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    Addio al Cid? Macché, resta su carta! Ecco cosa ha deciso l’Ivass

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    In un mondo dove tutto diventa digitale – a volte anche troppo – arriva una decisione che farà tirare un sospiro di sollievo a milioni di automobilisti: il Cai (ex Cid) resterà anche in versione cartacea. Lo ha deciso l’Ivass, l’autorità che vigila sulle assicurazioni.L’Ivass frena: “Digitale? Sì, ma solo se vuoi”La proposta era nell’aria: sostituire la constatazione amichevole con un’app da usare sullo smartphone. Ma la risposta è stata un secco no.«Promuoviamo la digitalizzazione – spiegano dall’Ivass – ma l’utilizzo del modulo cartaceo resta come fino ad oggi». Insomma, nessuno sarà obbligato a usare il digitale per segnalare un sinistro.E c’è di più: «La modalità informatica non sostituisce quella cartacea ma è solo un’alternativa. L’utente potrà scegliere se compilare il Cai a mano, stamparlo in PDF o usare un’app o webapp messa a disposizione dalle compagnie».Perché il cartaceo vince (ancora)A difendere il modulo Cid in formato fisico sono state le associazioni dei consumatori, preoccupate per diversi motivi:Privacy a rischio con i moduli digitaliAnziani e meno tecnologici in difficoltàApp diverse per ogni assicurazione, con poca portabilitàAssoutenti ha ricordato che l’80% degli incidenti viene ancora gestito con il buon vecchio Cai cartaceo. E i numeri parlano chiaro: su 1,8 milioni di sinistri all’anno, la carta resta la regina.“Scelta saggia”, dicono i peritiA festeggiare c’è anche Aiped, l’associazione dei periti assicurativi. «Siamo soddisfatti – dice il presidente Luigi Mercurio – L’eliminazione del modulo cartaceo avrebbe creato confusione e problemi agli utenti». Anche loro avevano espresso forti dubbi sulla digitalizzazione totale. LEGGI TUTTO

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    Pensioni, un decreto per bloccare l’aumento dell’età di uscita

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    Il governo sta preparando un intervento urgente per evitare l’innalzamento automatico dei requisiti per andare in pensione previsto dal primo gennaio 2027, legato all’aumento dell’aspettativa di vita. L’obiettivo è sospendere l’incremento di tre mesi sull’età pensionabile, con un’operazione che dovrebbe costare circa 200 milioni di euro.La misura, riporta Repubblica, potrebbe essere inserita in un pacchetto più ampio, atteso intorno alla Festa del Lavoro, che includerebbe anche incentivi per la crescita dei salari, legati al rinnovo dei contratti e alla contrattazione di secondo livello. Inoltre, si valuta un correttivo fiscale per evitare l’errore del cosiddetto “super acconto” Irpef, calcolato con criteri che non riflettono le attuali fasce contributive. Un intervento necessario prima che partano le dichiarazioni precompilate dell’Agenzia delle Entrate.La situazione pensionisticaSe non ci sarà un intervento, dal 2027 l’età per la pensione di vecchiaia passerà a 67 anni e 3 mesi, mentre quella per l’anticipo pensionistico richiederà 43 anni e un mese di contributi per gli uomini, e un anno in meno per le donne. Un aumento che riflette i dati Istat ma che il governo intende congelare almeno per quell’anno, per poi eventualmente riconsiderare l’incremento a partire dal 2028, magari sommando anche ulteriori aumenti futuri.Il rischio più immediato riguarda i cosiddetti “esodati”, stimati in circa 44mila persone: lavoratori che, tra il 2020 e il 2024, hanno aderito ad accordi aziendali per l’uscita anticipata e che, senza una modifica normativa, si troverebbero scoperti per tre mesi, senza reddito né pensione. LEGGI TUTTO

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    Dazi, Trump sfida la Cina

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    C’è una battaglia durissima che si sta combattendo nella guerra commerciale globale scatenata da Donald Trump ed è quella tra Washington e Pechino. Trump alterna il pugno duro all’apertura verso negoziati, tranne che con la Cina, contro cui ha minacciato dal 9 aprile il 50% di dazi in più se non revoca i suoi dazi del 34% di ritorsione contro gli Stati Uniti. In tal caso alcuni prodotti cinesi potrebbero avere tariffe di oltre il 100%. Il Dragone è l’avversario geopolitico numero uno, con cui gli Usa hanno il peggior deficit commerciale e che sta flirtando col resto del mondo proponendosi come alternativa all’isolazionismo americano.La reazione di Pechino è altrettanto dura. La Cina non accetterà mai la “natura ricattatoria” degli Stati Uniti e considera le ultime minacce di dazi avanzate dal presidente americano Donald Trump “un errore su un altro errore”, ha scritto in una nota il portavoce del ministero del Commercio cinese, assicurando che se Washington vorrà continuare su questa strada allora Pechino “lotterà fino alla fine”. E’ intervenuto anche il portavoce del ministero degli Esteri, Lin Jian: “I nostri legittimi diritti non consentono privazioni. La sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina non consentono violazioni. Adotteremo misure risolute e forti a tutela dei nostri diritti e interessi legittimi”. Lin Jian ha attaccato duramente anche il vicepresidente JD Vance definendolo “ignorante e maleducato”, per il riferimento al fatto che Washington ha preso in prestito denaro dai “contadini cinesi”. E poi ha aggiunto: “È sorprendente e triste sentire parole così ignoranti e maleducate da questo vicepresidente”.Le Authority finanziarie cinesi e i gestori dei fondi statali hanno espresso i loro impegni di sostegno ai mercati azionari del Paese. Central Huijin, il fondo sovrano mandarino, ha affermato di avere “ampia liquidità e canali di finanziamento fluidi” per svolgere il suo ruolo di “stabilizzatore di mercato”. Central Huijin è uno dei diversi cosiddetti investitori del ‘team nazionale’ che, se necessario, agisce per portare ordine in periodi di turbolenza. La Banca centrale cinese (Pboc) ha poi aggiunto che potrebbe supportare la liquidità di Central Huijin con strumenti di rifinanziamento. In un avviso separato, la National Financial Regulatory Administration cinese ha detto che avrebbe aumentato la quota di fondi assicurativi investiti nel mercato azionario. LEGGI TUTTO

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    Squilibri americani

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    Prima la crisi dei prestiti subprime, poi la scelta di far fallire Lehman Brothers, ora la bomba-dazi sganciata sul mondo intero: in meno di vent’anni gli Stati Uniti sono riusciti a provocare tre terremoti finanziari di portata così ampia da eguagliare i drammatici crolli borsistici che hanno segnato il secolo scorso. Con l’aggravante odierna che ad essere squassati sono anche gli equilibri del commercio globale, in un caos di ordini e contrordini che fanno temere concreta la prospettiva di uno scontro dove alla fine tutti perderanno. Ciò che rende la situazione ai limiti del grottesco è la convinzione, diffusa soprattutto negli Stati Uniti, secondo cui Washington sta distruggendo il sistema commerciale mondiale sulla base di colossali falsità. Ovvero che dietro le motivazioni sbandierate in mille comizi da Donald Trump – i «furti» e le «ruberie» a danno degli Stati Uniti praticati da Paesi amici e nemici attraverso i dazi – si nasconda un deficit statale che ha origini ben diverse, assai più interne. Non che in alcuni casi Trump abbia torto, qualche eccesso si è visto (sebbene nessuno abbia compreso come nascano le percentuali esibite durante lo show nel Rose Garden), ma il punto è che il disavanzo commerciale di uno Stato non è che in minima parte dovuto agli scambi più o meno amichevoli con i Paesi in surplus, il resto va infatti inquadrato nel più ampio conto delle partite correnti: è il cosiddetto modello dei deficit gemelli. È bene ricordare che negli Stati Uniti in profondo rosso c’è anche il bilancio pubblico, che Washington riesce a sostenere solo grazie alla forza del dollaro quale valuta di riferimento. I due deficit tendono a viaggiare in parallelo: entrambi indicano un eccesso strutturale degli investimenti rispetto ai risparmi. Per ridurre il deficit commerciale, si dovrebbe prima aggredire con decisione il bilancio pubblico. Ebbene, nel 2024 gli Stati Uniti hanno esportato beni e servizi per 4.800 miliardi di dollari a fronte di un import per 5.900 miliardi: il deficit è perciò di 1.100 miliardi. A sua volta la spesa totale è ammontata a 30.100 miliardi a fronte di un Pil pari a 29.000 miliardi. Come efficacemente ha sintetizzato l’economista Jeffrey Sachs della Columbia University, se entri in un negozio e spendi il doppio del tuo stipendio, la colpa del disavanzo non è del negoziante ma dei tuoi sprechi. LEGGI TUTTO

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    La strategia dell’Ue tra ritorsione pura e scelte alternative

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    Per capire quale sarebbe la migliore reazione dei Paesi europei ai dazi americani bisogna partire da due premesse. La prima è che ci si trova di fronte a una scelta di politica economica e commerciale, quella dei superdazi, che non ha precedenti né fondamenti economici. Certo, nell’attuale governo Usa esistono i consiglieri che la sostengono, ma la teoria secondo la quale i dazi, attraverso l’azzeramento del deficit commerciale con l’estero, rimetterebbero in piedi l’industria Usa non trova tra gli economisti una condivisione sufficiente a renderla credibile, soprattutto a causa dei prevedibili effetti collaterali, primo fra tutti quello della recessione. La seconda è data dalla risposta dei mercati finanziari, paragonabile solo eventi quali il Covid o il crac Lehman Brothers: entrambi hanno infatti anticipato una recessione economica. E in questo caso il crollo deriva dalla perdita di fiducia dei grandi investitori internazionali verso il governo degli Stati Uniti d’America.Con queste premesse l’Europa ha davanti due strade: quella di rispondere colpo su colpo e con misure anche sanzionatorie; oppure quella di cogliere l’occasione per sparigliare le carte. Nel primo pacchetto ci sono i controdazi; le possibili nuove tasse; e strumenti come l’Aci (Anti-Coercion Instrument). I controdazi sono la risposta più immediata e già utilizzata, pur con modalità selettive e differenti, da Canada e Cina. Tra le nuove imposte c’è tutto il mondo del Web. Mentre l’Aci è un sistema vigore da dicembre 2023 e mai utilizzato finora, noto anche come bazooka, una sorta di arma finale. Non essendo mai stata utilizzata, non esistono esempi concreti. Si sa che consente all’Unione di reagire attraverso un sistema strutturato, simile alle procedure d’infrazione che vengono applicate ai Paesi membri. O – se si vuole – alle condizioni poste in ambito Antitrust. Comunque si parte aprendo un dialogo con il Paese coinvolto, a cui far seguito, se necessario, misure di risposta proporzionate e temporanee. Fino a un’escalation che può riguardare beni, servizi, investimenti, appalti pubblici, proprietà intellettuale, regole sanitarie o ambientali. Vista la situazione, il pacchetto «ritorsivo» presenta varie controindicazioni. Tra queste, l’effetto escalation rischia sia di peggiorare le Borse, sia di danneggiare due volte le imprese: tutte quelle che esportano prodotti lavorati con materie a loro volta importate, si troveranno tassate due volte. Inoltre, agendo così, l’Ue commetterebbe lo stesso errore economico che sta commettendo Trump. In altri termini con questa reazione si rischia di cadere nel trappolone della Csa Bianca. LEGGI TUTTO

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    Doris: “Dazi, decalogo anti-panico”

    Massimo Doris, ci risiamo. Come ai tempi di Lehman, come con il Covid e poi la guerra in Ucraina. Banca Mediolanum, di cui lei è amministratore delegato, ha affrontato quei momenti con freddezza. Ora però al crollo delle Borse si aggiunge la bomba-dazi che squassa il commercio globale. Sempre fiducioso sul futuro?«Una premessa di carattere generale. Questa crisi, come quelle che l’hanno preceduta, fa parte del consueto susseguirsi degli eventi. Provoca danni e probabilmente ne provocherà. Ma è nella natura umana, di fronte all’imponderabile, trovare velocemente le soluzioni più opportune, che conducano a risolvere ogni crisi. È sempre accaduto, accadrà anche stavolta. In questo ho fiducia».In tre giorni le Borse di tutto il mondo hanno lasciato sul terreno tra il 10 e il 15%. Troppo veloce il crollo per pensare a una ripresa rapida.«Ha ragione. C’è timore che lo scontro globale possa nuovamente dare fiato all’inflazione. Inoltre l’effetto annuncio sui dazi potrebbe provocare intoppi nelle filiere globali, con nuovi rallentamenti economici, penso alla Germania. Non a caso si parla di recessione: l’incertezza è il peggior nemico dei mercati. Però ci sono anche aspetti positivi».Ne citi qualcuno.«Una delle qualità di Banca Mediolanum è una certa dose di pragmatismo, diffuso a ogni livello. Non è ottimismo fine a se stesso, è sano pensiero positivo. Per esempio, possiamo dire che finalmente l’Unione europea è obbligata dagli eventi a prendere decisioni finora rimandate, ad accelerare percorsi troppo lenti. E persino a rimettere in discussione convinzioni fino a ieri inossidabili».A che cosa pensa esattamente? Alla difesa?«Sì. Vedo con favore il fatto che l’Europa affronta in maniera convinta e decisa il tema della difesa comune, un ambito sempre delegato alla Nato. Non mi fraintenda, non sono in alcun modo a favore della guerra. Ma una difesa comune è un passo avanti in termini di maggiore autonomia dell’Unione, in termini di sicurezza, è un modo per contare di più sullo scacchiere globale».Pensa sia possibile partire da qui per avviare un vero Mercato Unico?«Lo penso. È l’occasione per buttare giù le ultime barriere che ci impediscono di diventare una sola piattaforma, con una totale libera circolazione di prodotti, semilavorati, manufatti, a disposizione di una domanda unica continentale. Mi aspetto anche che finalmente si arrivi al mercato unico dei capitali, al mercato unico bancario».Tra le sue aspettative non figura anche un radicale cambio di marcia nella transizione green? Finora non ne ha parlato.«Come Massimo Doris sono assolutamente a favore della transizione green, ma ne contesto l’applicazione ideologica che ha imposto tempi troppo ravvicinati, sottostimando gli impatti sul fronte industriale, della competizione e del’occupazione. Ora vanno rivisti tempi e modalità».Torniamo alle Borse. Dove vede elementi di positività per i risparmiatori?«Pensi alla crisi innescata nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina. Si era ancora nell’epoca dei tassi a zero. Quindi mancava una categorie d’investimento fondamentale per i risparmiatori, quella del reddito fisso. Oggi c’è. Negli ultimi due anni, con tassi tornati in terreno positivo, si è assistito a forti afflussi verso i bond. Quindi l’investitore privato ben seguito è probabilmente già posizionato in modo bilanciato, mix di azionario e obbligazionario. Ha quindi un portafoglio che compensa l’attuale performance negativa sul fronte azionario. Le sembra poco?».Però ci sono risparmiatori-investitori che preferiscono puntare direttamente sulle azioni. Per loro le notizie non sono buone.«In proposito voglio essere chiaro. Molti investitori in azioni gioiscono di fronte a balzi improvvisi del 20% e si spaventano di fronte a crolli altrettanto ampi. È un comportamento emotivamente comprensibile, ma irrazionale. Se un titolo è capace di fare in un balzo il 20% vuol dire che può crollare della stessa percentuale, quindi se non sei un investitore professionale è meglio guardare solo ad asset class che possano avere oscillazioni entro una forchetta più contenuta, in linea con la tua tolleranza alla volatilità».Dunque, proseguendo nel suo esempio questo risparmiatore deve guardare a titoli di Stato, fondi obbligazionari o bilanciati. Che cosa consiglia invece all’investitore che può sopportare scossoni negativi a doppia cifra?«Se il suo profilo di rischio lo consente e nel caso abbia liquidità disponibile può, in questi momenti, aumentare la propria esposizione azionaria».Di fronte ai crolli, molti preferiscono disinvestire, magari con l’aspettativa di riacquistare più avanti a prezzi più bassi.«Il panico è un cattivo consigliere. Questa decisione nella stragrande maggioranza dei casi si rivela un errore. Nessuno ha la sfera di cristallo, nessuno è in grado di capire quando i mercati toccano il fondo. Molto spesso chi vende per poi rientrare lo fa a prezzi più alti rispetto a quelli ai quali ha venduto spinto da una crisi di panico».Quale consiglio darebbe a un risparmiatore che in queste ore si vede taglieggiato il suo portafoglio azionario? LEGGI TUTTO

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    Azimut ad alzo zero su Assogestioni

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    La lista di minoranza per i cda delle società quotate presentata da Assogestioni non ha creato scompiglio soltanto a Trieste, dove il 24 aprile si terrà l’assemblea sul rinnovo della governance delle Generali. Per motivi assai diversi, l’elenco di candidati dei fondi non è andato giù a Pietro Giuliani, presidente e fondatore di Azimut Holding che riunirà i soci il 30 aprile. Per il board di Azimut il comitato dei gestori di Assogestioni ha proposto quattro nomi e altrettanti sono i candidati per il collegio sindacale. Il capolista per il cda è Vincenzo Delle Femmine, generale della Guardia di Finanza, attualmente presidente di Fintecna nonché ex vicedirettore dell’Aisi (l’Agenzia di informazioni e sicurezza interna). Qualcosa pù di un semplice sceriffo, insomma. Giuliani però non contesta i curriculum, «non siamo dei banditi e gli sceriffi non ci spaventano anzi ci sentiamo tutelati» dice al Giornale, ma il numero dei candidati è inaccettabile. «La lista Assogestioni sembra essere una vendetta provocata dall’uscita dall’associazione delle società appartenenti al gruppo Azimut di alcuni anni fa. Il non rispetto dello Statuto della società, che assegna all’eventuale lista di minoranza un posto di consigliere in seno al cda, ma la presentazione di una lista di quattro consiglieri che potrebbero essere eletti solo se la lista ottenesse la maggioranza dei voti in assemblea, avvalora questa tesi. Si sta cercando di attuare ciò che, in politica, vengono definiti giochi di palazzo, dove si vuole esprimere il 40% del cda con appena l’1,7% del capitale. Confido che il 98,3% del capitale della società che ancora ho l’onore di presiedere, e che tutti coloro che possano influenzare il suo voto, non sottovalutino l’importanza di dare fiducia, votando la lista del cda presentata da oltre 2.000 colleghi che lavorano nella società. Questi colleghi, che rappresentano circa il 22% del capitale, risulterebbero demotivati e confusi nel vedere prevalere in assemblea una lista di persone, rappresentanti l’1,7%, presentata da un’associazione alla quale abbiamo la fortuna di non appartenere più. Difficilmente riuscirei a non tenere conto di quello che considererei un gesto di sfiducia da parte della maggioranza degli azionisti», spiega Giuliani. Ricordando anche che nei circa 20 anni dalla quotazione, Azimut ha fatto guadagnare ai suoi azionisti 15 volte il capitale investito e che, con una presenza diretta in 19 Paesi, gestisce masse totali per circa 110 miliardi, di cui la metà appartiene a clientela estera. «Questo dà un respiro internazionale alla società con vantaggi per i suoi clienti e azionisti. Non votare la lista presentata dal patto di sindacato vuol dire non apprezzare questi numeri, mortificando chi, con passione e dedizione, ha contributo a realizzarli», aggiunge il fondatore di Azimut.La lista presentata per il cda di Azimut è stata l’ultima composta da Assogestioni sotto la presidenza di Carlo Trabattoni perché ieri l’assemblea dell’associazione ha nominato all’unanimità Maria Luisa Gota, ad di Eurizon e responsabile della divisione Asset Management di Intesa Sanpaolo. Eletti anche i tre vicepresidenti: lo stesso Trabattoni, Giovanni Sandri (Blackrock) e Cinzia Tagliabue (Amundi). LEGGI TUTTO

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    Fincantieri va in crociera con Aida

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    Fincantieri rafforza la propria alleanza con Carnival Corporation attraverso un accordo per la progettazione e costruzione di due navi da crociera destinate ad Aida Cruises, brand tedesco del gruppo americano.Il contratto, che vale circa 2 miliardi di euro, prevede la consegna delle navi all’inizio del 2030 e alla fine del 2031. Per la prima volta i cantieri giuliani realizzeranno unità per questa compagnia, leader nel mercato crocieristico di lingua tedesca.Una commessa che segue di circa una settimana quella della germanica Tui per il brand Marella Cruises.Ogni unità avrà circa 2.100 cabine passeggeri e sarà equipaggiata con motori multi-carburante in grado di operare a gas naturale liquefatto, biodiesel e altri propellenti sostenibili di nuova generazione. Un’impostazione tecnologica che punta a rispondere alle sfide ambientali della navigazione. LEGGI TUTTO