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    Ascesa e declino di 23andMe

    Fino a qualche anno fa 23andMe era considerata una delle più promettenti e ricche aziende per i test genetici, nata con la promessa di offrire sistemi innovativi per prevedere l’insorgenza di particolari malattie. Oggi le sue condizioni sono talmente precarie da indurre chi ha cause legali con la società ad abbassare le proprie pretese di risarcimento pur di avere qualche soldo. È quello che è successo lo scorso settembre a un gruppo di clienti di 23andMe, che per risolvere una causa legata alla diffusione di dati personali – una vicenda risalente al 2023 e che aveva portato a grandi critiche nei confronti dell’azienda – alla fine ha chiesto 30 milioni di dollari, molto meno di quanto ipotizzato inizialmente, proprio nel timore che in tempi brevi la società possa essere venduta o non abbia più le risorse per pagare.La notizia è stata ampiamente ripresa sui giornali ed è vista come uno dei segni più tangibili della crisi di 23andMe. La società ha perso infatti buona parte del proprio valore in borsa, passando da circa 6 miliardi a meno di 150 milioni di dollari, e fatica a raccogliere nuovi clienti e contratti. Senza nuove idee, la sua cofondatrice Anne Wojcicki potrebbe non essere in grado di salvarla, dopo 20 anni di grandi promesse e risultati spesso deludenti.
    L’alternarsi di successi, enormi investimenti e grandi perdite, con licenziamenti di massa e le dimissioni di vari membri del consiglio di amministrazione, sono nella storia di molte aziende tecnologiche della Silicon Valley, ma nel caso di 23andMe sono ancora più peculiari perché interessano un settore in cui sono state riposte grandi speranze sia da parte degli investitori sia dei clienti. Le aziende che si occupano di salute hanno cercato di sfruttare più di altre le evoluzioni tecnologiche offerte da Internet per offrire servizi innovativi, ingrandirsi e raccogliere gigantesche quantità di dati, spesso sfruttando i vuoti legislativi lasciati da leggi ormai datate.
    23andMe esiste dal 2006, quando fu fondata da Wojcicki insieme a Linda Avey e a Paul Cusenza, che uscì quasi subito dall’iniziativa. Dopo essersi laureata in biologia alla Yale University, nel 1996 Wojcicki aveva iniziato a lavorare come consulente per alcuni fondi di investimento nel settore dell’assistenza sanitaria. Raccontò in seguito di non averne avuto una grande impressione: molte società avevano il solo scopo di produrre e offrire trattamenti medici molto costosi per ottenere il massimo dei rimborsi dalle assicurazioni sanitarie, che gestiscono buona parte dell’accessibilità alle cure negli Stati Uniti. 23andMe nasceva quindi con l’idea di scardinare alcuni di quei modelli di gestione dell’assistenza sanitaria, puntando su metodi innovativi per l’analisi dei dati per la salute. Una conoscenza fortuita favorì il piano.
    In quegli anni Wojcicki aveva conosciuto Sergey Brin e Larry Page, i due cofondatori di Google che avevano preso in affitto il garage di Susan Wojcicki come loro prima sede della startup che stava sviluppando il motore di ricerca. Susan era sorella di Anne e avrebbe poi avuto un ruolo nell’azienda, diventandone una delle più importanti dirigenti e la responsabile di YouTube.
    Tra Brin e Anne Wojcicki era iniziata una relazione e quest’ultima aveva scoperto che Avey stava pensando a sistemi innovativi per offrire a tutti test genetici come sistema di prevenzione per alcune malattie. Wojcicki era interessata all’idea e disse ad Avey che avrebbero potuto collaborare per mettere in piedi una startup. Avey accettò, pensando che Wojcicki fosse il collegamento ideale con Brin e quindi con Google per avere risorse e visibilità.
    Fu in effetti Brin a investire i primi milioni di dollari in 23andMe, a facilitare la ricerca di altri investitori e a valutare l’assunzione di alcuni dipendenti. La scelta del nome derivava dalle 23 paia di cromosomi presenti nel nucleo delle cellule dell’organismo umano in cui è raccolto il materiale genetico di ogni persona. Nel 2007, poche settimane dopo il matrimonio tra Brin e Wojcicki, Google annunciò un importante investimento nella società, che divenne molto discussa e guardata con interesse da altri fondi di investimento.
    L’idea alla base dei servizi di 23andMe era semplice e al tempo stesso ambiziosa. Attraverso il sito dell’azienda si acquista un kit per l’esame del DNA che viene spedito a casa, il cliente sputa in una provetta e la manda a 23andMe che ne analizza il contenuto. Sulla base delle informazioni genetiche raccolte dalla saliva, la società mostra poi al proprio cliente quello che ha scoperto, dalla presenza di geni che indicano il maggior rischio di ammalarsi di qualcosa a una sorta di albero genealogico che mostra la propria discendenza su base geografica.

    Grazie alla grande visibilità data dal coinvolgimento di Google, migliaia di persone inviarono i loro sputi a 23andMe, ricevendo in cambio informazioni genetiche di ogni tipo come la predisposizione a soffrire di calvizie o di obesità e informazioni più particolari come le cause genetiche della consistenza del proprio cerume. Wojcicki si fece notare anche per l’organizzazione di feste in cui ospiti come il miliardario Rupert Murdoch o il produttore cinematografico Harvey Weinstein venivano invitati a sputare nelle provette per sottoporsi ai test.
    Anche grazie a questi eventi 23andMe era riuscita a far parlare di sé, ma il prezzo di 399 dollari per ogni kit era comunque troppo alto per rendere di massa i test genetici. Nel 2009 Wojcicki pensò che uno degli ostacoli alla crescita dell’azienda fosse Avey, che da genetista aveva un approccio più cauto e conservativo nella promozione di ciò che effettivamente si poteva ottenere con un test. Nella maggior parte dei casi, avere uno o più geni riconducibili a una malattia non significa che prima o poi si svilupperà quella malattia: altre variabili genetiche, stili di vita e fattori ambientali hanno un ruolo altrettanto importante. Nei propri “Termini e condizioni” 23andMe chiariva questi aspetti, che però non trasparivano molto dalla comunicazione sulla possibilità di avere grafici e stime sulla presenza di geni noti per essere associati a certe malattie.
    Wojcicki ottenne che Avey venisse estromessa dalla società, diventandone in questo modo l’unica figura di spicco. Le conoscenze maturate in quel periodo le permisero di entrare in contatto con il miliardario Yuri Milner che fece un grande investimento in 23andMe, tale da permettere all’azienda di vendere i test del DNA a 99 dollari.
    La forte riduzione del prezzo e una prima campagna pubblicitaria in tutti gli Stati Uniti attirarono l’attenzione della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa tra le altre cose di farmaci e test diagnostici. La versione del test per scopi sanitari non aveva le autorizzazioni necessarie per essere venduta e la FDA ne bloccò le vendite, riducendo le possibilità di espansione della società.
    Furono necessari circa due anni prima che 23andMe producesse tutta la documentazione necessaria per ricevere un’autorizzazione da parte della FDA. L’operazione richiese milioni di dollari, ma infine rese possibile la vendita dei kit senza particolari limitazioni e in pochi anni i clienti diventarono circa otto milioni.
    Wojcicki puntò molto sulla promozione della parte legata ai test per la discendenza, venduti come uno strumento per scoprire da quali aree geografiche provenissero i propri avi, anche se queste ricostruzioni sono soggette a numerosi errori e approssimazioni. Questo ambito offriva qualche sicurezza in più rispetto a quello dei geni e delle malattie, sul quale comunque l’azienda continuava a fornire servizi e a effettuare ricerche.
    Sergey Brin e Anne Wojcicki a un evento di 23andMe a New York nel 2008, la coppia ha divorziato nel 2015 (Donald Bowers/Getty Images for The Weinstein Company)
    Questa strategia commerciale permise a 23andMe di superare alcune difficoltà economiche sorte negli anni in cui non poteva vendere i propri kit per via delle limitazioni imposte dall’FDA, ma segnalò anche la spregiudicatezza di Wojcicki nel gestire una società che ha a che fare con la salute. La FDA impose a 23andMe di non fornire informazioni sulla presenza di varianti genetiche che potrebbero far aumentare il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di cancro, così come di non fornire informazioni su quali farmaci potrebbero funzionare meglio in base ai profili genetici.
    23andMe stava comunque raccogliendo un’enorme mole di dati sulle caratteristiche genetiche di milioni di persone e Wojcicki pensò di sfruttarle in altro modo, offrendo servizi per analisi di massa alle aziende farmaceutiche. Nel 2018 fu stretto un accordo con GSK per l’utilizzo in esclusiva dei dati per cinque anni, ma trovare altre società interessate a collaborare con 23andMe si rivelò più difficile del previsto. GSK nel 2023 ha esteso la propria collaborazione per un anno, attraverso un contratto aggiuntivo da 20 milioni di dollari, ma ultimamente 23andMe non ha più annunciato nuovi accordi con altre aziende.
    I clienti che hanno inviato i loro sputi alla società possono scegliere se metterli a disposizione per attività di ricerca o mantenerli privati, ma 23andMe è stata criticata spesso per il modo in cui gestisce i dati degli utenti. In particolare sono emersi problemi di sicurezza, divenuti evidenti nel 2023 con il furto dei dati di sette milioni di persone, circa la metà degli utenti dell’azienda. E proprio da quella violazione dei dati sarebbe poi partita l’iniziativa legale per la quale c’è ora la proposta di una risoluzione con un risarcimento da 30 milioni di dollari.
    Appena due anni prima della perdita dei dati, 23andMe si era quotata in borsa, approfittando di un periodo in cui c’era un grande interesse per le società che promettevano di aumentare il proprio valore grazie a offerte pubbliche di acquisto miliardarie. Nel febbraio del 2021 il prezzo di una singola azione raggiunse i 321 dollari, ma a partire dal 2022 23andMe iniziò un rapido declino in borsa perdendo buona parte del proprio valore. Oggi un’azione vale poco meno di 5 dollari e anche per questo ci sono forti dubbi sulla capacità dell’azienda di rilanciare le proprie attività.
    L’andamento delle azioni di 23andMe da quando è in borsa (Google)
    Secondo gli analisti il rapido declino di 23andMe in borsa è dipeso sia dallo sgonfiarsi della bolla legata ai servizi per la salute nella Silicon Valley, sia da alcune scelte commerciali poco efficaci dell’azienda. La divisione dedicata alla ricerca di nuove terapie non ha mai portato a risultati soddisfacenti, anche a causa dello scarso coinvolgimento delle grandi aziende farmaceutiche. Nel 2022 23andMe aveva assunto 150 persone per provvedere allo sviluppo di nuovi farmaci, ma l’investimento si è rivelato troppo oneroso, tanto da portare in breve tempo al licenziamento di circa metà delle persone coinvolte in quelle attività.
    Un altro punto debole di 23andMe è stato a lungo il modello basato sul singolo acquisto di un kit, che espone l’azienda alle oscillazioni della domanda, che è sensibilmente diminuita negli ultimi anni. Per provare a superare questa impostazione l’azienda offre da qualche tempo 23andMe+, un servizio in abbonamento per ricevere periodicamente rapporti personalizzati sulla propria salute, consigli per vivere meglio e dettagli su non meglio specificate future scoperte. La sottoscrizione dell’abbonamento ha un costo iniziale di 229 dollari e c’è poi una spesa annuale di 69 dollari.
    23andMe+ ha raccolto poche centinaia di migliaia di adesioni, senza diventare determinante per la società. Nel 2021 23andMe aveva previsto 2,9 milioni di abbonamenti entro la fine di marzo 2024, ma ha chiuso il 2023 con 640 mila abbonati scesi a 562mila nei primi mesi di quest’anno.
    A novembre del 2023 23andMe ha poi presentato Total Health, un nuovo piano in abbonamento che costa quasi 1.200 dollari all’anno e che promette di offrire test genetici più approfonditi, oltre a una serie di servizi per effettuare esami di laboratorio e ricevere consulenze mediche. Il piano non è al momento coperto dalle assicurazioni ed è quindi completamente a carico dei singoli clienti, che al momento non sembrano essere interessati. Il punto di ingresso per la maggior parte di loro è del resto il test nella sua versione classica ed economica, che offre però informazioni generiche e spesso deludenti, di conseguenza non incentiva molto il passaggio alle versioni più costose.
    Tra le altre cose, Total Health viene promosso come un sistema per invecchiare meglio e più lentamente (23andMe)
    Gli abbonamenti e i nuovi servizi per ora non sono stati sufficienti per rinvigorire gli affari di 23andMe, che da quando è stata fondata non ha mai prodotto utili e che lo scorso anno ha licenziato circa un quarto dei propri dipendenti, proprio per ridurre le spese. Le condizioni precarie dell’azienda hanno spinto Wojcicki a proporre di togliere dal mercato azionario l’azienda, ma l’offerta di acquisto per azione – circa 0,40 dollari rispetto ai 10 di quando fu quotata – non solo non ha convinto gli investitori, ma ha anche portato alle dimissioni dell’intero consiglio di amministrazione. I suoi componenti hanno accusato Wojcicki di non avere presentato una proposta credibile e si sono lamentati di non potere fare nulla, visto che Wojcicki ha la quantità di azioni necessaria per vincolare ogni decisione al proprio voto nel consiglio.
    Alla fine della scorsa settimana 23andMe ha proposto di ridurre il numero di azioni in possesso dei suoi investitori, in modo da fare aumentare il valore di ogni singola azione. È una procedura che viene talvolta seguita dalle aziende in difficoltà e che rischiano di uscire da alcuni listini azionari, in questo caso lo statunitense NASDAQ. In mancanza di una ripresa significativa del valore azionario, 23andMe potrebbe essere esclusa dal listino a novembre.
    Nel frattempo Wojcicki ha iniziato a fare proposte ad alcuni fondi di investimento, annunciando l’intenzione della società di potenziare il modello di condivisione dei dati raccolti dai propri utenti con aziende del settore farmaceutico e delle biotecnologie. Non è però chiaro se possa esserci un effettivo interesse per quei dati, considerato che negli ultimi anni sono diventati disponibili a prezzi più accessibili registri con l’intero genoma, cioè tutto il DNA che si trova all’interno di una cellula, rispetto a dati più frammentari come quelli raccolti da 23andMe.
    Le notizie poco incoraggianti sull’andamento della società hanno inoltre avuto un effetto negativo sulle vendite dei kit e degli altri servizi, più che altro per una ridotta fiducia nei sistemi di gestione dei dati dell’azienda. La diffidenza deriva dall’incertezza sulla gestione dei dati nel caso di fallimento o vendita della società, considerato che contengono informazioni sensibili e legate alla salute dei clienti. La società dice che continuerà a mantenere la propria politica per cui i dati possono essere condivisi solo con un consenso dei diretti interessati, e che questa regola sarà mantenuta anche nel caso di una vendita, ma il trasferimento dei dati in sé verso la società acquirente sarebbe comunque un cambiamento a cui pochi clienti avrebbero pensato mentre sputavano in un’innocente provetta quasi vent’anni fa. LEGGI TUTTO

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    Il grande equivoco del big bang

    Caricamento playerAmedeo Balbi, astrofisico e autore di diversi libri di divulgazione scientifica, ne ha pubblicato uno nuovo intitolato Il cosmo in brevi lezioni (Bur Rizzoli), dedicato a spiegare – come dice il sottotitolo – “Big bang, pianeti, galassie e buchi neri”. Il libro raccoglie – con le revisioni e gli aggiornamenti opportuni – gli articoli che Balbi ha pubblicato sulla rivista scientifica Le Scienze negli ultimi dieci anni, nella sua rubrica “La finestra di Keplero”: «Con l’avvicinarsi del decennale, mi sono reso conto che tutte quelle pagine ricostruiscono una storia che racconta lo stato attuale delle nostre conoscenze sull’universo», scrive Balbi nella premessa. Storia che inevitabilmente inizia dal big bang, anzi dal “Grande equivoco del big bang”.
    Amedeo Balbi parlerà del suo libro a Napoli sabato 26 ottobre, all’interno di Talk del Post, assieme al disegnatore, fumettista e regista Gipi.
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    C’è un equivoco persistente che riguarda l’origine del nostro universo e la sua descrizione scientifica. In soldoni, l’equivoco nasce dal fatto che si usa lo stesso nome, ovvero «big bang», per riferirsi sia a un modello sia a un evento. È una confusione seria, che porta a conclusioni fuorvianti, e di cui vale la pena discutere. Il modello del big bang è oggi la nostra migliore descrizione dell’evoluzione dell’universo osservabile nei passati 13,8 miliardi di anni. Secondo questo modello, l’universo ha raggiunto il suo stato attuale espandendosi ininterrottamente a partire da una condizione di altissima densità e temperatura, in cui tutta la materia era scomposta nei suoi costituenti fondamentali. Il modello del big bang poggia sulle solide basi della teoria della relatività generale di Einstein, su un quadro fisico messo alla prova fino alle più alte energie raggiunte negli acceleratori di particelle, nonché su una serie impressionante di evidenze: le più notevoli sono l’espansione dell’universo, l’esistenza di un fondo cosmico di radiazione a microonde, e la corretta previsione dell’abbondanza dei nuclei di elio e degli atomi più leggeri. È un modello di straordinario successo – almeno nei limiti in cui è applicabile – e che al momento non ha alternative credibili.
    Tuttavia, la maggior parte delle persone (scienziati inclusi) usa il termine «big bang» in un altro senso, per riferirsi all’evento che avrebbe dato inizio al nostro universo.E qui le cose si fanno confuse, per almeno due ragioni. La prima è che non è del tutto chiaro a quale evento ci si riferisca. La possibilità meno problematica è che si usi il termine «big bang» per indicare uno stato primordiale in cui densità e temperatura avevano valori enormi ma non infiniti, e da cui si è dipanata la successiva evoluzione dell’universo osservabile (descritta dal modello del big bang). In questo senso, che è quello generalmente inteso (magari senza dirlo in modo esplicito) dagli addetti ai lavori, il big bang non è altro che una fase all’interno di una cornice fisica preesistente, che si può descrivere ragionevolmente bene con le teorie conosciute.
    Ma c’è un’altra possibilità, più problematica. Se si spinge ancora più indietro nel tempo la descrizione dell’evoluzione dell’universo basata sulla relatività generale, si arriva fatalmente a uno stato in cui la temperatura e la densità diventano infinite: è quello che i fisici chiamano una «singolarità». Questo stato segnerebbe l’inizio stesso del tempo e dello spazio, ed è quello a cui molti pensano quando usano la parola «big bang»: un istante che non ha un prima, l’improvvisa comparsa dal nulla di tutto ciò che esiste.Purtroppo (e questa è la seconda e più grave ragione di confusione), mentre non abbiamo praticamente alcun dubbio sul fatto che l’evoluzione dell’universo sia iniziata 13,8 miliardi di anni fa da uno stato di enorme densità e temperatura (che possiamo continuare a chiamare «big bang» per comodità), non c’è alcuna prova che esso sia originato da una singolarità. Ed è proprio la comparsa degli infiniti a metterci in guardia: ci dice che la fisica che usiamo per spingerci in quei territori è inadatta a descriverli e che dovrà necessariamente essere aggiornata a una versione migliore, che ancora non abbiamo. Di fatto, le idee che i fisici teorici stanno esplorando, in questo senso, presuppongono che il nostro universo sia il risultato di processi precedenti, che per ora non abbiamo gli strumenti concettuali per comprendere. Ex nihilo nihil fit, dicevano i filosofi antichi: nulla viene dal nulla, e la cosmologia moderna, intesa correttamente, non avrebbe niente da eccepire.
    © 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano LEGGI TUTTO

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    Da novembre sarà disponibile gratuitamente il trattamento per prevenire la bronchiolite nei neonati

    Da novembre sarà possibile sottoporre gratuitamente i bambini al nirsevimab, un trattamento contro il virus respiratorio sinciziale umano (VRS), una delle cause delle bronchioliti nei bambini con meno di un anno. Il nirsevimab è un trattamento con anticorpi monoclonali, cioè anticorpi simili a quelli che produce il nostro sistema immunitario, ma realizzati con tecniche di clonazione in laboratorio. Il loro impiego consente di avere a disposizione direttamente gli anticorpi, senza che questi debbano essere prodotti dal sistema immunitario dopo aver fatto conoscenza con un virus. Il nirsevimab fa esattamente questo, in modo che un bambino che lo riceve abbia gli anticorpi per affrontare il VRS riducendo il rischio di ammalarsi. Il trattamento non è un vaccino, che svolge invece una funzione diversa e cioè stimolare la produzione degli anticorpi.Il trattamento è più noto con il nome commerciale Beyfortus, e finora non era ben chiaro se sarebbe infine stato disponibile gratuitamente, lasciando molti dubbi a chi avrebbe voluto sottoporre i propri figli al trattamento in vista della stagione fredda in cui il virus circola di più. Il piano di erogazione gratuita è riservato ai bambini nati da agosto 2024 in poi e ai bambini fragili con meno di 2 anni: la Conferenza Stato Regioni, che ha approvato il finanziamento del programma in carico al Servizio Sanitario Nazionale, ha detto che valuterà l’allargamento anche ad altre fasce d’età.
    Il VRS è un virus piuttosto diffuso e come quelli dell’influenza ha una maggiore presenza tra novembre e aprile. Nelle persone adulte in salute non dà sintomi particolarmente rilevanti (è più insidioso negli anziani e nei soggetti fragili), ma può essere pericoloso nei bambini con meno di un anno di età. È infatti una delle cause principali della bronchiolite, una malattia respiratoria che può comunque avere diverse altre cause virali (coronavirus, virus influenzali, rhinovirus e adenovirus, per citarne alcuni). LEGGI TUTTO

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    Le tute spaziali della NASA disegnate da Prada

    Caricamento playerMercoledì l’azienda aerospaziale statunitense Axiom Space ha presentato a Milano le tute spaziali per l’equipaggio della missione Artemis 3, la prima missione della NASA a prevedere l’allunaggio dopo l’Apollo 17, nel 1972. Le tute sono state disegnate e realizzate da Prada, uno dei marchi di moda di lusso italiani più famosi al mondo.
    La collaborazione tra Prada e Axiom Space è nata nel 2020 da un’iniziativa di Lorenzo Bertelli, responsabile del marketing di Prada e figlio dei direttori esecutivi Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Russell Ralston, vicepresidente esecutivo di Axiom Space, ha detto che lavorare con Prada è stato utile non solo per l’esperienza nelle tecniche di lavorazione e per la conoscenza dei materiali ma anche per la capacità di disegnare una bella tuta: «è un simbolo, un’icona della nostra società».
    (Ansa ZumaPress)
    Prada non è l’unica azienda di lusso che ultimamente si è interessata al mondo aerospaziale, anche in vista della crescita del cosiddetto “turismo spaziale”, con aziende come Blue Origin, fondata dall’ex CEO di Amazon Jeff Bezos, e Virgin Galactic del miliardario inglese Richard Branson, che offrono voli suborbitali, i cui veicoli superano gli strati più alti dell’atmosfera e poi tornano indietro senza fare un giro completo intorno alla Terra.
    La scorsa settimana il marchio di lusso francese Pierre Cardin ha presentato una tuta da allenamento per gli astronauti del centro dell’Agenzia spaziale europea a Colonia, in Germania; anche il gruppo alberghiero Hilton sta lavorando alla realizzazione delle tute per l’equipaggio dei voli commerciali della stazione spaziale Starlab.
    Le tute disegnate da Prada (Ansa ZumaPress)
    Rivolgersi al mondo della moda è un modo per le aziende di far interessare più persone ai voli aerospaziali. Di recente Axiom ha incaricato a Esther Marquis, costumista della serie tv a tema spazio For All Mankind, di disegnare la fodera delle tute spaziali xEMU indossate dagli astronauti per le loro attività extraveicolari (quelle che chiamiamo a volte “passeggiate spaziali”); Branson ha chiesto al marchio statunitense Under Armour di disegnare le uniformi di Virgin Galactic ed Elon Musk si è rivolto a Jose Fernandez, autore dei costumi dei film Batman vs Superman e della serie Avengers, per le uniformi della sua agenzia privata spaziale SpaceX.
    Uno dei look dell’ultima sfilata di Prada che richiamava il mondo dello spazio, come questa specie di casco, Milano, 19 settembre 2024 (Dall’account Instagram di Prada)
    Esteticamente, le tute disegnate da Prada non sono molto diverse dalle precedenti: sono bianche e voluminose e non avranno alcun logo dell’azienda. Sugli avambracci, in corrispondenza della vita e sugli zaini portatili ci saranno, però, delle linee rosse che ricordano il simbolo di Linea Rossa, il marchio sportivo di Prada. Le tute saranno uguali per uomini e donne, di taglia unica e personalizzate attorno al corpo di chi le indosserà per renderle più comode ed efficienti.
    Consentiranno agli astronauti di passeggiare ogni giorno otto ore sulla Luna e garantiranno una temperatura costante al loro interno anche quando fuori ci sono -150 °C o 120 °C.  Permetteranno di muoversi più facilmente rispetto alle tute precedenti, non hanno cerniere e le cuciture proteggeranno il più possibile dalle polveri lunari che, come raccontarono già Neil Armstrong e Buzz Aldrin, le prime persone a camminare sulla Luna nel 1969, tendevano a infilarsi nelle giunture e in altre parti delle tute.
    Artemis 3 non partirà prima del settembre 2026, durerà circa 30 giorni e coinvolgerà quattro astronauti: non sono stati ancora scelti ma saranno selezionati in modo da mandare anche la prima donna e la prima persona non bianca sulla Luna. LEGGI TUTTO

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    Volete vedere una cometa?

    Caricamento playerDa qualche giorno è visibile anche in Italia una delle comete più luminose degli ultimi anni e attualmente in allontanamento dal Sole: C/2023 A3 Tsuchinshan-ATLAS (C/2023 A3). Non sarà facilissimo però, perché appare bassa all’orizzonte, quindi sono necessari un luogo adatto per osservarla a occhio nudo e un po’ di pazienza, e in generale perché le comete sono corpi celesti imprevedibili quindi la luminosità potrebbe variare sensibilmente.
    Come indica il “2023” contenuto nel suo nome, la scoperta della cometa è molto recente. Era stata rilevata una prima volta dall’Osservatorio della Montagna Purpurea in Cina all’inizio di gennaio, ma in mancanza di successive osservazioni era stata rimossa dagli elenchi dei nuovi corpi celesti da approfondire, perché si riteneva non fosse più osservabile. A febbraio il programma di ricerca astronomica ATLAS, che si occupa della rilevazione di asteroidi che potrebbero diventare pericolosi per la Terra, segnalò la scoperta di una nuova cometa che si scoprì poi essere la stessa che era stata osservata un mese prima in Cina.
    Le comete hanno di solito dimensioni relativamente piccole e sono formate quasi completamente da ghiaccio. La maggior parte degli astronomi ipotizza che siano residui rimasti dopo la condensazione della grande nebulosa da cui ha avuto origine il nostro sistema solare. Una nebulosa è un grande ammasso di polvere, idrogeno e plasma le cui dinamiche possono portare alla formazione di stelle e pianeti. Le zone periferiche della “nostra” nebulosa erano fredde a tal punto da permettere all’acqua di trovarsi allo stato solido, quindi ghiaccio, cosa che portò alla formazione delle comete.
    Ogni cometa segue una propria orbita intorno al Sole che la porta quindi ad avvicinarsi periodicamente alla stella: il grande calore fa sublimare gli strati più esterni di ghiaccio (la sublimazione è il passaggio dallo stato solido a quello gassoso senza passare per quello liquido). È in questa fase che intorno al nucleo delle comete si forma una “chioma” di vapori. Il vento solare e la pressione della radiazione del Sole spingono parte del vapore portando alla formazione della “coda”, che punta quindi in direzione opposta rispetto a quella in cui si trova il Sole. In molti casi il fenomeno rende visibile la cometa anche dalla Terra, talvolta a occhio nudo, con la luce solare che illumina la chioma. Una cometa appare come uno sbuffo luminoso in cielo e ha un moto apparente lento nella volta celeste, paragonabile a quello della Luna e di altri corpi celesti (non appare e scompare in pochi istanti come avviene con le meteore, per intenderci).
    (NASA)
    C/2023 A3 è al suo primo passaggio nel nostro sistema solare e per diverso tempo è stata soprattutto visibile dall’emisfero australe, quello opposto al nostro. Nelle ultime settimane ha iniziato a essere visibile nell’emisfero boreale, seppure con qualche difficoltà a causa della sua posizione bassa all’orizzonte e delle variazioni nella sua luminosità. Nei prossimi giorni la cometa apparirà via via più alta in cielo, ma al tempo stesso potrebbe ridursi la sua luminosità apparente perché si sta allontanando dal Sole e perché potrebbe ridursi la sua chioma.
    La posizione a ovest fa sì che la cometa si trovi nella porzione di cielo proprio nelle fasi del tramonto, cosa che può influire sulla sua visibilità. Il fatto che C/2023 A3 diventi osservabile più in alto nel cielo dovrebbe comunque ridurre il problema, perché rimarrà per più tempo visibile mentre il Sole sarà ormai tramontato. Le ore migliori per osservarla saranno quindi subito dopo il tramonto. Vista la direzione di osservazione è importante attendere che il Sole sia tramontato non solo per poter vedere meglio la cometa, ma anche per evitare di osservare direttamente e a lungo il disco solare con tutti i rischi che ne conseguono per la vista.
    Per osservare al meglio la cometa C/2023 A3 è importante scegliere un luogo buio, possibilmente lontano dall’inquinamento luminoso prodotto dalle città; se se ne ha la possibilità, è meglio raggiungere una collina o un luogo in alta quota, per avere una maggiore visione d’insieme della linea dell’orizzonte verso ovest. In queste condizioni la cometa dovrebbe essere visibile a occhio nudo, ma l’utilizzo di un binocolo o di un telescopio amatoriale potrebbe consentire di osservare meglio e più nel dettaglio la chioma e la coda della cometa.
    (Albino Carbognani / Sky Chart 4)
    Per localizzare il punto verso cui osservare può essere sufficiente una bussola o un’applicazione che ne simula la funzione (di solito ci sono funzionalità per queste cose già nei sistemi operativi degli smartphone Android e sugli iPhone), orientando verso i 255°, come indicato nella mappa celeste qui sopra che mostra il percorso della cometa nel cielo. Oltre alla bussola si possono utilizzare alcune applicazioni per cercare un oggetto celeste e ottenere informazioni su dove orientare lo sguardo per poterlo osservare. C/2023 A3 sarà osservabile fino alla fine di ottobre. LEGGI TUTTO

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    C’è vita su Europa?

    Caricamento playerSotto uno spesso strato di ghiaccio, che avvolge un mondo lontano 786 milioni di chilometri da noi, c’è un oceano di acqua salata che potrebbe aiutarci a rispondere a uno dei più grandi misteri dell’Universo: c’è vita oltre la Terra? L’oceano si trova su Europa, una delle lune del pianeta Giove, considerata tra i migliori candidati per provare a dare una risposta che cambierebbe radicalmente il nostro modo di pensare alla vita e probabilmente a noi stessi.
    Raccogliere indizi su un corpo celeste così lontano non è però semplice e per questo la NASA ha costruito Europa Clipper, una sonda che ha iniziato oggi alle 18:06 (ora italiana) il proprio viaggio dalla base di lancio di Cape Canaveral, in Florida, a bordo di un razzo Falcon Heavy di SpaceX. Sfruttando la gravità della Terra e di Marte come “fionda gravitazionale”, la sonda viaggerà per quasi 3 miliardi di chilometri e raggiungerà Giove tra cinque anni e mezzo. Effettuerà poi decine di passaggi ravvicinati a Europa per raccogliere dati sulle caratteristiche della sua superficie gelata e dell’oceano che si nasconde al di sotto, utili per capire se effettivamente Europa possa ospitare la vita, almeno per come la conosciamo.
    È improbabile che gli strumenti di Clipper trovino prove dirette, la missione non ha del resto questo scopo e la sonda effettuerà solamente dei sorvoli, ma secondo i gruppi di ricerca Europa è la candidata ideale per cercare la vita nel nostro vicinato cosmico. I pianeti che abbiamo scoperto in orbita intorno a stelle diverse dal Sole sono troppo distanti per essere raggiunti con le attuali tecnologie, di conseguenza i corpi celesti nel nostro Sistema solare sono al momento la principale risorsa che abbiamo. L’astrobiologia si occupa di questo, perché studiandoli possiamo capire quali condizioni sono compatibili con la vita, applicando poi queste conoscenze per lo studio di pianeti molto più lontani e inaccessibili.
    Europa fu osservata e scoperta per la prima volta dall’astronomo italiano Galileo Galilei all’inizio del 1610, quando con il suo telescopio notò alcune lune in orbita intorno a Giove, il pianeta più grande del Sistema solare. Le osservazioni lo avevano portato a scoprire altre tre lune – poi chiamate Io, Ganimede e Callisto – che insieme a Europa sono note come “satelliti galileiani” o “medicei”. Europa non è molto grande, ha dimensioni comparabili con la nostra Luna, ma Galileo era riuscito a osservarla soprattutto grazie alla sua luminosità apparente, dovuta all’alta riflessività della sua superficie ghiacciata.
    In seguito le osservazioni dalla Terra di Europa affascinarono diversi astronomi, ma dai tempi di Galileo sarebbero stati necessari quasi 400 anni prima di poter vedere quella lontanissima luna da vicino. Nei primi anni Settanta le sonde Pioneer 10 e 11 si avventurarono nello Spazio profondo raggiungendo Giove, ma le prime immagini definite a sufficienza di Europa furono scattate nel 1979 da altre due sonde dell’agenzia statunitense: le Voyager 1 e 2. Grazie ai loro passaggi ravvicinati per la prima volta fu possibile osservare la superficie di Europa, che si presentava come una gigantesca palla di neve con un diametro di 3.122 chilometri circa.
    Europa ripresa dalla sonda Voyager 1 (NASA)
    Per quanto non molto definite, le immagini delle Voyager avevano permesso di osservare un’intricata serie di linee scure che attraversavano la superficie di Europa, tali da far pensare che fossero enormi crepe nella superficie ghiacciata dovute a un’attività di qualche tipo. Le loro caratteristiche suggerivano che la superficie fosse libera di muoversi in maniera indipendente dagli strati più profondi di Europa, come se si trattasse di un enorme involucro ghiacciato che racchiudeva qualcosa di diverso al suo interno.
    Molte delle ipotesi formulate all’epoca furono confermate nel 1995, quando la sonda Galileo della NASA entrò in orbita intorno a Giove. Parte della sua missione comprendeva l’osservazione e la raccolta di dati dei satelliti galileiani nel corso di più passaggi ravvicinati. E proprio grazie a queste attività fu possibile notare una particolare interazione del forte campo magnetico generato da Giove con Europa, compatibile con la presenza di un’enorme quantità di acqua salata al di sotto dell’involucro di ghiaccio, spesso tra i 10 e i 30 chilometri.
    La superficie di Europa ripresa dalla sonda Galileo (NASA)
    L’ipotesi è che l’oceano contenga circa il doppio dell’acqua di tutti gli oceani terrestri, che sia salato e che costituisca uno strato intermedio tra l’involucro ghiacciato e un interno roccioso. Ancora più in profondità ci sarebbe un nucleo ferroso, con una temperatura maggiore rispetto alla parte più esterna della luna. Dai dati raccolti finora sembra che il calore proveniente dal nucleo passi lentamente attraverso lo strato roccioso in contatto con l’oceano, contribuendo a mantenerne una buona parte allo stato liquido. Ed è proprio grazie a questi fenomeni che potrebbero esserci opportunità di vita, per quanto lontano dalla primaria fonte di energia nel Sistema solare: il Sole, la nostra unica stella.
    Elaborazione grafica dei possibili strati che formano Europa, dall’alto: la superficie ghiacciata, chilometri di involucro di ghiaccio, un oceano, il fondale con camini idrotermali (NASA)
    Almeno qui sulla Terra la vita ha bisogno di alcuni elementi chimici come il carbonio, l’ossigeno, l’azoto, il fosforo, l’idrogeno e lo zolfo. A seconda del modo in cui si combinano formano molecole e sostanze che costituiscono la quasi totalità della materia organica sul nostro pianeta, ma singolarmente o in combinazioni più semplici possono essere trovati praticamente ovunque nell’Universo. Le ricerche suggeriscono che questi elementi fossero tra gli ingredienti nei processi di formazione dei pianeti e che probabilmente siano presenti anche su Europa.
    Trovare molecole legate a quegli elementi fuori dalla Terra non implica comunque che siano il frutto di qualche forma di vita, anche perché in alcune circostanze si possono formare anche in assenza di esseri viventi. Al tempo stesso, trovarli può essere il punto di partenza per ipotizzare la presenza di fenomeni più complessi e che potrebbero essere legati alla presenza di qualche organismo elementare.
    Dettaglio della superficie ghiacciata di Europa (NASA)
    Questi indizi potrebbero essere presenti non solo all’interno, ma anche negli strati più esterni di Europa, dove sembrano esserci scambi tra ghiaccio superficiale e materiale relativamente più caldo proveniente dalle profondità. È comunque improbabile che possano esserci organismi sulla superficie della luna, a causa delle radiazioni molto intense provenienti da Giove. Questo flusso altamente energetico potrebbe però giocare a favore di chi cerca la vita da quelle parti. Le radiazioni scompongono le molecole d’acqua nei loro due costituenti, l’idrogeno e l’ossigeno. Il primo si disperde molto velocemente nell’ambiente spaziale, mentre il secondo è molto reattivo e nel caso in cui raggiungesse l’oceano potrebbe reagire con altri elementi, diventando fonte di energia per alcuni microrganismi.
    È difficile immaginare che a grande profondità dove non arriva mai la luce del Sole possa sopravvivere qualcosa. Eppure, ormai da tempo sappiamo che anche qui sulla Terra batteri e alcuni microrganismi non solo riescono a sopravvivere, ma a proliferare in condizioni estreme. Vivono per esempio a grandissima profondità negli oceani nelle vicinanze dei camini idrotermali, dai quali escono gas ad alta temperatura dovuti all’attività interna del nostro pianeta. Questi microrganismi “estremofili” si sono adattati per vivere in condizioni di alta pressione e temperatura, oppure ancora in condizioni di acidità estrema o con sostanze nutrienti pressoché assenti.
    Esseri viventi di questo tipo potrebbero vivere indisturbati da tempo su Europa, ma trovarne le tracce non è semplice, proprio per la scarsa accessibilità di un oceano protetto da un guscio di ghiaccio spesso chilometri. Clipper non si poserà sul ghiaccio nè proverà a perforarlo, ma utilizzerà i suoi strumenti per analizzare eventuali gas che fuoriescono dalle crepe del guscio. In passato sono stati osservati sbuffi di vapore acqueo con alcuni telescopi, un altro indizio dell’eventuale attività geologica della luna, ma anche un’occasione per provare ad analizzare i gas e le altre sostanze che accompagnano quelle emissioni nello Spazio circostante. La sonda esaminerà l’atmosfera estremamente rarefatta di Europa, mentre non è scontato che riesca a intercettare un getto vero e proprio.
    Fasi di preparazione della sonda Europa Clipper (NASA)
    Clipper utilizzerà inoltre i propri strumenti per effettuare rilevazioni che confermino la presenza del grande oceano, ma anche le caratteristiche della gravità di Europa in modo da confermare o meno la presenza di un nucleo ferroso e dello strato roccioso che lo racchiude. Le rilevazioni saranno inoltre importanti per calcolare con maggiore accuratezza lo spessore dell’involucro di ghiaccio e per capire se sia effettivamente la forte influenza gravitazionale di Giove a far comparire le numerose crepe sulla sua superficie.

    La sonda ha una massa di 3,2 tonnellate, cui se ne aggiungono circa altrettante di propellente che sarà impiegato per effettuare 49 passaggi ravvicinati di Europa, raggiungendo una distanza minima dalla superficie di circa 25 chilometri. La sonda si avvicinerà e allontanerà di continuo da Europa e da Giove per ridurre l’esposizione delle proprie strumentazioni alle radiazioni prodotte dal pianeta e rendere possibile la trasmissione dei dati verso la Terra. Il corpo centrale di Clipper è alto quasi cinque metri per quattro metri di larghezza, ma la sonda raggiunge una larghezza massima di 30 metri per via dei suoi grandi pannelli solari, che saranno utilizzati per alimentare le strumentazioni di bordo.
    La missione è estremamente ambiziosa e ha richiesto anni di progettazione, con qualche rischio di essere cancellata in varie fasi di rivalutazione da parte della NASA. È la sonda più grande per lo Spazio profondo mai realizzata, diretta verso un mondo lontano, che potrebbe insegnarci qualcosa sul nostro. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    I country club sono caratterizzati da ampi spazi, necessari a una delle attività ricreative che più li caratterizza: il golf. Proprio per questo motivo ospitano spesso molti animali che finiscono in questa raccolta, fotografati nei boschi circostanti o più o meno vicino alle buche: la settimana scorsa c’era un alligatore durante un torneo di golf al country club di Jackson, in Mississippi, e questa settimana un altro alligatore è stato fotografato sempre lì, ma con un grosso pesce tra le fauci. Poi c’è un piccolo tordo a cui viene misurata una zampa; una scimmia che viene benedetta da un frate francescano, una volpe artica in una città islandese dal nome difficilmente pronunciabile e un gatto delle nevi. Ma anche un giovane individuo di grande scimmia leonina, un canguro arboricolo e un vombato. LEGGI TUTTO

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    Il Premio Nobel per la Chimica a David Baker, Demis Hassabis e John M. Jumper

    Il Premio Nobel per la Chimica 2024 è stato assegnato a David Baker «per la progettazione computazionale delle proteine» e a Demis Hassabis e John M. Jumper «per i sistemi di predizione delle proteine».Baker è riuscito in un’impresa che fino a qualche anno fa sembrava pressoché impossibile: creare nuovi tipi di proteine da zero. Hassabis e Jumper hanno sviluppato un modello di intelligenza artificiale che ha risolto un problema che durava da 50 anni: prevedere le strutture complesse delle proteine. I progressi raggiunti grazie ai loro studi offrono grandi opportunità per lo sviluppo di nuove molecole, specialmente in ambito farmaceutico.
    Le proteine sono centrali nella nostra esistenza e in quella degli altri esseri viventi: regolano il metabolismo, la risposta agli stimoli e sono essenziali per il trasporto delle molecole, solo per fare qualche esempio. I vari tipi di proteine hanno proprie caratteristiche determinate dalle catene di amminoacidi che le costituiscono e dalla forma che assumono, ripiegandosi su loro stesse. La forma è essenziale nel determinare la funzione, e per questo in biologia molecolare si dice spesso che “la struttura è la funzione” di una proteina.
    La maggior parte delle proteine ha dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri (un nanometro equivale a un miliardesimo di metro) ed è quindi molto difficile studiarne la struttura. Negli ultimi decenni, buona parte degli esperimenti di biologia molecolare ha riguardato proprio le tecniche e i metodi da impiegare per provare a comprendere come specifiche proteine si ripieghino su loro stesse.
    Grazie a una tecnica che sfrutta i raggi X (cristallografia a raggi X), a partire dagli anni Cinquanta divenne possibile determinare la struttura di alcune proteine. Le tecniche si sarebbero poi affinate ulteriormente nell’ultimo decennio grazie alla microscopia crioelettronica, che prevede l’osservazione dei campioni a temperature estremamente basse, offrendo migliori risultati e riducendo il rischio di modificare le molecole nella fase di preparazione del materiale da osservare.
    Comprendere l’effettiva forma tridimensionale della proteina dalle osservazioni al microscopio nell’infinitamente piccolo, dove i campioni appaiono come se fossero bidimensionali, non era semplice e richiedeva spesso anni di lavoro, senza garanzie di arrivare a qualcosa di concreto. Per questo motivo, già a partire dagli anni Ottanta, alcuni ricercatori si chiesero se non fosse possibile seguire un approccio diverso: partire dalle catene di amminoacidi e scoprire come queste determinino la struttura tridimensionale delle proteine di cui fanno parte. Non era una cosa da poco e i ricercatori pensarono di sfruttare una risorsa che 40 anni fa iniziava a dimostrare di avere crescenti capacità di calcolo: i computer.
    I primi modelli informatici si rivelarono però poco affidabili, soprattutto dal punto di vista della riproducibilità dei risultati, uno dei pilastri del metodo scientifico. Un modello che si era rivelato adeguato nel determinare la struttura di una proteina, falliva miseramente se applicato da altri ricercatori per i loro studi su proteine di altro tipo. Per questo a metà degli anni Novanta fu fondato il Critical Assessment of Protein Structure Prediction (CASP), un’iniziativa per mettere in competizione ogni due anni i centri di ricerca stimolandoli a produrre nuove soluzioni al computer per la previsione delle proteine.
    Nonostante le buone intenzioni, per molti anni i risultati non furono comunque soddisfacenti. Le cose cambiarono solo verso la fine degli anni Dieci, quando il settore fu rivoluzionato dai lavori di Demis Hassabis. Appassionato del gioco degli scacchi fino dall’infanzia, Hassabis aveva cofondanto nel 2010 la società DeepMind con l’obiettivo di realizzare sistemi di intelligenza artificiale da applicare ad alcuni dei più diffusi giochi da tavolo. In pochi anni la start-up ottenne risultati notevoli tanto da essere acquisita da Google nel 2014 desiderosa di estendere e potenziare la propria presenza nel settore delle AI.
    DeepMind divenne molto famosa quando uno dei propri sistemi riuscì a battere il campione mondiale di GO, un gioco da tavola con un numero enorme di possibili combinazioni, ma Hassabis aveva ambizioni ancora più grandi e l’obiettivo di partecipare al CASP. Nel 2018 il suo sistema per determinare la struttura delle proteine chiamato AlphaFold vinse la competizione raggiungendo un’accuratezza del 60 per cento, ben oltre il 40 per cento raggiunto nelle competizioni precedenti. Era un risultato sorprendente, ma ancora distante dalla completa capacità di previsione, ultimo obiettivo del CASP.
    Previsione della struttura di una proteina effettuata da AlphaFold (DeepMind)
    Nel gruppo di lavoro di AlphaFold c’era John Jumper, un ricercatore che aveva studiato fisica e matematica e che si era appassionato alle simulazioni al computer intorno alle proteine. Jumper aveva sviluppato sistemi per rendere più efficienti i programmi che effettuavano i calcoli nel periodo in cui lavorava al proprio dottorato in fisica teoretica, perché i computer dell’università in cui studiava non erano molto potenti. Quando si unì al gruppo di lavoro di AlphaFold propose di utilizzare alcuni di quei sistemi e lavorò insieme a Hassabis a una nuova versione del sistema di AI, chiamato AlphaFold2. Il sistema poteva inoltre contare sugli ultimi sviluppi nelle reti neurali artificiali, soluzioni che imitano il funzionamento del nostro cervello.
    Nel 2020 AlphaFold2 era pronto per competere al CASP e portò a risultati eccezionali, mai visti prima e con una accuratezza comparabile ai più lunghi lavori di studio e osservazione ottenuti con la cristallografia. Il settore dell’analisi delle proteine era cambiato grazie a un nuovo strumento per comprendere le loro caratteristiche e funzionalità in base alla loro struttura.
    AlphaFold2 permise in poco tempo di calcolare la struttura di tutti i tipi di proteine che costituiscono il nostro organismo. La grande potenza di calcolo permise in seguito di spingersi ancora oltre e di creare una sorta di catalogo in cui è prevista la struttura di praticamente tutti i 200 milioni di proteine finora scoperte nello studio degli organismi viventi della Terra. DeepMind ha inoltre reso libero e accessibile il codice di AlphaFold2 e il modello è stato impiegato per una grandissima varietà di ricerche in praticamente ogni paese del mondo. Se un tempo occorrevano spesso anni per ottenere la struttura di una proteina, ora quel lavoro può essere svolto in pochi minuti con un grado molto alto di accuratezza, che può essere valutato e corretto.
    Quando il biochimico David Baker venne a conoscenza dei risultati di AlphaFold2 pensò di trarre ispirazione per migliorare un programma che aveva realizzato quasi 30 anni prima: Rosetta. Baker insieme al suo gruppo di ricerca aveva inizialmente pensato a un software per fare previsioni sulle strutture delle proteine, ma in seguito si era chiesto se non potesse essere utilizzato al contrario per progettare nuovi tipi di proteine mai osservate prima e con specifiche funzioni.
    (Nobel Prize)
    Alla fine degli anni Novanta, Baker iniziava a essere un’autorità nel campo della progettazione delle proteine e divenne molto famoso nel 2003, quando pubblicò uno studio che illustrava i risultati raggiunti nella creazione di Top7, una proteina che non esisteva in natura. Negli anni seguenti, Baker progettò e realizzò diverse altre proteine che potrebbero essere impiegate in numerosi ambiti, dalla produzione di vaccini di nuova generazione a sistemi per rilevare la presenza di particolari sostanze in un ambiente, o ancora per produrre sensori o motori per il trasporto di molecole nell’organismo.
    I risultati ottenuti dai tre premiati di quest’anno con il Nobel per la Chimica stanno già avendo e avranno un forte impatto nella ricerca e nello sviluppo di nuovi materiali, farmaci e altre applicazioni. Hanno inoltre permesso di comprendere meglio come funziona la vita e come si sviluppano alcune malattie, offrendo nuove possibilità di ricerca per curarle. Quei sistemi di analisi, previsione e progettazione si sono aggiunti ad altri metodi utilizzati già da tempo nel settore, con risultati alterni, e che non sempre hanno avuto la stessa visibilità di DeepMind, che ha potuto contare sulle enormi risorse economiche e di comunicazione di Google.
    David Baker è nato nel 1962 a Seattle, negli Stati Uniti, ed è docente presso l’Università di Washington.Demis Hassabis è nato nel 1976 a Londra, nel Regno Unito, ed è CEO di Google DeepMind.John M. Jumper è nato nel 1985 a Little Rock, negli Stati Uniti, ed è ricercatore scientifico di Google DeepMind. LEGGI TUTTO