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    L’Ue riapre il dossier automotive: cosa può succedere

    Rientrata in attività a tempo pieno, dopo la polmonite che l’aveva costretta al ricovero in ospedale, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha estratto dal cassetto il dossier automotive, mantenendo così la promessa di occuparsene personalmente. Bruxelles, a questo punto, avvierà un dialogo strategico con l’industria automobilistica europea, le parti sociali e gli altri addetti ai lavori il prossimo 30 gennaio. Il nodo da sciogliere con la massima urgenza (senza dimenticare che a stringerlo è stata la precedente Commissione guidata dalla stessa von der Leyen che ora sembra optare per una sorta di dietrofront) va in direzione di salvaguardare il futuro di un settore “vitale per la prosperità del Vecchio continente, promuovendo allo stesso tempo i suoi obiettivi climatici e gli obiettivi sociali più ampi, essendo riconosciuta l’urgenza di agire per proteggere l’industria automobilistica europea e darle un futuro all’interno dell’Ue”, recita una nota.All’interno della Commissione, il commissario per i Trasporti sostenibili e il Turismo, Apostolos Tzitzikostas, greco, è stato incaricato di elaborare un piano d’azione per il settore, che trarrà vantaggio dalle discussioni in fase di avvio. Tzitzikostas, appartenente al Partito popolare europeo, secondo fonti vicine alla Commissione, farebbe parte del gruppo di politici consapevoli della necessità di revisionare le norme capestro che stanno affossando il sistema automotive Ue, a partire dalle pesanti sanzioni per chi sfora i nuovi limiti sulle emissioni entrate in vigore a inizio anno. Lo stesso commissario Ue, inoltre, risponde direttamente al vicepresidente esecutivo italiano Raffaele Fitto, ma allo stesso tempo è chiamato a confrontarsi con la “eco-talebana” delegata al Clima, la spagnola Teresa Ribera. Consiglio e Parlamento Ue saranno strettamente coinvolti durante tutto il processo.I punti chiave della discussione includeranno innovazione, transizione pulita e decarbonizzazione, competitività e resilienza, relazioni commerciali e parità di condizioni internazionali, nonché semplificazione normativa e ottimizzazione dei processi. L’impegno di Bruxelles è quello di “collaborare con tutte le parti interessate allo scopo di garantire la competitività, la sostenibilità e la resilienza a lungo termine dell’industria automobilistica europea”. Il 26 febbraio, pochi giorni dopo il risultato elettorale in Germania, fondamentale anche per l’esito finale dell’iniziativa avviata dalla presidente von der Leyen, è in agenda il “Clean Industrial Deal”, piano che prevede misure specifiche atte a sostenere settori chiavi dell’industria, e per quella data dovrebbero conoscersi i primi orientamenti dei confronti avviati.Per domani, intanto, la delegazione di Fratelli d’Italia guidata da Carlo Fidanza e il Gruppo ECR al Parlamento Ue, hanno organizzato a Strasburgo l’evento “Restart the Engine – The way forward to overcome the automotive sector’s crisis” durante il quale presenteranno i risultati di un sondaggio esclusivo condotto per ECR da Polling Europe, nonché i punti principali della risoluzione sull’automotive che ECR sta predisponendo. All’iniziativa interverrà il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con un aggiornamento sul “Non-paper” presentato dall’Italia e dalla Repubblica Ceca in Consiglio europeo.Febbraio, dunque, si preannuncia un mese caldissimo sul fronte automotive e non mancheranno gli scontri con chi, all’interno dell’Esecutivo di Bruxelles, vuole lasciare le varie scadenze immutate. Da registrare, infine, l’intervento dall’Italia di Alessandro Spada, presidente di Assolombarda, il quale ribadisce, riferendosi alla Commissione Ue, “la necessità, con onestà intellettuale, di ammettere l’errore e aggiustare in fretta il tiro: eliminare, quindi, le multe ai produttori europei per gli obiettivi non raggiunti nell’elettrico dal 2025 ed eliminare lo stop al motore endotermico al 2035”. “La precedente Commissione – rimarca Spada – ha fatto dei danni gravissimi al sistema della competitività industriale, ha avallato e costruito, con la complicità di chi agisce in nome di una ideologia o, peggio, di chi agisce distrattamente, l’impianto regolatorio per autodistruggere il suo, e quindi nostro, fiore all’occhiello”. LEGGI TUTTO

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    Cnpr Forum, Leo (Mef): “Pronto il Testo Unico sulle riscossioni”

    “Il Mef è vicino alla conclusione della riforma sulla riscossione, che sarà presto esaminata dal Parlamento. L’inziativa mira a migliorare il rapporto tra fisco e contribuente, con un ruolo crescente dei dottori commercialisti, specialmente nella gestione del rischio fiscale tramite il tax control framework”. Lo ha dichiarato Maurizio Leo, vice ministro dell’Economia e delle Finanze, nel corso del Cnpr forum speciale, promosso dalla Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili, dedicato al convegno dedicato all’evento “L’anno che verrà, la manovra finanziaria e la professione”. “Sono previsti ‘affinamenti’ sul concordato preventivo biennale per cambiare il rapporto tra fisco e contribuente, attraverso il contributo dei professionisti. Infine – ha aggiunto Leo – stiamo lavorando a due decreti su abuso del diritto e crediti inesistenti, in collaborazione con il Dipartimento Finanze e l’Agenzia delle Entrate”.Marco Cuchel, presidente di Anc, ha evidenziato che il 2025 sarà un anno cruciale per i commercialisti, con temi chiave come le modifiche al concordato preventivo e una maggiore rateizzazione dei debiti fiscali. Cuchel ha proposto la nuova rottamazione ‘quinques’ per aiutare le imprese a mettersi in regola con lo Stato, attraverso 120 rate per stimolare la ripresa economica. Ha anche lanciato un allarme riguardo le scadenze fiscali del 2025 (concordato preventivo e comunicazioni uniche per i lavoratori autonomi), chiedendo al governo di rivederle, poiché potrebbero creare gravi disagi a imprese e professionisti.Alberto Luigi Gusmeroli, presidente della Commissione Attività Produttive a Montecitorio, ha illustrato la proposta di legge della Lega che prevede la rateizzazione lunga dei debiti fiscali e previdenziali. “L’ipotesi – ha sostenuto – è di prevedere 120 rate mensili uguali in dieci anni per piccole e medie imprese, artigiani, commercianti, liberi professionisti, dipendenti e pensionati, permettendo loro di sanare il pregresso e pagare anche le imposte correnti. Questo sistema beneficerebbe lo Stato in termini di incasso annuale e stabilizzerebbe il sistema economico”.Antonio Misiani, vice presidente della Commissione Bilancio del Senato, ha criticato il governo, sottolineando la necessità di una strategia per rilanciare lo sviluppo industriale, che sta rallentando da 22 mesi, e per affrontare le crescenti disuguaglianze in Italia. Ha inoltre evidenziato il taglio del 75% al fondo per l’automotive, chiedendo il suo ripristino. Un altro tema centrale è il sistema sanitario nazionale, che, a suo parere, necessita di un rifinanziamento urgente, dato che milioni di italiani rinunciano alle cure per motivi economici.Per Andrea De Bertoldi (Commissione Finanze Camera dei Deputati): “Sono necessarie politiche espansive per stimolare la crescita del PIL, con incentivi fiscali mirati a sostenere la produzione. Le retroazioni fiscali sono essenziali per avviare queste politiche, poiché garantirebbero automaticamente la loro copertura. Questo approccio rappresenterebbe uno strumento efficace per sostenere l’economia e intervenire in modo efficiente sulla contabilità pubblica”.Severo il giudizio sulla manovra finanziaria di Mario Turco, vicepresidente nazionale del M5s: “Quello che è mancato in questa legge di bilancio è il contrasto al ‘carovita’, il contrasto ai salari poveri. Abbiamo rilanciato la necessità di aumentare i salari, sta aumentando il costo dell’energia e il costo degli oneri finanziari sul debito delle imprese. L’Italia è ai primi posti sull’onerosità dei prestiti abbiamo un margine rispetto agli altri Paesi europei del 15%. Il costo dell’energia e il costo del denaro ancora alto in Italia limiterà la competitività delle nostre imprese”. “Il 2025 sarà un’incognita a causa delle tensioni internazionali che influenzeranno l’economia italiana. L’auspicio – ha sostenuto Luigi Pagliuca, presidente della Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili – è che il governo possa determinare regole chiare per consentire a imprese e professionisti una necessaria e opportuna pianificazione all’insegna di una concreta semplificazione degli adempimenti e del calendario fiscale. Ho molto apprezzato l’intervento del vice ministro Leo che ha rinnovato il dialogo con i commercialisti e la volontà del governo di voler applicare il criterio delle ‘regole certe’ per il pagamento delle imposte da parte delle imprese”.Sul concordato si è espresso Giovanni Battista Calì, presidente dei commercialisti capitolini: “Aumenta la complessità del sistema fiscale e ciò rende più difficoltoso operare sui mercati. Ci sono temi scottanti come le limitate adesioni al ‘concordato’ che si è rivelato un insuccesso. Bisogna capire cosa accadrà nel 2025 e se verranno confermate alcune dinamiche che non hanno funzionato nel 2024. Bisognerebbe rinviare da subito il termine di adesione del 31 luglio almeno al 30 settembre”. Perplessità sono state espresse anche da Pasquale Di Falco (presidente Anc Roma): “Non andiamo nella direzione da noi auspicata, quella di una vera semplificazione. Dobbiamo avere a disposizione delle norme che ci consentono di avere una vita quotidiana che sia più facile e più dignitosa per tutti noi professionisti. Purtroppo il calendario fiscale che si prepara non sarà più agevole, piuttosto il contrario. Proprio in merito al concordato preventivo, ad esempio, un’ulteriore scadenza è stata aggiunta, si va nella direzione opposta a quella della semplificazione”. Secondo Raffaella Romagnoli (presidente dell’Odcec Latina): “c’è molta attenzione sulle aliquote fiscali e poca su un alleggerimento degli adempimenti da svolgere. Pertanto, non credo che potremmo permetterci momenti di pausa, come avremmo auspicato, in relazione alla necessità di una semplificazione reale e concreta. Non è possibile un azzeramento totale dei ‘carichi burocratici’, ma si potrebbe fare di più, anche in materia di fatturazione elettronica, che avrebbe dovuto semplificare le procedure”Nel corso del Cnpr Forum, condotto da Anna Maria Belforte, sono arrivate le critiche anche dagli esperti Andrea Bongi e Giuliano Mandolesi. “Per quest’anno è previsto, entro il 31 luglio, l’invio delle dichiarazioni dei redditi per tutti coloro che aderiranno al concordato preventivo. Si stima una platea di circa 3 milioni di contribuenti, di cui solo il 15% ha aderito lo scorso anno. Ciò significa – ha sottolineato Bongi – che almeno 2,5 milioni di partite Iva, se non di più, valuteranno la proposta per il prossimo biennio. Se questa scadenza non verrà rivista, luglio sarà un mese di “fuoco” per professionisti e imprese, con un maxi ingorgo di scadenze e adempimenti”. LEGGI TUTTO

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    La legge sul salario minimo? Non serve

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    Nonostante il dibattito sull’introduzione di un salario minimo orario di 9 euro sia al centro dell’agenda di Pd e M5s, i dati attuali suggeriscono che una misura universale non è necessaria. La maggior parte dei lavoratori dipendenti italiani, infatti, percepisce retribuzioni superiori a tale soglia. Più che imporre un limite rigido, è prioritario rafforzare i meccanismi di contrattazione collettiva (soprattutto di secondo livello) per affrontare i casi di dumping salariale.La distribuzione delle imprese e il peso delle grandi realtàIn Italia, la struttura economica è fortemente caratterizzata dalla prevalenza di piccole e medie imprese. Secondo i dati più recenti, una significativa percentuale di lavoratori dipendenti è impiegata in aziende con oltre 10 dipendenti, che rappresentano circa il 10% del totale delle imprese, ma concentrano una larga maggioranza degli occupati. Questo dato suggerisce che le retribuzioni medie, in particolare in queste unità economiche più grandi, possono essere un valido indicatore per comprendere le dinamiche salariali complessive.Retribuzioni medie: oltre la soglia del salario minimoNel 2022, il salario orario medio nelle imprese con almeno 10 dipendenti si è attestato a 16,4 euro, con significative differenze tra contratti part-time (12 euro) e full-time (17,3 euro). È quanto emerge dai dati Istat del report “Rilevazione sulla Struttura delle retribuzioni e del costo del lavoro (Rcl-Ses)” relativa all’anno 2022. Anche tra i lavoratori meno retribuiti, il 10% percepisce un massimo di 8,8 euro all’ora, una cifra vicina alla soglia proposta per il salario minimo, mentre il 10% più ricco supera i 26,6 euro orari.Questo quadro dimostra che la contrattazione collettiva, già ampiamente diffusa nelle grandi imprese, garantisce standard salariali mediamente elevati. Tuttavia, occorre intervenire per estendere tali tutele alle fasce più vulnerabili, spesso impiegate in piccole realtà o in settori con retribuzioni basse come la ristorazione (10,9 euro orari di media).I giovani e il gender pay gap: due questioni aperteLe problematiche retributive si fanno più marcate per i giovani e le donne. Gli under 30 guadagnano in media il 36,4% in meno rispetto agli over 50, un divario che riflette sia la scarsa esperienza iniziale sia la qualità delle competenze acquisite. È importante sottolineare che il salario di ingresso tende a essere inferiore per chi inizia una carriera lavorativa, ma i dati suggeriscono una necessità di percorsi formativi e professionali più mirati per favorire la crescita retributiva nel tempo.Per quanto riguarda le differenze di genere, il Gender Pay Gap (GPG) in Italia è pari al 5,6%, con una retribuzione media oraria di 16,8 euro per gli uomini e 15,9 euro per le donne. Il divario si amplia nelle professioni ad alta qualificazione e tra i laureati, dove raggiunge il 16,6%. Tra i dirigenti, il gap sale addirittura al 30,8%, evidenziando una persistente disparità nelle posizioni apicali. LEGGI TUTTO

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    Generali e Bpm, scontro di Stato

    I grandi giochi della finanza stanno riscaldando i palazzi del governo. Sono in corso due guerre finanziarie, nelle quali Palazzo Chigi vuole dire la sua, in perfetto allineamento con ministero del Tesoro guidato da Giancarlo Giorgetti e affiancato dal sottosegretario Federico Freni. Basti raccontare un piccolo aneddoto, che ci permette di entrare subito nella storia. Quando il numero uno di Unicredit, Andrea Orcel, convocò il cda della sua banca per annunciare la scalata ostile su Banco Bpm, si premurò di inviare un generico messaggino (un paio d’ore prima del consiglio) al premier Giorgia Meloni. Palazzo Chigi e il Tesoro a quel punto si scambiarono qualche idea per capire cosa stesse succedendo. Giorgetti aveva già saputo della scalata e lo comunicò alla premier. Che ovviamente non la prese bene. Non aveva a quel punto certo bisogno di parlare con il banchiere per sapere ciò che Giorgetti le aveva già anticipato. Interrotti i colloqui con Unicredit, è subito partito lo studio per predisporre le difese rispetto a un progetto concepito al di fuori delle volontà del governo.Siamo dunque all’inizio della nostra storia, che cercherò di rendere semplice pur essendo una vicenda complicata e che di fatto riguarda almeno sei istituzioni finanziarie italiane, due banche straniere, la più importante compagnia assicurativa italiana (le Generali) e diversi organismi pubblici.Le due partite sono quelle che riguardano il futuro di Banco Bpm e delle Generali. La prima è una banca che non ha un vero azionista di controllo (anche se ora le cose stanno cambiando e i francesi del Crédit Agricole, che fino a poco tempo fa avevano mantenuto una partecipazione del 10%, ora possono contare sul 20%) e che lavora nel territorio più ricco d’Italia. La seconda è la più importante compagnia di assicurazione d’Italia (terza in Europa) che gestisce polizze e risparmi, in massima parte degli italiani, per circa 850 miliardi.La chiave fondamentale di tutta questa vicenda, a sentire Palazzo Chigi, è la difesa del risparmio italiano. Proprio alla fine del governo Renzi, Unicredit vendette alla francese Amundi, controllata da Crédit Agricole, un pezzo fondamentale del risparmio italiano (Pioneer, 225 miliardi di risparmio gestito). E oggi il governo teme che le Generali finiscano straniere o peggio facciano accordi (come quelli che stanno studiando in queste ore) con i francesi che solo a scoppio ritardato mostreranno il loro vero volto: una vendita mascherata.Per evitare questi rischi, Chigi e Tesoro nei mesi scorsi avevano pensato di formare un gruppo bancario di buone dimensioni, realizzato da Banco Bpm, dalla risanata Mps (in cui lo Stato vanta ancora una quota di rilievo) con la potenziale partecipazione di Anima (società del risparmio gestito su cui Bpm ha lanciato nei mesi scorsi un’Opa amichevole). Sarebbe così nato il terzo polo bancario, con una capitalizzazione non lontana da 25 miliardi: dimensione che avrebbero permesso l’acquisto di una quota anche rilevante di Mediobanca, cioè la chiave di accesso al controllo delle Generali.In questo scenario piomba l’offerta pubblica di acquisto di Unicredit su Banco Bpm. Che cancella, se dovesse andare a buon fine, non solo la nascita di un nuovo campione nazionale, ma soprattutto il mantenimento in Italia del controllo delle Generali. È per questo che oggi a Palazzo Chigi c’è grande irritazione. Orcel ha paralizzato l’operatività di Banco Bpm, ha bloccato Mps e insieme compromette i piani del governo su Mediobanca e Generali.Ma la storia non finisce qui. In accordo con Bruxelles, il Tesoro ha recentemente venduto parte della sua quota di Mps a Banco Bpm e a due soggetti privati, gruppo Del Vecchio (guidato da Francesco Milleri) e gruppo Caltagirone, che sono i veri motori della rivolta contro Mediobanca per il controllo delle Generali, di cui sono secondo e terzo azionista. Dunque anche se la nascita del nuovo polo è congelata, esisterebbe un piano B. E al governo lo sanno bene. Nelle prossime settimane infatti vedremo se il governo permetterà a Mps (nonostante al momento sia orfano di Banco Bpm e Anima) di acquistare una quota di Mediobanca, dando così la forza alla formazione Caltagirone-Del Vecchio-Mps di avere l’ultima parola nella società che controlla Generali. Giovedì entreranno in consiglio Mps i rappresentanti dei nuovi soci privati e il 5 febbraio ci saranno i conti: ma già è noto che la banca, un tempo controllata dai comunisti, ha in pancia un buffer di liquidità di 2,5 miliardi. Risorse più che doppie rispetto a quanto serva per comprare sul mercato un 9% della banca fondata da Cuccia e cambiarne così i pesi nella governance.Come si vede, la storia è assai complicata. Vale perciò un riepilogo. Palazzo Chigi guarda alle Generali in ottica di difesa del rilevante risparmio gestito. Per conquistare Generali occorre controllare Mediobanca. Mps potrebbe essere il pivot con cui farlo. Ed è indifferente, è esattamente questo il termine che si usa da quelle parti, su chi la metta in sicurezza: fino a qualche mese fa potevano essere un gruppo di privati (apprezzati a Chigi) con Mps e Bpm. E se oggi Orcel ha paralizzato Bpm è un pasticcio per il governo, ma non irrimediabile: c’è ancora Mps con Caltagirone-Del Vecchio (insieme possiedono poco meno del 20% dell’istituto senese) che ha le risorse per procedere.E qui i tempi sono importanti. E al momento giocano a favore di Orcel e dell’attuale assetto delle Generali.Ci sono due armi che stanno studiando dalle parti del governo. La prima è la Consob, che è autorità indipendente e che farà come le pare. Ma che potrebbe in poche settimane sbloccare l’impasse se obbligasse Unicredit a riformulare in modo più chiaro l’offerta per Banco Bpm e soprattutto se liberasse la banca guidata da Castagna dalla cosiddetta passivity rule, che le impedisce di realizzare la scalata ad Anima rendendosi più complicata da digerire da parte di Unicredit. È questa un’ipotesi in cui a Palazzo Chigi non credono molto, non perché non sia valida tecnicamente, ma semplicemente perché non è nella loro disponibilità. La tentazione – in realtà più che una tentazione – è dunque ricorrere alla cosiddetta Golden power che bloccherebbe l’operazione (ipotesi sul tavolo anche per le Generali). Uno dei profili che si stanno valutando è la presenza di Unicredit in Russia, come è noto sotto sanzioni, ma che genera ancora per la banca di Orcel circa 1 miliardo di margine all’anno e che per questo il banchiere, contro tutto e tutti, non vuole mollare. Orcel è storicamente molto legato a Mosca. Fu lui da capo di Merrill Lynch ad assumere e formare il fratello più giovane Riccardo per piazzarlo a capo del desk emerging market. Il fratello poi diventò per anni il capo europeo della cosiddetta banca di Putin, la russa VtB. E Orcel senior, per dire, appena arrivato in Ubs nel 2012 fece il colpaccio di aggiudicarsi subito un ruolo chiave nel collocamento di un bond perpetuo da 1 miliardo di dollari proprio con Vtb. Si capisce che oggi non voglia mollare l’osso che rende ricchi i suoi azionisti e pesanti le sue azioni che poi userà per comprare Banco Bpm. Ebbene, la sua debolezza russa è un cavallo di troia per il governo. E per l’esercizio di un potere che renda più difficile la scalata di Orcel.Il governo sa perfettamente che i tempi sono stretti e che non giocano a favore. Sarebbe in un certo imbarazzo nel consentire a Mps, oggi stand alone, a fare un’operazione su Mediobannca, ma la potrebbe giustificare per la messa in sicurezza del risparmio degli italiani che rischia di finire oltreconfine. LEGGI TUTTO

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    Donare una parte della propria casa: ecco tutto ciò che c’è da sapere

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    I punti chiave

    La possibilità di donare solo una parte della propria casa è una scelta che molti proprietari considerano per motivi diversi. C’è chi desidera garantire una distribuzione equa del patrimonio tra i figli, senza dimenticare chi ha esigenze immediate. Altri potrebbero voler ridurre la grandezza di un immobile che ormai non utilizzano più. In sostanza le ragioni che spingono a questa decisione sono varie, e in alcuni casi potrebbero esserci anche implicazioni fiscali da valutare. Tuttavia, è fondamentale non confondere la divisione della proprietà con l’effettiva destinazione dell’immobile, che può differire nelle modalità di gestione. Ecco tutto ciò che c’è da sapereIl diritto di proprietàIl diritto di proprietà consente al soggetto in questione di disporre dei propri beni in modo completo, libero ed esclusivo. Sebbene esistano alcuni limiti legati ai diritti di altre persone, il proprietario ha piena facoltà di escludere chiunque dal godimento del bene o di concederlo. Tra le possibilità previste dalla legge c’è anche quella di trasferire la proprietà di un bene a un altro soggetto, tramite compravendita o donazione. In generale, non ci sono vincoli specifici sulla donazione, eccetto per le possibili implicazioni ereditari. Se una donazione danneggia la quota di legittima degli eredi legittimari, questi ultimi possono far valere i propri diritti in giudizio, ma solo dopo la morte del donante. L’unico requisito per poter donare un bene è essere il proprietario del bene stesso. Non esistono restrizioni riguardo alle frazioni di proprietà, quindi un soggetto può decidere liberamente di donare una parte del proprio bene, come ad esempio il 50% o anche il 25%, sempre in riferimento alla sua quota di proprietà, che potrebbe non corrispondere all’intero immobile. LEGGI TUTTO

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    Generali-Natixis, via libera dal comitato investimenti

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    Il comitato per gli investimenti di Generali ieri ha espresso un orientamento favorevole in merito all’operazione che porterà ad un’integrazione con Natixis nel risparmio gestito. È quanto emerge al termine della riunione, durata più di quattro ore, dell’organo del Leone di Trieste competente a formulare pareri in merito alle operazioni di controvalore superiore ai 250 milioni di euro. Un esito scontato, dopo che l’operazione era stata cesellata per mesi e seguita in prima persona dal ceo Philippe Donnet (nella foto). Il comitato – dove siedono la presidente Antonella Mei-Pochtler, l’ex ceo della Borsa di Londra, Clara Furse, il banchiere d’affari Stefano Marsaglia, la manager Alessia Falsarone, il presidente di De Agostini, Lorenzo Pelliccioli, e il dirigente di Mediobanca, Clemente Rebecchini – per l’occasione è stato allargato anche agli altri consiglieri d’amministrazione del Leone di Trieste. Anche perché due soci di peso della compagnia – come l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 6,9% e la Delfin guidata da Francesco Milleri con il 9,9% – hanno espresso pesanti perplessità circa l’eventualità che 650 miliardi di gestito di Generali Investments (che verranno alimentati da un’ulteriore quota di raccolta netta annuale del Leone, 1.200 i miliardi conferiti da Natixis) possano finire in mani non italiane. Potenzialmente comporterebbe che decine e decine di miliardi di risparmi tricolori possano essere sottratti al finanziamento del nostro debito pubblico. LEGGI TUTTO

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    Servitù per destinazione del padre di famiglia: cos’è e come va gestita

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    I punti chiave

    La servitù per destinazione del padre di famiglia è una figura giuridica che si applica anche in ambito condominiale, soprattutto quando si cerca di capire se esistono diritti impliciti tra le varie proprietà o parti comuni di un edificio. In parole semplici, questa servitù si verifica quando, prima della divisione di un immobile, esisteva già una situazione di utilità tra due parti dello stesso. Se queste parti vengono poi separate e vendute a proprietari diversi, quella relazione di servizio continua a esistere anche senza un accordo scritto, o una specifica menzione negli atti. Cerchiamo di capire di più.In cosa consisteLa servitù per destinazione del padre di famiglia è una servitù non negoziata, che si instaura automaticamente quando due fondi inizialmente appartenenti a un unico proprietario, o in relazione di servizio o utilità reciproca (un accesso, un passaggio, o il passaggio di impianti come tubazioni), vengono separati, senza che sia necessario un atto scritto. Tale situazione continua anche dopo la divisione, basandosi sul presupposto che il precedente proprietario abbia “destinato” il fondo servente al servizio del fondo dominante già prima della divisione.Nei condomini, questo tipo di servitù può emergere quando le unità immobiliari derivino da un frazionamento di un’unica proprietà (ad esempio, un immobile unico suddiviso in appartamenti), o una parte comune o un elemento di proprietà esclusiva svolga un’utilità per altre unità, senza che sia esplicitamente indicata una servitù nell’atto di divisione, o nei regolamenti condominiali.Perché è importante in condominio e come riconoscerlaLa questione non è di secondaria importanza, perché in un condominio spesso si verificano situazioni in cui alcune parti dell’edificio, pur essendo di proprietà esclusiva, servono altre unità. Questo può generare conflitti tra i condòmini, specie quando uno di loro cerca di limitare l’uso di queste aree, o non vuole contribuire alle spese di manutenzione. Si pensi al caso di un cancello o di un vialetto privato che però tutti utilizzano per accedere alle loro proprietà.Per capire se una servitù di questo tipo esiste, bisogna innanzitutto ricostruire la storia dell’immobile. Si parte verificando se, prima della divisione, esisteva una situazione di servizio tra le diverse parti (ad esempio, passaggi, collegamenti di impianti o utilizzo di spazi comuni). Poi bisogna accertarsi che questa utilità sia rimasta invariata dopo la suddivisione.Nel caso in cui, ad esempio, le tubature dell’acqua di un condominio attraversino un’unità abitativa privata per raggiungere altre proprietà, anche se non c’è un contratto specifico che stabilisca questa situazione, si tratta comunque di una relazione di utilità tra le parti che preesisteva al frazionamento e che, per legge, può configurare una servitù.Cosa dice la leggeLa normativa di riferimento è l’articolo 1062 del Codice Civile, che regola proprio la servitù per destinazione del padre di famiglia. Perché questa si applichi, è necessario dimostrare che la situazione di servizio tra i due fondi esistesse già quando appartenevano a un unico proprietario, e che tale situazione sia continuata anche dopo la divisione. Per fornire questa prova, si possono usare documenti come planimetrie, atti di vendita o regolamenti condominiali. Anche testimonianze o rilievi tecnici possono essere utili. LEGGI TUTTO

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    Occhio alla truffa Vodafone: come non caderci

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    Recentemente, diversi utenti Vodafone hanno segnalato di aver ricevuto telefonate da un presunto call center che li avvisava di un aumento imminente della tariffa mensile a causa della fusione con Fastweb. Queste comunicazioni, che sembrano ufficiali, sono in realtà truffe telefoniche create per ingannare i consumatori. Vodafone ha prontamente smentito l’esistenza di qualsiasi aumento dei prezzi legato alla fusione. Vediamo come riconoscere questa truffa e come difendersi.La truffaLa truffa è emersa a seguito dell’annuncio della fusione tra Vodafone e Fastweb, che ha suscitato confusione tra i clienti di entrambe le compagnie. Sfruttando questo periodo di incertezza, alcuni truffatori contattano gli utenti fingendosi rappresentanti ufficiali di Vodafone. Le telefonate informano i clienti di un imminente aumento delle tariffe a causa della fusione, dicendo che il costo mensile della linea aumenterà di 8 euro. I truffatori cercano di spingere le persone ad accettare nuove offerte, alimentando la paura di eventuali cambiamenti sfavorevoli. In altri casi, cercano di ottenere informazioni personali, come i dati bancari o i numeri delle carte di credito, promettendo un “aggiornamento” del contratto. Questa pratica ingannevole si basa sulla fiducia degli utenti e sfrutta la confusione causata dalla fusione per trarre vantaggio in modo illecito.La smentita di VodafoneVodafone ha prontamente smentito qualsiasi ipotesi di aumento delle tariffe in seguito alla fusione con Fastweb, confermando che non ci saranno modifiche nei prezzi e che le tariffe rimarranno invariabili. La compagnia invita i propri clienti a fare attenzione a chiamate sospette e a non rivelare mai informazioni personali a chiunque non sia chiaramente identificabile come un operatore ufficiale. LEGGI TUTTO