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    Il Gruppo fa da apripista anche per la transizione green della Val d’Aosta

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    Prosegue la collaborazione dei due principali attori industriali della Valle d’Aosta per la transizione energetica sostenibile: il gruppo Cva e Cogne Acciai Speciali hanno sottoscritto un contratto di Energy Release, il primo della Regione. Secondo il meccanismo Energy Release, misura introdotta dal ministero dell’Ambiente e Sicurezza Energetica, l’accordo prevede che Cogne Acciai Speciali chieda al Gse il Gestore dei Servizi Energetici l’anticipazione di 272.075 megawattora di energia elettrica, che verrà poi restituita nel corso dei 20 anni grazie all’installazione di nuovi impianti rinnovabili, in capo a Cva. Quest’ultima si occuperà infatti della realizzazione di quattro nuovi impianti fotovoltaici in Sicilia, per una potenza complessiva di oltre 20 megawatt e una produzione di energia elettrica rinnovabile complessiva di 593.600 megawatt, con entrata in funzione prevista entro il 2026.Per la prima volta in Valle d’Aosta e tra i primi esempi a livello nazionale, la partnership tra Cas e Cva per l’attivazione dell’Energy Release consente alle due aziende di rafforzare il proprio ruolo di primo piano nella transizione energetica, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi del piano energetico ambientale regionale al 2030 e del Green Deal europeo.Cogne Acciai Speciali avrà così l’opportunità di migliorare le proprie performance energetiche, riducendo l’impatto ambientale della propria produzione, in linea con quanto previsto dal protocollo d’intesa siglato a dicembre 2024 con Cva. Quest’ultima potrà trarre beneficio dall’accordo, grazie alla stabilizzazione del prezzo di vendita dell’energia prodotta dai nuovi impianti. L’adesione al meccanismo Energy Release, inoltre, avrà ricadute economiche positive per il gruppo Cva, grazie a un flusso di ricavi stabile e agli incentivi concessi dal Gse, accelerando il raggiungimento degli obiettivi del piano Strategico al 2026-2029. La sinergia e la condivisione di obiettivi con CAS sarà un volano per la competitività del settore siderurgico della Valle D’Aosta oltre a contribuire alla conversione green del settore produttivo regionale, ha commentato l’amministratore delegato di Cva, Giuseppe Argirò.Nel frattempo, Cogne Acciai Speciali ha anche intrapreso – per il sito di Aosta – il percorso verso la certificazione ResponsibleSteel, lo standard che promuove la sostenibilità in tutta la filiera produttiva dell’acciaio. LEGGI TUTTO

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    Uniqlo compra casa nel centro di Milano

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    Hines ha concluso un accordo per vendere lo storico palazzo di Piazza Cordusio, a Milano, che ospita il negozio di Uniqlo. Secondo quanto riporta il sito Green Street News, ad acquistarlo è l’uomo più ricco del Giappone, Tadashi Yanai, fondatore e presidente di Fast Retailing, proprietaria del marchio di abbigliamento. Yanai, il cui patrimonio netto di oltre 50 miliardi di dollari lo colloca al ventottesimo posto tra le persone più ricche al mondo, negli ultimi anni è diventato un investitore immobiliare. Lo scorso aprile ha acquistato un edificio occupato da Uniqlo ad Amsterdam per 100 milioni di euro. Due mesi prima era emerso come acquirente del 19-25 Long Acre a Londra, un altro palazzo occupato da Uniqlo, per circa 115 milioni di sterline. Il valore dell’operazione milanese supera i 300 milioni di euro con un rendimento del 3,5% per Hines.L’edificio di 15.700 metri quadrati, costruito nel 1892, era stato comprato da Hines da Sorgente nel 2016 (per 130 milioni), quasi completamente vuoto, come quarto acquisto per la Bayerische Versorgungskammer (Bvk), il più grande ente pensionistico tedesco. Dopo l’acquisizione di Cordusio 2.0, Hines ha intrapreso una ristrutturazione che ha creato unità commerciali di punta su tre piani.Quelli superiori sono stati convertiti in uffici di pregio e la ristrutturazione è stata completata nel 2018. Poco dopo, Uniqlo ha firmato per occupare i tre piani vendita come suo primo negozio italiano, che ha poi aperto nel 2019. LEGGI TUTTO

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    Bpm trascina la Consob in tribunale

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    La decisione della Consob di sospendere per 30 giorni l’Offerta pubblica di scambio di Unicredit su Banco Bpm ha mandato Piazza Meda su tutte le furie. Ieri mattina, il gruppo guidato da Giuseppe Castagna ha divulgato una nota per definire il dispositivo «abnorme e in contrasto con la prassi dell’Autorità medesima» e «non tiene in alcun conto degli interessi dell’istituto, del mercato e degli azionisti» del Banco. «Conseguentemente, la banca adotterà ogni opportuna iniziativa presso le sedi competenti». Insomma, si profila un possibile ricorso al Tar, dal momento che una simile decisione «deve essere disposta solo in caso di fatti nuovi o non resi noti in precedenza tali da non consentire ai destinatari di pervenire ad un fondato giudizio sull’offerta mentre l’eventualità che il Decreto Golden Power potesse contenere delle prescrizioni era contemplata dall’offerente sin dall’annuncio dell’Ops, tant’è che costituiva una delle condizioni di efficacia della stessa». Inoltre, sempre secondo Bpm, non possono «costituire un fatto nuovo – tale da legittimare una sospensione dell’Ops – le iniziative, peraltro mai comunicate finora al mercato, che unilateralmente Unicredit ha ritenuto di avviare nei confronti della Presidenza del Consiglio». Inoltre, Unicredit avrebbe comunicato «all’amministrazione competente per il monitoraggio l’impossibilità di adempiere alle prescrizioni del Decreto Golden Power» e «tale circostanza – anch’essa mai resa nota da Unicredit al mercato – dovrebbe di per sé determinare la decadenza dell’Ops».Sta di fatto che il numero uno di Piazza Gae Aulenti, Andrea Orcel, si porta a casa un mese di sospensiva, ottenendo il risultato di allungare i tempi. Un aspetto quest’ultimo stigmatizzato da Bpm, che già era stata sottoposta a un periodo di adesione dell’offerta particolarmente lungo dal 28 aprile al 23 giugno. Da novembre, e per tutto questo tempo, l’istituto sotto offerta rimane soggetto alla passivity rule, un regime che di fatto ne limita il raggio d’azione a determinati paletti normativi. LEGGI TUTTO

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    Generali dribbla Natixis. I Danni trascinano l’utile

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    «Non ci sono aggiornamenti specifici riguardo a quanto già comunicato in precedenza». È stato lapidario il direttore finanziario del gruppo Generali, Cristiano Borean, in conference call sulla presentazione dei conti trimestrali rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse qualche passo indietro o rallentamento della compagnia nei negoziati con Natixis per la creazione di una joint venture nel settore dell’asset management.Nessun commento, dunque, né all’operazione con i francesi sulla quale stanno crescendo le perplessità di diversi soci di rilievo, né sull’Ops Mediobanca-Banca Generali. Solo un approfondimento dei risultati al 31 marzo che sono stati chiusi con 26,5 miliardi di euro di premi lordi di gruppo (+0,2%) trainati soprattutto dal segmento Danni (+8,6% a 10,4 miliardi), in particolare della parte non-auto (+8,9%). I premi lordi del Vita diminuiscono del 4,5% a 16,2 miliardi e la nuova produzione a 17,3 miliardi (-9,3%) ma la raccolta netta Vita sale a 3 miliardi (+30,4%). Il risultato operativo cresce a 2,067 miliardi (+8,9%), anch’esso guidato dalla performance del Danni per oltre 1 miliardo. Il risultato netto di gruppo si attesta a 1,195 miliardi in calo del 4,8% sull’anno scorso ma il confronto sottolinea una nota – «riflette il forte risultato non operativo degli investimenti registrato nel I trimestre 2024, che includeva anche un utile non ricorrente, di 58 milioni al netto delle imposte, derivante dalla cessione di Tua Assicurazioni». L’utile netto normalizzato è invece in aumento a 1,2 miliardi (+7,6%) e il combined ratio migliora all’89,7% (91% al 31 marzo 2024). L’esposizione sui titoli di Stato è di poco superiore ai 37 miliardi ed è stata definita da Borean «ancillare alla gestione del business assicurativo, principalmente quello Vita. Il risultato operativo dell’asset & wealth managementc cresce più lentamente a 272 milioni grazie al consolidamento di Conning e soprattutto ai 146 milioni di utile da Banca Generali. Infine, gli asset under Management complessivi del gruppo si attestano a 858,3 miliardi (863 miliardi nel 2024). In Piazza Affari il titolo della compagnia triestina ha chiuso la seduta sulla parità con un +0,12% a 33,34 euro. LEGGI TUTTO

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    I cinesi di Byd mettono la freccia su Tesla. E per la prima volta vendono più auto

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    Per il colosso cinese Byd il sorpasso su Tesla del mese scorso (prima volta) è coinciso con il lancio internazionale, al Foro Italico di Roma, della compatta elettrica Dolphin Surf, primo di una serie di modelli a essere prodotto nell’impianto ungherese in fase di ultimazione. Una vettura a batteria a meno di 19mila euro con oltre 500 chilometri di autonomia urbana. È stata la vicepresidente esecutiva di Byd, Stella Li, con lo special advisor per l’Europa, Alfredo Altavilla (in foto), a snocciolare i dati di crescita record della società, da soli 3 anni sul mercato europeo, insieme agli obiettivi sempre più ambiziosi. Sebbene i volumi di auto elettriche siano ancora molto inferiori ai big occidentali, il sorpasso di Byd su Tesla, leader da anni in Europa, è definito da Jato Dynamics «emblematico»: 7.165 i modelli americani immatricolati ad aprile (-49% annuale) e 7.231 (+169%) quelli del costruttore di Shenzhen. Considerando, però, anche i modelli ibridi plug-in, che Tesla non produce, la crescita di Byd è pari al 359%. «La rapida espansione di Byd – sintetizza Jato Dynamics – l’ha già portata a superare i marchi europei affermati, superando Fiat, Dacia e Seat nel Regno Unito; Fiat e Seat in Francia; Seat in Italia; e Fiat in Spagna. E questa crescita si verifica ancor prima dell’inizio della produzione nel suo nuovo sito in Ungheria». Allargando il quadro, più marchi cinesi stanno trainando la crescita del mercato delle elettrificate nel Vecchio continente. Ad aprile, i veicoli a batteria e gli ibridi plug-in rappresentavano insieme il 26% delle immatricolazioni di nuove auto in Europa: anche questo un nuovo record. Dazi o non dazi l’avanzata cinese continua.In più, Byd esporterà nella fabbrica ungherese di Szeged (Budapest ospiterà il quartier generale europeo) il modo per abbattere i costi di produzione. «Il processo di produzione della nostra Dolphin Surf dalla tecnologia avanzata – spiega Altavilla – è particolarmente innovativo: permette, infatti, di realizzare economie di scala e di ridurre significativamente i tempi di manodopera. Tutto ciò che si dice sugli elevati costi di produzione delle auto elettriche sarà vero per gli altri, ma sicuramente non per Byd». LEGGI TUTTO

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    “Acciaio barometro di sviluppo. Centrale il costo delle bollette”

    Per Massimiliano Burelli, amministratore delegato di Cogne Acciai Speciali, «l’acciaio, declinato in tutte le sue infinite applicazioni, non è solo un materiale strategico ma è il barometro dell’avanzamento economico e tecnologico di un Paese». Del resto, la capacità produttiva di acciaio garantisce una posizione di forza sullo scacchiere globale e in periodi di tensione geopolitica l’indipendenza produttiva ne esalta l’importanza strategica.Dagli impianti del gruppo siderurgico valdostano escono prodotti usati nell’aerospazio, nella difesa e nel nucleare, settori in cui la domanda nei prossimi anni è destinata a superare l’offerta. A differenza dell’Ilva, l’azienda si occupa di acciaio prodotto da forno elettrico, non da altoforno come lo stabilimento di Taranto. «Sono due metodi produttivi completamente diversi, la catena di approvvigionamento di materia prima è diversa, il tipo di cliente è diverso».Il settore dell’acciaio è così variegato?«L’acciaio è come il tessuto. Quando parliamo di tessuti, possiamo riferirci alla viscosa, ovvero il nylon, sia alla vicuña, che è il cashmere più pregiato. Nel mondo dell’acciaio, il laminato mercantile, piuttosto che il tondino da cemento armato o l’acciaio inossidabile, sono sempre acciaio però hanno un livello di complessità produttiva e di costo della materia prima, del processo nonché del prodotto finito, che sono assolutamente incomparabili».Esiste una ricetta strategica valida per tutti?«Vanno trovate le giuste condizioni dando per scontato che la deglobalizzazione è galoppante e che sempre di più avremo economie regionali protette. L’Europa deve poi prendere consapevolezza che il rottame è una risorsa strategica. Invece, solo l’anno scorso hanno lasciato l’Europa, parlo di tutti i tipi di acciaio, oltre 18 milioni di tonnellate, Sono uscite dall’Unione Europea per andare altrove. Il 54% è finito in Turchia che poi è tornata da noi a farci concorrenza».A proposito di concorrenza straniera, i cinesi fanno paura?«I cinesi hanno una buona preponderanza di produzione da alto forno, quindi come l’Ilva però anche loro stanno riconvertendo gli impianti al forno elettrico. Resta il fatto che nel 2024, nel mondo, sono stati prodotti circa 1,8 miliardi di tonnellate di acciaio di tutti i tipi, acciaio inossidabile, acciaio da costruzione, acciai speciali. E di questi, un miliardo di tonnellate sono state fatte in Cina».Ma come si rende competitiva l’industria italiana dell’acciaio?«Uno dei temi centrali è quello dell’energia, per questo abbiamo firmato con Cva il primo accordo di Energy Release della regione. Noi miglioreremo l’efficienza energetica delle attività produttive, mentre Cva investirà in quattro nuovi impianti solari in Sicilia, con oltre 20 megawatt di capacità e 593.000 megawatt di energia rinnovabile entro il 2026. Si tratta di un vantaggio competitivo che ci permette di migliorare la nostra posizione a livello di costo dell’energia per un terzo del nostro fabbisogno. Un esempio di collaborazione, concreta e tangibile, tra realtà industriali locali che può essere replicato».Torniamo ai dazi. Rispetto agli annunci del Liberation Day del 2 aprile la Casa Bianca sembra aver mostrato segnali di distensione, anche per tamponare l’effetto boomerang sull’economia Usa della guerra commerciale. È più ottimista?«Io vedo quello che è successo in Uk dove sono riusciti, nel mondo dei metalli, a portare a zero il dazio temporaneo che era stato messo. Se si vanno a vedere i dettagli dell’accordo, non c’è niente di trascendentale, quindi sono fiducioso che i dazi reciproci tra Europa e Stati Uniti vengano discussi in maniera chiara e concreta come Europa. È importante farlo come Europa, non come singoli Stati. Gli Usa hanno una produzione di 80 milioni di tonnellate, sul totale di 1,8 miliardi di cui parlavamo prima. Quindi hanno sicuramente necessità di importare. Va fatto con una logica regolamentata e che sia, per quanto possibile, di buon senso. Ragionare con un’ottica dogmatica non aiuta, bisogna ragionare in modo pragmatico. Fermo restando che quello che è successo dal Liberation Day a oggi ha minato il mercato perché tutti sono in attesa di capire che cosa succederà».L’incertezza sta ancora complicando la catena di approvvigionamento? LEGGI TUTTO

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    L’urlo silenzioso del ceto medio che si sente tradito. Così si gioca il futuro del Paese

    C’è un’Italia che non si lamenta. Non grida, non urla, non incendia le piazze, non si arrampica sui balconi con slogan apocalittici. È un’Italia silenziosa, che si alza presto, accompagna i figli a scuola, paga le tasse, fa la spesa, firma bonifici per le attività extrascolastiche, compila moduli per l’Erasmus, corregge i compiti di matematica la sera. È il ceto medio, quello vero. Non la caricatura da talk show, non la bandiera sventolata a ogni campagna elettorale. È l’Italia che tiene in piedi l’Italia. E oggi ha paura.La paura del ceto medio non è teatrale. Non ha l’odore della tragedia, ma quello più inquietante dell’erosione lenta. È la paura di non farcela più. Di vedere evaporare il risparmio, la sicurezza, il futuro. Di scivolare giù, piano ma inesorabilmente. Non è un tracollo, è un logoramento.Secondo il rapporto Censis-Cida, più dei due terzi degli italiani si sentono di ceto medio. Ma dietro questo orgoglio identitario si nasconde un disagio profondo: l’82% degli occupati ritiene che il proprio stipendio non rifletta il valore delle proprie competenze. Il 74% pensa che, per cultura e preparazione, meriterebbe molto di più. Il ceto medio è colto, responsabile, competente. Ma si sente tradito.È come se il contratto sociale fosse stato stracciato. Tu studi, lavori, risparmi, cresci i figli, ti comporti bene… e in cambio ricevi stabilità, mobilità sociale, una prospettiva. Questo era il patto. Oggi non vale più. Oggi studi e guadagni meno. Investi in formazione e tuo figlio parte per Berlino o Toronto. Costruisci competenze e ti trovi con tasse che ti stritolano e servizi pubblici inadeguati. Il 51% delle famiglie di ceto medio si sente ancora “coperto”, ma il dato è in calo. Cresce invece chi si dichiara in ansia o insicuro. La sicurezza, in fondo, è la vera moneta della democrazia.La democrazia ha bisogno del ceto medio perché è la sua spina dorsale. È lì che si formano le opinioni temperate, le scelte ponderate, la fiducia nelle istituzioni. Quando il ceto medio si sgretola, la democrazia si polarizza. Quando le persone smettono di credere nella possibilità di migliorare la propria vita con il merito, iniziano a cercare scorciatoie. E così cresce il populismo, si inacidisce il discorso pubblico, si rompono i ponti tra classi, territori, generazioni.Il ceto medio è anche la sede della competenza. In un mondo complesso, fatto di crisi climatiche, intelligenze artificiali e geopolitiche fluide, non è secondario restituire autorevolezza a chi sa, a chi ha esperienza, a chi dirige con responsabilità. Eppure oggi lo Stato tassa con accanimento proprio quei redditi che nascono dal lavoro e dall’intelligenza, scoraggiando chi potrebbe essere un faro nel buio. Il 47% degli italiani di ceto medio pensa che non convenga lavorare di più per guadagnare di più. Perché dopo una certa soglia ti portano via tutto, e nessuno ti ringrazia.È un messaggio devastante. Dice: non serve impegnarsi. Non vale la pena fare sacrifici. Non conviene restare qui. E infatti il nuovo sogno delle famiglie italiane è veder partire i figli. Il 51% vorrebbe che trovassero lavoro all’estero. Il 35% sogna per loro una vita in un altro Paese. È una sconfitta nazionale. È il sintomo più chiaro di un Paese che non crede in se stesso.E allora, come si salva il ceto medio? La risposta è semplice, ma non facile: si salva con rispetto. Serve un fisco che premi il merito, non lo punisca. Serve un welfare che non sia solo un guscio svuotato, ma una rete reale, concreta, integrata. Serve valorizzare le competenze, anche quelle dei pensionati, che potrebbero trasmettere sapere invece di essere considerati un peso fiscale. Serve restituire fiducia. Perché il ceto medio non chiede miracoli. Chiede coerenza.Ma soprattutto, serve una narrazione diversa. Il ceto medio non è un problema da risolvere. È una risorsa da proteggere. È il luogo dove si coltivano i valori civici, dove si insegna il rispetto della legge, dove si trasmette la cultura del lavoro e della responsabilità. È la scuola invisibile della democrazia. LEGGI TUTTO