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    Pirelli fa sponda con la Cina per risolvere la grana Usa

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    A vent’anni dalla sua prima presenza industriale in Cina, Pirelli ha celebrato un traguardo importante che testimonia il valore di una collaborazione solida e profondamente radicata nel tempo. L’anniversario, che culminerà con i festeggiamenti del 18 giugno nello stabilimento di Yanzhou, nella provincia dello Shandong, è l’occasione per ribadire quanto i legami tra Pirelli e i suoi partner cinesi (Sinochem che detiene il 37% del capitale della Bicocca) siano non solo intatti, ma orientati al futuro.«Pirelli è in Cina dal 2005, una presenza importante, di cui siamo fieri e che vogliamo festeggiare celebrando il nostro successo con chi lo ha reso possibile», ha affermato Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo del gruppo. «Abbiamo costruito legami forti, un percorso di crescita comune, basato su innovazione, rispetto e visione industriale condivisa», ha aggiunto rimarcando che è «su queste basi che affronteremo anche le sfide globali che si stanno delineando».Uno scenario internazionale sempre più complesso come dimostrano i recenti annunci del governo statunitense in tema di dazi e nuove restrizioni tecnologiche impone scelte strategiche ponderate e condivise. Il recente aggiornamento del consiglio di amministrazione di Pirelli al 28 aprile, deciso su proposta dell’ad Andrea Casaluci e approvato all’unanimità, testimonia proprio la volontà dei soci di trovare una soluzione equilibrata e costruttiva. Lo stop dell’amministrazione Usa alle tecnologie provenienti da Pechino e Mosca rischia, infatti, di bloccare il sistema di sensori integrati con AI «Cyber Tyre» sviluppato da Pirelli. «Continueremo a lavorare per trovare una soluzione per consentire alla società di adeguarsi alle nuove normative», aveva dichiarato Casaluci. Nessuna frattura, quindi, ma un confronto serrato.E che il clima sia disteso lo dimostrano anche le dichiarazioni celebrative della locale dirigenza del Partito comunista cinese (Pcc), vero motore immobile dell’economia del Dragone. «La collaborazione con Pirelli rappresenta per noi una storia di successo e sviluppo reciproco», ha dichiarato Wen Jinrong, segretario del comitato municipale del Pcc di Jining. «Il governo della municipalità continuerà a supportare lo sviluppo dell’azienda nella nostra città, auspicando che Pirelli valorizzi ulteriormente le proprie capacità di innovazione tecnologica e smart manufacturing per contribuire al progresso di Jining», ha proseguito. Parole che confermano come non ci sia alcun muro contro muro tra il gruppo e il socio cinese. Anzi. È molto apprezzata la formula trovata per suggellare l’alleanza con l’industriale Niu Yishun, che, tramite LongMarch Italia, detiene una partecipazione del 3,7% di Pirelli, ma con i diritti di voto sotto il controllo della holding italiana Mtp-Camfin. È «un modello virtuoso di partnership industriale tra pubblico e privato, tra Oriente e Occidente», si sottoliena dalla Cina rilevando che è «una partnership costruita nel tempo con vincoli azionari stabili, come il divieto per Mr. Niu di cedere quote Camfin fino al 2030 e che non ha mai generato frizioni politiche». LEGGI TUTTO

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    Snam, colpo da 920 milioni in Germania prende 25% di Open Grid da Abu Dhabi

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    Snam compra per 920 milioni un pezzo della rete gas tedesca e rafforza la propria strategia di sviluppo paneuropeo entrando anche in Germania: il gruppo è presente in Francia (con Terega) Grecia (Desfa), tra Algeria e Tunisia con il Seacorridor e tra Austria e Germania (con Tag e Gca). Nel dettaglio, la società guidata da Stefano Venier (in foto) e Infinity Investments, veicolo di investimento interamente posseduto dall’Abu Dhabi Investment Authority, hanno stipulato un accordo che vedrà Snam comprare il 24,99% detenuto da Infinity Investments nel capitale sociale di Vier Gas Holding (Vgh) – società con sede in Lussemburgo che possiede indirettamente l’intero capitale sociale di Open Grid Europe (Oge). LEGGI TUTTO

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    Pil 2025 sopra il +0,6%. Ecco la sfida del Tesoro

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    Nel Consiglio dei ministri di domani si disvelerà la verità. Ma, secondo quanto trapela dai corridoi di Via XX Settembre (in foto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti), il Def (o, secondo la nuova denominazione «Dfp») che sarà presentato nella riunione dell’esecutivo conterrà stime di crescita del Pil nel triennio 2025-2027, notevolmente riviste al ribasso rispetto al Dpb dello scorso autunno. Anche se l’ipotesi tecnica parte da valori inferiori all’1%, il risultato finale potrebbe attestarsi allo 0,6%, in linea con quanto già previsto per il 2025 sia dalla Banca d’Italia che dal Centro studi di Confindustria, esattamente la metà rispetto al Documento programmatico di bilancio. Questa stima, che sconta l’effetto di trascinamento negativo generato dalla minore crescita registrata nel 2024 (+0,7% anziché il +1%), non terrebbe conto dell’instabilità del quadro macroeconomico scatenata dalla guerra dei dazi innescata dall’amministrazione Trump. Va detto che una possibile ulteriore riduzione, al momento, sarebbe considerata improbabile. Per il biennio successivo i rumor riferiscono di un incremento annuo del Pil dello 0,8 per cento. LEGGI TUTTO

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    Fink (Blackrock): “Probabilmente gli Usa sono già in recessione”

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    L’insofferenza monta a Wall Street e il gotha della finanza mondiale invita Donald Trump a un ripensamento sui dazi. Il banchiere James Dimon, da quasi 20 anni alla guida di Jp Morgan, ritiene che l’attuale escalation della guerra commerciale stia creando le premesse per una recessione, oltre ad aumentare probabilmente l’inflazione. In una lettera agli azionisti, l’amministratore delegato della maggiore banca statunitense ha sottolineato come il nodo dazi rischi di scatenare conseguenze economiche difficili da gestire e quindi «prima verrà risolta la questione e meglio sarà perché alcuni degli effetti negativi aumenteranno cumulativamente nel tempo e sarebbero difficili da invertire» e «l’economia è un collante durevole, va bene America first a patto che non diventi America sola».C’è chi si spinge anche oltre. «L’economia è probabilmente già in recessione e la pressione inflazionistica è molto più forte di quanto il mercato si aspetti», ha tagliato corto Larry Fink, presidente e ceo di BlackRock che è giunto anche a ipotizzare il rischio di un ulteriore calo del 20% di Wall Street. Fink, che guida il più grande colosso al mondo nella gestione di fondi, vede comunque i recenti cali più come un’opportunità di acquisto che di vendita nel lungo periodo. Non ha usato giri di parole neanche Bill Ackman, fondatore dell’hedge fund Pershing Square, che ha parlato apertamente di rischio di «un inverno nucleare economico» caldeggiando il licenziamento immediato di chiunque sta consigliando il presidente Trump.Lo spauracchio di una veloce caduta in negativo della congiuntura è il principale elemento di preoccupazione tra gli investitori. Le banche d’affari vedono aumentare di giorno in giorno le probabilità che l’economia viri velocemente in territorio negativo. Goldman Sachs ieri ha nuovamente ritoccato le sue previsioni e ora vede al 45% (dal 35% precedente) la probabilità di una recessione statunitense nei prossimi 12 mesi a seguito di un forte inasprimento delle condizioni finanziarie, degli effetti dei boicottaggi dei consumatori stranieri e di un continuo aumento dell’incertezza che rischia di deprimere la spesa da parte delle aziende. In particolare, in condizioni di incertezza le imprese tendono a rinviare o ridurre le spese in beni durevoli, mentre il mercato del lavoro mostra una reattività minore, così come la spesa dei consumatori. «Generalmente i consumi sono inflenzati dall’incertezza, ad eccezione degli acquisti più importanti e posticipabili, come automobili o grandi elettrodomestici», spiega Goldman Sachs nel suo ultimo report. LEGGI TUTTO

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    Fondazione Crt, ecco il nuovo cda

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    Con la nomina del nuovo board della Fondazione Crt, che verrà eletto ufficialmente il 14 aprile dal consiglio di indirizzo, si chiude la difficile stagione dei «patti occulti», che per oltre un anno ha contrassegnato la vita dell’ente, finita a un millimetro dal commissariamento da parte del ministero dell’Economia dopo le clamorose dimissioni dell’ex presidente Fabrizio Palenzona. Ieri il consiglio di indirizzo della Fondazione, tra i principali azionisti di Unicredit, ha presentato la lista, l’unica in campo, con i sei nomi scelti e condivisi con le istituzioni: Luisa Vuillermoz, direttrice della Fondazione Grand Paradis, l’imprenditrice Roberta Ceretto, l’ex vicerettore del Politecnico di Torino Luca Settineri, l’ex responsabile della comunicazione della Juventus Claudio Albanese, Enzo Pompilio D’Alicandro, imprenditore della logistica e vicepresidente della Camera di Commercio di Torino e Paola Casagrande che è stata dirigente di spicco della Regione Piemonte. LEGGI TUTTO

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    Azimut ad alzo zero su Assogestioni

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    La lista di minoranza per i cda delle società quotate presentata da Assogestioni non ha creato scompiglio soltanto a Trieste, dove il 24 aprile si terrà l’assemblea sul rinnovo della governance delle Generali. Per motivi assai diversi, l’elenco di candidati dei fondi non è andato giù a Pietro Giuliani, presidente e fondatore di Azimut Holding che riunirà i soci il 30 aprile. Per il board di Azimut il comitato dei gestori di Assogestioni ha proposto quattro nomi e altrettanti sono i candidati per il collegio sindacale. Il capolista per il cda è Vincenzo Delle Femmine, generale della Guardia di Finanza, attualmente presidente di Fintecna nonché ex vicedirettore dell’Aisi (l’Agenzia di informazioni e sicurezza interna). Qualcosa pù di un semplice sceriffo, insomma. Giuliani però non contesta i curriculum, «non siamo dei banditi e gli sceriffi non ci spaventano anzi ci sentiamo tutelati» dice al Giornale, ma il numero dei candidati è inaccettabile. «La lista Assogestioni sembra essere una vendetta provocata dall’uscita dall’associazione delle società appartenenti al gruppo Azimut di alcuni anni fa. Il non rispetto dello Statuto della società, che assegna all’eventuale lista di minoranza un posto di consigliere in seno al cda, ma la presentazione di una lista di quattro consiglieri che potrebbero essere eletti solo se la lista ottenesse la maggioranza dei voti in assemblea, avvalora questa tesi. Si sta cercando di attuare ciò che, in politica, vengono definiti giochi di palazzo, dove si vuole esprimere il 40% del cda con appena l’1,7% del capitale. Confido che il 98,3% del capitale della società che ancora ho l’onore di presiedere, e che tutti coloro che possano influenzare il suo voto, non sottovalutino l’importanza di dare fiducia, votando la lista del cda presentata da oltre 2.000 colleghi che lavorano nella società. Questi colleghi, che rappresentano circa il 22% del capitale, risulterebbero demotivati e confusi nel vedere prevalere in assemblea una lista di persone, rappresentanti l’1,7%, presentata da un’associazione alla quale abbiamo la fortuna di non appartenere più. Difficilmente riuscirei a non tenere conto di quello che considererei un gesto di sfiducia da parte della maggioranza degli azionisti», spiega Giuliani. Ricordando anche che nei circa 20 anni dalla quotazione, Azimut ha fatto guadagnare ai suoi azionisti 15 volte il capitale investito e che, con una presenza diretta in 19 Paesi, gestisce masse totali per circa 110 miliardi, di cui la metà appartiene a clientela estera. «Questo dà un respiro internazionale alla società con vantaggi per i suoi clienti e azionisti. Non votare la lista presentata dal patto di sindacato vuol dire non apprezzare questi numeri, mortificando chi, con passione e dedizione, ha contributo a realizzarli», aggiunge il fondatore di Azimut.La lista presentata per il cda di Azimut è stata l’ultima composta da Assogestioni sotto la presidenza di Carlo Trabattoni perché ieri l’assemblea dell’associazione ha nominato all’unanimità Maria Luisa Gota, ad di Eurizon e responsabile della divisione Asset Management di Intesa Sanpaolo. Eletti anche i tre vicepresidenti: lo stesso Trabattoni, Giovanni Sandri (Blackrock) e Cinzia Tagliabue (Amundi). LEGGI TUTTO

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    Fincantieri va in crociera con Aida

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    Fincantieri rafforza la propria alleanza con Carnival Corporation attraverso un accordo per la progettazione e costruzione di due navi da crociera destinate ad Aida Cruises, brand tedesco del gruppo americano.Il contratto, che vale circa 2 miliardi di euro, prevede la consegna delle navi all’inizio del 2030 e alla fine del 2031. Per la prima volta i cantieri giuliani realizzeranno unità per questa compagnia, leader nel mercato crocieristico di lingua tedesca.Una commessa che segue di circa una settimana quella della germanica Tui per il brand Marella Cruises.Ogni unità avrà circa 2.100 cabine passeggeri e sarà equipaggiata con motori multi-carburante in grado di operare a gas naturale liquefatto, biodiesel e altri propellenti sostenibili di nuova generazione. Un’impostazione tecnologica che punta a rispondere alle sfide ambientali della navigazione. LEGGI TUTTO

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    Terzo giorno di agonia per i listini mondiali. Riunione segreta dei grandi banchieri

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    I segnali premonitori c’erano tutti. E così la slavina sui mercati post dazi è debordata anche nella nuova settimana. Le Borse del Vecchio Continente vedono quindi il terzo falò consecutivo, con oltre 683 miliardi di euro di capitalizzazione vaporizzati nella terza seduta dal 2 aprile. Il pallottoliere, impietoso, ora segna -1.924 miliardi. Il totale a livello mondiale è di quasi 10mila miliardi di dollari. Non che non fosse una cosa in qualche modo attesa, ma ora una certa inquietudine comincia a filtrare dalle sale operative. Un silenzio assordante è calato su tutte le operazioni finanziarie in corso per concentrarsi su come sia possibile limitare i danni. Tant’è che ieri i vertici di alcune delle più grandi banche al mondo si sono confrontati da remoto sugli effetti che i dazi possono produrre sui mercati finanziari e sull’impatto per l’economia globale. A rivelarlo è stata Sky News che ha appreso che i responsabili di istituti di credito tra cui Bank of America, Barclays, Citi e Hsbc Holdings hanno discusso del caos in corso, apparentemente senza aver raggiunto idee conclusive.L’emorragia di denaro è partita fin dal mattino, con la Borsa di Hong Kong che ha perso il 13,2% nel suo giorno peggiore da 16 anni a questa parte. A punteggiare il dramma c’è la notizia che Il principale fondo statale cinese, il Central Huijin Investment, è stato sguinzagliato dal governo di Pechino per contribuire al «funzionamento stabile» dei mercati, «dopo che sono crollati a causa dell’aumento dei dazi doganali». Il Giappone, con il Nikkei, ha lasciato per strada il 7,8 per cento.Alla campanella delle 9 di mattina, quindi, era logico che a Piazza Affari e su tutti i listini europei si attendesse un’altra giornata di passione. Il principale listino italiano, il Ftse Mib, ha chiuso la giornata mettendo a referto un altro calo del 5,1%: stavolta a perdere di più non sono stati i titoli bancari, ma quelli delle utility (A2a -8,%, Hera -7,5%), dell’energia (Eni -7,7%, Enel -7,6%) e farmaceutico (Recordati -8,5%). Male anche il lusso con Moncler (-7,1%) e Ferrari (-6,6%). Illibato il tabellone dei rialzi, con nessun titolo in territorio positivo. Ancora una volta, tra i principali listini europei, quello Milano è risultato il peggiore seguito da quello di Parigi crollato del 4,8%, quello di Londra del 4,4% e di Francoforte del 4,1 per cento.Al mattino era andata anche peggio. La situazione però è migliorata di pari passo con Wall Street (che apre nel pomeriggio italiano) che ha ridotto il rosso intorno all’1%, sollevata dalla voce secondo cui la Casa Bianca era in procinto di annunciare una sospensiva di 90 giorni sui dazi per tutti i Paesi tranne la Cina, una voce però smentita come fake news poco più tardi da Washington. Dopodiché il listino principale di Wall Street è ridisceso sulla minaccia di Trump che alla Cina, che rischierebbe ulteriori dazi al 50% a partire dal 9 aprile qualora non rimuovesse le tariffe ritorsive applicate agli Usa. Un’altalena di annunci e di colpi al mercato che ha raggiunto una volatilità decisamente elevata, con l’indice della paura, il Vix, a quota 49 avendo ormai raggiunto i livelli del marzo 2020 con l’esplosione del Covid. Alle ore 21 ora italiana Wall Street era però tornata sulla parità.Quanto alle materie prime, i prezzi del petrolio sono scesi ancora con il WTI a New York che ha messo il naso sotto 60 dollari al barile, per poi risalire. Un aspetto che non ha preoccupato il presidente Trump che ha scritto così sul suo profilo: «I prezzi del petrolio sono in calo, i tassi di interesse sono in calo (la Fed, sempre lenta, dovrebbe tagliare i tassi!), i prezzi dei prodotti alimentari sono in calo. Non c’è inflazione e gli Stati Uniti, sfruttati da anni, stanno incassando miliardi di dollari a settimana dai Paesi sfruttatori grazie ai dazi già in vigore». LEGGI TUTTO