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    La tempesta delle alluvioni in Libia era un “medicane”?

    Le gravi alluvioni in Libia che secondo le autorità della parte orientale del paese hanno causato la morte di più di 3mila persone sono dovute alla tempesta Daniel, che in precedenza era passata sulla Grecia, provocando anche lì grandi allagamenti. Nell’attraversare il mar Mediterraneo la tempesta è probabilmente diventata più intensa, tanto che se ne è parlato come di un possibile ciclone simil-tropicale, o medicane (che si pronuncia “medichein”), un raro tipo di perturbazione che ha caratteristiche simili agli uragani, le tempeste che tipicamente colpiscono la costa orientale del Nord America. Pare tuttavia che non sia stato il caso di Daniel.Full timelapse of Storm #Daniel ⛈️Daniel brought devastating flooding to central Greece as the system stalled in the Mediterranean Sea.When the system finally moved south, it strengthened into a Medicane tropical-like system before landfalling near Benghazi, Libya. pic.twitter.com/nCs0icxua3— Zoom Earth (@zoom_earth) September 10, 2023L’espressione “ciclone simil-tropicale” è usata in meteorologia per descrivere delle tempeste che avvengono nel bacino del mar Mediterraneo, ma anche sul mar Nero, che condividono alcune caratteristiche con le tempeste tropicali e gli uragani, pur avendo dimensioni molto minori. “Medicane” invece è una crasi delle parole “mediterranean” e “hurricane” e per questo si pronuncia all’inglese. Nella comunità scientifica è un termine meno usato rispetto a “ciclone simil-tropicale”, e più o meno sono usati come sinonimi.I medicane hanno una forma simile a quella delle tempeste tropicali che si formano negli oceani, cioè spirali con un occhio al centro, ma al di là delle dimensioni i due fenomeni si differenziano per la loro diversa origine.Le tempeste tropicali nascono quando gli strati d’acqua superficiali dell’oceano hanno temperature particolarmente elevate, pari o superiori ai 26 °C. In queste condizioni, l’evaporazione aumenta e così la quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Il vapore poi condensa in grandi nubi: rilascia calore, produce un abbassamento della pressione e un’intensificazione del vento vicino alla superficie del mare. L’intera sequenza si ripete in un processo a catena creando la tempesta.I medicane invece non si formano a causa delle condizioni marine. La loro origine è atmosferica: si generano quando si incontrano una massa d’aria calda tipicamente di origine subtropicale e una massa d’aria fredda tipicamente di origine subpolare. Assumono però caratteristiche simili alle tempeste tropicali perché quando passano sul mare la loro parte centrale, più calda, “si carica” dell’acqua che evapora e la trasporta con sé. A quest’acqua si devono poi le precipitazioni legate alla tempesta.Non avendo origine marina, i medicane si verificano anche quando le temperature marine di superficie sono più basse, comprese tra i 15 e i 26 °C. È comunque più probabile che si formino in autunno, quando il mare risente ancora del riscaldamento estivo. Generalmente non sono più di uno o due all’anno e finora nel 2023 non ce n’è stato nessuno accertato.Nel caso di Daniel sembra che non si siano verificate condizioni tali da poter parlare di medicane (non tutti i cicloni del Mediterraneo lo diventano) secondo Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR).La tempesta Daniel, la cui dinamica precisa è ancora in corso di analisi, è stata molto intensa a causa del cosiddetto “blocco a omega” che negli ultimi giorni si è manifestato in Europa, spiega Sante Laviola: «È una struttura atmosferica con una forma che ricorda la lettera greca omega: nelle pieghe dell’omega, la sua parte inferiore, ci sono zone di bassa pressione, mentre nella parte centrale una zona di alta pressione. Noi in Italia eravamo nella zona di alta pressione, quindi abbiamo avuto bel tempo. Nella parti estreme, la Grecia da una parte, e la Spagna e il Portogallo dall’altra, ci sono stati bassa pressione e temporali». La zona di alta pressione è quella a cui si devono le alte temperature raggiunte sulle Alpi, che in alcuni casi hanno battuto dei record raggiunti nell’estate del 2003 e in quella del 2022, entrambe ricordate per il caldo estremo.The current #weather situation in Europe is a textbook Omega block. While central Europe will “enjoy” a #heatwave, Greece will face a #medicane with disastrous damages due to heavy rain and #floods fueled by an extremely hot #MediterraneanSea. #ClimateEmergency #heavyrain pic.twitter.com/qtkNTX9ZLg— Dr. Monica Ionita 🇷🇴 🇩🇪 🇪🇺🌡🌧💧🔥🌊 (@IonitaMoni) September 5, 2023Si parla di blocco a omega perché in concreto quello che succede è che la zona di alta pressione, cioè l’anticiclone, blocca per un periodo di tempo piuttosto lungo le perturbazioni delle pieghe dell’omega.Giulio Betti, meteorologo del CNR e del Consorzio LaMMA, il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale della Regione Toscana, aggiunge: «Quello che colpisce dei fenomeni degli ultimi giorni è la durata causata dalla configurazione a omega, che probabilmente è favorita dal cambiamento climatico. Le ondate di calore e gli anticicloni di blocco, come quelli che hanno fatto superare i record termici in Canada nel 2021 e che hanno causato la siccità nel 2022, sono favoriti dal cambiamento climatico».Per quanto riguarda i medicane, stando agli studi disponibili, con il cambiamento climatico potrebbero diventare meno frequenti ma più intensi in caso di formazione. È la stessa previsione che è stata fatta anche per gli uragani. Infatti il riscaldamento dell’atmosfera (dovuto alle emissioni di gas serra delle attività umane) dovrebbe indebolire i movimenti di aria fredda che contribuiscono alla formazione dei cicloni simil-tropicali, ma al tempo stesso le maggiori temperature marine dovrebbero aumentare l’evaporazione e quindi la quantità d’acqua trasportata dai cicloni che comunque continueranno a formarsi.Prossimamente sarà possibile avere più informazioni sulla tempesta Daniel e fare analisi più approfondite. Sicuramente ha causato raffiche di vento molto forti: da 160 chilometri orari, una velocità maggiore rispetto a quella raggiunta dalle raffiche del medicane Apollo, che tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2021 arrivò in Sicilia. Furono più forti invece le raffiche del medicane Ianos, che interessò la Grecia nel settembre del 2020: raggiunsero i 190 chilometri orari.Il ciclone Daniel si è intensificato attraversando il Mediterraneo perché lì ha raccolto molto vapore acqueo dagli strati superficiali del mare, che essendo caldi causavano una notevole evaporazione. I grandi danni in Libia sono stati causati principalmente dal crollo di alcune dighe e ora la tempesta si sta spostando sull’Egitto, ma dato che non si trova più sul mare si sta esaurendo: l’energia delle tempeste infatti deriva dagli scambi con il mare e diminuisce quando questi fenomeni sovrastano la terraferma. LEGGI TUTTO

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    Baciare gli animali domestici è rischioso?

    Una decina di anni fa una donna di 44 anni si presentò in un ospedale in Giappone dicendo di avere un forte mal di testa, nausea e rigidità al collo. Dopo averla visitata, i medici avevano riscontrato febbre alta, ma nessun indizio di una infezione e nemmeno segni di ferite o punture di insetto. I sintomi indicati dalla paziente sembravano comunque indicare qualche problema neurologico e le furono prescritti altri esami. Le fu infine diagnosticata una meningite di origine batterica, ma non fu possibile stabilire che cosa l’avesse causata fino a quando la paziente ammise di avere l’abitudine di baciare il muso del proprio cane, passandogli talvolta il cibo stringendolo tra le labbra. Il grande trasporto verso il suo animale domestico le era costato una pericolosa infezione batterica, diagnosticata comunque per tempo e trattata con successo con alcuni antibiotici.Casi come quello giapponese sono rari e nella maggior parte delle circostanze la convivenza e le effusioni con gli animali domestici non portano a sviluppare zoonosi, cioè malattie infettive che vengono trasmesse dagli animali agli esseri umani. Le zoonosi domestiche hanno un’incidenza relativamente bassa rispetto ad altre malattie, ma secondo gli esperti molti casi passano inosservati e di conseguenza falsano le stime del fenomeno. Per quanto piccolo, il rischio esiste e può essere utile avere qualche conoscenza in più su cosa cani, gatti e altri animali possono trasmettere a chi li accudisce e non solo.I patogeni – come virus, batteri e parassiti – noti per passare dagli animali domestici a noi sono una settantina e non sempre causano sintomi evidenti in cani, gatti e altri animali da compagnia. Le vie di trasmissione possono essere dirette, per esempio in seguito al contatto con saliva, feci e altri fluidi corporei, oppure indirette quando si maneggiano sostanze contaminate come acqua, cibo o i materiali con cui gli animali restano a lungo vicino, come lettiere e cucce.Il rischio è solitamente più alto con i contatti diretti, dove c’è una stretta interazione tra l’animale e la persona che lo accudisce. Senza arrivare a scambiarsi il cibo di bocca come nel caso della paziente giapponese, molte persone quando giocano con un cane si lasciano leccare la faccia, con la saliva che può raggiungere le mucose della bocca e del naso, oppure depositarsi sugli occhi. Nel cavo orale di un cane c’è una grande quantità di batteri e altri microrganismi tipici della specie canina (Canis familiaris) contro i quali non abbiamo sempre difese adeguate.Tra i batteri che i cani possono trasmetterci ce ne sono alcuni appartenenti al genere Clostidrium, ma anche E. coli e quelli responsabili delle salmonellosi, tutti con il potenziale di causare malattie gastrointestinali. Il Pasteurella multocida trovato nella paziente giapponese, è presente in molte altre specie oltre ai cani (uccelli, gatti, conigli, maiali e bovini) e sebbene porti molto di rado alla meningite, può causare problemi all’apparato respiratorio e cardiaco innescando una risposta immunitaria eccessiva che finisce per danneggiare i tessuti.(AP Photo/Sergei Grits)I gatti sono meno inclini a leccare gli umani con cui vivono, ma si lisciano di frequente il pelo con cui si entra inevitabilmente in contatto. I casi di zoonosi sono comunque legati più che altro al modo in cui viene gestita la lettiera: per buona pratica si dovrebbero utilizzare guanti usa e getta quando si cambia la sabbia, o per lo meno ricordarsi di lavare accuratamente le mani per almeno 20-30 secondi al termine della pulizia. La via oro-fecale è infatti tra le principali modalità in cui si può contrarre infezioni come salmonellosi, toxoplasmosi o giardiasi, una malattia dovuta a un protozoo che invade l’apparato digerente causando nausea, vomito e diarrea.I contatti diretti che possono portare a una zoonosi comprendono morsi e graffi, che spesso coi gatti più sensibili si verificano alla minima incomprensione. Molti di loro fanno da serbatoio naturale al Bartonella henselae, un batterio noto non a caso per causare la malattia “da graffio di gatto”. Dopo qualche giorno nel punto della ferita si forma una pustola talvolta accompagnata dalla febbre. Normalmente il sistema immunitario riesce da solo a superare l’infezione nel giro di 2-4 mesi, ma nelle persone immunodepresse la malattia può durare molto più a lungo e causare altri effetti, come problemi al fegato.In generale, più si vive a stretto contatto con i propri animali domestici maggiori sono i rischi di dover fare i conti con qualche imprevisto. Oltre a farsi leccare la faccia, dare libero accesso alla camera da letto a cani e gatti può essere problematico. Dormire in compagnia dei propri animali domestici prolunga inevitabilmente i tempi di esposizione a eventuali patogeni. Lo stesso vale per altre zone della casa, per esempio nel caso in cui si lascino i gatti liberi di saltare sui pensili della cucina, ammesso che ci sia un modo davvero efficace per impedirglielo.(Brooke Cagle su Unsplash)Mentre per le persone in salute i rischi sono tutto sommato bassi, per alcune categorie viene consigliata qualche precauzione in più. I bambini hanno occasioni di contatto più stretto con gli animali domestici: giocano con loro e si mettono le mani in bocca dopo averli toccati, con un maggior rischio di essere contagiati e sviluppare un’infezione. Altri soggetti a rischio sono le persone con problemi al sistema immunitario, che potrebbero avere complicazioni anche con un’infezione che per altri sarebbe banale e risolvibile in pochi giorni con o senza farmaci.Come segnalano due esperti sul sito The Conversation, non sono solamente i cani e i gatti a diffondere malattie tra gli esseri umani: «Gli uccelli domestici possono talvolta trasmettere la psittacosi, un’infezione batterica che causa la polmonite. Il contatto con testuggini domestiche è stato collegato a infezioni batteriche dovute al genere Salmonella, in particolare nei bambini. Anche i pesci da tenere in acquario sono stati ricondotti a una serie di infezioni batteriche negli umani».Tornando ai cani e ai gatti, è importante comunque ricordare che se si viene leccati su mani, braccia, gambe e piedi ci sono poche probabilità di trasmissione dei patogeni. La pelle è la prima e più importante barriera di cui disponiamo per difenderci dagli agenti esterni e fa un ottimo lavoro anche nello sbarrare la strada a molti dei patogeni trasportati dagli animali. Il rischio aumenta (sempre relativamente) se si hanno ferite o se saliva e altri fluidi entrano in contatto con le mucose. Per questo di solito viene sconsigliato di farsi leccare la faccia dal proprio animale domestico. Nel caso dei cani, basta ricordarsi dove mettono il muso, come ha spiegato un virologo: «Non è solo questione di ciò che è contenuto nella saliva. I cani passano buona parte della loro vita con il naso in angoli sudici o annusando gli escrementi di un altro cane, quindi il loro muso è pieno di batteri, virus e germi di ogni tipo».Oltre a virus e batteri ci sono poi i parassiti come i nematodi, chiamati spesso impropriamente “vermi cilindrici”, che infestano una grande quantità di animali. Si diffondono soprattutto attraverso le feci, che possono essere ingerite nei casi di coprofagia o quando i cani si annusano e leccano a vicenda. È comunque raro che il materiale fecale presente nella loro bocca causi la parassitosi in un essere umano, ma la contaminazione può comunque avvenire per via indiretta, per esempio quando viene accidentalmente ingerito qualcosa che era entrato a contatto con i bisogni di un cane infetto, se per esempio questo si era liberato nelle vicinanze di un orto domestico.Per ridurre i rischi e godersi lo stesso una certa affettuosa vicinanza con gli animali domestici possono essere sufficienti alcuni accorgimenti. Il primo, che vale per molte altre cose legate all’igiene e alla salute, consiste nel lavarsi bene le mani dopo avere giocato con loro e dopo essere entrati in contatto con i loro giocattoli, le lettiere, le cucce o ciò che usano per riposarsi. Il consiglio vale anche per i bambini, che dovrebbero essere sorvegliati per assicurarsi che si abituino a lavarsi le mani. Alcuni ambienti della casa come la cucina dovrebbero essere preclusi agli animali, specialmente se possono facilmente saltare sui ripiani e magari raggiungere del cibo. Assicurarsi di avere tutte le vaccinazioni in regola e di rispettare le scadenze per i rinnovi di questi trattamenti aiuta a ridurre ulteriormente alcuni rischi.In linea di massima è infine meglio non farsi leccare la faccia. LEGGI TUTTO

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    La formica di fuoco è arrivata in Europa, in Sicilia

    In un’area di 4,7 ettari in provincia di Siracusa, in Sicilia, sono stati trovati 88 diversi nidi di formica di fuoco (Solenopsis invicta), una delle specie più invasive al mondo: è la prima volta che la sua presenza viene individuata in Europa. È infatti una specie animale aliena, o alloctona, che l’azione diretta o indiretta delle persone ha spostato in zone diverse rispetto al suo ambiente abituale. Originarie del Sud America, le formiche di fuoco sono arrivate in Australia, Cina, Caraibi, Messico e Stati Uniti in meno di un secolo: potrebbero potenzialmente diffondersi in modo molto rapido in Italia come nel resto d’Europa, con possibili impatti gravi su ecosistemi e agricoltura. La velocità della diffusione della specie è dovuta alla creazione di cosiddette supercolonie, che prevedono la presenza di più formiche regine.– Ascolta anche: Storie di granchi blu e altre specie invasive, nell’ultima puntata di Ci vuole una scienzaLa presenza in Europa delle formiche di fuoco è stata certificata in uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology e condotto dall’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica, in collaborazione con l’Università di Parma e l’Università di Catania. In precedenza i ricercatori avevano trovato formiche di fuoco in prodotti importati in Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ma non era mai stata individuata una colonia sul territorio europeo. Quella siciliana, secondo le analisi genetiche, potrebbe essere composta da insetti provenienti da Stati Uniti o Cina.Le formiche di fuoco sono di colore bruno rossastro e hanno una lunghezza che va dai 2 ai 4 millimetri. Sono dotate di un pungiglione velenoso, che provoca punture molto dolorose, simili a una scottatura con una piccola fiamma, caratteristica da cui hanno preso il nome. Secondo lo studio gli abitanti della zona della provincia di Siracusa dove sono stati trovati i nidi segnalano punture di questo tipo già del 2019, cosa che fa pensare che l’ampiezza delle colonie potrebbe essere anche superiore a quella stimata.(Wikicommons)Uno degli autori dello studio, Mattia Menchetti dell’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica (IBE), ha spiegato all’Ansa che i «principali tipi di danni per l’uomo riguardano le apparecchiature elettriche e di comunicazione, e l’agricoltura». Le formiche di fuoco possono infatti infestare apparecchiature elettriche presenti anche in automobili e computer, possono danneggiare i raccolti ma soprattutto hanno un impatto sulle specie autoctone degli ecosistemi in cui si diffondono: «È un predatore generalista, e nei luoghi in cui si insedia causa la diminuzione della diversità di invertebrati e piccoli vertebrati».Secondo uno studio pubblicato su Nature la formica di fuoco è la quinta specie invasiva per danni economici causati nel mondo: negli Stati Uniti sono stati stimati in 6 miliardi di dollari ogni anno. Secondo lo studio dell’IBE, anche in ragione del riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra dovute alle attività umane, il 7 per cento del territorio europeo e il 50 per cento delle città del continente presentano un ambiente con condizioni adatte alla diffusione della specie, che predilige i climi caldi. La Regione Sicilia ha messo in atto un piano di monitoraggio e di eradicazione di questa specie di formica: come per altre specie alloctone questa operazione può però essere complessa.– Ascolta anche: Vicini e lontani, un podcast sulle specie aliene LEGGI TUTTO

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    È morto il biologo britannico Ian Wilmut, aveva guidato il gruppo di ricerca per la clonazione della pecora Dolly

    È morto a 79 anni il biologo Ian Wilmut: aveva guidato la ricerca per la clonazione della pecora Dolly, primo caso in cui fu clonato un mammifero usando una sua cellula adulta. Con le sue attività di ricerca, Wilmut ha reso possibili importanti sviluppi e progressi nella ricerca sulle cellule staminali, le cellule non specializzate in grado di differenziarsi e svolgere funzioni diverse all’interno di un organismo.La clonazione di Dolly divenne un argomento estremamente discusso, anche al di fuori degli ambienti scientifici: a suscitare interesse e qualche timore fu la possibilità, che ai tempi appariva particolarmente concreta e vicina, di clonare gli esseri umani. In varie occasioni Wilmut disse di essere contrario perché sarebbe inutile, oltre che moralmente discutibile, sostenendo invece che la ricerca debba concentrarsi sullo sviluppo di nuove cure per migliorare la vita delle persone.– Leggi anche: A che punto siamo con la clonazione (AP Photo/Michael Probst, File) LEGGI TUTTO

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    Che cos’è l’infertilità secondaria?

    Caricamento playerSecondo diverse ricerche l’infertilità secondaria, cioè la difficoltà a rimanere incinte di nuovo o a portare a termine una gravidanza dopo che si è già partorito, è molto comune ed è un problema di salute pubblica che ha conseguenze significative sulle persone coinvolte e sulla società in generale.L’infertilità può dipendere sia dalla donna che dall’uomo. Quella primaria viene definita come l’incapacità di concepire di una coppia in relazione da almeno cinque anni che ha avuto per un determinato periodo di tempo regolari rapporti sessuali non protetti. Il periodo di tempo di sesso non protetto che viene considerato per arrivare a parlare di infertilità può variare, ma è generalmente pari a un anno e diminuisce con l’aumentare dell’età. L’infertilità secondaria è invece l’incapacità di concepire o di portare a termine una gravidanza dopo almeno una precedente gravidanza andata a buon fine senza trattamenti per la fertilità. I medici solitamente diagnosticano l’infertilità secondaria dopo che una coppia ha tentato di concepire per 6-12 mesi senza successo.Secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, l’infertilità secondaria riguarda il 6 per cento delle donne in una relazione fissa tra i 15 e i 49 anni che, dopo aver partorito una prima volta, hanno difficoltà a rimanere incinta di nuovo dopo un anno di tentativi. Il 14 per cento ha difficoltà a rimanere incinta di nuovo o a portare a termine una gravidanza. Intervistato dallo Huffington Post, il ginecologo e specialista in endocrinologia riproduttiva Banafsheh Kashani ha anche fornito un’indicazione sui tempi: l’infertilità secondaria «si verifica se si sta cercando di rimanere incinta da più di un anno e si hanno meno di 35 anni o se si sta provando da più di 6 mesi e si hanno più di 35 anni». Questa situazione non è comunque rara, dicono gli esperti: l’infertilità secondaria è comune quasi quanto l’infertilità primaria.Uno studio del 2022 condotto da un gruppo di ricercatori e ricercatrici iraniane e pubblicato sull’International Journal of Reproductive BioMedicine (IJRM) ha analizzato il fenomeno dell’infertilità a livello globale basandosi sulle informazioni del Global Burden of Disease (GBD) che raccoglie i più recenti dati epidemiologici di 195 paesi nel mondo per valutare qual è il peso sulla salute delle diverse malattie e fattori di rischio. Lo studio copre gli anni che vanno dal 1993 al 2017 e prende in considerazione sette regioni del mondo. I risultati hanno dimostrato che, in tutte le regioni studiate, i tassi di infertilità secondaria sono molto più alti nelle donne che negli uomini e che nei paesi ad alto reddito, che comprendono anche l’Europa, sono inferiori che altrove, molto probabilmente a causa di un migliore e di un maggiore accesso a medici specializzati e a cliniche per il trattamento del problema.Media dei tassi di infertilità ogni 100mila persone in varie regioni del mondo nel periodo 1993-2017Le cause dell’infertilità secondaria possono essere diverse e sono simili a quelle dell’infertilità primaria: endometriosi, squilibri ormonali, sovrappeso o sottopeso, ostruzione delle tube uterine, cicatrici nell’utero dovute a un taglio cesareo, patologie che colpiscono il sistema riproduttivo maschile, alterazioni del tratto genitale, uso di alcol o tabacco. Ma una delle cause più comuni è l’età avanzata, oltre cioè i 35 anni. In Italia, ma anche in molti altri paesi, l’età media delle madri alla nascita del primo figlio è aumentata: poiché nell’infertilità secondaria si tratta di concepire un secondo figlio, l’età è di conseguenza ancora più alta e il passare del tempo influisce sul numero e sulla qualità sia degli ovociti che degli spermatozoi. L’infertilità secondaria, proprio come l’infertilità primaria, può essere però diagnosticata come inspiegabile.L’infertilità è un problema di salute pubblica che ha un forte impatto sulle persone coinvolte. E questi effetti collaterali negativi rappresentano a loro volta un onere sociale. Jonah Bardos, direttore di una clinica della fertilità a Miami, ha spiegato che l’infertilità secondaria può causare diversi disagi: può far nascere la sensazione «che prima tutto funzionasse» e che poi qualcosa non funzioni più, mentre in altre persone ancora crea un forte senso di colpa dovuto al desiderio di volere un altro figlio quando altri non sono stati in grado di concepire nemmeno il primo. «Essere presenti e sostenere i propri cari durante questo processo è una parte importante», dice il medico che ha dato anche alcuni semplici suggerimenti. È ad esempio importante evitare di fare alcuni commenti molto comuni che non sono però affatto «innocui»: chiedere a una coppia quando avrà il secondo figlio, quando darà un fratello o una sorella maggiore al bambino che già c’è o dire: «Non vorrai viziare tuo figlio facendolo rimanere figlio unico».Priyanka Ghosh, che lavora presso il centro di fertilità della Columbia University, dice che «l’infertilità secondaria può essere un’esperienza frustrante» ma spiega anche che «molte persone riescono ad avere un secondo figlio dopo una valutazione e un trattamento». Il suggerimento degli specialisti è dunque quello di rivolgersi a dei centri specializzati: «Spesso le persone rimandano il consulto», spiega Banafsheh Kashani: «Questo perché potrebbero essere occupate con il figlio che già hanno o perché sono convinte che, visto che ha già funzionato, funzionerà ancora». I controlli vengono dunque ritardati, riducendo la probabilità che gli interventi possano poi essere efficaci.I test che vengono fatti per diagnosticare l’infertilità secondaria sono gli stessi dei casi di infertilità primaria: storia clinica delle persone coinvolte, studi ormonali, ecografie, esami delle tube, valutazione della qualità del seme e altri esami ancora che possono poi consentire di scegliere i trattamenti e le tecniche più adatte. LEGGI TUTTO

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    Un modo discusso per trattare il nanismo

    Caricamento playerNei mesi scorsi, i genitori di alcuni bambini con una particolare forma di nanismo hanno manifestato a Tbilisi, in Georgia, chiedendo al governo di rispettare la promessa di finanziare un costoso trattamento per ridurre gli effetti della condizione che interessa i loro figli. Le proteste sono state documentate dai giornali e dalla televisione georgiana, inducendo infine il governo a finanziare un’iniziativa che entro fine anno consentirà a un gruppo di bambini di ricevere le prime dosi di Voxzogo, un farmaco relativamente recente sviluppato negli Stati Uniti dove l’opportunità del suo utilizzo è piuttosto discussa.Il Voxzogo (il cui principio attivo si chiama vosoritide) favorisce lo sviluppo delle ossa nelle persone con acondroplasia – la forma di nanismo più comune – e di conseguenza rende più probabile una maggiore crescita in altezza, con uno sviluppo degli arti. Negli Stati Uniti il trattamento può arrivare a costare circa 350mila dollari all’anno e non sempre è coperto dalle assicurazioni sanitarie, mentre in altre parti del mondo dove la sanità è per lo più pubblica la spesa è coperta dai servizi sanitari. In Italia, per esempio, da circa un anno il Voxzogo è rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, a patto che la diagnosi di acondroplasia sia confermata attraverso una «opportuna analisi genetica».Ma la discussione intorno al Voxzogo non è legata al suo costo, quanto all’opportunità di utilizzare un farmaco che, se da una parte riduce gli effetti più evidenti dell’acondroplasia, e cioè la bassa statura, dall’altra non garantisce di migliorare i problemi di salute che potranno avere le persone con questa condizione per tutta la loro vita. Il trattamento deve essere inoltre iniziato nei primi anni di vita, circostanza che mette i genitori davanti a una scelta difficile poco tempo dopo la nascita di un figlio. Le implicazioni e le sfumature sono moltissime, senza contare che la bassa statura non è di per sé “una malattia” e può essere rischioso vederla e trattarla come tale.In tutto il mondo ci sono circa 250mila persone con acondroplasia e molte altre con diverse forme di nanismo. Si identificano come “persone di bassa statura” o “persone piccole” (“little people”), soprattutto nei paesi anglosassoni dove vari termini hanno assunto nel tempo una connotazione stereotipata e in alcuni casi dispregiativa. Nonostante le difficoltà date dal vivere in un mondo spesso fuori scala, dall’altezza delle maniglie delle porte a quella degli interruttori solo per fare qualche esempio, la maggior parte di queste persone vive normalmente e grazie ai miglioramenti di terapie e interventi chirurgici ha un’aspettativa di vita più lunga rispetto a un tempo. I problemi comunque non mancano, con casi ricorrenti di discriminazioni e il rischio di marginalizzazione nella società.Il nanismo è dovuto a una grande varietà di fattori genetici, non sempre semplici da ricostruire. La causa dell’acondroplasia, per esempio, è stata scoperta con certezza solo nella prima metà degli anni Novanta, quando si è notato il ruolo di un gene che in una determinata versione porta al malfunzionamento di una proteina (recettore del fattore di crescita del fibroblasto 3, FGFR3). In condizioni normali questa limita la formazione del nuovo tessuto osseo, ma nelle persone con acondroplasia il gene fa sì che questo meccanismo sia quasi sempre attivo, impedendo alle ossa di continuare a svilupparsi.Ciò compromette buona parte della crescita e fa sì che la statura di una persona non aumenti più di tanto fino alla fine dell’adolescenza, quando il processo normalmente si riduce. Il mancato sviluppo interessa buona parte delle ossa, ma è più evidente nelle gambe e nelle braccia, che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo. La testa ha una crescita ancora diversa, con un maggiore sviluppo della fronte e in alcuni casi una ridotta dimensione del foro occipitale, l’apertura alla base del cranio che mette in comunicazione la cavità cranica (dove c’è buona parte del cervello) con il canale vertebrale (dove c’è buona parte del resto del sistema nervoso centrale).La dimensioni ridotte del foro occipitale possono costituire un serio rischio per la salute. Al crescere del sistema nervoso aumentano anche le dimensioni del tronco encefalico, la struttura alla base del cervello che si collega poi al canale vertebrale all’altezza del collo: se il foro occipitale non ha dimensioni adeguate, questa parte del sistema nervoso può schiacciarsi e può portare a una morte improvvisa. Nei bambini di cinque anni con acondroplasia il rischio è 50 volte superiore rispetto al resto della popolazione. L’andamento dello sviluppo del foro occipitale deve quindi essere tenuto sotto controllo nei primi anni di vita e in media un bambino su cinque deve essere sottoposto a un intervento chirurgico per allargare l’apertura. L’intervento è di solito risolutivo, ma in alcuni casi è necessaria una nuova operazione dopo qualche tempo se lo sviluppo porta nuovamente il foro occipitale a essere insufficiente.Lo sviluppo ridotto del tessuto cartilagineo, che ha molto in comune con quello osseo, influisce anche sulla crescita delle cartilagini del naso e può comportare problemi respiratori. Fin dai primi anni di vita c’è un alto rischio di apnee notturne, cioè fasi in cui durante il sonno si interrompe per qualche momento il respiro, mettendo sotto stress il cuore. Ci sono comunque accorgimenti che si possono adottare, a cominciare dalla posizione mentre si è distesi, per ridurre i rischi. In età adulta possono manifestarsi problemi legati alla postura, con dolori alle articolazioni, anche se fare attività fisica aiuta di solito a ridurre i sintomi (che in misura diversa interessano in generale la popolazione con l’invecchiamento).Come segnala un lungo articolo pubblicato di recente sul sito di Nature, una ventina di anni fa iniziarono a essere sviluppati trattamenti per ridurre gli effetti dell’acondroplasia, con risultati incoraggianti in laboratorio su una proteina (CNP) coinvolta nella crescita delle ossa. Quelle prime esperienze portarono allo sviluppo del Voxzogo, che non agisce direttamente sulla proteina FGFR3 (quella che per chi ha una specifica variante genetica ferma quasi completamente la crescita), ma con un altro meccanismo che se attivato interferisce con i segnali che fermano la crescita delle ossa.Una decina di anni fa l’azienda farmaceutica statunitense BioMarin aveva avviato i primi test clinici del Voxzogo. La sperimentazione iniziale aveva dato esiti promettenti e, avvicinandosi il momento in cui la società avrebbe chiesto l’autorizzazione per mettere in commercio il farmaco, la Food and Drug Administration (l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) aveva organizzato un gruppo di lavoro e consulenza per capire con quali parametri dovesse essere valutato il Voxzogo. Nel 2018 furono presi in considerazione i possibili effetti e infine si concluse che il modo migliore per fare una valutazione fosse misurare il cambiamento in altezza dei partecipanti alla sperimentazione, su base annuale.Nel 2021 il farmaco fu approvato dalla FDA, e in seguito dall’Agenzia europea per i medicinali, sulla base di un test clinico che aveva coinvolto 120 partecipanti con un’età compresa tra i 5 e i 15 anni: alcuni avevano ricevuto il farmaco vero e proprio e altri, in un gruppo di controllo, una sostanza che non faceva nulla (placebo). In media, la somministrazione del Voxzogo aveva portato a un aumento dell’altezza di 1,57 centimetri in più rispetto al gruppo di controllo. Il farmaco era stato quindi approvato con una procedura accelerata, in mancanza di altri trattamenti, con la richiesta a BioMarin di proseguire gli studi negli anni seguenti per valutare l’effetto complessivo del farmaco sulla statura delle persone interessate.Dal momento dell’approvazione, la società ha lavorato molto per far conoscere il proprio prodotto ai genitori di bambini con acondroplasia e la richiesta del trattamento è aumentata sensibilmente. Sempre secondo i dati forniti da Nature, nel primo trimestre del 2022 le vendite hanno fruttato a BioMarin circa 19,7 milioni di dollari, mentre nel secondo trimestre di quest’anno hanno raggiunto i 113 milioni di dollari. Sono cifre relativamente contenute per il settore farmaceutico, ma l’azienda confida di potere aumentare le vendite, soprattutto se FDA ed EMA daranno a breve l’autorizzazione per iniziare la somministrazione del farmaco prima dei due anni di età.A oggi i bambini cui viene somministrata una dose di Voxzogo sono circa duemila, molti negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, ma anche in altre parti del mondo. Per i loro genitori è una speranza per ridurre le difficoltà che i figli potrebbero incontrare con l’età, secondo chi sceglie di non ricorrere al farmaco è invece una scelta rischiosa perché problematizza la bassa statura, lasciando in secondo piano gli altri problemi di salute che comunque le persone con acondroplasia potrebbero avere e che non sono necessariamente legati all’altezza.Il confronto intorno al Voxzogo potrebbe cambiare nei prossimi anni se si rivelasse utile anche nel ridurre i rischi legati allo scarso sviluppo del foro occipitale. Un test clinico in merito è già in corso e si sono osservati alcuni effetti positivi, ma saranno necessari altri quattro anni prima di avere dati a sufficienza per trarre qualche conclusione. Il farmaco è del resto disponibile da poco e interviene su processi come quelli della crescita che non solo richiedono tempo, ma che hanno esiti diversi e molto soggettivi. È anche per questo motivo che i genitori di bambini con acondroplasia sono spesso in difficoltà quando viene proposto loro di avviare il percorso terapeutico. Da tempo medici e associazioni lavorano per mostrare ai genitori di bambini con forme di nanismo che la loro condizione – se tenuta sotto controllo – è gestibile e che trattarla in altro modo può avere effetti psicologici imprevisti.L’acondroplasia può essere trasmessa dai genitori ai figli, ma nella maggior parte dei casi la mutazione genetica si manifesta spontaneamente. La prima diagnosi avviene di solito in fase prenatale, dopo un’ecografia di routine durante il terzo trimestre nella quale inizia a essere visibile il diverso sviluppo delle ossa lunghe. Un test del DNA fetale può inoltre portare ad avere una conferma diagnostica, che in casi di procreazione assistita può anche essere effettuato prima della gravidanza (analisi preimpianto).Per chi se ne occupa, è importante che le circostanze aleatorie che portano al nanismo siano spiegate ai genitori, prima di essere messi davanti alla scelta sull’avviare o meno un trattamento come quello a base di Voxzogo. Deve essere chiaro il rapporto tra costi e benefici, nel caso in cui si scelga di procedere con il farmaco o meno, così come si devono avere presenti gli eventuali effetti avversi.Dal canto suo BioMarin sostiene di non avere sviluppato il Voxzogo solamente per l’aumento della statura. Oltre alla sperimentazione sul foro occipitale, la società dice di avere in programma l’analisi di altri potenziali effetti del farmaco nel ridurre le apnee notturne e gli interventi medici, oltre a valutare l’eventuale miglioramento della qualità della vita. Il settore potrebbe del resto rivelarsi molto redditizio e questo spiega perché varie altre aziende farmaceutiche abbiano sperimentazioni in corso, alcune in fase di conclusione.Insieme alla società californiana Tyra Biosciences, la multinazionale farmaceutica Sanofi sta studiando come utilizzare in ambiti diversi da quelli per cui era stato sviluppato un farmaco antitumorale. Il suo principio attivo interviene sempre su FGFR3 con lo scopo di rallentare la crescita delle cellule di alcuni tipi di tumore. Una versione a basso dosaggio del farmaco potrebbe essere impiegata per contrastare gli effetti dell’acondroplasia, ma saranno necessari ancora alcuni anni prima di terminare i test clinici. Altre società stanno invece sviluppando sistemi basati su anticorpi per inibire FGFR3.In Italia a metà luglio sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale le indicazioni per la rimborsabilità e il prezzo del Voxzogo nella fascia di età compresa tra i 2 e i 5 anni. Viene erogato in ambito ospedaliero (classe H) con un prezzo per dieci fiale di quasi 11mila euro, rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. In queste settimane le regioni hanno iniziato a recepire le indicazioni, di conseguenza il farmaco potrebbe essere disponibile in tempi diversi sul territorio nazionale. LEGGI TUTTO

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    La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi

    Uno studio pubblicato la scorsa settimana su Science ha proposto una nuova ipotesi sulla storia dell’evoluzione umana che, se confermata da altre ricerche, potrebbe farci scoprire qualcosa dell’ultimo antenato comune a noi e ai Neanderthal, la specie molto vicina alla nostra che visse tra mezzo milione e qualche decina di migliaia di anni fa. Secondo lo studio, realizzato da un gruppo di ricerca internazionale, 930mila anni fa una specie di ominini (come vengono chiamate più correttamente le specie a cui un tempo ci si riferiva come “ominidi”) da cui discendiamo rischiò l’estinzione, arrivando a contare meno di 1.300 individui, forse a causa di un cambiamento climatico. E solo dopo 117mila anni la popolazione si riprese, aumentando di numero.L’ipotesi è basata su un’analisi statistica del DNA di 3.154 persone viventi che  provengono da 50 diverse zone del mondo: il genoma di ognuno di noi deriva da quello dei suoi antenati e nelle mutazioni che presenta contiene indizi della loro storia (il genoma è tutto il DNA che troviamo all’interno di una cellula). Prendendo in considerazione le differenze tra i genomi esaminati, il gruppo di ricerca ha indagato sulle possibili dinamiche demografiche responsabili dell’attuale diversità genetica tra le popolazioni umane. Ha poi concluso che a un certo punto del nostro passato accadde qualcosa che fece da “collo di bottiglia” alla variabilità genetica, cioè la contenne, e causò una grossa differenza tra il DNA dei nostri antenati e quello degli altri primati.Il collo di bottiglia sarebbe stato appunto una grande diminuzione della popolazione della specie da cui poi si evolse Homo sapiens, la nostra. Gli autori dello studio hanno stimato che la popolazione si ridusse del 98,7 per cento, lasciando in vita meno di 1.280 individui. Rischiò dunque di estinguersi: se fosse successo, Homo sapiens non sarebbe mai esistito.Secondo le ipotesi degli scienziati le cose sarebbero andate così: sette milioni di anni fa tra i primati si distinse una specie che, nel giro di sei milioni di anni, sviluppò un cervello di grandi dimensioni e un’altezza superiore. Quella specie viveva in Africa e, secondo la nuova ipotesi, 930mila anni fa dovette affrontare una grave carenza di cibo dovuta a un cambiamento climatico, una fase di raffreddamento che sappiamo si verificò grazie agli studi geologici. Secondo la teoria, tale cambiamento causò la morte della stragrande maggioranza dei nostri antenati diretti, ma circa 1.300 di loro sopravvissero. Passarono poi circa 117mila anni prima che la popolazione tornasse a espandersi in modo significativo verso l’Asia e l’Europa, dando origine a specie diverse: i Neanderthal (Homo neanderthalensis), i Denisovani e una popolazione che restò in Africa da cui discenderebbero gli Homo sapiens. I ricercatori hanno anche ipotizzato che l’antenato comune sarebbe una specie già nota e identificata come Homo heidelbergensis.L’ipotesi comunque resta da dimostrare. A sostegno delle conclusioni del gruppo di ricerca – composto da scienziati cinesi e italiani, dell’Accademia cinese delle scienze, dell’Università normale orientale di Shanghai, dell’Università del Texas, della Sapienza di Roma e dell’Università di Firenze –  ci sarebbe il fatto che in Africa sono stati trovati pochissimi fossili di specie antenate della nostra risalenti al periodo compreso tra 950mila e 650mila anni fa. Se l’ipotesi del nuovo studio fosse corretta, questo si spiegherebbe col fatto che essendoci pochissimi individui le possibilità che i resti di alcuni di loro si fossilizzassero erano molto basse.Il collo di bottiglia però è solo una possibile ipotesi per spiegare l’origine della varietà genetica umana attuale. Brenna Henn, una genetista dell’Università della California, ha detto al New York Times che le differenze nei genomi di oggi siano state dovute a separazioni delle popolazioni antiche e a loro riunificazioni successive. Per Henn bisognerebbe mettere alla prova anche ipotesi diverse.Invece Nick Ashton, un archeologo del British Museum di Londra, ha fatto notare che al di fuori dell’Africa sono stati trovati fossili di “parenti” degli umani risalenti al periodo in cui ci sarebbe stato il collo di bottiglia: secondo lui un cambiamento climatico di portata tale da ridurre del 98 per cento una popolazione in Africa avrebbe dovuto avere delle conseguenze anche in altre parti del mondo. Stephan Schiffels, un genetista del Max Planck Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia (Germania), ha invece qualche dubbio sul metodo statistico utilizzato dagli autori del nuovo studio. Pensa che servano più prove. LEGGI TUTTO

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    L’India ha lanciato una sonda per studiare il Sole

    Caricamento playerSabato l’India ha fatto partire la sua prima missione spaziale di osservazione del Sole: si chiama Aditya-L1, è partita dal Centro spaziale Sriharikota, nell’India meridionale, e trasporterà una sonda a 1,5 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. Il nuovo lancio è arrivato a pochi giorni di distanza da un risultato storico per l’esplorazione spaziale indiana: l’atterraggio sulla Luna della missione Chandrayaan-3, che prevede di esplorare il suolo del satellite con un robot automatico (rover) per un paio di settimane. La missione indiana è stata la prima ad approdare con successo al polo sud della Luna.Alle 11:50 ora locale (le 8:20 in Italia) il razzo Pslv Xl, che pesa 320 tonnellate ed è stato progettato dall’ISRO (Indian Space Research Organistation) è decollato con successo, iniziando un viaggio che durerà quattro mesi: la missione Aditya-L1 prevede alcune orbite intorno alla Terra prima di raggiungere l’obiettivo, posto a circa l’1 per cento della distanza totale che ci separa da Sole. In quella posizione, indicata come punto di Lagrange, le attrazioni gravitazionali di Sole e Terra in parte si compensano, permettendo alla sonda di raggiungere una situazione di “stallo” e di orbitare intorno al Sole, alla stessa velocità della Terra, con un consumo di carburante molto limitato.🌞 Aditya-L1: India’s Sun Gazer 🚀🌠🤩 With the launch of Aditya-L1, ISRO will enter the most elite club of space faring nations.👉 The Aditya-L1 mission is a solar mission by the Indian Space Research Organisation (ISRO).👉 It is the first Indian mission to study the Sun… pic.twitter.com/dnLTrXcmSP— Raj Malhotra (@Rajmalhotrachd) September 2, 2023Da quella posizione Aditya-L1 sarà in grado di osservare il Sole con continuità, anche quando dalla Terra è nascosto causa eclissi, e di portare avanti diversi studi: in particolare verranno analizzati la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera solare, la fotosfera, ossia la superficie solare, e la cromosfera, cioè il sottile strato dell’atmosfera solare spesso 10mila chilometri fra corona e fotosfera.Uno degli obiettivi è studiare l’attività solare, e in particolare i venti e le eruzioni solari che influenzano la Terra e gli oggetti nella sua orbita attraverso radiazioni, calore, flussi di particelle e flussi magnetici. I venti solari possono influenzare anche il funzionamento dei satelliti in orbita intorno alla Terra: l’India ne ha 50, che svolgono funzioni fondamentali di comunicazione, studio e prevenzione di fenomeni atmosferici potenzialmente pericolosi per la popolazione.La missione è stata chiamata Aditya in onore della divinità indù del Sole, conosciuta con questo nome oltre che con quello di Surya. La siglia L1 rappresenta il Lagrange point 1, destinazione finale.#WATCH | Indian Space Research Organisation (ISRO) launches India’s first solar mission, #AdityaL1 from Satish Dhawan Space Centre in Sriharikota, Andhra Pradesh.Aditya L1 is carrying seven different payloads to have a detailed study of the Sun. pic.twitter.com/Eo5bzQi5SO— ANI (@ANI) September 2, 2023Se la missione sarà completata con successo l’India entrerà in un gruppo ristretto di paesi che hanno realizzato studi di questo genere sul Sole: il primo fu il Giappone nel 1981, seguito dagli enti spaziali statunitense ed europeo (NASA e ESA) a partire dagli anni Novanta. Nel 2020 La sonda Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha iniziato da  il suo viaggio verso il Sole, che la porterà ad esplorarne i poli. Nel 2021 la sonda della NASA Parker Solar Probe è entrata per la prima volta nell’atmosfera solare.La partenza della missione Aditya-L1 (AP Photo/R. Parthibhan)L’India ha celebrato vivacemente il successo del lancio, confermando la grande attenzione alle missioni spaziali del governo di Narendra Modi: con l’atterraggio controllato sulla Luna del 23 agosto è stato il quarto paese a riuscirci dopo Stati Uniti, Russia (quando era ancora Unione Sovietica) e Cina.– Leggi anche: Parker Solar Probe è entrata nell’atmosfera solare LEGGI TUTTO