nessuno dei principali territori di nidificazione delle Tartarughe Liuto era noto alla scienza; e solo negli anni Sessanta gli scienziati capirono che il sesso delle tartarughine è determinato dalla temperatura di incubazione delle uova. Negli anni Settanta si stava appena cominciando a scoprire che le tartarughe marine migrano. Ancora nel 1988 l’idea che le Liuto nidificanti nei Caraibi si spingessero fino a latitudini temperate era considerata tutta da dimostrare.Fino a metà degli anni Novanta l’origine delle giovani Tartarughe Caretta trovate in acque messicane rimase sconosciuta; il territorio di nidificazione più vicino era il Giappone – distante oltre diecimila chilometri – e, poiché imprese migratorie di tale entità erano ritenute quasi impossibili, alcuni studiosi continuarono a cercare siti sconosciuti nel Nuovo Mondo. Uno di loro osservò: « Una migrazione transpacifica supererebbe di gran lunga la portata geografica nota delle migrazioni delle tartarughe marine». (Soltanto qualche anno dopo, i trasmettitori satellitari e le targhette identificative avrebbero fatto a pezzi quelle posizioni, dimostrando che effettivamente le Caretta giapponesi e australiane nuotano da costa a costa nel bacino del Pacifico e che quasi tutte le specie marine sono magistrali navigatrici).Negli anni Novanta non si sapeva pressoché niente della localizzazione delle tartarughe neonate dal momento in cui lasciano la spiaggia dove si sono schiuse fino a quando ricompaiono come giovani individui delle dimensioni d’un vassoio; di diverse specie non sappiamo essenzialmente ancora nulla. Perfino negli anni Novanta i ricercatori si limitavano a ipotizzare che spesso le tartarughe tornassero a deporre le uova sulla spiaggia della propria schiusa (oggi, le evidenze fornite in tal senso dal DNA sembrano convincenti).Tartarughe liuto appena uscite dal proprio guscio su una spiaggia della Thailandia, nel 2021 (Sirachai Arunrugstichai/Getty Images)A metà del ventesimo secolo, e anche successivamente, gli scienziati discutevano se tre tipi di tartarughe marine fossero davvero specie distinte (come ricorderete, nel mondo ne esistono soltanto sette). Ancora negli anni Sessanta ci si scontrava sul fatto che la Tartaruga di Kemp fosse o meno una specie a sé. Nessuno scienziato ne aveva mai vista una deporre le uova, e così qualcuno pensava si trattasse di ibridi. Le nidificazioni di massa della Tartaruga Olivacea e di quella di Kemp, cui partecipavano decine di migliaia di individui che arrivavano insieme sulle spiagge con la luce del giorno, rimasero a quanto pare sconosciute alla scienza finché nel 1960 un documentario amatoriale – girato nel 1947, sulla nidificazione di massa della Tartaruga di Kemp – non giunse infine nelle sale consacrate.La Tartaruga a Dorso Piatto, una specie australiana, rimase ignota alla scienza fino agli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, e per cent’anni gli studiosi discussero se si trattasse effettivamente di una specie distinta. Ancora nel 1996 infuriava il dibattito sulla cosiddetta «Black Turtle», la Tartaruga Nera («infuriava» per chi si occupava di Tartarughe Nere): si trattava di una specie a sé oppure soltanto di una razza di Tartaruga Verde? (L’analisi genetica dimostra che sono semplicemente Tartarughe Verdi con una colorazione più scura).Il fatto che almeno alcune Liuto compissero viaggi di andata e ritorno dai territori di alimentazione a quelli riproduttivi, per poi far nuovamente rotta verso la stessa area generale di foraggiamento non fu confermato fino al 2005. Cosa piuttosto notevole, poi, sempre nel 2005 un articolo erudito ammetteva: «Se le giovani tartarughe si spostino andando semplicemente alla deriva, o invece nuotino attivamente controcorrente, è materia di qualche dibattito». Oggi il tracciamento satellitare ha confermato quello che era probabile: se ne hanno voglia, le giovani tartarughe entrano nel flusso della corrente e lo attraversano. La scienza avanza. Ma il punto è che le tartarughe svelano i propri segreti lentamente, e molti restano chiusi «tra le loro piastre corazzate».Traduzione di Isabella C. Blum© 2007 Carl SafinaPublished by arrangement with Jean V. NaggarLiterary Agency, Inc., and The Italian Literary Agency© 2023 Adelphi edizioni s.p.a. Milano LEGGI TUTTO

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    Il chirurgo Victor Chang, protagonista del doodle di oggi

    Il 21 novembre del 1936 nacque a Shanghai, in Cina, Victor Chang, medico australiano apprezzato e ricordato per le sue innovazioni nel campo della chirurgia cardiaca e per la sua attività nel settore. In occasione degli 87 anni dalla sua nascita, Chang viene celebrato con un doodle, l’animazione che di tanto in tanto sostituisce il logo di Google sulla pagina iniziale del motore di ricerca.Chang era figlio di genitori cinesi-britannici nati in Australia. Crebbe inizialmente a Hong Kong ma andò a studiare a Sydney fin da bambino assieme alla sorella. Cominciò a interessarsi alla medicina nel 1948, quando sua madre morì a causa di un tumore al seno: lei aveva 33 anni e lui 12. Nel 1962 Chang si laureò in medicina e chirurgia all’Università di Sydney, dove tornò a lavorare come cardiochirurgo nel 1972 dopo alcune esperienze nel Regno Unito e negli Stati Uniti.Rientrato a Sydney, Chang partecipò alla fondazione del principale centro nazionale per il trapianto di cuore e polmoni all’ospedale St. Vincent. Uno dei suoi contributi più significativi fu lo sviluppo di una valvola cardiaca molto più economica dei modelli precedenti, che rese più accessibili i trapianti di cuore a livello globale. Allo stesso tempo Chang contribuì a diffondere i suoi metodi, con l’obiettivo di dare più attenzione ai pazienti che avevano bisogno di trapianti e di promuovere l’avanzamento della medicina.Nel 1984 operò la 14enne Fiona Coote, la più giovane paziente australiana a sottoporsi a un trapianto di cuore effettuato con successo. Nel 1986 Coote ebbe bisogno di un secondo trapianto, e ancora oggi è la persona australiana più longeva ad aver subìto un trapianto di cuore. Sempre nel 1984 Chang fondò la Victor Chang Foundation, che ancora assegna borse di studio ad aspiranti chirurghe e chirurghi di paesi del Sud Est Asiatico che si vogliono formare in chirurgia cardiaca e trapianti di cuore all’ospedale St. Vincent. Morì il 4 luglio del 1991, assassinato durante un tentativo di estorsione da parte di due giovani a Sydney.Nel 1986 Chang ricevette il titolo di Companion of the Order of Australia, il più alto riconoscimento del paese, per il suo «servizio alla scienza medica e alle relazioni internazionali tra Australia e Cina». Nel 1994 fu fondato un istituto di ricerca in suo nome dedicato alla diagnosi, allo studio e alla prevenzione delle patologie cardiovascolari. Nel 1999 fu scelto come “Australiano del secolo” ai People’s Choice Awards, l’evento in cui furono premiate le persone più in vista e i prodotti della cultura pop più apprezzati nel paese.– Leggi anche: È stato eseguito il primo trapianto di un bulbo oculare completo LEGGI TUTTO

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    SpaceX ci riprova con Starship

    Oggi la compagnia spaziale statunitense SpaceX tenterà per la seconda volta di raggiungere lo Spazio con la sua gigantesca astronave Starship, che nel suo sistema di lancio comprende Super Heavy, il razzo più potente mai realizzato nella storia delle esplorazioni spaziali. Il lancio è previsto intorno alle 14 (ora italiana) ed è un secondo tentativo dopo quello non andato a buon fine dello scorso aprile, quando i tecnici avevano deciso di fare esplodere il veicolo spaziale a causa di vari malfunzionamenti emersi nei primi minuti di volo. Il nuovo test è considerato essenziale per dimostrare le capacità di Starship, che un giorno sarà impiegata per il primo allunaggio del programma lunare Artemis e in futuro per l’esplorazione con astronauti di Marte, almeno nei piani di Elon Musk, il fondatore di SpaceX.Il lancio avverrà da Boca Chica, la piccola località a pochi chilometri di distanza dalla costa del Golfo del Messico in Texas. In quella zona nell’ultima decina di anni SpaceX ha costruito un grande complesso che ha chiamato Starbase. L’area è servita sia all’assemblaggio di Starship e Super Heavy sia ai test delle prime versioni di prova dell’astronave, con grandi esplosioni e un solo tentativo riuscito di riportare al suolo intero il veicolo spaziale, seppure con qualche danno.Esteticamente, Starship ricorda l’astronave di Tintin nel raconto a fumetti Obiettivo Luna, ma è molto più grande e meno colorata. È alta 50 metri, quanto un palazzo di 16 piani, e ha un diametro di circa 9 metri; utilizza sei motori alimentati con ossigeno liquido e metano liquido, che a pieno carico aggiungono circa 300 tonnellate alle mille della massa dell’astronave. Una volta funzionante, potrà essere impiegata per il trasporto in orbita di satelliti di grandi dimensioni, di moduli per stazioni spaziali (compresa la base Gateway che dovrà essere costruita intorno alla Luna nell’ambito di Artemis) e di equipaggi anche verso la Luna o Marte.Per raggiungere l’orbita terrestre, la potenza di Starship non è sufficiente e per questo per darle la spinta necessaria viene utilizzato il grande razzo Super Heavy, alto quasi 70 metri e dotato di 33 motori, sempre alimentati da ossigeno liquido e metano liquido. Il lanciatore spinge Starship oltre l’atmosfera, poi compie una manovra per tornare sulla Terra come fanno già i Falcon 9, i razzi parzialmente riutilizzabili di SpaceX. Il sistema consente di non dovere costruire nuovi razzi per ogni lancio, come fanno diversi concorrenti di SpaceX, e ciò permette di ridurre molto i costi per i lanci e di renderli più frequenti.Super Heavy e Starship montata sulla sua sommità, sulla rampa di lancio (AP Photo/Eric Gay, File)Per Starship e Super Heavy l’obiettivo è ancora più ambizioso, perché la compagnia spaziale vuole ottenere un sistema di lancio che sia completamente riutilizzabile. Entrambi i veicoli spaziali dovrebbero avere la capacità di tornare sulla Terra effettuando un atterraggio controllato, in modo da essere pronti per un nuovo lancio dopo il rifornimento, un po’ come fanno gli aeroplani. Riuscirci non è però semplice, il sistema è complesso e questo spiega le numerose esplosioni che si sono viste in questi anni a Boca Chica, compresa quella fragorosa dello scorso aprile.La partenza del razzo era stata molto più energetica del previsto, aveva distrutto la piattaforma della rampa di lancio e aveva prodotto una forte onda d’urto, con conseguenze nel raggio di diversi chilometri. Starship non si era separata da Super Heavy per proseguire il proprio viaggio e aveva perso la traiettoria corretta, rendendo necessario l’innesco di alcune cariche esplosive per distruggere l’intero sistema. Nei mesi seguenti i tecnici di SpaceX si erano messi al lavoro per analizzare l’incidente e rivedere alcuni componenti e meccanismi sia su Starship sia su Super Heavy. In un rapporto pubblicato lo scorso settembre, SpaceX aveva segnalato che la causa principale dei problemi era stata una perdita di propellente da Super Heavy, che aveva poi avuto ripercussioni su altri componenti.L’incidente aveva portato la Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa delle autorizzazioni per l’aviazione civile, ad avviare una propria indagine che era terminata con la pubblicazione di un rapporto contenente 63 richieste a SpaceX, soprattutto per mettere in sicurezza l’area di lancio. L’onda d’urto aveva provocato il danneggiamento di vari edifici intorno a Boca Chica, alcuni detriti avevano colpito almeno un veicolo e le associazioni ambientaliste avevano segnalato il rischio di contaminazioni e inquinamento. SpaceX ha quindi dovuto rispettare le indicazioni della FAA per ottenere il nuovo permesso per un lancio sperimentale.Oltre ad apportare modifiche a Starship e Super Heavy, negli ultimi mesi SpaceX ha lavorato per rinforzare la base della rampa di lancio, aggiungendo un sistema più elaborato e potente di getti d’acqua, che si attivano per ridurre l’onda d’urto dei motori prodotta nei primi istanti dalla loro accensione. Sono stati assunti diversi altri accorgimenti legati alla riduzione del rischio nella dispersione di inquinanti.SpaceX proverà inoltre una procedura di separazione diversa tra Super Heavy e Starship, facendo accendere i motori all’astronave prima che si separi dal razzo. È una pratica seguita da tempo soprattutto sui razzi russi e consente di perdere meno potenza quando il lanciatore ha quasi terminato la propria spinta e si separa dal resto, visto che farebbe solamente da zavorra. Il passaggio a questa soluzione ha reso necessaria la revisione del funzionamento di alcuni sistemi e potrebbe aggiungere qualche complicazione. Dopo il primo tentativo ad aprile, Musk aveva detto che le probabilità di successo con un secondo lancio sarebbero state superiori al 50 per cento.Come in primavera, il lancio di oggi avverrà utilizzando “Mechazilla”, la particolare rampa di lancio dotata di due grandi bracci meccanici chiamati informalmente “chopsticks” (“bacchette” in inglese) che un giorno dovranno pinzare i razzi di ritorno: in questo secondo test non è previsto il recupero.Le “bacchette” di Mechazilla durante un test dei motori (SpaceX)Al termine del conto alla rovescia, Super Heavy accenderà i 33 motori e spingerà Starship per circa tre minuti, bruciando in poco tempo la grande quantità di propellente nei propri serbatoi. Si separerà poi da Starship e tornerà sulla Terra, effettuando un atterraggio controllato nelle acque del Golfo del Messico: si inabisserà e non sarà riutilizzato, mentre le sue versioni future torneranno automaticamente verso Mechazilla per essere recuperate e riutilizzate. Starship intanto proseguirà il proprio viaggio spingendosi oltre l’atmosfera terrestre e si inserirà in un’orbita per iniziare a girare intorno alla Terra a un’altitudine di circa 230 chilometri. I piani prevedono che sia effettuata un’orbita parziale, poi Starship effettuerà una manovra per rientrare nell’atmosfera e finire nell’oceano Pacifico, dove non sarà recuperata.Il nuovo lancio è molto atteso perché dallo sviluppo di Starship e Super Heavy dipende una parte importante dei piani per tornare sulla Luna e per costruire una stazione spaziale nella sua orbita. La NASA ha dato un appalto da 2,9 miliardi di dollari a SpaceX per realizzare il nuovo sistema e utilizzarlo come veicolo da trasporto per compiere gli allunaggi a partire dalla missione Artemis 3, in programma non prima della fine del 2025 (ci saranno probabilmente ritardi). Negli ultimi mesi sono stati sollevati dubbi e qualche preoccupazione sulla lentezza dei progressi raggiunti, soprattutto se confrontati con gli annunci fatti in passato da Musk che in più occasioni aveva definito imminente un volo orbitale di Starship, senza che questo venisse realizzato a causa dei ritardi e di vari inconvenienti tecnici.SpaceX confida comunque di accelerare i tempi di sviluppo, seguendo una strategia simile a quella adottata nei primi anni di realizzazione dei Falcon 9, i razzi che ormai impiega regolarmente per trasportare satelliti in orbita, materiale ed equipaggi verso la Stazione Spaziale Internazionale, sempre per conto della NASA. La compagnia spaziale ha un approccio alquanto aggressivo: sperimenta i propri sistemi consapevole dell’alta probabilità di un insuccesso, ma in questo modo può raccogliere grandi quantità di dati per correggere gli errori e produrre sistemi di lancio via via più affidabili. I primi voli orbitali di Starship saranno inoltre sfruttati per portare nello Spazio grandi quantità di satelliti Starlink, il sistema per fornire connessioni a Internet per le aree della Terra non raggiunte dai cavi in fibra ottica o dai ripetitori delle reti cellulari. Starlink è diventata un’importante fonte di ricavo per SpaceX e si parla di una sua probabile quotazione in borsa, anche se per ora Musk ha escluso che possa avvenire in tempi brevi. LEGGI TUTTO

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    Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha 100 anni

    Caricamento playerPer molti secoli la scienza è progredita in buona parte attraverso scoperte di persone che potevano dedicarsi ai propri studi grazie a risorse economiche di famiglia, al sostegno di persone facoltose o all’esercizio di professioni svolte in parallelo. Nel corso dell’Ottocento poi le università hanno cominciato ad avere un ruolo sempre maggiore, via via che si definivano le diverse branche della scienza per come la conosciamo oggi e si aprivano facoltà scientifiche. Nell’ultimo secolo infine si sono sviluppati istituti dedicati esclusivamente alla ricerca, molto spesso voluti dai governi: è il caso del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano, il CNR, che fu fondato esattamente cento anni fa.Oggi è il principale ente di ricerca italiano per numero di ricercatrici e ricercatori, 5.559, che lavorano in 88 istituti e 228 sedi con laboratori sparsi nel territorio nazionale, ed è anche l’ente non universitario che finanzia più dottorati. Si occupa di un gran numero di ambiti di studio, dalla fisica alle scienze agroalimentari, dalla chimica ai beni culturali, dalle scienze biomediche all’ingegneria.La storia del CNR inizia dopo la Prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto molti paesi, interessati dalle tecnologie usate dall’esercito tedesco come i sottomarini e i gas velenosi, vollero favorire il progresso scientifico e le sue applicazioni pratiche, sia in campo militare che industriale. Si pensò allora di creare organizzazioni che coordinassero le nuove ricerche tra università, aziende ed esercito: in Italia venne istituito, nel 1923, il CNR. Il suo primo presidente fu l’importante matematico e fisico Vito Volterra, che durante la guerra mondiale si era occupato di dirigibili maturando una certa esperienza nelle applicazioni pratiche delle scoperte scientifiche.– Leggi anche: Vito Volterra e la libertà della scienzaInizialmente il CNR si occupava soprattutto di fisica e chimica. Quando nel 1927 Volterra dovette rinunciare alla presidenza dell’ente in quanto antifascista (nel 1931 fu uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutarsi di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo), il regime di Benito Mussolini nominò al suo posto Guglielmo Marconi, che nel 1909 era stato insignito con il premio Nobel per la Fisica per «lo sviluppo della telegrafia senza fili» ed era quindi molto noto e stimato anche all’estero. Marconi tentò, come Volterra prima di lui, di creare laboratori di ricerca al di fuori del contesto universitario, ma non riuscì davvero in questo intento: i principali risultati scientifici italiani degli anni Trenta furono ottenuti dal gruppo di Enrico Fermi che lavorava all’interno del Regio istituto di fisica dell’università di Roma.Alla morte di Marconi nel 1937, Mussolini nominò presidente del CNR il capo di Stato maggiore Pietro Badoglio, che avrebbe poi firmato l’armistizio del 1943. Mussolini scelse un militare perché già all’epoca si parlava della possibilità di una nuova guerra in Europa e voleva che gli scienziati e l’esercito collaborassero. La cosa non funzionò mai davvero, e così il regime ridusse i finanziamenti al CNR. In quegli stessi anni la comunità scientifica italiana aveva peraltro subìto grandi danni a causa delle leggi razziali contro gli ebrei che avevano spinto molti scienziati, tra cui Fermi, vincitore del Nobel per la Fisica nel 1938, a trasferirsi all’estero.Il periodo di maggior rilevanza della storia del CNR iniziò dopo la Seconda guerra mondiale, quando fu riformato in senso democratico, ampliò i propri campi di attività e collaborò alla ricostruzione del paese. Infatti il CNR ebbe un ruolo importante nella pianificazione territoriale e negli studi ingegneristici necessari per costruire il gran numero di abitazioni che servivano nelle città italiane in quel periodo. Fece anche studi per la costruzione del gran numero di ponti e viadotti realizzati negli anni Quaranta e Cinquanta, e sviluppò le normative tecniche per le attività produttive, quelle che garantiscono la sicurezza dei lavoratori dell’industria, dell’edilizia e non solo.Ma il CNR si occupò molto anche di fisica nucleare e dei suoi possibili impieghi nel campo dell’energia e di ricerca spaziale. Nel 1951 fu fondato l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), che sarebbe diventato un ente di ricerca autonomo negli anni Sessanta, e nel 1959 la Commissione per le ricerche spaziali, l’origine dell’Agenzia spaziale italiana (ASI) creata nel 1988. L’ambito delle ricerche spaziali è uno di quelli in cui il CNR collaborò di più con le aziende: negli anni Settanta questa collaborazione portò al lancio nello Spazio di SIRIO, il primo satellite geostazionario europeo per le telecomunicazioni.L’Istituto per le applicazioni del calcolo (IAC), che era stato fondato nel 1927 e fu il primo degli istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ne fa tuttora parte. Nel 1955 fu il secondo ente italiano dopo il Politecnico di Milano ad assemblare un computer, il FINAC, che fu usato per fare calcoli per il ministero del Bilancio, oltre che per la ricerca nucleare.Ancora negli anni Sessanta il CNR continuò la propria espansione. Prima di tutto perché nel 1962 l’allora presidente Giovanni Polvani volle aggiungere alle discipline scientifiche di cui si era occupato il CNR fino ad allora anche quelle umanistiche, in particolare nel campo delle scienze umane e del patrimonio culturale. Oggi fanno parte del CNR anche enti di ricerca come l’Istituto di studi giuridici internazionali (ISGI), l’Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (ISSIRFA) e l’Istituto opera del vocabolario italiano (OVI), che ha il compito di elaborare il vocabolario storico italiano.Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta tuttavia il CNR ebbe un periodo di crisi a causa della diminuzione delle risorse finanziarie stanziate dai governi per la ricerca (erano più o meno sempre gli stessi fondi, ma nel frattempo aumentava l’inflazione) e della sempre maggiore burocratizzazione dei progetti di ricerca, che di fatto la rallenta. Le cose migliorarono con l’intervento di Antonio Ruberti, ingegnere, ex rettore della Sapienza di Roma e ministro dell’Università e della Ricerca scientifica dal 1988 al 1992, che riprese a finanziare il CNR.Oggi il Consiglio Nazionale delle Ricerche continua a essere la più importante istituzione di ricerca pubblica in Italia, ma da tempo si discute della necessità di rivederne parte dell’organizzazione e di modificare alcuni sui meccanismi legati sia all’assegnazione delle borse sia ai criteri di ricerca stessa.– Leggi anche: Cosa ci facciamo in Antartide LEGGI TUTTO

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    È stato eseguito il primo trapianto di un bulbo oculare completo

    Aaron James, un uomo che nel 2021 perse l’occhio sinistro in un grave incidente con un cavo elettrico, è diventato il primo uomo a ricevere un trapianto di un intero bulbo oculare. L’operazione è stata eseguita a maggio dai medici dell’NYU Langone Health, un centro ospedaliero dell’Università di New York, ma la sua riuscita è stata annunciata solo giovedì 9 novembre. È stata guidata dal dottor Eduardo Rodriguez, e ha coinvolto 140 sanitari. Mentre il trapianto di cornea, la membrana trasparente che sta davanti all’occhio, è una procedura relativamente comune, il trapianto dell’intero bulbo oculare, assieme ai muscoli, ai vasi sanguigni e al nervo ottico, non era mai stato fatto con successo sugli esseri umani.A diversi mesi di distanza l’occhio trapiantato è in buona salute, e anche se al momento non permette a James di vedere dall’occhio sinistro i medici non escludono questa possibilità (quello destro era comunque rimasto illeso). James, che nell’incidente ha perso anche il braccio sinistro e ha subito lesioni gravissime al volto, ha anche ricevuto un trapianto parziale del volto, un’altra procedura rara e complessa: è il diciannovesimo paziente a riceverlo negli Stati Uniti.Al momento gli effetti della procedura su James sono essenzialmente estetici, ma è possibile che col tempo la sua visione dall’occhio sinistro venga parzialmente ripristinata. L’operazione è comunque considerata dagli esperti un grande passo avanti, che avvicina la possibilità di ripristinare la vista di milioni di persone cieche.– Leggi anche: Storia del mio occhio di vetro Aaron James, che ha ricevuto il trapianto, con sua moglie Megan (AP Photo/Joseph. B. Frederick) LEGGI TUTTO

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    È morto a 95 anni l’astronauta statunitense Frank Borman, comandante della prima missione spaziale con a bordo persone a orbitare intorno alla Luna

    È morto a 95 anni Frank Borman, astronauta statunitense che fu il comandante della missione spaziale Apollo 8, la prima con a bordo un equipaggio di esseri umani a orbitare intorno alla Luna. La missione Apollo 8 – di cui facevano parte anche i piloti James Lovell e William Anders – partì il 21 dicembre del 1968 e impiegò tre giorni per raggiungere la Luna. Orbitò intorno al satellite per dieci volte nel corso di 20 ore, durante le quali l’equipaggio effettuò una breve trasmissione in diretta televisiva e scattò una famosissima fotografia della Terra vista dallo Spazio. Gli astronauti tornarono sulla Terra il 27 dicembre, ammarando nell’Oceano Pacifico.– Leggi anche: La storia della foto scattata dall’Apollo 8 (Larry Mayer/The Billings Gazette via AP) LEGGI TUTTO