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    Non abbiamo ancora trovato tutte le città maya perdute

    Caricamento playerUn gruppo di archeologi ha scoperto che in una foresta della penisola dello Yucatán, in Messico, ci sono i resti di una grande città dei maya che finora non era conosciuta. Secondo le stime del gruppo di ricerca copriva complessivamente una superficie pari a quella di Edimburgo, la capitale della Scozia, ma le sue rovine sono nascoste dalla vegetazione. E infatti è stato possibile localizzarla solo a distanza, grazie a una tecnologia di telerilevamento, il LIDAR, che permette di individuare strutture solide dall’alto misurando la distanza di oggetti e superfici attraverso impulsi laser. In pratica consente di vedere se sotto le chiome degli alberi ci sono muri e pavimentazioni.
    Nell’ultimo decennio l’uso del LIDAR ha reso possibile una grossa accelerazione negli studi archeologici sui maya, e ha cambiato anche molte interpretazioni sul funzionamento della loro società. In passato si riteneva che gli insediamenti maya fossero separati gli uni dagli altri da enormi distanze, e che fossero tutto sommato isolati: questo lasciava pensare che la loro società fosse composta da città-stato autonome, mentre le scoperte più recenti indicano invece che erano molto più connesse di quanto credessimo, attraverso strade e altre infrastrutture.
    I maya sono la popolazione a cui riconduciamo una delle principali civiltà precolombiane della cosiddetta Mesoamerica, cioè quell’ampio territorio che include il Messico e i paesi dell’America centrale. Questa civiltà si sviluppò a partire dal 2.000 a.C. e cominciò a entrare in crisi un po’ prima dell’anno 1.000 d.C. Quando i colonizzatori europei arrivarono nelle Americhe esistevano ancora delle città maya, ma molte altre erano già state abbandonate. Per questo e per il fatto che per cercare nuovi siti archeologici bisognava farsi largo nella foresta tropicale «a colpi di machete», come ha detto Luke Auld-Thomas, della Northern Arizona University, primo autore dello studio sulla nuova scoperta, la conoscenza della civiltà maya ha tuttora molte lacune.
    Rovine di un’antica città Maya nel parco nazionale di Tikal, Guatemala, 25 gennaio 2022 (Edwin Remsberg/VW Pics via ZUMA/Ansa)
    Quasi tutte le grandi città maya, dopo il loro abbandono, furono ricoperte dalla fitta foresta tropicale, a volte a livelli tali che anche le note piramidi che le caratterizzano sono irriconoscibili.
    Una vista aerea dell’antica città Maya di Calakmul, situata nello stato di Campeche in Messico, in una fotografia fornita dall’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) (EPA/INAH/Ansa)
    Auld-Thomas e i suoi colleghi, che hanno scritto un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity, hanno rintracciato i resti di un gran numero di insediamenti umani, alcuni rurali e quindi isolati e di ridotte dimensioni, altri chiaramente urbani: complessivamente hanno trovato le tracce di 6.764 diverse strutture. Tutti gli insediamenti individuati si trovano in un’area forestata di circa 122 chilometri quadrati nello stato messicano di Campeche. Quello più grande è stato chiamato “Valeriana” dal nome di una vicina laguna. Tra le strutture individuate ci sono delle piramidi, degli anfiteatri e una diga.
    Immagine che mostra alcune delle strutture che facevano parte dell’antica città chiamata Valeriana come sono state viste grazie al LIDAR (da “Running out of empty space: environmental lidar and the crowded ancient landscape of Campeche, Mexico” di Luke Auld-Thomas et al., Antiquity, Cambridge University Press)
    Le immagini prodotte con il LIDAR grazie a cui è stata scoperta Valeriana non erano state realizzate per compiere studi di archeologia. L’uso del LIDAR prevede di utilizzare degli aerei ed è tuttora molto costoso: la ricerca archeologica generalmente non se lo può permettere, anche perché non ci sono garanzie sul fatto che in un territorio esaminato con questo strumento si troveranno davvero dei siti di interesse. Esistono però delle mappature di vari territori eseguite con questa tecnologia, ad esempio per verificare l’effettiva estensione delle foreste tropicali per i progetti che hanno l’obiettivo di conservarle in virtù del loro contributo all’assorbimento di gas serra. È questo il caso delle immagini utilizzate da Auld-Thomas e dai suoi colleghi.
    Il ricercatore statunitense ha avuto l’idea di analizzare delle mappe già esistenti di un’area su cui si avevano pochissime informazioni e così ha trovato la città finora sconosciuta e gli altri insediamenti. Secondo le stime del suo gruppo Valeriana è la seconda città maya più grande mai individuata dopo Calakmul, che si trova sempre nello stato di Campeche.

    Secondo Auld-Thomas questa scoperta suggerisce che «ci sia ancora molto da imparare» sulla civiltà maya. Le prossime ricerche prevederanno delle indagini sul campo intorno ai nuovi siti individuati e potrebbero permetterci di ottenere nuove informazioni sulle città dei maya e sul loro funzionamento. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nella raccolta animalesca di questa settimana cominciano a vedersi un po’ di zucche, proposte in vista di Halloween agli animali ospiti degli zoo: ce n’è una con aggrappato un vari bianconero, un’altra occupata da un coati e decine di vermi e infine un’ultima in cui un vari rosso ha infilato la testa. Poi un babbuino, due fenicotteri, un cormorano che si alza in volo, un ippopotamo con la bocca spalancata e un drago d’acqua australiano vicino ai piedi della regina Camilla. LEGGI TUTTO

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    Cos’è esattamente la biodiversità

    Il 21 ottobre a Cali, in Colombia, è cominciata la 16esima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, che come le edizioni precedenti ha l’obiettivo di preservare la ricchezza di specie viventi del pianeta, anche a beneficio dell’umanità. Le conferenze sulla biodiversità sono iniziative analoghe alle conferenze sul clima, e a loro volta sono chiamate “COP”, ma si tengono ogni due anni. Quella appena iniziata è considerata particolarmente importante: alla fine della precedente, con l’accordo di Kunming-Montreal del 2022, i paesi del mondo si erano impegnati a rendere aree protette il 30 per cento delle superfici terrestri e delle superfici marine del pianeta entro il 2030, e a questo giro devono dire come pensano di farlo concretamente, con appositi piani nazionali.Al di là della conferenza delle Nazioni Unite e del contesto scientifico, il concetto di biodiversità è menzionato comunemente sui giornali, compare ogni tanto nei discorsi dei politici e nei messaggi promozionali delle aziende e due anni fa è stato introdotto anche nella Costituzione italiana. Tuttavia di frequente viene usato a sproposito, ad esempio quando si parla di agricoltura, forse anche perché sebbene si possa dire cosa si intenda con “biodiversità” con poche parole, non è così immediato spiegare perché è importante e, tra le altre cose, utile per l’umanità.
    La parola “biodiversità” cominciò a essere usata nella sua versione inglese intorno alla metà degli anni Ottanta, dopo essere stata probabilmente introdotta dallo scienziato statunitense Walter G. Rosen. Deriva dalla crasi dell’espressione “diversità biologica”, che tiene insieme tre diverse forme di variabilità che riguardano gli ambienti naturali.
    La prima è la diversità genetica tra individui di una stessa specie, cioè la ricchezza di caratteristiche diverse nel patrimonio genetico di un’unica specie.
    La seconda forma di biodiversità è la diversità di specie in un dato ecosistema, che si può misurare contandole; per avere un quadro completo bisogna comunque considerare anche l’abbondanza relativa tra le specie che condividono uno stesso ecosistema, cioè se i rapporti numerici tra le popolazioni delle diverse specie permettono di mantenere un buon equilibrio nella loro coesistenza. E bisogna tenere conto non solo di animali e piante, ma anche di funghi, batteri e archei; dunque non solo di organismi che si vedono ma anche di quelli, generalmente molto numerosi, che risultano invisibili per le loro dimensioni ridotte o perché vivono nel suolo, o all’interno di altri organismi. Tutte le specie che vivono in un certo ambiente hanno rapporti di dipendenza l’una dall’altra (perché alcune si cibano di altre, ma non solo) e quindi devono essere considerate insieme.
    Infine c’è la diversità ecosistemica, ovvero il numero di diversi ecosistemi in un’unica regione.
    Le tre forme di biodiversità rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente in caso di grossi cambiamenti, come quelli causati dalle attività umane, per quanto riguarda il clima e non solo. Ad esempio, maggiore è la biodiversità genetica, più una specie è adattabile, cioè ha probabilità di conservarsi: rappresenta infatti il suo potenziale evolutivo. Ma anche le altre forme di biodiversità rendono gli ambienti naturali più resistenti.
    Preservare la biodiversità comunque non è importante solo per il valore intrinseco degli ambienti naturali e delle specie che li abitano, ma anche per ragioni utilitaristiche che riguardano gli esseri umani. Per esempio gli insetti impollinatori hanno un ruolo importante nella riproduzione delle piante. Un gran numero di altri organismi viventi contribuisce a mantenere il suolo fertile, a decomporre i rifiuti, a pulire i corsi d’acqua e a fornire risorse alimentari e di sussistenza (la caccia e la raccolta di frutti spontanei sono ancora importanti per le comunità di persone in molte parti del mondo): si usa l’espressione “servizi ecosistemici” per comprendere tutti questi aspetti. Nei paesi meno ricchi, la perdita di biodiversità generalmente si lega a un aumento della povertà, magari non sul breve periodo, ma nel tempo.
    La biologia di altre specie inoltre può essere utile da studiare per consentire il progresso scientifico. Vale in ambito farmaceutico, per la ricerca di nuove molecole con effetti terapeutici che possono essere contenute in piante, funghi e via dicendo, ma anche per altri campi: le soluzioni “trovate” nel processo evolutivo per la risoluzione di un problema (per esempio, la struttura delle zampe dei gechi che permette loro di stare attaccati a pareti verticali e soffitti) possono darci delle idee su come realizzare nuove tecnologie. Infine, nella società contemporanea, la ricchezza degli ambienti naturali può essere una risorsa per le attività turistiche.
    Può sembrare che solo certe specie abbiano un’utilità per l’umanità, ma in realtà dato che gli ecosistemi sono basati su relazioni di interdipendenza, anche tutte le altre sono importanti.

    – Leggi anche: Dovremmo sterminare tutte le zanzare?

    Per garantire la conservazione della biodiversità tuttavia servono addirittura delle conferenze delle Nazioni Unite perché le attività umane causano in vari modi una sua riduzione. Le tre principali cause di perdita di biodiversità sono la riduzione degli habitat naturali, che avviene quando un territorio selvaggio viene sfruttato per qualche ragione dalle persone, il cambiamento climatico, e l’introduzione di specie aliene, che possono alterare gli equilibri di coesistenza preesistenti negli ecosistemi.
    Secondo il più recente rapporto sul Living Planet Index (letteralmente “indice della vitalità del pianeta”), realizzato dalla nota organizzazione ambientalista internazionale WWF e dall’organizzazione accademica Zoological Society of London, dal 1970 al 2020 le dimensioni medie delle popolazioni globali di animali vertebrati selvatici sono diminuite del 73 per cento. Complessivamente, nonostante i successi ottenuti da molte iniziative per la conservazione della natura, la biodiversità è diminuita notevolmente secondo il rapporto. È un problema noto da tempo, ed è per questo che dal 1992 i paesi delle Nazioni Unite si riuniscono per parlare di biodiversità.
    L’Italia è spesso descritta come un paese con una grande biodiversità, nonostante il suo territorio sia stato profondamente modificato dalle attività umane per più di due millenni. Evelina Isola, naturalista dell’Istituto Oikos, un’organizzazione non profit che lavora per la conservazione della biodiversità in Italia e in vari altri paesi del mondo, spiega: «L’Italia detiene un primato, è il paese con più biodiversità in Europa, e questo è dovuto alla sua storia geologica. Nel nostro paese infatti, sebbene sia relativamente piccolo, ci sono tre zone bio-geografiche diverse, quella mediterranea, quella alpina e quella continentale».
    La biodiversità italiana non è comparabile a quella delle foreste tropicali, note per ospitare un grandissimo numero di specie vegetali e animali diverse, ma nel paese ci sono «tantissime specie endemiche, ossia presenti solo all’interno del territorio italiano» e alcune di queste sono «specie endemiche ristrette, che cioè sono presenti solo in territori limitatissimi». È così per via della forma della penisola italiana, che crea molta varietà di ecosistemi vicini tra loro. C’è poi da considerare che fa parte della biodiversità italiana anche la biodiversità marina del Mediterraneo.
    Non si possono però considerare ambienti con una grande biodiversità le pianure italiane che sono prevalentemente sfruttate per l’agricoltura intensiva. Capita spesso di sentir parlare di biodiversità in riferimento alle varietà vegetali coltivate, ma è un equivoco. Per quanto la disponibilità di varietà agricole alternative possa essere una risorsa in caso di diffusione di malattie delle piante o di siccità, si tratta comunque di organismi viventi la cui presenza nell’ambiente dipende ed è regolata dall’attività umana: non dalle interazioni con altre specie. Un po’ diverso è il caso delle aree in cui si pratica una agricoltura di piccola scala: «C’è biodiversità nei contesti in cui ci sono le cosiddette zone ecotonali», spiega Isola, «che sono quelle zone di transizione da un habitat all’altro, da bosco ad arbusteto, a prato: dove ci sono i muretti a secco, le ceppaie, dove l’agricoltore lascia una parte del campo non coltivato o dove i pascoli non vengono falciati e dunque le specie selvatiche proliferano.
    Nell’ambito dell’agricoltura intensiva un’eccezione è costituita dalle risaie, note per attrarre e ospitare molte specie di uccelli.
    Si è poi osservato che anche gli ambienti urbani, quelli più profondamente modificati dall’umanità, hanno una propria biodiversità. Alcuni animali selvatici hanno trovato nelle città dei «surrogati di quelli che sarebbero stati i loro habitat naturali»: Isola fa l’esempio dei falchi pellegrini per cui i grattacieli, come il cosiddetto Pirellone di Milano, valgono come alte pareti rocciose e si prestano allo stesso modo alla nidificazione. «Diverso è il caso delle specie che si rifugiano nelle città anche per la pressione venatoria», aggiunge Isola, facendo riferimento ai cinghiali che negli ultimi anni si vedono sempre di più in contesti urbani di varie città italiane, come Roma.

    – Leggi anche: I falchi pellegrini si trovano bene nelle grandi città

    Il contributo in termini di servizi ecosistemici della biodiversità urbana è fortemente condizionato dal ruolo delle persone, ma comunque c’è: «Si considera tra i servizi ecosistemici anche il senso di benessere psicologico che dà la presenza di piante e animali selvatici», spiega Isola. Inoltre la presenza di aree cittadine in cui il suolo non è coperto da edifici o strade, e non è dunque impermeabilizzato, può essere utile in caso di fenomeni meteorologici estremi come le alluvioni e contribuire. E la disponibilità di aree verdi fornisce zone ombreggiate e più fresche d’estate.
    La COP16 sulla biodiversità, che riunisce i rappresentanti di 196 paesi, durerà fino al primo novembre. L’obiettivo di mettere sotto protezione ambientale il 30 per cento delle aree marine e il 30 per cento delle aree terrestri del pianeta, e dunque di ciascun paese, entro il 2030 è solo uno di 23 impegni presi con l’accordo di Kunming-Montreal. Tra le altre cose c’è l’impegno a ridurre i sussidi statali alle attività economiche che danneggiano gli ecosistemi e a introdurre un obbligo per le aziende di rendere conto del proprio impatto sull’ambiente.
    A ciascun paese firmatario della Convenzione sulla biodiversità era richiesto di presentare alla COP in corso le proprie “Strategie e Piani di attuazione nazionali per la biodiversità (NBSAPs)” per rispettare gli obiettivi fissati nel 2022. Per ora non tutti i paesi li hanno consegnati: il WWF sta tenendo traccia di quelli che sono stati presentati e condivide le proprie analisi generali di come sono fatti.
    Quello dell’Italia ad esempio è stato giudicato non del tutto soddisfacente per quanto riguarda il raggiungimento dei 23 obiettivi. Attualmente la superficie terrestre protetta in Italia è pari al 21,68 del territorio nazionale. In 5 anni lo stato dovrebbe «creare la metà delle aree protette terrestri che ha creato in oltre 100 anni da quando nacquero i primi due parchi nazionali italiani, Parco Nazionale del Gran Paradiso e Parco Nazionale d’Abruzzo», ha spiegato il WWF: «E per il mare va ancora peggio perché solo l’11,62% della superficie marina italiana è protetta».
    In generale, secondo il WWF non sembra che le premesse poste nel 2022 saranno rispettate.
    Tra i vari temi in discussione c’è il progetto di creare un sistema che regolamenti l’uso delle informazioni genetiche di piante, animali e microrganismi, che sempre più spesso vengono sfruttate nella ricerca farmaceutica e non solo per sviluppare nuovi prodotti. Il rischio è che alcuni paesi non ricevano proventi economici derivanti dallo sfruttamento commerciale del DNA degli organismi che ospitano; è un problema che riguarda i tanti paesi poveri o in via di sviluppo che hanno nel proprio territorio una grande biodiversità.
    Un’altra questione di cui si parlerà sono i contributi finanziari con cui i paesi più ricchi hanno promesso di aiutare quelli in via di sviluppo a raggiungere i propri obiettivi. Alla COP15 del 2022 si era deciso che tali contributi dovessero ammontare ad almeno 20 miliardi di dollari annui dal 2025.

    – Leggi anche: La statistica falsa sull’80% della biodiversità protetta dagli indigeni LEGGI TUTTO

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    Alle presidenziali degli Stati Uniti si vota anche dallo Spazio

    Alle elezioni statunitensi di novembre potranno votare anche gli astronauti che si trovano nello Spazio. È possibile grazie al sistema di comunicazione che permette il trasferimento di documenti dallo Spazio alla Terra e a una legge del Texas del 1997. Negli anni passati anche astronauti sovietici, russi e francesi hanno votato per le elezioni nei rispettivi paesi.Al momento nello Spazio si trovano 14 persone: 3 sono astronauti cinesi, 4 sono russi e 7 statunitensi. Questi sette per votare hanno dovuto fare richiesta anticipatamente al governo statunitense di poter votare a distanza, secondo la stessa procedura seguita dai soldati inviati nelle missioni all’estero. Hanno poi ricevuto una password da un impiegato della contea in cui risiedono, per criptare il documento di testo con il voto e garantirne la segretezza. Dall’inizio del periodo del voto anticipato (che in Texas inizia lunedì 21 ottobre) possono quindi inviare un messaggio riservato contenente il loro voto all’ufficio elettorale locale, dopo una serie di passaggi.
    Quasi tutti gli astronauti statunitensi risiedono nello stato del Texas, dove si trova il Johnson Space Center, il principale centro di addestramento per andare in orbita della NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti. Per questo è spettato al Texas approvare una legge per permettere loro di votare anche durante le permanenze sulle stazioni spaziali, i laboratori scientifici che viaggiano nell’orbita terrestre.
    Nel 1996 la NASA cercò di fare in modo che l’astronauta John Blaha potesse votare nelle presidenziali di quell’anno (in cui alla fine il Democratico Bill Clinton venne riconfermato alla presidenza). Il tentativo fu fermato dal Segretario di stato del Texas, dato che lo stato non permetteva alcun tipo di voto elettronico: Blaha non poté votare.
    L’anno seguente il parlamento del Texas approvò una legge che permetteva il voto elettronico per chi avesse i requisiti per votare «ma si trovasse nello spazio durante il periodo del voto anticipato e nel giorno delle elezioni». Il primo astronauta statunitense a votare dall’orbita terrestre fu quindi David Wolf, che nel 1997 votò per il sindaco di Houston (una città del Texas) mentre si trovava a bordo della stazione spaziale russa MIR.
    Gli astronauti attualmente sulla Stazione Spaziale Internazionale: 7 di loro (quelli vestiti di nero e quello in primo piano a destra) sono statunitensi (NASA via AP)
    Prima di votare veramente gli astronauti ricevono una scheda elettorale finta, che reinviano a terra per controllare che il processo funzioni e mantenga la segretezza del voto. Ricevono poi la scheda vera, un documento di testo che compilano e rispediscono a terra tramite una rete di satelliti e antenne che permette alla NASA di comunicare con i satelliti nell’orbita terrestre, la Near Space Network (“Rete per lo Spazio vicino”).
    Tramite questa rete le informazioni vengono trasmesse al centro di ricerca di White Sands, in New Mexico. Da lì sono poi trasferite al centro di controllo delle missioni spaziali del Johnson Space Center, in Texas, che a sua volta le invia agli uffici elettorali della contea di Harris, in cui si trova il centro: qui il documento viene stampato e conteggiato assieme a tutte le altre schede della contea.
    Dal 2004, quando Leroy Chiao divenne il primo statunitense a votare per il presidente dallo Spazio, gli astronauti della NASA hanno votato in 3 delle 4 elezioni presidenziali seguenti (nel 2008, 2016, 2020): nel 2012 gli astronauti che si trovavano in orbita poterono votare anticipatamente secondo le procedure ordinarie. In almeno un caso, nel 2019, votò anche un astronauta statunitense che non risiedeva in Texas: Andrew Morgan votò nelle elezioni locali della Pennsylvania, grazie alla collaborazione fra le autorità locali e la NASA. L’ultima astronauta a votare dalla Stazione Spaziale Internazionale è stata Kathleen Rubins, che è anche l’unica ad aver votato due volte: nel 2016 e nel 2020. LEGGI TUTTO

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    In Egitto è stata debellata la malaria

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che l’Egitto ha debellato definitivamente la malaria, una delle malattie più letali al mondo: ci è riuscito dopo quasi 100 anni, ossia da quando il paese cominciò a vietare la coltivazione di riso e altre colture vicino alle case con l’obiettivo di contrastarne la diffusione. La malaria è una malattia mortale particolarmente contagiosa trasmessa dalle punture di alcune zanzare. È diffusa soprattutto in Africa, dove uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno. In tutto finora sono 44 i paesi e i territori che hanno debellato la malattia. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Gli animali più fotografati della settimana sono stati due panda gemelle, nate lo scorso agosto allo zoo di Berlino che mercoledì sono state mostrate per la prima volta ai visitatori: ora pesano due chili e mezzo e sono grandi come conigli, ma potete farvi un’idea concreta delle loro dimensioni guardando bene le foto di una di loro in questa raccolta. Poi ci sono cardellini, babbuini, gabbiani e una famiglia di elefanti trasferita in Kenya, per finire con un maestoso cervo shika e un asino durante l’aurora boreale. LEGGI TUTTO

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    Ascesa e declino di 23andMe

    Fino a qualche anno fa 23andMe era considerata una delle più promettenti e ricche aziende per i test genetici, nata con la promessa di offrire sistemi innovativi per prevedere l’insorgenza di particolari malattie. Oggi le sue condizioni sono talmente precarie da indurre chi ha cause legali con la società ad abbassare le proprie pretese di risarcimento pur di avere qualche soldo. È quello che è successo lo scorso settembre a un gruppo di clienti di 23andMe, che per risolvere una causa legata alla diffusione di dati personali – una vicenda risalente al 2023 e che aveva portato a grandi critiche nei confronti dell’azienda – alla fine ha chiesto 30 milioni di dollari, molto meno di quanto ipotizzato inizialmente, proprio nel timore che in tempi brevi la società possa essere venduta o non abbia più le risorse per pagare.La notizia è stata ampiamente ripresa sui giornali ed è vista come uno dei segni più tangibili della crisi di 23andMe. La società ha perso infatti buona parte del proprio valore in borsa, passando da circa 6 miliardi a meno di 150 milioni di dollari, e fatica a raccogliere nuovi clienti e contratti. Senza nuove idee, la sua cofondatrice Anne Wojcicki potrebbe non essere in grado di salvarla, dopo 20 anni di grandi promesse e risultati spesso deludenti.
    L’alternarsi di successi, enormi investimenti e grandi perdite, con licenziamenti di massa e le dimissioni di vari membri del consiglio di amministrazione, sono nella storia di molte aziende tecnologiche della Silicon Valley, ma nel caso di 23andMe sono ancora più peculiari perché interessano un settore in cui sono state riposte grandi speranze sia da parte degli investitori sia dei clienti. Le aziende che si occupano di salute hanno cercato di sfruttare più di altre le evoluzioni tecnologiche offerte da Internet per offrire servizi innovativi, ingrandirsi e raccogliere gigantesche quantità di dati, spesso sfruttando i vuoti legislativi lasciati da leggi ormai datate.
    23andMe esiste dal 2006, quando fu fondata da Wojcicki insieme a Linda Avey e a Paul Cusenza, che uscì quasi subito dall’iniziativa. Dopo essersi laureata in biologia alla Yale University, nel 1996 Wojcicki aveva iniziato a lavorare come consulente per alcuni fondi di investimento nel settore dell’assistenza sanitaria. Raccontò in seguito di non averne avuto una grande impressione: molte società avevano il solo scopo di produrre e offrire trattamenti medici molto costosi per ottenere il massimo dei rimborsi dalle assicurazioni sanitarie, che gestiscono buona parte dell’accessibilità alle cure negli Stati Uniti. 23andMe nasceva quindi con l’idea di scardinare alcuni di quei modelli di gestione dell’assistenza sanitaria, puntando su metodi innovativi per l’analisi dei dati per la salute. Una conoscenza fortuita favorì il piano.
    In quegli anni Wojcicki aveva conosciuto Sergey Brin e Larry Page, i due cofondatori di Google che avevano preso in affitto il garage di Susan Wojcicki come loro prima sede della startup che stava sviluppando il motore di ricerca. Susan era sorella di Anne e avrebbe poi avuto un ruolo nell’azienda, diventandone una delle più importanti dirigenti e la responsabile di YouTube.
    Tra Brin e Anne Wojcicki era iniziata una relazione e quest’ultima aveva scoperto che Avey stava pensando a sistemi innovativi per offrire a tutti test genetici come sistema di prevenzione per alcune malattie. Wojcicki era interessata all’idea e disse ad Avey che avrebbero potuto collaborare per mettere in piedi una startup. Avey accettò, pensando che Wojcicki fosse il collegamento ideale con Brin e quindi con Google per avere risorse e visibilità.
    Fu in effetti Brin a investire i primi milioni di dollari in 23andMe, a facilitare la ricerca di altri investitori e a valutare l’assunzione di alcuni dipendenti. La scelta del nome derivava dalle 23 paia di cromosomi presenti nel nucleo delle cellule dell’organismo umano in cui è raccolto il materiale genetico di ogni persona. Nel 2007, poche settimane dopo il matrimonio tra Brin e Wojcicki, Google annunciò un importante investimento nella società, che divenne molto discussa e guardata con interesse da altri fondi di investimento.
    L’idea alla base dei servizi di 23andMe era semplice e al tempo stesso ambiziosa. Attraverso il sito dell’azienda si acquista un kit per l’esame del DNA che viene spedito a casa, il cliente sputa in una provetta e la manda a 23andMe che ne analizza il contenuto. Sulla base delle informazioni genetiche raccolte dalla saliva, la società mostra poi al proprio cliente quello che ha scoperto, dalla presenza di geni che indicano il maggior rischio di ammalarsi di qualcosa a una sorta di albero genealogico che mostra la propria discendenza su base geografica.

    Grazie alla grande visibilità data dal coinvolgimento di Google, migliaia di persone inviarono i loro sputi a 23andMe, ricevendo in cambio informazioni genetiche di ogni tipo come la predisposizione a soffrire di calvizie o di obesità e informazioni più particolari come le cause genetiche della consistenza del proprio cerume. Wojcicki si fece notare anche per l’organizzazione di feste in cui ospiti come il miliardario Rupert Murdoch o il produttore cinematografico Harvey Weinstein venivano invitati a sputare nelle provette per sottoporsi ai test.
    Anche grazie a questi eventi 23andMe era riuscita a far parlare di sé, ma il prezzo di 399 dollari per ogni kit era comunque troppo alto per rendere di massa i test genetici. Nel 2009 Wojcicki pensò che uno degli ostacoli alla crescita dell’azienda fosse Avey, che da genetista aveva un approccio più cauto e conservativo nella promozione di ciò che effettivamente si poteva ottenere con un test. Nella maggior parte dei casi, avere uno o più geni riconducibili a una malattia non significa che prima o poi si svilupperà quella malattia: altre variabili genetiche, stili di vita e fattori ambientali hanno un ruolo altrettanto importante. Nei propri “Termini e condizioni” 23andMe chiariva questi aspetti, che però non trasparivano molto dalla comunicazione sulla possibilità di avere grafici e stime sulla presenza di geni noti per essere associati a certe malattie.
    Wojcicki ottenne che Avey venisse estromessa dalla società, diventandone in questo modo l’unica figura di spicco. Le conoscenze maturate in quel periodo le permisero di entrare in contatto con il miliardario Yuri Milner che fece un grande investimento in 23andMe, tale da permettere all’azienda di vendere i test del DNA a 99 dollari.
    La forte riduzione del prezzo e una prima campagna pubblicitaria in tutti gli Stati Uniti attirarono l’attenzione della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa tra le altre cose di farmaci e test diagnostici. La versione del test per scopi sanitari non aveva le autorizzazioni necessarie per essere venduta e la FDA ne bloccò le vendite, riducendo le possibilità di espansione della società.
    Furono necessari circa due anni prima che 23andMe producesse tutta la documentazione necessaria per ricevere un’autorizzazione da parte della FDA. L’operazione richiese milioni di dollari, ma infine rese possibile la vendita dei kit senza particolari limitazioni e in pochi anni i clienti diventarono circa otto milioni.
    Wojcicki puntò molto sulla promozione della parte legata ai test per la discendenza, venduti come uno strumento per scoprire da quali aree geografiche provenissero i propri avi, anche se queste ricostruzioni sono soggette a numerosi errori e approssimazioni. Questo ambito offriva qualche sicurezza in più rispetto a quello dei geni e delle malattie, sul quale comunque l’azienda continuava a fornire servizi e a effettuare ricerche.
    Sergey Brin e Anne Wojcicki a un evento di 23andMe a New York nel 2008, la coppia ha divorziato nel 2015 (Donald Bowers/Getty Images for The Weinstein Company)
    Questa strategia commerciale permise a 23andMe di superare alcune difficoltà economiche sorte negli anni in cui non poteva vendere i propri kit per via delle limitazioni imposte dall’FDA, ma segnalò anche la spregiudicatezza di Wojcicki nel gestire una società che ha a che fare con la salute. La FDA impose a 23andMe di non fornire informazioni sulla presenza di varianti genetiche che potrebbero far aumentare il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di cancro, così come di non fornire informazioni su quali farmaci potrebbero funzionare meglio in base ai profili genetici.
    23andMe stava comunque raccogliendo un’enorme mole di dati sulle caratteristiche genetiche di milioni di persone e Wojcicki pensò di sfruttarle in altro modo, offrendo servizi per analisi di massa alle aziende farmaceutiche. Nel 2018 fu stretto un accordo con GSK per l’utilizzo in esclusiva dei dati per cinque anni, ma trovare altre società interessate a collaborare con 23andMe si rivelò più difficile del previsto. GSK nel 2023 ha esteso la propria collaborazione per un anno, attraverso un contratto aggiuntivo da 20 milioni di dollari, ma ultimamente 23andMe non ha più annunciato nuovi accordi con altre aziende.
    I clienti che hanno inviato i loro sputi alla società possono scegliere se metterli a disposizione per attività di ricerca o mantenerli privati, ma 23andMe è stata criticata spesso per il modo in cui gestisce i dati degli utenti. In particolare sono emersi problemi di sicurezza, divenuti evidenti nel 2023 con il furto dei dati di sette milioni di persone, circa la metà degli utenti dell’azienda. E proprio da quella violazione dei dati sarebbe poi partita l’iniziativa legale per la quale c’è ora la proposta di una risoluzione con un risarcimento da 30 milioni di dollari.
    Appena due anni prima della perdita dei dati, 23andMe si era quotata in borsa, approfittando di un periodo in cui c’era un grande interesse per le società che promettevano di aumentare il proprio valore grazie a offerte pubbliche di acquisto miliardarie. Nel febbraio del 2021 il prezzo di una singola azione raggiunse i 321 dollari, ma a partire dal 2022 23andMe iniziò un rapido declino in borsa perdendo buona parte del proprio valore. Oggi un’azione vale poco meno di 5 dollari e anche per questo ci sono forti dubbi sulla capacità dell’azienda di rilanciare le proprie attività.
    L’andamento delle azioni di 23andMe da quando è in borsa (Google)
    Secondo gli analisti il rapido declino di 23andMe in borsa è dipeso sia dallo sgonfiarsi della bolla legata ai servizi per la salute nella Silicon Valley, sia da alcune scelte commerciali poco efficaci dell’azienda. La divisione dedicata alla ricerca di nuove terapie non ha mai portato a risultati soddisfacenti, anche a causa dello scarso coinvolgimento delle grandi aziende farmaceutiche. Nel 2022 23andMe aveva assunto 150 persone per provvedere allo sviluppo di nuovi farmaci, ma l’investimento si è rivelato troppo oneroso, tanto da portare in breve tempo al licenziamento di circa metà delle persone coinvolte in quelle attività.
    Un altro punto debole di 23andMe è stato a lungo il modello basato sul singolo acquisto di un kit, che espone l’azienda alle oscillazioni della domanda, che è sensibilmente diminuita negli ultimi anni. Per provare a superare questa impostazione l’azienda offre da qualche tempo 23andMe+, un servizio in abbonamento per ricevere periodicamente rapporti personalizzati sulla propria salute, consigli per vivere meglio e dettagli su non meglio specificate future scoperte. La sottoscrizione dell’abbonamento ha un costo iniziale di 229 dollari e c’è poi una spesa annuale di 69 dollari.
    23andMe+ ha raccolto poche centinaia di migliaia di adesioni, senza diventare determinante per la società. Nel 2021 23andMe aveva previsto 2,9 milioni di abbonamenti entro la fine di marzo 2024, ma ha chiuso il 2023 con 640 mila abbonati scesi a 562mila nei primi mesi di quest’anno.
    A novembre del 2023 23andMe ha poi presentato Total Health, un nuovo piano in abbonamento che costa quasi 1.200 dollari all’anno e che promette di offrire test genetici più approfonditi, oltre a una serie di servizi per effettuare esami di laboratorio e ricevere consulenze mediche. Il piano non è al momento coperto dalle assicurazioni ed è quindi completamente a carico dei singoli clienti, che al momento non sembrano essere interessati. Il punto di ingresso per la maggior parte di loro è del resto il test nella sua versione classica ed economica, che offre però informazioni generiche e spesso deludenti, di conseguenza non incentiva molto il passaggio alle versioni più costose.
    Tra le altre cose, Total Health viene promosso come un sistema per invecchiare meglio e più lentamente (23andMe)
    Gli abbonamenti e i nuovi servizi per ora non sono stati sufficienti per rinvigorire gli affari di 23andMe, che da quando è stata fondata non ha mai prodotto utili e che lo scorso anno ha licenziato circa un quarto dei propri dipendenti, proprio per ridurre le spese. Le condizioni precarie dell’azienda hanno spinto Wojcicki a proporre di togliere dal mercato azionario l’azienda, ma l’offerta di acquisto per azione – circa 0,40 dollari rispetto ai 10 di quando fu quotata – non solo non ha convinto gli investitori, ma ha anche portato alle dimissioni dell’intero consiglio di amministrazione. I suoi componenti hanno accusato Wojcicki di non avere presentato una proposta credibile e si sono lamentati di non potere fare nulla, visto che Wojcicki ha la quantità di azioni necessaria per vincolare ogni decisione al proprio voto nel consiglio.
    Alla fine della scorsa settimana 23andMe ha proposto di ridurre il numero di azioni in possesso dei suoi investitori, in modo da fare aumentare il valore di ogni singola azione. È una procedura che viene talvolta seguita dalle aziende in difficoltà e che rischiano di uscire da alcuni listini azionari, in questo caso lo statunitense NASDAQ. In mancanza di una ripresa significativa del valore azionario, 23andMe potrebbe essere esclusa dal listino a novembre.
    Nel frattempo Wojcicki ha iniziato a fare proposte ad alcuni fondi di investimento, annunciando l’intenzione della società di potenziare il modello di condivisione dei dati raccolti dai propri utenti con aziende del settore farmaceutico e delle biotecnologie. Non è però chiaro se possa esserci un effettivo interesse per quei dati, considerato che negli ultimi anni sono diventati disponibili a prezzi più accessibili registri con l’intero genoma, cioè tutto il DNA che si trova all’interno di una cellula, rispetto a dati più frammentari come quelli raccolti da 23andMe.
    Le notizie poco incoraggianti sull’andamento della società hanno inoltre avuto un effetto negativo sulle vendite dei kit e degli altri servizi, più che altro per una ridotta fiducia nei sistemi di gestione dei dati dell’azienda. La diffidenza deriva dall’incertezza sulla gestione dei dati nel caso di fallimento o vendita della società, considerato che contengono informazioni sensibili e legate alla salute dei clienti. La società dice che continuerà a mantenere la propria politica per cui i dati possono essere condivisi solo con un consenso dei diretti interessati, e che questa regola sarà mantenuta anche nel caso di una vendita, ma il trasferimento dei dati in sé verso la società acquirente sarebbe comunque un cambiamento a cui pochi clienti avrebbero pensato mentre sputavano in un’innocente provetta quasi vent’anni fa. LEGGI TUTTO

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    Il grande equivoco del big bang

    Caricamento playerAmedeo Balbi, astrofisico e autore di diversi libri di divulgazione scientifica, ne ha pubblicato uno nuovo intitolato Il cosmo in brevi lezioni (Bur Rizzoli), dedicato a spiegare – come dice il sottotitolo – “Big bang, pianeti, galassie e buchi neri”. Il libro raccoglie – con le revisioni e gli aggiornamenti opportuni – gli articoli che Balbi ha pubblicato sulla rivista scientifica Le Scienze negli ultimi dieci anni, nella sua rubrica “La finestra di Keplero”: «Con l’avvicinarsi del decennale, mi sono reso conto che tutte quelle pagine ricostruiscono una storia che racconta lo stato attuale delle nostre conoscenze sull’universo», scrive Balbi nella premessa. Storia che inevitabilmente inizia dal big bang, anzi dal “Grande equivoco del big bang”.
    Amedeo Balbi parlerà del suo libro a Napoli sabato 26 ottobre, all’interno di Talk del Post, assieme al disegnatore, fumettista e regista Gipi.
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    C’è un equivoco persistente che riguarda l’origine del nostro universo e la sua descrizione scientifica. In soldoni, l’equivoco nasce dal fatto che si usa lo stesso nome, ovvero «big bang», per riferirsi sia a un modello sia a un evento. È una confusione seria, che porta a conclusioni fuorvianti, e di cui vale la pena discutere. Il modello del big bang è oggi la nostra migliore descrizione dell’evoluzione dell’universo osservabile nei passati 13,8 miliardi di anni. Secondo questo modello, l’universo ha raggiunto il suo stato attuale espandendosi ininterrottamente a partire da una condizione di altissima densità e temperatura, in cui tutta la materia era scomposta nei suoi costituenti fondamentali. Il modello del big bang poggia sulle solide basi della teoria della relatività generale di Einstein, su un quadro fisico messo alla prova fino alle più alte energie raggiunte negli acceleratori di particelle, nonché su una serie impressionante di evidenze: le più notevoli sono l’espansione dell’universo, l’esistenza di un fondo cosmico di radiazione a microonde, e la corretta previsione dell’abbondanza dei nuclei di elio e degli atomi più leggeri. È un modello di straordinario successo – almeno nei limiti in cui è applicabile – e che al momento non ha alternative credibili.
    Tuttavia, la maggior parte delle persone (scienziati inclusi) usa il termine «big bang» in un altro senso, per riferirsi all’evento che avrebbe dato inizio al nostro universo.E qui le cose si fanno confuse, per almeno due ragioni. La prima è che non è del tutto chiaro a quale evento ci si riferisca. La possibilità meno problematica è che si usi il termine «big bang» per indicare uno stato primordiale in cui densità e temperatura avevano valori enormi ma non infiniti, e da cui si è dipanata la successiva evoluzione dell’universo osservabile (descritta dal modello del big bang). In questo senso, che è quello generalmente inteso (magari senza dirlo in modo esplicito) dagli addetti ai lavori, il big bang non è altro che una fase all’interno di una cornice fisica preesistente, che si può descrivere ragionevolmente bene con le teorie conosciute.
    Ma c’è un’altra possibilità, più problematica. Se si spinge ancora più indietro nel tempo la descrizione dell’evoluzione dell’universo basata sulla relatività generale, si arriva fatalmente a uno stato in cui la temperatura e la densità diventano infinite: è quello che i fisici chiamano una «singolarità». Questo stato segnerebbe l’inizio stesso del tempo e dello spazio, ed è quello a cui molti pensano quando usano la parola «big bang»: un istante che non ha un prima, l’improvvisa comparsa dal nulla di tutto ciò che esiste.Purtroppo (e questa è la seconda e più grave ragione di confusione), mentre non abbiamo praticamente alcun dubbio sul fatto che l’evoluzione dell’universo sia iniziata 13,8 miliardi di anni fa da uno stato di enorme densità e temperatura (che possiamo continuare a chiamare «big bang» per comodità), non c’è alcuna prova che esso sia originato da una singolarità. Ed è proprio la comparsa degli infiniti a metterci in guardia: ci dice che la fisica che usiamo per spingerci in quei territori è inadatta a descriverli e che dovrà necessariamente essere aggiornata a una versione migliore, che ancora non abbiamo. Di fatto, le idee che i fisici teorici stanno esplorando, in questo senso, presuppongono che il nostro universo sia il risultato di processi precedenti, che per ora non abbiamo gli strumenti concettuali per comprendere. Ex nihilo nihil fit, dicevano i filosofi antichi: nulla viene dal nulla, e la cosmologia moderna, intesa correttamente, non avrebbe niente da eccepire.
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