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    Droghe alla guida: confermati i test, ma controlli più precisi. Ecco cosa succede

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    I punti chiave

    Nessuna nuova circolare contraddice le recenti novità introdotte dal Codice della Strada sulla politica di tolleranza zero verso l’uso di droghe alla guida. Lo spiega il Mit, sottolineanco che la direttiva dell’11 aprile, anzi, conferma l’impianto normativo voluto dal Ministero dei Trasporti, chiarendo però che la punibilità non può più basarsi esclusivamente sulla presenza di tracce di stupefacenti. Per sanzionare un conducente, sarà necessario dimostrare che la sostanza sia stata assunta in un arco temporale vicino alla guida e che abbia ancora effetti psicoattivi. Si supera così il meccanismo automatico di sospensione della patente in caso di positività, introducendo un criterio più aderente alla realtà clinica e forense.Controlli più precisiLa nuova circolare rivede anche le modalità operative dei controlli: il primo test sarà salivare e verrà effettuato direttamente dagli agenti su strada. Se risulterà positivo, si procederà con il prelievo di due campioni da inviare ai laboratori di tossicologia forense. Solo la presenza di metaboliti attivi, cioè ancora in grado di influenzare le capacità cognitive e motorie, potrà giustificare sanzioni. I metaboliti inattivi, residui di assunzioni pregresse, non avranno più valore ai fini dell’accertamento. In quest’ottica, vengono esclusi i test urinari, considerati inadeguati per determinare uno stato di alterazione attuale. LEGGI TUTTO

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    “Oops, numero sbagliato”. Attenti a questo messaggio: cosa nasconde

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    L’allarme arriva direttamente dall’Fbi, che sta tentando di mettere in guardia i cittadini dalle insidie di una nuova truffa via Sms già in grado di mietere numerose vittime negli Stati Uniti: una forma di raggiro che sta rapidamente diffondendosi in tutto il Paese, e ha quindi come obiettivo i possessori di smartphone, indipendentemente dal sistema operativo installato.Stando a quanto riferito dalle autorità federali, e poi ribadito nelle scorse ore da quelle locali di Gretna in Louisiana, i cybercriminali starebbero agendo dalla Cina: la truffa, viste le sue caratteristiche, è stata ribattezzata “Oops, numero sbagliato”, e fa leva su tecniche di ingegneria sociale studiate per far capitolare i meno avvezzi alle frodi online.Come intuibile dal nome, tutto inizia con un apparentemente innocuo messaggio via Sms in cui il mittente invia al destinatario, che nella finzione scoprirà poi essere errato, un’informazione importante come un appuntamento di lavoro, una visita medica o una comunicazione familiare. I truffatori fanno leva sul fatto che il destinatario si senta in dovere di informare cortesemente dell’errore il mittente, così che possa inviare l’Sms a chi avrebbe dovuto riceverlo fin dall’inizio.Ecco, quindi, il gancio perfetto, grazie al quale i cybercriminali tentano di instaurare un dialogo con la vittima: facendo leva su interessi comuni, in qualche caso effettuando anche un approccio romantico, gli autori del raggiro cercano di carpire la fiducia dall’interlocutore con l’obiettivo di fargli abbassare le difese. La conversazione nata apparentemente in modo casuale, è quindi lo stratagemma per superare le barriere dell’obiettivo di turno, una volta oltrepassate le quali i truffatori puntano al bersaglio grosso. Siamo ben distanti dalle forme di raggiro in cui si cercano di ottenere rapidamente piccole quantità di denaro, come ad esempio in quella in cui i cybercriminali si fingono figli o nipoti della vittima simulando un incidente o un problema di vario genere. In questa circostanza l’obiettivo è quello di circuire col tempo l’interlocutore e di coinvolgerlo a tal punto da convincerlo a investire su crypto o a cliccare su link malevoli per impossessarsi dei suoi dati personali e delle chiavi di accesso al conto corrente. LEGGI TUTTO

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    Vendite al dettaglio in caduta a marzo 2025: cosa rivelano i dati Istat

    Il commercio al dettaglio in Italia continua a mostrare segnali di debolezza. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, nel mese di marzo 2025 le vendite al dettaglio hanno registrato una contrazione dello 0,5% sia in valore che in volume rispetto al mese precedente. Una dinamica negativa che ha coinvolto sia i beni alimentari (–0,5% in valore e –0,9% in volume) sia i beni non alimentari (–0,3% in valore e –0,4% in volume).Il quadro non migliora nemmeno guardando all’intero primo trimestre dell’anno: le vendite al dettaglio segnano infatti una flessione dello 0,2% in valore e dello 0,5% in volume rispetto al trimestre precedente. Anche in questo caso, la contrazione è generalizzata: beni alimentari in calo dello 0,1% in valore e dello 0,5% in volume, beni non alimentari a –0,4% in valore e –0,6% in volume.Ancora più marcato il calo nel confronto tendenziale con marzo 2024: il valore complessivo delle vendite si è ridotto del 2,8%, mentre il volume ha subito un crollo del 4,2%. Particolarmente significativa la contrazione per i beni alimentari, che scendono del 4,2% in valore e addirittura del 6,7% in volume. Più contenuto ma comunque preoccupante il calo dei beni non alimentari: –1,4% in valore e –2,1% in volume.In questo contesto fortemente negativo, si registrano solo isolate eccezioni in controtendenza tra i beni non alimentari. I prodotti di profumeria e per la cura della persona crescono dell’1,8% su base annua, seguiti dai prodotti farmaceutici con un +0,6%. All’opposto, i settori più colpiti sono quelli di cartoleria, libri, giornali e riviste (–4,5%) e calzature, articoli in cuoio e da viaggio (–4,2%).Tutte le forme distributive risultano in calo rispetto a marzo 2024: la grande distribuzione registra una flessione del 2,6%, le imprese su piccole superfici del 3,1%, le vendite al di fuori dei negozi del 4,7%, mentre il commercio elettronico scende dell’1,3%.I dati hanno suscitato reazioni immediate e fortemente critiche da parte delle associazioni di categoria. Secondo Federdistribuzione, «i dati diffusi da Istat relativi alle vendite al dettaglio del mese di marzo evidenziano a livello tendenziale un calo a valore del -2,8% e a volume del -4,2%. Il dato sui consumi nel mese di marzo risente della diversa calendarizzazione della Pasqua rispetto allo scorso anno. Ad ogni modo, è evidente come l’andamento delle vendite resti ancora debole, in un contesto segnato dal clima di incertezza nei consumatori e nelle imprese, alimentata anche da uno scenario geopolitico sempre più complesso». L’associazione avverte anche che «il rischio di potenziali criticità legate alle politiche sui dazi, con possibili impatti sulle filiere produttive e sul commercio internazionale, non contribuisce a intravedere nel breve termine prospettive di ripresa dei consumi».Ancora più duro il commento del presidente dell’Unione Nazionale Consumatori, Massimiliano Dona: «Dati disastrosi! Di male in peggio! Non si salva nessuno! Non c’è un solo dato positivo, né congiunturale né tendenziale, né in valore né in volume. Un crollo che non si spiega con la collocazione diversa della Pasqua, che giustifica solo la caduta delle vendite alimentari su base annua, non certo quella rispetto a febbraio 2025 e men che meno chiarisce il crac delle vendite non alimentari». Dona aggiunge poi un’immagine forte per descrivere la situazione delle famiglie italiane: «In un solo mese, rispetto a febbraio, gli italiani fanno una cura dimagrante da 7 chili in 7 giorni, mangiando in quantità lo 0,9% in meno di cibo. Una dieta a dir poco pericolosa che indica la difficoltà delle famiglie di arrivare a fine mese».Anche il Codacons lancia l’allarme: «Si aggrava nel 2025 il trend negativo delle vendite al dettaglio, che a marzo registrano un vero e proprio tracollo su base tendenziale». L’associazione sottolinea come, al netto dell’effetto Pasqua, «le vendite registrano segno negativo in tutti i comparti, sia in volume che in valore. In particolare i beni non alimentari, che non risentono delle festività, segnano un calo annuo dell’1,4% in valore e del 2,1% in volume, a dimostrazione della crisi che sta interessando i consumi nel nostro Paese». Il presidente Carlo Rienzi aggiunge: «La nuova fiammata dei prezzi al dettaglio registrata nell’ultimo periodo porta le famiglie a tagliare i consumi e dirottare gli acquisti verso esercizi commerciali come i discount che garantiscono maggiori risparmi. Un segnale preoccupante che il governo farebbe bene ad intercettare». LEGGI TUTTO

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    Benzina sotto 1,7 euro: record dal 2021, giù anche il diesel

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    I punti chiave

    Prosegue la fase di rallentamento dei prezzi dei carburanti. Il prezzo medio della benzina in modalità self service è sceso a 1,699 euro al litro, un livello che non si registrava dal 6 ottobre 2021 – escludendo il periodo eccezionale tra settembre e dicembre 2022, quando era in vigore il taglio temporaneo delle accise. L’analisi riguarda i dati diffusi da Staffetta Quotidiana e basati sulle comunicazioni all’Osservatorio Prezzi del Mimit da parte di circa 18.000 impiantiIl calo giornalieroIl calo giornaliero è lieve, pari a -0,003 euro/litro, ma significativo sul piano simbolico ed economico. Le compagnie petrolifere praticano in media 1,702 euro/litro, mentre le pompe bianche – impianti indipendenti – offrono prezzi più competitivi, con una media di 1,694 euro/litro. Scende anche il prezzo del diesel self, che si attesta a 1,592 euro/litro. La modalità servito, invece, rimane su livelli ben più alti: la benzina costa mediamente 1,842 euro/litro.Le quotazioni internazionaliIl calo è in linea con l’andamento ribassista delle quotazioni internazionali dei prodotti raffinati, favorito da una maggiore stabilità geopolitica e dalla correzione del prezzo del greggio sui mercati globali. Il rallentamento delle dinamiche inflazionistiche, insieme alla domanda ancora sotto tono in alcune aree europee, contribuisce a tenere sotto controllo i listini alla pompa. LEGGI TUTTO

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    Mediobanca e l’offerta indecente ai soci Generali

    Nonostante il coro di apprezzamenti levatosi a caldo sull’Offerta di scambio che Mediobanca intende lanciare su Banca Generali, una più attenta valutazione delle scarne informazioni fornite dall’istituto porta a concludere che i benefici per gli azionisti di Piazzetta Cuccia non sono poi tanto evidenti. Anzi, al più l’operazione si presenta neutra, se si considerano gli utili per azione post acquisizione pur con le sinergie stimate, che tra l’altro potrebbero tradursi in dissinergie nella prospettiva di una possibile cancellazione del brand Banca Generali.Di sicuro, per ammissione stessa di Mediobanca, l’operazione è destinata a consumare capitale, ma probabilmente in misura assai più elevata (fino a 130 punti base contro gli 80 denunciati) rispetto alle prime indicazioni. Alla luce di ciò, sfuma non poco l’idea di un’operazione industrialmente valida come da molti viene definita. Naturalmente per un giudizio ultimo dovremo attendere che l’istituto guidato da Alberto Nagel faccia chiarezza sulle non poche informazioni che mancano. Allo stato possiamo però aggiungere che dal punto di vista finanziario, l’operazione non sembra essere particolarmente conveniente neppure per gli azionisti di minoranza di Banca Generali (cui fa capo il 49,8% del capitale), che tra l’altro non avrebbero alcuna influenza sull’esito dell’offerta.Del tutto incomprensibile, invece, la ragione per la quale gli azionisti delle Generali, cui fa capo il 50,2% di Banca Generali, dovrebbero accettare una proposta che prevede l’impoverimento del patrimonio industriale in cambio di azioni proprie (la metà del 13,1% posseduto da Mediobanca) che per legge non producono dividendi e non hanno diritto di voto. Oggi il consiglio di amministrazione della compagnia triestina si riunisce per completare il quadro nella nuova governance, necessaria dopo l’insediamento avvenuto un paio di settimane fa. All’ordine del giorno l’istituzione di sei comitati consiliari a presidio del buon funzionamento della compagnia. Il più delicato, quello cui è affidata la disamina delle cosiddette parti correlate, ha il compito di individuare eventuali conflitti d’interesse. Ed è nell’ambito di questo comitato che dovranno essere dipanati i sospetti sorti in capo al cda che, nemmeno cinque giorni dopo la sua nomina, è stato “aggredito” dalla proposta («non difensiva ma offensiva», l’ha definita Nagel) lanciata da chi l’aveva votato vittoriosamente conquistando 10 poltrone su 13. Ed essendo un’operazione che Mediobanca studiava da cinque anni (per ammissione stessa di Nagel), vuol dire che quel voto è avvenuto nell’ambito di un disegno la cui buona fede è tutta da dimostrare, da una parte e dall’altra. In breve: è normale che prima io ti nomini alla guida di un’azienda e poche ore dopo ti chieda di votare un’operazione a mio favore, che ha quale contropartita la cessione del 13,1% in forza del quale ho contribuito a farti nominare? Come non pensare a qualche diabolica alchimia?Come non pensare al conflitto d’interessi o al concerto?E Consob, nulla ha da obiettare di fronte a una comunicazione che somiglia molto a una informativa ingannevole? Anche di questo si dovrà occupare il nascente Comitato per le Parti Correlate.O, quantomeno, dovrà fornire elementi che aiutino a fare chiarezza su questa bomba fumogena che sembra costruita a bell’apposta per non arrivare fino in fondo.Quanto a Trieste, attualmente si contano solo effetti negativi dall’eventuale successo dell’Ops. Indipendentemente dall’idea che si sono fatti i grandi azionisti sulla possibilità che alla fine il tutto possa tradursi in una operazione win-win (pensiamo in particolare ai gruppi Caltagirone e Delfin), un conto è infatti possedere quote significative sia in Mediobanca sia in Generali, visto che alla fine il conto più o meno si pareggia mentre Piazzetta Cuccia direbbe finalmente addio a Trieste; altro è possedere soltanto titoli della compagnia, come la maggior parte dei fondi o dei piccoli azionisti. Basti pensare al fatto che con la cessione di Banca Generali, la casa-madre perderebbe d’un colpo circa 200 milioni di euro di utili (il 50% dei profitti previsti) mentre in cambio riceverebbe il 6,5% del proprio capitale, che teoricamente potrebbe essere annullato (come per un buyback da 3,2 miliardi), ma che allo stato difficilmente si procederà in tal senso per le implicazioni negative che ciò avrebbe in termini di Solvency Ratio. LEGGI TUTTO

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    Ferrari macina ricavi e profitti anche coi dazi. E corre nell’elettrico fra tecnologia e design

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    Da una parte i conti trimestrali della Ferrari superiori alle attese (utile netto di 412 milioni, in crescita del 17%; ricavi su del 13%, a 1,79 miliardi; consegne pari a 3.593 vetture, +1%; cash flow industriale generato di 620 milioni, stime 2025 confermate), altri quattro modelli in arrivo e, a proposito dei dazi Usa, al momento zero impatti. Dall’altra, qualche dettaglio in più sulla prima auto elettrica prodotta a Maranello. «Al Capital Markets Day del 9 ottobre si vedrà il suo cuore tecnologico. Le consegne inizieranno nello stesso mese del 2026, dopo un assaggio dell’interior design all’inizio del prossimo anno, a cui seguirà l’anteprima in primavera. Sarà un’auto ricca e vogliamo essere sicuri che i nostri clienti l’apprezzino a tutto tondo, ecco perché la faremo via via conoscere in una sorta di viaggio. Un connubio armonioso tra tecnologia e design. Ferrari vuole arricchire la disponibilità delle motorizzazioni con il nuovo mondo elettrico», le anticipazioni fornite dall’ad Benedetto Vigna (in foto). E il possibile accordo con i cinesi di Leapmotor, già partner di Stellantis, su una condivisione di piattaforme, come riferito al Salone di Shanghai dall’ad Zhu Jiangming? Vigna, in proposito, ha preso le distanze, pur riconoscendo gli enormi progressi tecnologici della Cina che costringono il settore europeo ad accelerare su questo fronte: «È la competizione che porta avanti il progresso». Concetto, ha ricordato l’ad, contenuto in una frase storica del fondatore Enzo Ferrari. Il top manager ha quindi tenuto a precisare che «non saranno mai esternalizzati componenti strategici di una vettura», per poi aprire, invece, a eventuali collaborazioni su altre forniture, «come del resto già accade». Una risposta, questa, a chi ha sollevato il problema della perdita di esclusività del Cavallino rampante, da sempre punto di forza, in caso di un accordo come quello di cui ha parlato il collega cinese. LEGGI TUTTO

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    Tra Open Fiber e Fibercop arriva l’accordo-staffetta

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    Mentre ancora tutto tace sul fronte della rete unica, tra Fibercop e Open Fiber sembra che possa esserci una schiarita sulla partita delle aree grigie di Italia a 1 Giga. Secondo quanto risulta a Il Giornale, infatti, la società guidata da Giuseppe Gola avrebbe aperto alla possibilità di cedere in toto o parzialmente i lotti di sua competenza (otto in totale) finanziati in parte con 1,8 miliardi di euro di fondi del Pnrr. In cambio, però, visto che la società ha comunque svolto una parte consistente del lavoro (a fine febbraio era al 37,8% dei civici di sua competenza), vorrebbe che le fosse riconosciuto il valore degli investimenti fin qui sostenuti. Le interlocuzioni tra le due società sarebbero in corso e si potrebbe arrivare a una soluzione entro una decina di giorni.Il tempo, del resto, stringe. La stesura della fibra nelle aree grigie, essendo finanziata con soldi europei del Next Generation Eu, deve essere completata entro la fine di giugno del 2026. Open Fiber, in particolare su alcune zone, avrebbe accumulato un ritardo consistente, tale da mettere seriamente a rischio il raggiungimento degli obiettivi del piano. Il passaggio a Fibercop aumenterebbe le possibilità di successo, anche perché il gruppo guidato da Massimo Sarmi può contare sull’infrastruttura della rete in rame che le permette di posare la fibra più velocemente, laddove Open Fiber deve scavare e realizzare l’infrastruttura da zero con tempi più lunghi.La vicenda è nata alcune settimane fa, quando Fibercop all’inizio di aprile aveva inviato una missiva al governo e ai ministeri competenti per candidarsi a subentrare – nell’ambito di eventuali accordi amministrativi e contrattuali da definire nel rispetto della normativa applicabile – assumendosi «la responsabilità esecutiva dell’intero perimetro di ciascuno dei lotti del Piano Italia a 1 Giga» (Fibercop al momento ne ha in capo sette).Dopo un’iniziale resistenza, ora Open Fiber – che ha tra i suoi azionisti la Cassa depositi e prestiti con il 60% e il fondo australiano Macquarie con il 40% – si sarebbe detta disponibile a trovare un accordo. Il grande obiettivo, del resto, è quello di arrivare a centrare il target di 3,4 milioni di civici da cablare con la fibra ottica in modo da non vedere sfumare un progetto tra i più significativi di quelli previsti dal Pnrr, con ben 3,8 miliardi stanziati. Non dovesse andare in porto l’accordo, l’alternativa sarebbe quella – proposta anche dall’Europa – di rivedere il piano nazionale escludendo i progetti da ritenersi irrealizzabili. LEGGI TUTTO