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    Perché scrivere molte volte una parola può renderla strana

    Il déjà vu, che in francese significa “già visto” e descrive la sensazione ingannevole di aver già vissuto un’esperienza in realtà mai vissuta prima, è uno dei fenomeni più studiati nelle moderne scienze cognitive, tra quelli già descritti oltre un secolo fa da autori famosi e influenti come il filosofo francese Henri Bergson e il neurologo austriaco e fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. In tempi recenti alcuni dei ricercatori che da diversi anni analizzano e riproducono in laboratorio l’esperienza del déjà vu hanno ampliato le conoscenze su un fenomeno opposto, in un certo senso, oltre che più raro e meno studiato: il jamais vu (in francese, “mai visto”).Se il déjà vu è definito come un’impressione illusoria di familiarità di un’esperienza presente in rapporto a un passato indefinito, il jamais vu è un’impressione illusoria di estraniazione di un’esperienza presente rispetto a un passato in cui quell’esperienza si è già certamente verificata altre volte. Il jamais vu, in altre parole, si verifica quando una qualsiasi situazione che dovrebbe essere estremamente familiare non viene riconosciuta come tale dall’osservatore. Implica spesso un senso di disagio e inquietudine, perché l’impressione di trovarsi in una certa situazione per la prima volta coesiste con la consapevolezza che non sia la prima volta.Un’esperienza di jamais vu nella vita quotidiana, spesso riportata dalle persone coinvolte negli studi su questo fenomeno, è scrivere a mano più volte una stessa parola, correttamente, al punto da soffermarsi poi su quella parola con l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato o di anomalo nel modo in cui è scritta. Un’altra è ripetere a voce una parola più e più volte, e avere a un certo punto l’impressione che quella parola sia un suono privo di significato.Situazioni di questo tipo furono ricreate in laboratorio da un gruppo di psicologi e neuroscienziati dell’Università di Grenoble in Francia, di Helsinki in Finlandia e di St. Andrews in Scozia per un esperimento sull’«alienazione delle parole e la sazietà semantica», condotto su 94 studenti di psicologia della University of Leeds. I risultati furono pubblicati nel 2020 in una ricerca recentemente premiata con l’Ig Nobel, i premi attribuiti ogni anno alle ricerche più bizzarre e insolite.– Leggi anche: L’importanza delle ricerche scientifiche strambeIl primo esperimento della ricerca prevedeva che i partecipanti trascorressero del tempo scrivendo ripetutamente una stessa parola. Come possibile stimolo del jamais vu furono scelte dodici parole, alcune molto comuni come door, money e room, e altre meno come ting (“tintinnio”) e ague (“febbre malarica”). I ricercatori chiesero a ciascun partecipante di scrivere a mano una parola più volte il più velocemente possibile, e strutturarono l’esperimento in modo che i partecipanti potessero smettere di scrivere nel momento in cui fossero sopraggiunti o male alla mano, o noia o un senso di estraniazione.Il senso di estraniazione fu la ragione più frequente per cui i partecipanti, circa il 70 per cento, decidevano di smettere di scrivere. E si verificava di solito per parole familiari e dopo circa un minuto, cioè dopo aver scritto la stessa parola mediamente 33 volte. La stessa sensazione fu riportata dal 55 per cento dei partecipanti ma in un tempo ancora più breve – in media dopo aver scritto la stessa parola 27 volte – anche in un secondo esperimento, per cui fu utilizzata come parola soltanto l’articolo the, scelta dai ricercatori in quanto una tra le più comuni in assoluto nella lingua inglese.I ricercatori trovarono le descrizioni dei partecipanti riguardo all’esperienza da loro provata pienamente compatibili con la caratteristiche del jamais vu: la non familiarità e la dissociazione delle parole dal loro significato. Alcuni dissero che più osservavano le parole, più le parole sembravano strane e prive di significato. «Sembrano soltanto serie di lettere invece che parole intere», disse uno dei partecipanti. «Sembra quasi che non sia nemmeno una parola, ma che qualcuno mi abbia ingannato facendomi credere che lo sia», disse un altro. La maggior parte di loro disse inoltre di aver provato un’esperienza del genere altre volte in passato, in contesti quotidiani e non sperimentali.Come hanno scritto su The Conversation due coautori della ricerca, il neuropsicologo inglese Chris Moulin e il neuroscienziato cognitivo inglese Akira O’Connor, il metodo da loro seguito – chiedere di scrivere ripetutamente una parola – non è una novità nella ricerca scientifica nel campo della psicologia. Nel 1907 la psicologa statunitense Margaret Floy Washburn, una delle più influenti del XX secolo, pubblicò i risultati di un esperimento simile condotto sui suoi studenti, da cui emerse una «perdita del potere associativo» delle parole quando gli studenti fissavano le parole per tre minuti.Sul piano teorico il jamais vu condivide inoltre alcune caratteristiche con un concetto reso noto nel 1919 da Freud, il «perturbante» (Unheimliche), poi diventato una delle più importanti categorie filosofiche ed estetiche del Novecento. Freud definì perturbante il sentimento che si prova quando qualcosa di massimamente familiare diventa nella percezione soggettiva il contrario di sé: qualcosa che turba, familiare e allo stesso tempo per niente familiare. E l’effetto perturbante, scrisse Freud, può scaturire in particolare dalle situazioni in cui uno stesso fatto, gesto o fenomeno si ripete identico a sé stesso.– Leggi anche: Che rapporto abbiamo con i noi stessi del passatoSecondo Moulin e O’Connor il jamais vu è un fenomeno che richiede maggiori studi e approfondimenti, ma la loro ipotesi è che sia una particolare impressione che può presentarsi quando la ripetizione porta in generale a una trasformazione e a una perdita di significato delle parole e delle esperienze. O’Connor ha citato un altro esempio, un caso di jamais vu capitato a lui direttamente: stava guidando in autostrada, quando a un certo punto provò un senso di estraniazione e sentì il bisogno di fermarsi sulla corsia di emergenza per «resettare» l’elaborazione delle informazioni e ritrovare familiarità con i pedali e il volante.Il jamais vu potrebbe essere, secondo Moulin e O’Connor, un sorta di segnale cognitivo che qualcosa è diventato «troppo automatico, troppo fluido, troppo ripetitivo». E potrebbe essere un modo per interrompere una sensazione di irrealtà emergente e recuperare il controllo sulle cose, in modo da dirigere l’attenzione dove è necessario e non rischiare di perderla durante l’esecuzione di compiti ripetitivi per un lungo periodo di tempo.La ricerca sul jamais vu potrebbe inoltre espandere le conoscenze su altri fenomeni che hanno caratteristiche simili. La perdita di significato dovuta alla ripetizione continua di una stessa parola è associata, per esempio, all’effetto della trasformazione verbale nella percezione dei suoni delle parole. Si verifica quando sentire ripetere una stessa parola più volte porta l’ascoltatore o l’ascoltatrice a distorcere la percezione del suono, dopo un certo numero di ripetizioni, fino a renderlo compatibile con parole diverse da quella iniziale e quindi con altri significati.Capire perché scrivere una parola ripetutamente genera un senso di estraniazione e fa sì che la realtà cominci a sfuggire, secondo Moulin e O’Connor, potrebbe anche servire a spiegare alcuni comportamenti studiati in relazione al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), tra cui la tendenza a controllare di continuo e fissare a lungo gli oggetti che possono generare incertezza, come i fornelli del gas o le porte. Controllare più volte che la porta sia chiusa – come scrivere ripetutamente una parola, appunto – potrebbe rendere quel compito privo di significato e quindi inefficace, rendendo difficile o impossibile sapere se la porta sia chiusa oppure no, in un circolo vizioso. LEGGI TUTTO

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    Quanto cambia nella vita avere fratelli e sorelle

    Secondo una delle più conosciute frasi fatte sui rapporti familiari nessuna persona sceglie la propria famiglia: i propri genitori, prima di tutto, ma nemmeno fratelli e sorelle. Che è sicuramente vero, nella misura in cui è vero che non “decidiamo” in quale ambiente nascere: per quanto riguarda la famiglia, appunto, ma anche molto altro. Tra le molte influenze che subiamo e a nostra volta esercitiamo nel corso della vita quella tra fratelli e sorelle è di un tipo abbastanza eccezionale: può essere più forte dell’influenza dei genitori, e il più delle volte dura più a lungo. Ma allo stesso tempo è completamente diversa, e tende a subire un’evoluzione man mano che fratelli e sorelle lasciano la casa in cui sono nati e cresciuti.Nella ricerca scientifica i legami familiari, soprattutto quello tra gemelli, sono considerati una preziosa opportunità di studiare l’influenza dei fattori sia ambientali che ereditari nella definizione delle caratteristiche fisiche e psichiche delle persone. Ma i rapporti tra fratelli e sorelle sono anche un frequente spunto di conversazioni comuni. Capita spesso di parlare di una persona ponendola in relazione con i suoi fratelli e le sue sorelle, per valutarne somiglianze e differenze. E capita spesso di chiedersi se e in che misura questi particolari rapporti siano importanti nella costruzione dell’identità delle persone, anche per la loro semplice presenza, e senza che le persone stesse ne abbiano consapevolezza.È molto probabile che l’influenza reciproca tra fratelli e sorelle abbia a sua volta subito un’evoluzione storica significativa sul piano collettivo, dovuta all’allungamento dei tempi di coabitazione nello stesso ambiente familiare rispetto al passato: un fenomeno da tempo noto e diffuso in Italia, ma anche in altri paesi dell’Europa mediterranea e in aumento anche negli Stati Uniti. In Italia, secondo un rapporto dell’ISTAT pubblicato nel 2022, la tendenza a lasciare la famiglia di origine più tardi che in passato rende la coabitazione tra fratelli e sorelle un fenomeno piuttosto normale nella fascia più giovane della popolazione.Il 68,2 per cento delle persone tra 18 e 24 anni vive con almeno un fratello o una sorella. Questa percentuale scende al 23,1 se si considera la fascia di età 25-34 anni, e diminuisce progressivamente man mano che l’età aumenta. Ma la solidità dei legami si manifesta anche in seguito, come attestato dal fatto che molti fratelli e sorelle non conviventi abitano a poca distanza tra loro. Circa una persona su due (50,7 per cento) vive infatti in un’altra abitazione ma nello stesso comune del fratello o della sorella più vicini.– Leggi anche: Perché i gemelli identici ci affascinanoSebbene tutte le famiglie differiscano le une dalle altre per molti aspetti e sfumature, tanto più in contesti sociali e culturali diversi, l’influenza del rapporto con fratelli e sorelle nella definizione dei caratteri e di altre caratteristiche delle persone è da tempo oggetto di molte ricerche, principalmente su campioni di famiglie europee e statunitensi. Sono studi accomunati prima di tutto da un accresciuto interesse per le relazioni sociali in generale e per come siano cambiate a seguito del progressivo calo della mortalità e della fertilità: condizioni che hanno reso possibili legami più durevoli, attivi e intensi, familiari e non, ma anche più complessi, ambigui e incerti.I fratelli della famiglia Jackson: Michael, Tito, Jackie, Jermaine, e dietro di loro Randy e Marlon, nell’ottobre 1972 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)Per le persone che hanno fratelli o sorelle è probabile che i rapporti con loro – intensi o no, conflittuali o meno – siano i più lunghi di tutta la vita. Se questi rapporti determinino poi un miglioramento o un peggioramento della qualità della vita dipende da molte variabili ed è una questione discussa da diversi punti di vista. Una ricerca pubblicata nel 2012 e basata sull’analisi di diversi studi sulle relazioni tra fratelli e sorelle nell’infanzia e nell’adolescenza, condotti nei precedenti due decenni, suggerisce che le interazioni positive con un fratello o una sorella durante l’adolescenza favoriscano l’empatia, il comportamento prosociale e il rendimento scolastico.Altri studi indicano però che questi effetti positivi variano al variare del numero di componenti della famiglia. Nella letteratura scientifica esiste infatti un rapporto inverso molto chiaro tra numero di fratelli o sorelle e buoni risultati scolastici e prestazioni nei test di intelligenza psicometrica. Ma l’universalità di questo rapporto è a sua volta messa in discussione da altre ricerche che includono altre variabili specifiche come l’ordine di nascita e il genere, e suggeriscono che non tenere conto di questi altri fattori per studiare i risultati scolastici ed economici possa restituire stime distorte dell’influenza di avere uno o più fratelli e sorelle.– Leggi anche: L’altissimo QI dei geni è una ballaSecondo un ampio studio del 2005 sull’intera popolazione norvegese, per esempio, la dimensione della famiglia sul livello di istruzione dei figli ha effetti meno importanti rispetto all’ordine di nascita. Avere o non avere fratelli e sorelle risultò infatti piuttosto ininfluente per il livello di istruzione del primogenito o della primogenita, che tendeva a essere lo stesso indifferentemente dal numero di fratelli e sorelle più piccole che aveva. Era però influente per i nati successivamente, penalizzante in particolare per le donne: quelle nate più tardi avevano guadagni più bassi (che fossero impiegate a tempo pieno o meno), meno probabilità di lavorare a tempo pieno e maggiori probabilità di avere il primo parto da adolescenti. Al contrario, anche se gli uomini nati più tardi avevano un reddito a tempo pieno più basso rispetto ai nati prima, non avevano meno probabilità di lavorare a tempo pieno.L’ordine di nascita all’interno delle famiglie numerose non è invece un fattore altrettanto influente nella definizione del carattere e dell’identità delle persone, contrariamente a quanto suggerito da molte teorie incerte e luoghi comuni, come quello sui presunti tratti ricorrenti nei figli di mezzo, per esempio. Una ricerca condotta da un gruppo del dipartimento di psicologia dell’Università di Lipsia e dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica PNAS, analizzò un ampio insieme di dati relativi a tre campioni di popolazione degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania. E non riscontrò effetti dell’ordine di nascita sull’estroversione, sulla stabilità emotiva, sulla piacevolezza, sulla diligenza e sull’immaginazione delle persone.I fratelli Marx, da sinistra Zeppo, Harpo, Chico e Groucho, nel 1933 (AP Photo)Ovviamente le relazioni tra fratelli e sorelle possono anche essere negative, e in alcuni casi pessime, al punto da condizionare pesantemente tutta la vita. Avere cattivi rapporti con fratelli e sorelle aumenta le probabilità di abuso di sostanze, depressione e ansia durante l’adolescenza. E due studi longitudinali su un campione piuttosto esteso di popolazione del Regno Unito indicano che il bullismo tra fratelli adolescenti aumenti il rischio di compiere atti di autolesionismo nella prima età adulta e il rischio di soffrire di psicosi (varie condizioni patologiche caratterizzate da un’alterazione del rapporto con la realtà).Alcune riflessioni e studi recenti si sono concentrati su quanto le relazioni tra fratelli e sorelle siano soggette a un’evoluzione nel corso del tempo e possano cambiare anche molto, specialmente in seguito alla fine della coabitazione, o alla morte dei genitori. In un recente articolo sul rapporto tra fratelli e sorelle, intitolato Le relazioni più lunghe della nostra vita, l’Atlantic ha scritto che questo rapporto ha generalmente due fasi distinte: una prima fase in cui è molto radicato nel tessuto familiare e guidato dai genitori, e un’altra in cui sopraggiunge l’indipendenza.Le tenniste statunitensi Venus e Serena Williams durante un match del torneo di doppio femminile a Wimbledon, a Londra, il 25 giugno 2014 (AP Photo/Alastair Grant)In questa seconda fase quello tra fratelli e sorelle diventa un caso piuttosto unico di legame in parte ancora «involontario», perché nessuno sceglie i propri fratelli o le proprie sorelle, appunto, ma in parte anche «volontario». Continuare a frequentare i propri fratelli e sorelle, così come smettere di farlo, tende infatti a non essere più un atto condizionato da dinamiche familiari e obblighi morali o di altro tipo. Tant’è che allontanarsi da un fratello o da una sorella è solitamente considerato un fatto meno eccezionale e in un certo senso meno grave che allontanarsi da un genitore o da un coniuge. In estrema sintesi, scrive l’Atlantic, fratelli e sorelle sono «persone costrette a stare insieme che poi all’improvviso non lo sono più».La seconda fase della relazione tra fratelli e sorelle è tendenzialmente caratterizzata da un’indipendenza economica e affettiva che può dare l’opportunità di costruire una relazione diversa rispetto a quella della giovinezza. A volte le persone rimangono bloccate nei ruoli interpretati nella fase precedente, a volte riescono a liberarsene. E una delle ragioni per cui capita di avere un rapporto completamente diverso, secondo la statunitense Katherine Jewsbury Conger, sociologa della University of California Davis, è il venir meno di un particolare fattore a volte percepito all’interno del contesto familiare: i favoritismi.I fratelli Noel e Liam Gallagher ritratti su un cartello retto da un fan fuori da un negozio, a Glasgow, il 7 gennaio 2012 (Jeff J Mitchell/Getty Images)Utilizzando il campione di uno studio longitudinale su tre generazioni di famiglie rurali dell’Iowa cominciato alla fine degli anni Ottanta (il Family Transitions Project), Conger ha intervistato coppie di fratelli e sorelle, sia insieme che separatamente, dagli anni della scuola media fino all’età adulta. E ha scoperto che ricordavano anche a distanza di anni quale dei due condividesse più interessi con la madre o con il padre, o avesse più bisogno di aiuto per i compiti a casa o per altro, e che questa condizione non era causa di dissidi. Nei racconti emergevano invece conflitti e tensioni nei rapporti nei casi in cui fosse presente la percezione di favoritismi slegati da necessità particolari e specifiche.L’eventuale risentimento per questo tipo di dinamica familiare, in cui coesistono sentimenti sia positivi che negativi verso il fratello o la sorella, tende a raggiungere il picco prima dell’adolescenza. Dopodiché le persone cominciano a essere più indipendenti e a trascorrere più tempo con gli amici e meno con i genitori. E comincia a emergere per la prima volta la natura «volontaria» delle relazioni tra fratelli e sorelle, e l’idea che sia necessaria una qualche forma di impegno per mantenerle. L’adolescenza è per questo motivo considerata un punto di svolta nel rapporto tra fratelli e sorelle, dal momento che pone in molti casi le basi delle relazioni future: quanto saranno attive e impegnate, o distanti e poco coinvolgenti, in età adulta.Non significa che quanto emerge nella relazione tra fratelli e sorelle durante l’adolescenza sia destinato a rimanere immutato per sempre: come affermato da Conger è possibile che più avanti nella vita quel legame venga in parte riscritto a seguito di un «ricentramento dinamico». La parola «ricentramento» si riferisce al fatto che rispetto all’infanzia, una fase in cui i bambini e le bambine vedono i genitori come il centro della famiglia, il legame tra fratelli e sorelle e il cambiamento di quella relazione diventa il nuovo centro.Spesso gli eventi e i passaggi più significativi nel corso della vita delle persone, sia positivi che negativi, possono contribuire a un ricentramento della relazione tra fratelli e sorelle: un matrimonio, una gravidanza, una nascita o un lutto. Ma queste stesse occasioni possono anche lasciare inalterati o peggiorare i rapporti, come nel caso dell’assistenza ai familiari, che secondo una ricerca del 2014 può far riemergere in alcuni casi risentimenti del passato legati ai favoritismi nel nucleo familiare d’origine.Una conclusione condivisa da molte ricerche e riflessioni sul rapporto tra fratelli e sorelle è che l’influenza reciproca sia comunque duratura. Per molte persone la relazione con fratelli e sorelle è infatti la più lunga di tutta la vita: precede quella con il o la partner, e sopravvive generalmente a quella con i genitori. Spesso è anche una delle relazioni più intense. Uno studio del 2013 condotto su oltre un milione di svedesi riscontrò una correlazione tra la morte di un fratello o una sorella in età adulta e il rischio di morire di infarto fino a 18 anni dopo il lutto. E citò come possibili cause sia le predisposizioni genetiche condivise che lo stress causato dal lutto, fattori di rischio di infarto miocardico.È probabile che la maggior parte delle persone con fratelli o sorelle sia diversa da come sarebbe stata senza. Come ha scritto l’Atlantic «fratelli e sorelle sono una parte viva della storia di qualcuno e una forma di memoria che vive al di fuori di noi stessi». LEGGI TUTTO

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    La scoperta di una misteriosa creatura marina su Instagram

    Ryo Minemizu è un fotografo giapponese specializzato in foto sottomarine che mostrano creature variopinte, spesso minuscole, che vivono a varie profondità nell’oceano Pacifico al largo della costa del Giappone. Come molti altri fotografi, Minemizu condivide le proprie immagini su Instagram, in un profilo fitto di immagini di animali dalle forme più strane che ricorda i grandi cataloghi di specie di un tempo, non sempre conosciute e che talvolta attirano la curiosità dei ricercatori. Questa è la storia di una di quelle foto e di quanto possa essere complicato e sorprendente scoprire qualcosa di nuovo su esseri viventi mai visti prima, che magari sono qualcos’altro rispetto a ciò che sembrano.Come racconta il sito della rivista Science, tra le persone incuriosite dalle foto di Minemizu c’era Igor Adameyko, un neurobiologo dell’Università di Vienna, che aveva notato sul profilo Instagram del fotografo un’immagine scattata nel 2018 e condivisa nel 2020 che mostrava una strana creatura marina non identificata. Adameyko si era messo in contatto con Minemizu chiedendogli se per caso avesse raccolto un esemplare di quello strano animale e se fosse interessato a spedirglielo, così da poterlo analizzare. Il fotografo accettò e dopo qualche tempo Adameyko ricevette un pacchetto contenente l’esemplare, grande più o meno quanto una lenticchia e conservato in formalina.L’analisi rivelò che l’animale aveva una parte esterna fluttuante, con una struttura che ricordava tanti piccoli tentacoli collegata a una parte centrale semisferica. A prima vista sembrava che le strutture simili ai tentacoli fossero piccole appendici, ma osservando più attentamente Adameyko si accorse che non si trattava di un singolo animale, ma di una serie di tanti piccoli organismi lunghi pochi millimetri. Erano almeno una ventina e Adameyko iniziò a riferirsi a loro informalmente come “marinai”, visto che sembravano avere la funzione di far muovere nell’acqua la creatura.Una successiva analisi della semisfera rivelò qualcosa di ancora più particolare: era formata da un insieme di centinaia di minuscoli organismi simili ai girini, con una testa grande quanto la punta di una matita e una coda più sottile di un capello umano. Le varie code, ha spiegato di recente Adameyko con un gruppo di colleghi sulla rivista scientifica Current Biology, erano tutte annodate insieme al centro della semisfera, con la testa di ogni organismo rivolta verso l’esterno.(Current Biology)Invece di semplificare le cose, l’analisi della struttura di quello strano animale aveva complicato la ricerca di una possibile specie di appartenenza. Né Adameyko né diversi altri colleghi erano in grado di stabilire che cosa avesse fotografato Minemizu qualche anno prima.Fu solo dopo alcune analisi per rivelare particolari dettagli anatomici, come quelli del sistema nervoso dell’organismo, che Adameyko e colleghi iniziarono a ipotizzare che si trattasse di un esemplare appartenete ai Lophotrochozoa, il vasto gruppo (“clado”) che comprende i molluschi, vari invertebrati acquatici e gli anellidi come i lombrichi, per citarne alcuni. L’ipotesi era che si trattasse di un parassita, ma servivano analisi del DNA per poterlo confermare. L’esemplare era stato conservato in formalina, una sostanza usata spesso per conservare materiali biologici, ma che degrada velocemente il DNA. Fu quindi necessario utilizzare tecniche solitamente impiegate per la raccolta di materiale da reperti antichi, in modo da ottenere ugualmente qualche informazione.Infine, l’analisi del DNA permise di restringere il campo: l’organismo apparteneva ai digenei (Digenea), una sottoclasse di animali vermiformi noti per avere spesso un ciclo vitale particolare, che comporta la colonizzazione di animali di diverse specie. Le modalità variano, ma in generale i parassiti adulti vivono all’interno di un ospite e producono uova che finiscono nell’ambiente circostante, di solito attraverso le feci dell’animale che hanno colonizzato. Le uova si trasformano in larve all’interno di altri animali entrati in contatto con le feci, che a loro volta vengono poi mangiati dagli animali in cui il parassita può passare dalla larva alla fase adulta. Dopodiché produce le uova e il ciclo ricomincia.Le larve simili a girini raggruppate nella parte centrale dell’esemplare analizzato (Current Biology)Nel caso di alcune specie, le larve vivono liberamente e hanno sviluppato la capacità di rimanere insieme, imitando la forma dei piccoli organismi che vivono negli ambienti acquatici di cui si nutrono i pesci. In questo modo un pesce le ingerisce pensando di avere davanti qualcosa di cui va ghiotto e rimedia una parassitosi.Lo strano insieme di organismi fotografato da Minemizu sembra fare qualcosa di simile, ma ciò che è veramente insolito è che lo facciano utilizzando due diverse forme della fase larvale (“cercaria”). Sia i marinai sia i “girini” appartengono infatti alla stessa specie. Secondo la ricerca, i girini sono responsabili della colonizzazione vera e propria dei pesci attraverso le loro branchie o l’apparato digerente, mentre i marinai hanno il compito di portare in giro il groviglio di girini nell’acqua.Questa separazione dei compiti era stata osservata in passato in alcune specie di digenei che conducono il loro stadio larvale all’interno di un altro animale, mentre non era stato ancora osservato nel caso di larve che vivono liberamente nell’ambiente esterno.La scoperta apre nuove possibilità sulla ricerca di altre specie simili nelle quali le larve non hanno da subito bisogno di un ospite e, in un certo senso, collaborano per raggiungerne e invaderne uno. Adameyko ha in programma di proseguire le ricerche per comprendere come funzioni questa forma di collaborazione e se le larve abbiano un sistema per orientarsi, forse seguendo la luce. Minemizu nel frattempo ha pubblicato centinaia di fotografie di altre creature marine, che potrebbero nascondere qualche altra sorpresa a conferma di quanto ci sia ancora da scoprire negli oceani, che del resto ricoprono più del 71 per cento della superficie del nostro pianeta. LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’autunno

    Caricamento playerAlle 8:50 di sabato 23 settembre è finita l’estate e iniziato l’autunno. L’equinozio d’autunno è quel momento dell’anno in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Spesso si parla dell’equinozio come di un giorno intero ma è tecnicamente scorretto, perché è solo l’istante preciso in cui si verifica un fenomeno astronomico. E l’ora in cui avviene quell’istante cambia ogni anno.Visto che l’equinozio d’autunno può essere in giorni diversi, le stagioni non cambiano sempre lo stesso giorno. Il giorno dell’equinozio d’autunno ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno – l’altro è l’equinozio di primavera – in cui il dì ha la stessa durata della notte (anche se poi non è esattamente così a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre).L’inizio delle stagioni è scandito da eventi astronomici precisi: l’estate e l’inverno cominciano con i solstizi, in cui le ore di luce del giorno sono al loro massimo (estate) o al loro minimo (inverno); mentre la primavera e l’autunno cominciano il giorno degli equinozi, i momenti in cui la lunghezza del giorno è uguale a quella della notte.Tuttavia, oggi in Italia il giorno sarà ancora un po’ più lungo della notte per qualche minuto e la vera parità tra dì e notte sarà tra qualche giorno. Questo si deve a un fenomeno chiamato “rifrazione atmosferica” per cui la luce del Sole è curvata dall’atmosfera: è quella cosa per cui vediamo il Sole qualche minuto prima che sorga effettivamente.Gli equinozi e i solstizi (e le durate del dì e della notte) sono determinati dalla posizione della Terra nel suo moto di rivoluzione intorno al Sole, cioè il movimento che il nostro pianeta compie girando intorno alla sua stella di riferimento. L’equinozio è il momento in cui il Sole si trova all’intersezione del piano dell’equatore celeste (la proiezione dell’equatore sulla sfera celeste) e quello dell’eclittica (il percorso apparente del Sole nel cielo). Al solstizio invece il Sole a mezzogiorno è alla massima o minima altezza rispetto all’orizzonte.Le variazioni del momento in cui avvengono equinozi e solstizi sono causate dalla diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario (è il motivo per cui esistono gli anni bisestili, che permettono di rimettere “in pari” i conti).In Italia, la primavera cade tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre, l’inverno tra il 21 e il 22 dicembre. Oltre alle stagioni astronomiche, poi, ci sono anche quelle meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.Il momento dell’equinozio non c’entra con quello del cambio dell’ora, che quest’anno andrà spostata indietro tra sabato 28 e domenica 29 ottobre. LEGGI TUTTO

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    La più antica struttura in legno mai scoperta

    Una ricerca pubblicata mercoledì sulla rivista Nature sostiene che due tronchi incastrati insieme e trovati in un sito archeologico in Zambia, in Africa, costituiscano la più antica struttura in legno prodotta da una specie umana mai scoperta finora. Secondo lo studio hanno più di 450mila anni e precedono quindi di oltre 100mila anni i più antichi resti di Homo sapiens, l’unica specie umana attualmente esistente, la nostra. In precedenza la più antica struttura in legno mai trovata risaliva ad appena 9mila anni fa: si trattava dei resti di alcune piattaforme trovate in un lago nel Regno Unito. È ancora più vecchio il più antico oggetto manufatto di legno mai rinvenuto, il frammento di un’asse scoperto in Israele e risalente a 780mila anni fa, ma se l’abilità di altre specie umane estinte di realizzare piccoli strumenti era nota, non si sapeva che costruissero anche strutture più grandi e complesse.I due tronchi trovati nel 2019 in Zambia, e più precisamente nella riva del fiume Kalambo presso una cascata vicino al confine con la Tanzania, sono incrociati ad angolo retto. Secondo i ricercatori che li hanno studiati sono stati modificati dall’azione umana con degli strumenti di pietra, in modo che potessero incastrarsi. I risultati della datazione implicherebbero che la struttura possa essere stata costruita da ominini (il termine per definire le specie più vicine agli esseri umani moderni) come Homo erectus o Homo naledi, specie che si evolvettero dagli stessi antenati da cui proviene Homo sapiens. Si stima che la nostra specie sia comparsa circa 300mila anni fa, quindi successivamente alla realizzazione della struttura trovata in Zambia.Rispetto ai reperti in pietra, è molto più difficile che reperti in legno così antichi si conservino. In questo caso, i tronchi si trovavano immersi nell’acqua di una falda sotterranea, che ha permesso loro di preservarsi per quasi mezzo milione di anni senza andare incontro al decadimento naturale che interessa normalmente il legno. La datazione è avvenuta tramite lo studio della luminescenza dei sedimenti che li ricoprivano, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. Il noto metodo di datazione con il carbonio-14 permette di stimare l’età di materiale organico vecchio fino a 50mila anni fa.La struttura al momento della scoperta e in uno schema (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno analizzato la struttura – appartenenti a università e istituzioni britanniche, all’Università di Liegi, in Belgio, e al Museo Moto Moto di Mbala, in Zambia – sono quasi certi che i tronchi siano stati modificati dall’azione umana: per verificarlo sono state prodotte delle repliche degli utensili di pietra trovati nel sito sotto la cascata del Kalambo e le hanno usate per lavorare legni con caratteristiche simili a quello dei tronchi. I segni lasciati dalle repliche sono analoghi a quelli ritrovati sui reperti, per cui si pensa che furono fatti «intenzionalmente con utensili di pietra».La scoperta potrebbe significare che l’abilità di usare il legno per costruire degli oggetti è molto più antica di quanto noto finora e ampliare la nostra conoscenza di altre specie di ominini. Inoltre potrebbe mettere in dubbio la nozione che i primi esseri umani conducessero esclusivamente una vita nomade. Il più piccolo dei due tronchi è lungo 1 metro e mezzo: complessivamente le loro dimensioni indicano che probabilmente facevano parte di una struttura abbastanza grande. Anche se non è possibile dire con certezza che degli ominini si fossero stabiliti permanentemente nella zona della cascata, la realizzazione di una struttura come quella trovata avrà sicuramente richiesto sforzi notevoli, difficilmente spiegabili se il sito era solo un accampamento.La struttura (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno partecipato allo studio ritengono che la complessità della struttura implichi la possibilità che fu progettata e costruita da ominini che potevano collaborare in modo efficace grazie all’uso del linguaggio. Un’altra ipotesi del gruppo di ricerca è che la struttura non fosse parte di una vera e propria abitazione: poteva essere parte delle fondamenta di un riparo, di un camminamento o di una piattaforma per pescare nel fiume, ma è molto difficile giungere a conclusioni precise al riguardo.Al momento i tronchi sono conservati in Inghilterra, dove sono stati studiati, in una cisterna che replica le condizioni in cui sono stati preservati naturalmente per centinaia di migliaia di anni. Ma saranno riportati in Zambia per essere esposti al pubblico.– Leggi anche: La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    La scomparsa dei crateri

    Caricamento playerFlagstaff è una città al centro dell’Arizona (Stati Uniti), ci vivono circa 66mila persone e non ha particolari attrattive se non quella di essere una delle vie di accesso per raggiungere il Grand Canyon, a un’ora di auto più a nord. L’enorme gola è la principale attrazione turistica nella zona, una delle migliori e più evidenti testimonianze dei lenti processi geologici che in milioni di anni plasmano la Terra. Ma c’è un’altra attrazione meno nota una sessantina di chilometri a est di Flagstaff che mostra invece come una grande area del nostro pianeta possa cambiare in pochi istanti. È il Meteor Crater, un grande cratere largo 1,2 chilometri e profondo 170 metri che si formò in seguito all’impatto di un meteorite circa 50mila anni fa.Il cratere si formò quando l’altopiano del Colorado aveva un clima più fresco e umido dell’attuale: era un ampio pianoro erboso popolato da molti animali compresi i mammut. Un giorno in cielo apparve una grande meteora, probabilmente con un diametro di una cinquantina di metri, che iniziò a sgretolarsi nell’atmosfera prima di raggiungere il suolo ad alta velocità. L’energia liberata al momento dell’impatto fu enorme (10 megatoni), produsse un’ampia depressione con un margine alto una sessantina di metri, un effetto che ricorda quello che si osserva nell’acqua nei primi istanti dopo aver lanciato un sasso in una pozzanghera.Complice la sua giovane età, il Meteor Crater è considerato uno dei crateri meglio conservati della Terra, anche se i processi di erosione hanno fatto sì che le creste lungo la sua circonferenza perdessero una ventina di metri di altezza. Lentamente, ma inesorabilmente, il cratere continuerà a modificarsi fino a diventare sempre meno visibile. Accadrà in tempi lunghissimi per noi umani, ma relativamente brevi per i processi geologici che in milioni di anni cambiano il nostro pianeta. E sono proprio questi fenomeni a rendere difficile lo studio degli impatti con meteoriti che hanno riguardato la Terra e che potrebbero aiutarci a comprendere molte cose del suo passato.(NASA)Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Geophysical Research: Planets ha segnalato che le tracce dei crateri più antichi, dunque molto più vecchi rispetto al Meteor Crater, stanno scomparendo e sono ormai difficili da studiare. Secondo l’analisi, i crateri più vecchi di due miliardi di anni sono probabilmente ormai indistinguibili dalle altre formazioni rocciose, soprattutto a causa dei fenomeni di erosione naturale. Due miliardi di anni sono una dimensione temporale difficile da immaginare per i nostri tempi umani, ma non sono moltissimi per un pianeta come il nostro che ha circa 4 miliardi e mezzo di anni.La ricerca cita in particolare il caso del cratere Vredefort, il più grande cratere meteoritico conosciuto della Terra, che si trova in Sudafrica. Quando si formò a causa del grande impatto, la struttura aveva un diametro massimo stimato tra i 180 e i 300 chilometri. Si formò poco più di due miliardi di anni fa nel Paleoproterozoico, la prima delle tre ere geologiche del Proterozoico, in cui i continenti iniziarono a stabilizzarsi e iniziarono a emergere i primi lontani parenti degli eucarioti, che avrebbero poi portato a buona parte delle forme di vita che conosciamo oggi.Ciò che resta del cratere Vredefort (NASA)Secondo i calcoli dello studio se il cratere si fosse formato 200 milioni di anni prima, oggi non sarebbero più visibili le sue tracce, già ampiamente ridotte rispetto a quanto poteva essere osservato nei milioni di anni dopo l’impatto. Il fatto che i crateri scompaiano non è certo una novità, ma soffermarsi sulle implicazioni del fenomeno può aiutare a mettere nella giusta prospettiva un pezzo importante della storia del pianeta.I dati satellitari, le ricognizioni aeree e lo studio dei minerali hanno permesso di identificare con certezza circa 200 crateri dovuti a un impatto con un meteorite. I più antichi hanno intorno ai 2 miliardi di anni, proprio come nel caso del cratere Vredefort, ma secondo gli autori dello studio è probabile che i crateri siano molti di più. Non sappiamo di preciso dove avvennero alcuni degli impatti più importanti, ma sappiamo che si sono verificati perché ancora oggi possiamo riscontrarne gli effetti per lo meno indiretti.Per capire quando l’erosione fa sì che un cratere non possa essere più definito tale, semplicemente perché sono scomparse le sue strutture più rilevanti e si sono modificate le caratteristiche geologiche del territorio interessato, il gruppo di ricerca ha studiato il cratere Vredefort, concentrandosi sui minerali che si trovano nella zona dell’impatto. I ricercatori hanno raccolto campioni per 20 chilometri, mettendo a confronto le caratteristiche fisiche delle rocce presenti nel cratere con quelle che non avevano invece subito gli effetti dell’impatto, con la produzione di alte temperature che modificano la struttura dei minerali.Dal confronto è emerso che ormai le rocce legate all’impatto sono indistinguibili da quelle che non erano state coinvolte dall’arrivo del meteorite. Nel corso di miliardi di anni di piogge, vento, altri processi di erosione e geologici le differenze sono scomparse. «A un certo punto, perdiamo tutte le caratteristiche che rendono un cratere un cratere» ha spiegato uno degli autori della ricerca.Su una scala ancora più grande del cratere Vredefort, la ricerca segnala che probabilmente una parte rilevante della storia geologica del nostro pianeta è persa per sempre. La riduzione delle differenze tra aree di impatto e non, fino al loro azzeramento, è la causa principale della grande difficoltà nell’identificare zone di impatto molto antiche che potrebbero aiutare i gruppi di ricerca a comprendere altri processi. Gli impatti non solo determinarono il repentino cambiamento di ampie aree, ma ebbero probabilmente un influsso sulla formazione dei primi esseri viventi, senza contare eventi più catastrofici come quello legato all’estinzione dei dinosauri, forse il caso di impatto meteoritico più conosciuto e ancora oggi molto discusso.È probabile che crateri molto antichi siano sommersi nelle profondità oceaniche, dove la raccolta dei minerali per compiere analisi e fare confronti è più difficoltosa e richiede importanti investimenti economici. I sistemi per rilevare a distanza le caratteristiche dei fondali, nell’ambito dei progetti per mapparli, offrono talvolta indizi sulla presenza di siti anticamente interessati da un impatto meteoritico. Come mostra il caso di Vredefort, comunque, più si va indietro nel tempo più diventa difficile distinguere quelle zone.Il cratere lunare Shackleton (NASA)Per trovare nuovi spunti di ricerca e comprendere meglio le caratteristiche dei crateri alcuni gruppi di ricerca preferiscono guardare verso l’alto, spingendosi oltre l’atmosfera terrestre. La Luna, il nostro satellite naturale, è famosa per avere una grande quantità di crateri che si sono formati in seguito a impatti con meteoriti di varie dimensioni. A differenza della Terra, la Luna ha un’atmosfera del tutto trascurabile ed è quindi meno interessata dai processi di erosione, circostanza che porta i suoi crateri a non modificarsi più di tanto nel corso del tempo. LEGGI TUTTO