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    Weekly Beasts

    Tre delle fotografie di animali scelte questa settimana vengono da un concorso per giovani fotografi organizzato dalla Royal Society for the Prevention of Cruelty to Animals (RSPCA), ente benefico britannico che promuove il benessere degli animali, e che ha compiuto quest’anno duecento anni dalla sua fondazione. L’RSPCA Young Photographer Awards, questo il nome del concorso, è stato vinto dalla quindicenne Anwen Whitehead, che ha fotografato una pulcinella di mare. Ma oltre al premio generale c’erano anche altri riconoscimenti, divisi per fasce d’età dei fotografi o per tema, e abbiamo selezionato anche la fotografia di una volpe e quella di un barbagianni. Poi ci sono un leone marino finito su una spiaggia di Rio de Janeiro, in un periodo dell’anno in cui è insolito che questi animali vengano spinti fin lì dalle correnti oceaniche, il primo piano di una lince pardina e per finire un uistitì che penzola da un ramo mentre mangia una banana. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’inverno

    Caricamento playerAlle 10:20 del 21 dicembre c’è stato il solstizio d’inverno, cioè il momento astronomico nel corso del moto annuale di rivoluzione della Terra che nell’emisfero boreale segna l’inizio della stagione invernale. Nel nostro emisfero il giorno del solstizio d’inverno è quello con meno ore di luce all’anno, mentre quello d’estate è il giorno con più luce.
    Solstizi ed equinozi sono fenomeni astronomici piuttosto semplici da osservare, e per questo molte culture li usano per determinare il susseguirsi delle stagioni. In questa usanza c’è però un certo grado di approssimazione, dato che solstizi ed equinozi dipendono da eventi che prescindono dai nostri calendari. Di conseguenza le stagioni non cambiano sempre lo stesso giorno ma ogni anno, a causa della diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario, la data può variare leggermente.
    In Italia di solito la primavera inizia tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre e l’inverno tra il 21 e il 22 dicembre. Questa volta l’inverno durerà fino al prossimo 20 marzo, quando ci sarà l’equinozio di primavera.

    I solstizi e gli equinozi dividono il tragitto che la Terra compie attorno al Sole – detto “moto di rivoluzione” – in quattro parti di circa tre mesi ciascuna, ognuna delle quali corrisponde a una stagione. Tradizionalmente misuriamo i giorni in 24 ore e l’anno in 365 giorni, ma in realtà la Terra impiega tempi leggermente diversi a ruotare su se stessa e a compiere la propria orbita attorno al Sole: è proprio per questo che l’ora e il giorno degli equinozi non sono fissi.
    Il solstizio è il momento in cui il Sole raggiunge il punto di declinazione massima o minima nel suo moto lungo l’eclittica, cioè il percorso apparente che il Sole compie in un anno rispetto alla sfera celeste (ovvero il cielo, per come lo vediamo dalla Terra). È un moto “apparente” perché in realtà per il sistema solare è la Terra a girare intorno al Sole, ma muovendoci noi con il pianeta abbiamo l’impressione che a spostarsi nel cielo sia il Sole e non viceversa.
    Il Sole raggiunge il valore massimo di declinazione positiva a giugno (quando iniziano l’estate nel nostro emisfero e l’inverno in quello australe), mentre a dicembre raggiunge il valore massimo di declinazione negativa (segnando l’inizio dell’inverno boreale e dell’estate australe).

    – Leggi anche: L’invenzione dell’inverno

    Oltre alle stagioni astronomiche ci sono quelle meteorologiche, che indicano in modo preciso i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati. Iniziano una ventina di giorni in anticipo rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre tre mesi. LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea vuole fare concorrenza a Elon Musk

    Caricamento playerNegli ultimi anni il miliardario Elon Musk ha portato in orbita intorno alla Terra oltre 7mila satelliti per offrire Internet dallo Spazio ai privati e ai governi, anche per scopi militari. Il servizio è disponibile in Europa, ma la Commissione Europea vorrebbe farne a meno per le comunicazioni governative e di sicurezza: per questo vuole inviare in orbita alcune centinaia di satelliti su cui avere pieno controllo, senza dipendere dalle società di Musk e dal suo modo talvolta discutibile di fare affari.
    A inizio settimana la Commissione ha annunciato di avere firmato il contratto di assegnazione della gestione di IRIS2 – il nome del progetto satellitare – ad alcune delle più importanti società spaziali europee, per un investimento stimato in 6,5 miliardi di euro, finanziato per circa due terzi dalle istituzioni europee. Il resto del denaro deriverà da investimenti dei privati coinvolti nel consorzio SpaceRISE.
    Nell’iniziativa sono coinvolte Eutelsat, Hispasat e SES, tre importanti aziende responsabili di numerose reti di satelliti, e alcune grandi società specializzate nella produzione dei satelliti e nella gestione di reti di telecomunicazioni come: Thales Alenia Space e Telespazio, che hanno una forte presenza in Italia, e Airbus Defence, Deutsche Telekom, Orange e Hisdesat. Le società saranno responsabili dell’avvio e della gestione di IRIS2 per i prossimi 12 anni con l’obiettivo di avere la costellazione di satelliti in attività entro il 2030.
    Come suggerisce il nome, una costellazione di satelliti è un insieme di satelliti che viene solitamente collocato nell’orbita bassa (al di sotto dei 2mila chilometri di distanza dalla Terra) e che grazie all’alto numero di componenti riesce a coprire buona parte del pianeta con il proprio segnale. I satelliti, più piccoli e meno complessi rispetto a quelli tradizionali per le telecomunicazioni, si mantengono in contatto con i centri di controllo e i ripetitori a terra, e con le antenne di chi utilizza il servizio per esempio per accedere a Internet dove non c’è segnale cellulare o non arrivano i cavi per le normali connessioni. In alcune configurazioni possono anche comunicare tra loro nello Spazio migliorando la copertura e la velocità della connessione.
    La costellazione di satelliti più grande costruita finora in orbita è Starlink di SpaceX, la società spaziale statunitense guidata da Elon Musk che periodicamente trasporta in orbita centinaia di satelliti per rinforzare la propria rete. Starlink offre accesso a Internet ai privati in buona parte del mondo, ma negli ultimi due anni se ne è parlato soprattutto per il suo ruolo nella guerra in Ucraina, dove è stato impiegato dall’esercito ucraino nelle aree dove le reti mobili e fisse sono state distrutte dagli attacchi russi.
    Oltre a Starlink, SpaceX ha da qualche tempo una sorta di progetto parallelo che si chiama Starshield, dedicato allo sviluppo e alla gestione di costellazioni satellitari per scopi militari e di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti e i loro alleati. La società non ha mai fornito molte indicazioni su Starshield per via dei vincoli di segretezza imposti dal governo statunitense. In questo contesto, alla fine del 2022 il Consiglio dell’Unione Europea, dove sono rappresentati i governi dei 27 stati membri dell’Unione Europea, aveva annunciato l’avvio di IRIS2 e la scelta di affidarne la realizzazione a un consorzio internazionale, guidato da alcune delle principali aziende spaziali europee.

    IRIS2 prevede di inviare in orbita 290 satelliti nel corso dei prossimi anni, una quantità di un ordine di grandezza inferiore rispetto alla costellazione di Starlink e ad altre in fase di progettazione e sviluppo. I satelliti impiegati saranno comunque sufficienti per offrire la copertura necessaria sia per gli scopi di sicurezza e militari sia per offrire ai privati connessioni ad alta velocità, in aree dove non c’è copertura mobile o non arriva la fibra ottica. I satelliti saranno collocati sia nell’orbita bassa sia in quella media, quindi al di sopra dei 2mila chilometri di quota.
    I satelliti di IRIS2 saranno trasportati in orbita da razzi europei, come il sistema di lancio Ariane 6 attualmente alle ultime fasi di test. Data la quantità di lanci necessari non è comunque escluso che il consorzio decida di affidarne alcuni a SpaceX, che solo quest’anno ha effettuato più di cento lanci verso l’orbita terrestre. In questo caso SpaceX avrebbe comunque solo il compito di trasportare il carico, senza un coinvolgimento nella gestione della costellazione.
    Secondo diversi osservatori IRIS2 potrebbe contribuire a stimolare ulteriormente l’economia spaziale in Europa, che continua a espandersi, per quanto a ritmi diversi da quella statunitense. Il problema più importante rimangono le limitate possibilità di accesso in orbita rispetto agli Stati Uniti, che oltre a SpaceX potranno presto contare anche su Blue Origin, l’azienda spaziale di Jeff Bezos che sta per sperimentare un nuovo sistema di lancio per grandi carichi verso e oltre l’orbita terrestre. LEGGI TUTTO

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    Il parere del Comitato nazionale di bioetica sull’utilizzo dei bloccanti per la pubertà per i minorenni 

    Caricamento playerIl Comitato nazionale di bioetica (CNB), un organo consultivo del governo che si occupa di questioni scientifiche particolarmente complesse dal punto di vista etico e giuridico, ha consigliato che vengano finanziati più studi clinici indipendenti per raccogliere maggiori dati riguardo agli effetti e al rapporto costi/benefici dei cosiddetti “farmaci bloccanti per la pubertà”, utilizzati nei trattamenti per la disforia di genere nei minorenni che non si identificano col genere corrispondente al proprio sesso biologico.
    Il Comitato, il cui parere non è vincolante, era stato interpellato dal ministero della Salute perché si esprimesse sull’opportunità o meno, dal punto di vista etico, di somministrare ai minorenni la triptorelina, il farmaco che sospende alcuni aspetti dello sviluppo puberale. I bloccanti della pubertà sono utilizzati in vari paesi, compresa l’Italia, per accompagnare il percorso di adolescenti e preadolescenti che non si sentono a proprio agio nel genere associato al loro sesso biologico. Da alcuni anni però questi farmaci sono al centro di un esteso e acceso dibattito, e di recente sono stati vietati a tempo indeterminato nel Regno Unito, dopo la pubblicazione di un atteso rapporto dal quale emergevano delle lacune nelle conoscenze scientifiche sui loro effetti.
    Nel parere appena pubblicato (consultabile qui) il Comitato ha detto di essere giunto a queste conclusioni dopo una serie di audizioni con esperti e dopo aver valutato la letteratura scientifica disponibile. Il parere è stato pubblicato con 29 voti favorevoli, 2 astensioni e 1 voto contrario. Quasi all’unanimità, quindi: è un dato notevole, tenendo conto che il Comitato è composto da persone con orientamenti, visioni e livelli di competenza molto diversi, e che il tema è molto divisivo e polarizzante.

    – Leggi anche: Perché si discute di bloccanti per la pubertà e transizione di genere nei più giovani

    I dubbi del ministero della Salute riguardavano soprattutto il livello di consapevolezza che persone così giovani hanno nel momento in cui acconsentono a iniziare trattamenti così impattanti sul proprio corpo. A questo proposito, il Comitato ha allegato una dichiarazione di voto firmata da 15 membri che, pur aderendo al parere generale del Comitato sulla necessità di migliorare la nostra comprensione degli effetti dei farmaci bloccanti per la pubertà, si sono detti eticamente contrari a permettere a persone minorenni di intraprendere un percorso di transizione di genere. Secondo i membri del Comitato che hanno sottoscritto questa dichiarazione, «molti dei cambiamenti fisici previsti e intrapresi sono irreversibili, e la compromissione della fertilità risulta spesso inevitabile».
    Nel parere appena pubblicato, il Comitato ha detto che gli studi da svolgere devono essere «di qualità superiore a quelli già realizzati», che ritiene non adatti a poter rispondere alla domanda rivolta dal governo. Il Comitato ha definito «carenti e frammentari» anche i dati disponibili sull’utilizzo della triptorelina nelle varie Regioni italiane.
    A tal proposito, il Comitato ha ricordato che il modello di riferimento per gli studi clinici da svolgere è quello dello «studio controllato e randomizzato in doppio cieco». È un tipo di studio in cui i partecipanti vengono assegnati in maniera casuale a due gruppi, il gruppo sperimentale che riceve il trattamento e quello che non lo riceve, per poter confrontare i risultati, e in cui sia gli sperimentatori che i partecipanti non conoscono il tipo di trattamento assegnato. Sono tutti criteri pensati per rendere il più imparziale e obiettiva possibile una sperimentazione, evitando che aspettative consce o inconsce influenzino la sua valutazione.
    Il Comitato ha inoltre raccomandato che eventuali prescrizioni di questo farmaco vengano effettuate in maniera controllata, possibilmente all’interno di sperimentazioni promosse dallo stesso ministero della Salute, e comunque seguendo gli stessi criteri anche in eventuali prescrizioni esterne alle sperimentazioni cliniche. In linea generale, il Comitato ha detto che l’eventuale somministrazione della triptorelina dovrebbe avvenire solo dopo aver dimostrato l’inefficacia di altri tipi di terapie e percorsi meno impattanti dal punto di vista fisico, per esempio percorsi psicologici, psicoterapeutici o eventualmente psichiatrici, documentando tutti i passaggi del processo decisionale.
    Come detto il parere del CNB non è vincolante: starà ora al governo decidere se e come far partire e finanziare nuovi studi clinici sull’utilizzo della triptorelina, in maniera da guadagnare le conoscenze necessarie per rispondere alla domanda che aveva rivolto al Comitato.
    Il Comitato ha accompagnato il proprio parere con due note in cui chi ha votato in maniera contraria e chi si è astenuto ha argomentato le proprie posizioni, e da due dichiarazioni di voto. Nella seconda dichiarazione i 7 membri firmatari hanno enfatizzato l’importanza di acquisire conoscenze sull’utilizzo della triptorelina e di creare strumenti per poter seguire lo sviluppo dei suoi effetti e di quello che si scoprirà in futuro, per esempio attraverso l’istituzione di un registro nazionale centralizzato sul suo utilizzo. LEGGI TUTTO

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    Sappiamo molto poco di quello che abbiamo sotto ai piedi

    Tra i tanti primati della sonda Voyager 1, lanciata 47 anni fa dalla NASA, c’è quello di essere l’oggetto più distante mai costruito dall’umanità: ha ormai raggiunto i confini del Sistema solare, a circa 25 miliardi di chilometri dal centro della Terra. Se spostiamo lo sguardo dal cielo verso il suolo per occuparci di ciò che più si è avvicinato al centro del nostro pianeta, il primato è meno entusiasmante: appena 12 chilometri al di sotto della superficie, sui circa 5mila chilometri che ci separano dal nucleo interno planetario. In un certo senso, sappiamo più cose di corpi celesti lontanissimi che di cosa abbiamo sotto i piedi, sull’unico pianeta che ci ospita da sempre.Nella regione di Murmansk, nell’estremo nord-occidentale della Russia e non molto distante dal confine con la Norvegia, nelle vicinanze di un grande capannone abbandonato c’è l’estremità di un tubo (flangia) sigillata con una copertura tenuta da dodici dadi. Ricorda un tombino arrugginito come ce ne sono tanti, eppure è la via di accesso al buco più profondo mai scavato. Fu realizzato a partire dagli anni Settanta nell’ambito di un progetto sovietico per studiare il più a fondo possibile – letteralmente – la crosta terrestre.
    La chiusura del Pozzo superprofondo di Kola in Russia (via Wikimedia)
    L’iniziativa si rivelò molto più complessa del previsto, tanto che in circa trent’anni fu possibile raggiungere appena i 12,2 chilometri di profondità. Il progetto fu chiuso a metà degli anni Novanta e il sito del pozzo superprofondo di Kola è ormai abbandonato, con qualche turista che ogni tanto si spinge fino lassù per osservare tra la ruggine l’ingresso alle profondità del pianeta.
    Dalla chiusura del pozzo in Russia non ci sono stati molti altri tentativi per spingersi per lo meno nelle parti più profonde della crosta terrestre, lo strato più esterno su cui viviamo e che fa da base agli oceani e ai continenti. Il suo spessore varia tra 4 e 80 chilometri, ma perforarlo significa fare i conti con pressioni e temperature molto alte. In media, per ogni chilometro di profondità la temperatura aumenta di 25 °C e la pressione diventa sempre più insostenibile, non solo per gli esseri umani ma anche per le strumentazioni, come sperimentarono i sovietici con il loro super buco.
    La forte pressione è dovuta alla grande massa di materiale sovrastante, man mano che ci si spinge in profondità. È un po’ come per una pila di libri: il libro in fondo deve sopportare il peso di tutti gli altri volumi e subisce una maggiore pressione. A 400 metri di profondità la pressione è simile a quella della superficie del pianeta Venere, cioè circa 90 volte quella che troviamo sul livello del mare qui sulla Terra. A 100 chilometri di profondità si può raggiungere una pressione che supera ampiamente quella al livello del mare di 20-25 mila volte, cosa che equivale ad avere più o meno un peso di 25 tonnellate su ogni centimetro quadrato del proprio corpo. A pressioni e temperature così alte, anche i materiali più duri come le rocce si comportano in modo particolare, mettendo in crisi alcune delle nostre convinzioni più granitiche.
    E per superare alcune delle più condivise sull’interno della Terra fu necessario molto tempo. Per secoli si pensò che il nostro pianeta fosse semplicemente cavo e che nascondesse al proprio interno mondi mai visti, proibiti o inaccessibili. Gli antichi Greci pensavano che le caverne fossero i punti di ingresso al mondo sotterraneo, mentre altre civiltà identificavano nelle profondità l’Aldilà in cui vivevano gli dei o le anime dei morti a seconda dei casi. Nel XIV secolo Dante aveva collocato l’Inferno nelle cavità della Terra per la sua Divina Commedia.
    Rappresentazione dell’inferno dantesco secondo Michelangelo Caetani (via Wikimedia)
    Alla fine del XVII secolo l’astronomo e fisico inglese Edmond Halley ipotizzò che la Terra fosse fatta a strati con gusci concentrici intervallati da cavità nelle quali c’era l’atmosfera, che talvolta sfuggiva dall’interno portando al fenomeno delle aurore boreali (che in realtà sono causate dall’interazione del vento solare con il campo magnetico terrestre). L’ipotesi affascinò non solo chi si occupava di scienza, ma nei secoli seguenti anche autori di libri e romanzi di avventura. Lo scrittore francese Jules Verne scrisse il suo Viaggio al centro della Terra nel 1864, immaginando che un vulcano islandese potesse essere la porta verso le profondità terrestri, in cui vivevano fantasiose creature preistoriche.
    Circa un secolo prima, un esperimento condotto per misurare la densità media del pianeta aveva dimostrato che non poteva essere vuoto, ma fu necessario molto tempo prima che la teoria sulla Terra cava venisse completamente abbandonata. Un contributo importante in tal senso fu dato dalla sismologa danese Inge Lehmann negli anni Trenta, quando studiando i tracciati (sismogrammi) di alcuni terremoti che erano avvenuti in Nuova Zelanda notò che le onde sismiche erano state registrate in alcune zone della Russia, dove secondo le teorie dell’epoca non sarebbero dovute arrivare. Analizzando il loro comportamento, Lehmann fu la prima a intuire che la Terra doveva avere un nucleo interno solido, circondato da uno esterno liquido, rivoluzionando la comprensione della struttura interna del pianeta.
    Ancora oggi le cose che sappiamo sull’interno della Terra derivano per lo più dallo studio del modo in cui le onde sismiche si propagano da una parte all’altra del pianeta. Non potendo osservare direttamente l’interno, come fa un chirurgo quando opera a cielo aperto, i geologi hanno imparato a studiare le profondità terrestri come farebbe un medico attraverso un’ecografia.
    Per quanto differenti, sia le onde sismiche sia quelle ultrasoniche prodotte da un ecografo interagiscono con le diverse strutture del mezzo che attraversano. Nel caso di un terremoto, le onde P (primarie) attraversano sia i solidi sia i liquidi, mentre le onde S (secondarie) sono più lente e non si propagano attraverso i liquidi. Un terremoto mette in vibrazione l’intero pianeta e con strumenti (sismometri) molto sensibili può essere rilevato a migliaia di chilometri di distanza, spesso dall’altra parte della Terra.
    A differenza di altri tipi di onde sismiche, le onde P riescono ad attraversare il nucleo interno, e se analizzate possono offrire dettagli sulle sue caratteristiche (Zanichelli)
    Le varie modalità di propagazione delle onde sismiche fanno sì che un terremoto sia registrato in modo diverso in giro per il mondo. Confrontando la forma e le modalità di arrivo delle onde si può dedurre la densità degli strati che hanno attraversato e la presenza di punti in cui non passano le onde S, un’indicazione della presenza di strati allo stato liquido, come fece negli anni Trenta Lehmann.
    È grazie soprattutto ai terremoti, naturali o registrati durante i grandi test atomici della Guerra Fredda, che si sono via via affinate le conoscenze su cosa abbiamo sotto i piedi. Oggi sappiamo che la densità della crosta terrestre è la metà rispetto a quella media di tutto il pianeta, e che quindi l’interno della Terra deve essere sensibilmente più denso dell’involucro esterno.
    Sotto la crosta terrestre c’è il mantello che si estende fino a quasi 2.900 chilometri di profondità e ancora più sotto il nucleo fino al centro della Terra a quasi 6.400 chilometri dalla superficie.
    Ogni sezione è a sua volta suddivisa in altri strati separati da delle “discontinuità”, cioè le zone dove le proprietà fisiche del materiale terrestre cambiano bruscamente. Il loro studio è molto importante per comprendere i meccanismi che hanno reso la Terra ciò che vediamo oggi, con terremoti, vulcani e il lento e incessante spostarsi delle grandi aree (“placche”) che formano la crosta. Queste in un certo senso galleggiano sul mantello, che a contatto con la crosta ha una temperatura intorno ai 100 °C mentre in prossimità del nucleo raggiunge i 4mila °C.
    (Zanichelli)
    Il mantello è per lo più solido e formato da rocce ricche di magnesio e ferro, ma per via della forte pressione e del calore nei lunghissimi tempi geologici si comporta come un fluido molto viscoso. Il materiale più caldo sale dalle profondità, si raffredda vicino alla superficie e poi ridiscende, creando un circolo continuo che fa muovere le placche e contribuisce a plasmare la crosta.
    Tutto questo calore ha una lunga, lunghissima, storia alle spalle.
    Si stima che circa la metà dell’energia termica interna alla Terra sia infatti “primordiale”, cioè il residuo dei processi turbolenti con cui si formò il nostro pianeta 4,5 miliardi di anni fa. I continui impatti di frammenti di corpi celesti, che aggregandosi portarono la Terra a formarsi, furono estremamente energetici e generarono enormi quantità di calore, che scaldarono le parti più interne del pianeta. L’altra metà dell’energia termica deriva invece dal decadimento radioattivo degli isotopi presenti nel mantello e in parte nella crosta terrestre, con ulteriore aumento della temperatura.
    Il nucleo interno è una sfera con un diametro di circa 2.400 chilometri ed è la cosa più calda che ci sia sulla Terra. Si stima che raggiunga una temperatura di oltre 5.400 °C, paragonabile quindi a quella della superficie del Sole. Non disponiamo di campioni diretti di questo strato così profondo del pianeta, ma dallo studio delle caratteristiche delle onde sismiche che lo attraversano e del campo magnetico terrestre si ritiene che sia solido e che sia formato da una lega di ferro-nichel (è solido nonostante la temperatura per via dell’alta pressione a cui si trova, sotto strati e strati di altro materiale).
    Lo schema mostra la relazione tra il moto di un fluido conduttore e il campo magnetico generato dal moto (via Wikimedia)
    Questa sfera solida è racchiusa da un involucro di ferro liquido e altri metalli, cioè il nucleo esterno. L’interazione tra i due nuclei è ciò che probabilmente porta alla produzione del campo magnetico terrestre, che tra le altre cose ci protegge dalle emissioni solari più pericolose (“modello della geodinamo”). L’ipotesi è che il nucleo interno giri più velocemente del resto della Terra, forse alternando periodi in cui riduce la propria velocità, che aiuterebbero a spiegare le oscillazioni nel campo magnetico stesso.
    Si ipotizza inoltre che il nucleo interno stia crescendo per via della progressiva riduzione della temperatura al confine con il nucleo esterno. È comunque un processo che avviene con estrema lentezza, almeno secondo le valutazioni su cui c’è finora maggiore consenso e che hanno identificato una riduzione di circa 100 °C ogni miliardo di anni. La Terra ha quindi ancora moltissima autonomia.
    La maggiore disponibilità di stazioni sismiche in giro per il mondo e la maggiore sensibilità degli strumenti hanno permesso negli ultimi decenni di raccogliere molti più dati su come vibra il nostro pianeta, rivelando nuovi indizi sulla sua struttura interna che può anche aiutarci a capire come funzionano altri mondi, lontanissimi da noi. Quanto allo spingerci a grandissima profondità: probabilmente non potremo mai farlo. Non ci riuscirono del resto nemmeno i protagonisti del fantasioso mondo cavo di Viaggio al centro della Terra: riemersero sull’isola di Stromboli, ancora prigionieri della crosta terrestre. Appena un anno dopo, comunque, Verne liberò idealmente l’umanità da quel vincolo, proiettandola con un nuovo romanzo di avventure Dalla Terra alla Luna. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Due delle foto di animali che valeva la pena fotografare questa settimana vengono da uno zoo a Brugelette, in Belgio: una mostra un sitatunga, che è un tipo di antilope, mentre mangia una delle carote che addobbano un pacco natalizio; l’altra uno dei tre panda che nei giorni scorsi sono partiti per tornare in Cina, come previsto da un accordo di cooperazione tra i due paesi per la conservazione della specie. Poi ci sono un po’ di foto che sembrano ritratti: di un cervo della Virginia, di un cucciolo di puma e di un piccione a una fiera di allevatori. LEGGI TUTTO

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    Una delle più grandi morie di uccelli della storia moderna

    Caricamento playerTra il 2015 e il 2016 lungo la costa nordamericana dell’oceano Pacifico furono trovati i corpi di oltre 60mila uccelli marini, morti durante una delle più gravi ondate di calore marine mai registrate nella zona. Erano individui di uria comune (Uria aalge), uccelli grandi più o meno quanto un pollo, ma decisamente più agili e abituati a vivere per mesi sul mare aperto, prima di tornare verso la costa per riprodursi. Sulla base di quei ritrovamenti, alcuni gruppi di ricerca stimarono che fossero morti in tutto almeno mezzo milione di uccelli, ma a quanto pare avevano a dir poco sottostimato il problema.
    Un nuovo studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Science ha infatti calcolato che in quell’ondata di calore marina, chiamata “The Blob”, morirono almeno quattro milioni di urie comuni, circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli censita in Alaska prima che si verificasse il marcato aumento della temperatura in quella zona del Pacifico. Se confermata, si tratterebbe della più grande moria di uccelli appartenenti alla stessa specie nella storia moderna.
    “The Blob”, la grande massa d’acqua insolitamente più calda, fu rilevata per la prima volta intorno al 2013 e continuò a diffondersi nei due anni seguenti, stabilizzandosi poi per diverso tempo lungo la costa occidentale del Nordamerica. Portò a un aumento di 2 °C della temperatura media dell’acqua marina, rispetto ai dati storici, mettendo sotto forte stress numerosi ecosistemi marini. Le popolazioni di alcune specie di pesci si dimezzarono, migliaia di megattere scomparvero da quella zona del Pacifico e ci furono forti conseguenze anche per la pesca, soprattutto a causa della minore disponibilità di merluzzo. Mancando i pesci, ci furono conseguenze anche per diverse specie di uccelli marini che se ne nutrono.
    Anomalie nella temperatura marina nel Pacifico settentrionale durante “The Blob” (NOAA)
    L’uria comune ha bisogno di grandi quantità di energia per sostenersi, riprodursi e provvedere alla prole. Sbattendo forsennatamente le piccole ali per mantenersi in volo, questi uccelli riescono a raggiungere una velocità massima di 80 chilometri orari, importante per rincorrere le prede che avvistano sotto la superficie marina. Quando si tuffano per pescare, possono spingersi fino a 200 metri di profondità, andando alla ricerca di pesci più piccoli e facili da ingerire. La grande attività fisica comporta un notevole dispendio di energia e per questo devono assumere ogni giorno cibo equivalente a circa la metà del loro peso. Il consumo di energia è più marcato nei lunghi mesi trascorsi lontano dalle coste.
    Con l’arrivo di “The Blob” i ricercatori marini intuirono che potessero esserci serie conseguenze per varie specie. E fu proprio l’avvistamento di decine di migliaia di urie comuni morte lungo la costa dell’Alaska a dare le prime conferme sugli effetti del riscaldamento anomalo dell’acqua. Per gli oltre 60mila individui morti censiti lungo le coste, c’erano probabilmente altre centinaia di migliaia di uccelli morti in mare, ma calcolare quanti non era semplice.
    Per lo studio da poco pubblicato su Science, sono stati utilizzati i censimenti effettuati negli anni su alcune delle principali colonie di urie comuni nel golfo dell’Alaska e nel mare di Bering, dove gli uccelli si raccolgono per riprodursi. L’analisi ha tenuto in considerazione molti anni, per evitare di sovrastimare la scomparsa degli uccelli, magari semplicemente denutriti e quindi non in grado di compiere il lungo viaggio stagionale verso le isole. Confrontando la quantità di urie negli anni è emerso che molte colonie si sono più che dimezzate durante “The Blob”. I dati sono stati poi utilizzati per stimare la moria nel suo complesso, arrivando a 4 milioni, cioè circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli che frequentava di solito le coste dell’Alaska.
    La colonia di urie comuni nell’isola sud delle Isole Semidi: nel 2014 prima dell’ondata di calore nel Pacifico settentrionale (sopra) e nel 2021 dopo l’ondata di calore (sotto) (U.S. Fish and Wildlife Service)
    Al momento non è chiaro se la popolazione di urie comuni tornerà a crescere anche in seguito alla fine del periodo di riscaldamento delle acque marine. Merluzzi e altre specie di pesci hanno iniziato ad aumentare in quantità, quindi il cibo è meno scarso per le urie, ma non ci sono segni di una marcata ripresa della loro popolazione. L’ipotesi è che le colonie più piccole fatichino a proteggere uova e nuovi nati lungo le coste, perché non sono in numero sufficiente per contrastare i predatori. C’è quindi l’eventualità che un intero ecosistema sia cambiato per sempre e che possa subire ulteriori conseguenze nel caso in cui si presentino nuove ondate di calore.
    Negli ultimi dieci anni il Pacifico settentrionale si è scaldato più velocemente rispetto agli altri bacini oceanici, con due ondate di calore in appena cinque anni che hanno avuto effetti su molti animali. L’aumento dei gas serra nell’atmosfera, derivanti soprattutto dalle attività umane, è ritenuto la principale causa del riscaldamento globale che si riflette fortemente sugli oceani, che assorbono buona parte del calore. LEGGI TUTTO

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    Dormirci sopra funziona

    Caricamento playerIn molti film arriva un momento della storia in cui un personaggio impegnato a risolvere un problema complicatissimo, dopo essersi addormentato per lo sfinimento, si sveglia con la soluzione in testa. È una scena che riflette un luogo comune che esiste da secoli, sintetizzato da proverbi diffusissimi come «la notte porta consiglio» ma anche, in alcune persone, dall’esperienza diretta di avere intuizioni nella fase di dormiveglia. La storia delle invenzioni è costellata di racconti più o meno documentati di scoperte e creazioni – dalla macchina da cucire a Yesterday dei Beatles e molte altre – rese possibili da spunti arrivati in sogno.
    Si racconta che Thomas Edison, probabilmente il più famoso inventore e titolare di invenzioni contese della storia, dormisse poco ma avesse l’abitudine dei pisolini diurni. In quei casi si addormentava stringendo una pallina di metallo in mano, in modo da essere svegliato dal rumore della pallina che sarebbe caduta sul pavimento non appena lui avesse perso la presa. Quel breve pisolino era un modo per stimolare la creatività, a suo dire, e non era l’unico a pensarlo: anche il pittore surrealista Salvador Dalí usava una tecnica simile, reggendo una pesante chiave di metallo anziché una pallina.
    Diversi studi condotti negli ultimi anni nel campo delle scienze del sonno, tra cui la neurologia e la psicologia, hanno confermato alcune intuizioni di Edison, Dalí e molti altri. Nel 2021 un gruppo di ricerca dell’Università della Sorbona e del Paris Brain Institute reclutò 103 persone per condurre un esperimento e verificare l’ipotesi che interrompere il sonno nel momento in cui sopraggiunge favorisca l’ingegno. I risultati furono pubblicati in uno studio sulla rivista Science Advances.

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    Il gruppo chiese a ciascun partecipante di svolgere diversi esercizi di matematica: nessuno sapeva che c’era un modo per completarli quasi al volo, seguendo una regola nascosta. A ogni persona che dopo trenta esercizi non riuscì a scoprire la regola nascosta fu chiesto di provare a fare un pisolino su una poltrona in un’altra stanza, buia, chiudendo gli occhi per una ventina di minuti. Doveva anche reggere una bottiglia di plastica in una mano, mentre le ricercatrici e i ricercatori registravano l’attività cerebrale tramite elettroencefalografia. A chi si assopì e lasciò cadere la bottiglia fu chiesto di riferire ad alta voce cosa stesse visualizzando in quel momento.
    Quasi tutte le persone che si erano appisolate descrissero qualcosa: una disse di aver immaginato un cavallo in una stanza d’ospedale, un’altra una serie di forme geometriche, un’altra ancora il Colosseo. Dopodiché tutti i partecipanti, anche chi non si era addormentato, tornarono nella prima stanza a riprendere gli esercizi. L’83 per cento delle persone che si erano appisolate poco prima, indipendentemente dal contenuto del sogno, scoprì la regola nascosta, e solo il 30 per cento di quelle rimaste sveglie ci riuscì.
    Confrontando le elettroencefalografie il gruppo di ricerca scoprì che il pisolino aveva avuto un effetto positivo in tutti i casi, anche tra le persone che avevano trascorso appena 15 secondi nella prima fase del sonno per poi essere svegliate dal suono della bottiglia caduta. Il pisolino non ebbe invece lo stesso effetto benefico sull’ingegno tra le persone che avevano dormito a lungo, ben oltre la prima fase del sonno, che è detta N1 o ipnagogia (lo stato di coscienza tipico della transizione dalla veglia al sonno, quello detto anche “dormiveglia”).
    Thomas Edison riposa sotto un albero mentre l’imprenditore Harvey Samuel Firestone e il presidente degli Stati Uniti Warren Harding leggono il giornale, nel 1921 (AP Photo)
    Nel 2023 un altro gruppo, composto da ricercatori e ricercatrici del MIT e della Harvard Medical School, verificò l’ipotesi che non solo il pisolino ma anche il suggerimento di un particolare contenuto visivo durante il pisolino potesse influenzare la creatività nella narrazione di quel contenuto. Per condurre l’esperimento sviluppò e utilizzò un dispositivo chiamato Dormio, composto da un guanto che misura tre parametri fisiologici associati al sonno (variazioni nel tono muscolare, nella frequenza cardiaca e nell’attività elettrodermica) e li trasmette a un’app su smartphone o computer.
    Quando il dispositivo rileva che la persona che lo indossa entra nella fase ipnagogica la app riproduce un audio che suggerisce un argomento specifico. Nel caso delle 49 persone reclutate per lo studio del 2023, a una parte delle quali fu chiesto di fare un pisolino nell’arco di 45 minuti, il dispositivo riprodusse la parola «albero». Alle persone che si erano addormentate fu chiesto di riferire il contenuto dei sogni fatti. E a tutte quelle coinvolte nell’esperimento fu chiesto infine di scrivere una storiella che includesse la parola «albero».
    Dai risultati dello studio, pubblicato su Scientific Reports, emerse che le persone che avevano ascoltato il messaggio audio durante la fase ipnagogica erano più creative rispetto alle altre persone. Secondo una scala che misura la ricchezza semantica dei racconti, ottennero risultati migliori del 43 per cento rispetto alle persone che avevano fatto un pisolino ma senza ricevere il suggerimento, e del 78 per cento rispetto a quelle rimaste sveglie. Inoltre, nel gruppo di persone a cui era stato suggerito di sognare alberi, le più creative furono proprio quelle che avevano effettivamente sognato alberi.

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    Altri studi ancora più recenti hanno rafforzato in generale la convinzione abbastanza comune che il sonno in sé, e non solo la fase ipnagogica, abbia un effetto positivo sulla capacità di riflettere più lucidamente, indipendentemente dall’eventuale pertinenza del sogno rispetto alle decisioni da prendere. Nel 2024 un gruppo di ricerca della Duke University a Durham, nel North Carolina, ha pubblicato i risultati di diversi studi condotti su un campione di 569 persone in un articolo su una rivista di psicologia sperimentale della American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti.
    Il gruppo chiese a ogni persona di partecipare a un gioco in cui bisognava rovistare all’interno di diversi scatoloni pieni di cianfrusaglie di poco valore alla ricerca di qualcosa di più prezioso. Alla fine chiese a ognuna di loro di scegliere una scatola e ricevere una ricompensa in denaro pari al valore degli oggetti in quella scatola. Tutte le scatole avevano lo stesso valore, ma gli oggetti di maggior valore erano distribuiti in modo diverso da una scatola a un’altra: uniformemente in alcune, raggruppati in cima, in mezzo o nel fondo in altre.
    I risultati degli studi mostrano che quando le persone devono decidere subito quale scatola scegliere, tendono a giudicarle non in base al contenuto nel complesso ma in base ai primi oggetti che hanno pescato. Sono cioè eccessivamente influenzate dalle prime informazioni ricevute, e non tengono conto di quelle successive, e di conseguenza gli scatoloni con le cose preziose in cima sono sopravvalutati. Le persone fanno invece scelte più razionali e meno influenzate dall’ordine con cui hanno pescato gli oggetti dalle scatole quando hanno la possibilità di dormirci sopra e prendere una decisione il giorno successivo.

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