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    Un Fisco amico delle pmi che puntano al green

    Il settore delle catene di abbigliamento-accessori e ristoranti sta vivendo una stagione in chiaroscuro. I meccanismi che l’avevano proiettata nell’Olimpo degli interessi degli investitori, soprattutto con gli «incubatori» che ne contenevano le attività in cambio di significativi canoni locativi, hanno perso smalto. Negli ultimi dieci anni, prima i grandi fondi americani di private equity e poi quelli europei, hanno avviato una ritirata collettiva dagli investimenti nel settore, seguendo il mutamento dei gusti dei consumatori. A incidere molto sui diversi comportamenti dei consumatori è stato il Covid, a cui si è sommato un quadro macroeconomico difficile, che ha penalizzato le aziende di prodotti di consumo e i loro insediamenti commerciali. Nei due anni della pandemia l’industria di approvvigionamento dei beni di consumo ha così faticato a riprendere quota. La volatilità del mercato e i tassi di interesse elevati associati alla diminuzione del potere di acquisto dei consumatori, dovuto al pressante ciclo inflativo, hanno poi aggravato le difficoltà delle aziende di beni di consumo. Una situazione avvertita in Italia soprattutto dalle piccole imprese produttive a carattere familiare e dai canali di vendita che puntavano ai centri commerciali in ragione di massicce affluenze, che hanno invece subito un sostanziale calo. Riducendo così l’interesse degli investitori sia per la costruzione di nuovi insediamenti sia per le imprese produttive di largo consumo. Tutto questo ha allertato il modello di business del private equity basato su settori stabili, che generano flussi di cassa valutabili e a prova di recessione.Le aziende di beni di consumo, di norma in grado di resistere alla volatilità del mercato, sono così diventate più vulnerabili e, quindi, meno interessanti. L’e-commerce ha ottenuto sempre più il gradimento dai consumatori. Gli stessi marchi più affermati del lusso hanno puntato su Internet per la vendita al dettaglio. In molti Paesi esteri, a cominciare dagli Usa, sono così iniziati i fallimenti tra i grandi centri commerciali. LEGGI TUTTO

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    Fabi in campo nell’educazione finanziaria

    Gli italiani meritano la bocciatura in economia e finanza o perlomeno necessitano di ripetizioni. A stilare la «pagella» è la Fabi, il principale sindacato dei bancari, e l’esito non lascia dubbi: le competenze dei piccoli risparmiatori restano inadeguate seppur in miglioramento. Su una scala di punti da 1 a 20, in Italia il grado di preparazione – che misura conoscenze, comportamenti e atteggiamenti in materie economiche e finanziarie – non arriva infatti mai a quota 12, cioè alla sufficienza. Qualcosa, tuttavia, si muove: se nel 2017 il punteggio era 10, l’anno dopo era salito a 10,1 e appunto nel 2023 a 10,6. Gli italiani scarseggiano comunque su tutte le «materie» economiche: dalla pianificazione personale al bilancio familiare, dal risparmio agli investimenti, dal credito ai servizi di conto corrente, dai sistemi di pagamento alla finanza digitale; comprese le criptovalute. LEGGI TUTTO

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    Tim più libera nella sfida contro la “super-Fastweb”

    L’acquisizione di Vodafone Italia da parte di Swisscom per 8 miliardi e la sua successiva integrazione in Fastweb potrebbe non determinare quel cambiamento di scenario delle tlc italiane che oggi sembra alle viste. Fastweb, infatti, è forte nelle linee fisse e nella connettività Internet, mentre il vantaggio competitivo di Vodafone è nella telefonia mobile. Pertanto, si integreranno due realtà che, al momento, hanno poche sovrapposizioni.Questo stato di cose non toglie che per Tim, alle prese con lo scorporo di NetCo che passerà alla cordata guidata da Kkr, il confronto con il mercato non possa definirsi «sfidante». Una volta che la rete sarà stata scorporata, infatti, per la società guidata dall’ad Pietro Labriola si aprirà una navigazione non certo facile. Basti pensare a un semplice dato: in Italia la fortissima concorrenza nella telefonia mobile ha generato un corsa alla riduzione dei costi, mentre gli investimenti sono rimasti sempre su livelli elevati. Tale situazione ha comportato una perdita di 14 miliardi per gli operatori negli ultimi 12 anni. Questa debolezza strutturale del settore delle telecomunicazioni è stata determinata, soprattutto a livello europeo, da un’interpretazione eccessivamente estensiva dell’apertura del mercato, forzando l’ingresso di nuovi operatori quando vi fosse l’abbandono da parte di un concessionario.In ogni caso, l’aggregazione Fastweb-Vodafone Italia consentirà a Tim di dimostrare la propria «nobilitate». Senza il vincolo della rete, la nuova ServCo sarà libera di proporre offerte integrate e Labriola partirà con un piccolo vantaggio, potendo offrire anche i contenuti, oltre alla connettività. Ovviamente, occorrerà assistere anche alle reazioni di Wind-Tre e di Iliad cui l’essersi fatta soffiare la controllata italica del colosso britannico non è andato proprio giù. La nuova integrazione, tuttavia, non dovrebbe creare problemi di Antitrust in quanto Swisscom non produce i due terzi dei ricavi all’interno dell’Unione e che due terzi del fatturato provengono dall’Italia. Dunque, sarà soprattutto una questione in mano all’Authority presieduta da Roberto Rustichelli.Insomma, la vera sfida si apre adesso considerato che, senza NetCo, Tim potrà avere le mani libere per crescere in un mercato nel quale finora le erano stati posti dinanzi molti paletti. Allo stesso tempo, tuttavia, non si possono non evidenziare le ricadute occupazionali del quadro che si va delineando. Se dei 40mila dipendenti di Telecom Italia poco meno della metà dovrebbero nella nuova entità della rete, discorso diverso per quanto riguarda la nuova realtà della telefonia fissa e mobile. In Vodafone Italia lavorano all’incirca 5.500 persone e in Fastweb 3.200. I sindacati, soprattutto la Cisl, sono preoccupati dal fatto che eventuali sovrapposizioni possano determinare esuberi che andrebbero comunque gestiti con la nuova compagine alla guida del conglomerato. LEGGI TUTTO

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    Energia, prezzi come a giugno 2021 ma bollette più care di 330 euro. Ecco perché

    Nonostante i prezzi di mercato nel mese di febbraio 2024 del gas naturale (28 euro per MWh) e dell’energia elettrica (87 euro per MWh) siano tornati agli stessi livelli del mese di giugno di 2021, le bollette di luce e gas del 2023 sono invece aumentate di 328 euro rispetto a tre anni fa. L’incremento complessivo è del 26,2%, di cui 153 euro, ovvero il 24,2%, per la luce e 175 euro e il 28,1%, per il gas. I dati provengono dalla Cgia di Mestre. Ma perché le bollette aumentano nonostante i prezzi delle materie prime siano in calo dalla fine del 2022? Inoltre i governi Draghi e Meloni hanno erogato quasi 100 miliardi di euro per contrastare il caro energia. Cerchiamo di rispondere a queste domande. Le motivazioni La crisi energetica ha caratterizzato i consumi di luce e gas e ha colpito, specialmente nel 2022, i distributori e i fornitori di energia i quali hanno aumentato caparre e cauzioni che i consumatori hanno dovuto sborsare. La quota fissa in bolletta è stata quindi incrementata notevolmente. Assieme a questo anche l’inflazione ha contribuito a far aumentare il costo delle bollette nel settore energetico facendo aumentare gli indici dei prezzi al consumo del gas del 60,4% e della luce del 93,1%.Le aree maggiormente colpiteDal punto di vista territoriale è il Nordest l’area del Paese che registra rincari maggiori. Inoltre tra il 2021 e il 2023 l’aumento medio annuale delle bollette di luce e gas è stato di 457 euro ovvero del 33,6%. Nel Nordovest l’incremento è di 316 euro, ovvero del 23,9%, il Mezzogiorno ha registrato un incremento di 304 euro, quindi del 26,6%. Chiude il Centro con una maggiorazione di 260 euro, del 21,1%. A questo proposito la Cgia ha affermato: “A fronte della crisi energetica verificatasi in particolare tra la fine del 2021 e la prima parte del 2023, abbiamo l’impressione che ancora una volta a pagare il conto siano stati solo, o quasi, i consumatori (famiglie e imprese). Certo, anche le società del settore hanno subito degli shock importanti, ma gli extraprofitti realizzati in questi anni dalle aziende energetiche sono stati rilevanti. E in attesa che la Corte Costituzionale si pronunci sulla legittimità del contributo di solidarietà sugli extraprofitti applicato nel 2022 alle aziende energetiche, nel 2023 l’erario ha incassato solo 2,8 miliardi di euro rispetto ai 10 miliardi che il governo Draghi aveva ipotizzato di riscuotere”. LEGGI TUTTO

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    Imballaggi, l’Italia salva le sue imprese

    «Abbiamo che oggi a Bruxelles c’è un’Italia che non si arrende a soluzioni che penalizzano la nostra industria, ma che è capace di continuare a negoziare fino alla fine in maniera decisa, facendo valere la bontà dei propri argomenti, valorizzando le nostre eccellenze e riuscendo a modificare sostanzialmente il risultato finale». Così il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha commentato l’approvazione del regolamento Ue sugli imballaggi da parte del Coreper (il comitato degli ambasciatori) che ha messo nero su bianco le intese del 4 marzo scorso e che ora dovranno essere approvate dal Parlamento europeo nella settimana del 22 aprile. «I risultati raggiunti sono il frutto di uno sforzo corale di tutti gli attori del “sistema Italia”», ha aggiunto la premier. Analoga soddisfazione è stata espressa dal vicepremier Tajani e dai ministri Fitto, Lollobrigida e Pichetto Fratin.Ma nel concreto che cosa ha ottenuto l’Italia? Innanzitutto, è pressoché salva la filiera italiana degli imballaggi che interessa il settore horeca (hotel, ristoranti, caffetterie) che ha un volume d’affari di almeno 10 miliardi l’anno. Ma, soprattutto, tira un sospiro di sollievo per due settori che valgono il 30% del Pil italiano. Il regolamento Imballaggi, infatti, introduce obiettivi generali di riduzione della produzione di rifiuti da imballaggi (il 5% entro il 2030, il 10% per il 2035 e il 15% entro il 2040, rispetto al 2019) e nuovi obiettivi di riuso, oltre a quelli per il riciclo, per facilitare questa riduzione. Lo spostamento del primo step al 2030 e le deroghe per chi supera i target di riciclo come l’Italia sono conquiste importanti. Ma ieri si sono messi nero su bianco altre progressi. Se da una parte il regolamento impone che gli imballaggi siano riciclabili (o che contengano percentuali minime di materiale riciclato) e vieta una serie di prodotti e materiali monouso, l’Italia è riuscita a ottenere che si possano continuaLa quota del Pil italiano in capo a farmaceutica e agroalimentare, settori ad alto utilizzo di imballaggi re a utilizzare alcuni tipi di imballaggi monouso riciclabili (come le bustine di carta e le plastiche compostabili) per i prodotti alimentari e per il settore della ristorazione (in particolare per i cibi da asporto e per il fast-food). Un’altra intesa negoziale confermata è la «clausola specchio», secondo cui anche gli imballaggi importati nell’Ue dovranno rispettare le norme comunitarie sulle percentuali minime obbligatorie di materiale riciclato. Questo permetterà all’industria europea (e italiana) del settore del riciclo di non subire una concorrenza sleale da parte delle aziende extraeuropee.Cosa cambierà per i consumatori italiani? Molto poco. Le buste di plastica monouso per confezionare frutta e verdura sotto gli 1,5 chili sono «salvate» da deroghe per evitare perdita di acqua o ossidazione. Piatti e bicchieri monouso saranno consentiti per il takeaway, ma gli altri locali (salvo i chioschi che non sempre hanno l’acqua corrente) dovranno farne a meno. Scompariranno invece i condimenti monouso e le confezioni singole di zucchero, caffè o simili, ma non se accompagnano cibi da asporto e negli ospedali. Destinati all’estinzione, infine, i flaconcini monouso di cosmetici negli alberghi. LEGGI TUTTO

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    Debito in calo, prezzi in lenta flessione

    Non c’è solo la flessione dello spread tra Bto e Bund tedeschi ai minimi da tre anni (ieri a quota 126) a tenere banco sui mercati. I dati macroeconomici italiani continuano a confermare che il pessimismo è fuori luogo anche se occorrerà continuare a tenere la guardia alta, visto che il ritorno in vigore del Patto di Stabilità ridurrà gli spazi per il sostegno pubblico. Ieri la Banca d’Italia (in foto il governatore Fabio Panetta) ha reso noto che a gennaio il debito pubblico è stato pari a 2.848,7 miliardi, in calo di 14,1 miliardi) rispetto al mese precedente. Le entrate tributarie a gennaio sono state pari a 46,5 miliardi, in aumento del 5,1% (2,3 miliardi) su base annua. Insomma, il sistema sta tenendo e, per quanto parziale, anche questi primi risultati confermano che il 2024 è iniziato discretamente.Di meno immediata interpretazione, invece, le statistiche sulle vendite al dettaglio di gennaio.Su base annua sono aumentate in valore dell’1% in valore, ma in volume sono diminuite del 2,1%, ha rilevato l’Istat. Un segnale che, sebbene il carovita stia lentamente allentando la morsa, sia ancora necessario implementare le politiche a favore dei redditi deboli. Su base mensile le vendite di alimentari sono rimaste invariate in valore con una diminuzione dello 0,4% in volume, mentre quelle dei beni non alimentari hanno subito una lieve flessione sia in valore (-0,1%) sia in volume (-0,2%).Su base tendenziale le vendite dei beni alimentari sono aumentate in valore (+2,4%) e diminuite in volume (-2,8%); quelle dei beni non alimentari hanno evidenziato un decremento sia in valore (-0,2%) sia in volume (-1,6%). Sul valore della spesa ha inciso l’inflazione ancora al di sopra dei valori degli anni scorsi. L’indice dei prezzi al consumo a febbraio, secondo i dati definitivi Istat, ha registrato un aumento dello 0,1% su base mensile e dello 0,8% su base annua, come nel mese precedente. L’inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, decelera da +2,7% a +2,3%. L’inflazione dei beni alimentari è al 3,9 per cento. LEGGI TUTTO

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    Cambio di destinazione d’uso: le regole all’interno di un condominio

    Vi sarà capitato, camminando per le varie città, soprattutto in quelle più grandi, dove il mercato immobiliare, nonostante tutto continua a “tirare” ed è altamente competitivo, di osservare locali commerciali che subiscono una trasformazione radicale, diventando abitazioni. Le motivazioni alla base di queste conversioni sono molteplici, dalla crisi che colpisce i piccoli commercianti alla mancanza di passaggio generazionale nelle attività, alla ricerca di locali a prezzi più competitivi. Esigenze personali ed economiche, che fanno sì che il fenomeno di cambio di destinazione d’uso diventi sempre più diffuso. Ma quali sono i criteri da rispettare per poter effettuare questo tipo di trasformazione, e cosa accade se tali lavori si svolgono all’interno di un condominio? Vediamo.Cosa dice la leggeLa definizione “destinazione d’uso” sta ad indicare finalità e modalità di utilizzo di un’unità immobiliare. In base all’ uso cui può essere adibito l’immobile, questo ricadrà in una specifica categoria funzionale. Tramite il “cambio di destinazione d’uso” è possibile modificare la forma di utilizzo scelta in origine. Il concetto di “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” si riferisce alla modifica della destinazione d’uso di un’unità immobiliare, coinvolgendo aspetti catastali e urbanistici. Per evitare abusi edilizi, è necessaria un’autorizzazione preventiva, che varia in base alla tipologia di modifica.In teoria, la trasformazione di un negozio in un appartamento è possibile, ma nella pratica richiede verifiche di fattibilità indispensabili e interventi per adattare l’immobile, come la ridefinizione degli spazi e la rimozione di vetrine e saracinesche. È essenziale rispettare, quindi, tutte le prescrizioni necessarie.Il decreto Sblocca Italia del 2014 ha semplificato notevolmente questo processo, introducendo l’articolo. 23-ter nel Testo Unico dell’Edilizia, e stabilendo quando si tratta di un mutamento urbanisticamente rilevante della destinazione d’uso. Un mutamento d’uso è urbanisticamente rilevante quando il passaggio, anche non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie, avviene tra le seguenti macrocategorie, funzionalmente autonome e non omogenee: residenziale, turistico-ricettiva, commerciale, produttiva e direzionale, rurale.Il passaggio da negozio ad appartamento, considerato un mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, richiede un permesso di costruzione. Se rimane nella stessa categoria funzionale, invece, può essere sufficiente una Scia (Segnalazione certificata di inizio attività). Prima di effettuare il cambio di destinazione d’uso, sono necessarie verifiche preventive per assicurarsi che la trasformazione sia consentita e fattibile.Cambio di destinazione: quali verificheL’iter per procedere con successo al cambio di destinazione diviene progressivamente più intricato quando sono necessari interventi specifici, come ad esempio l’installazione di un allaccio alla rete gas. Per tale motivo, è sempre consigliabile affidarsi a un professionista in grado di guidare il proprietario attraverso le diverse procedure burocratiche. Dopo la modifica urbanistica, diventa essenziale comunicare la variazione anche dal punto di vista catastale e procedere con l’aggiornamento, poiché la nuova funzione dell’immobile incide sulle imposte a esso associate, come l’Imu, la Tasi, e altre. Prima ancora di intraprendere il cambio di destinazione d’uso, è cruciale effettuare diverse verifiche preventive per assicurarsi che la trasformazione sia non solo consentita ma anche praticamente realizzabile. Inizialmente, è fondamentale consultare il Piano Regolatore Generale del Comune in cui si trova l’unità immobiliare.Nei vari comuni italiani, inoltre, alcune aree possono richiedere specifiche destinazioni d’uso per gli immobili, e alcuni edifici potrebbero essere soggetti a vincoli che limitano gli interventi edilizi, ad esempio su edifici storici o di pregio architettonico. Per apportare modifiche, poi, l’immobile deve rispettare le caratteristiche intrinseche obbligatorie secondo la legge, che riguardano aspetti come l’igiene e la salute pubblica, nonché parametri come le superfici minime e i rapporti aeroilluminanti.Se il cambio di destinazione interessa il condominioNel caso in cui l’unità immobiliare, specificamente il negozio destinato alla trasformazione in appartamento, sia situata all’interno di un condominio, la verifica delle disposizioni del regolamento condominiale in merito al cambiamento di destinazione potrebbe rappresentare un ulteriore ostacolo. Benché la regola generale conceda al proprietario il diritto di apportare le modifiche ritenute opportune alla sua proprietà, all’interno di un condominio tali poteri possono essere legittimamente limitati dai regolamenti contrattuali predisposti dal costruttore e accettati da ciascun condòmino all’atto dell’acquisto dell’unità immobiliare. Inoltre, potrebbero essere definiti da regolamenti successivamente sottoscritti all’unanimità dai proprietari, anche in seguito a un’assemblea.Si è pronunciata su questa materia la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 21307/2016, confermando che solo un regolamento condominiale approvato all’unanimità può imporre divieti e limiti alla destinazione delle unità immobiliari in esclusiva proprietà. Un tale regolamento potrebbe, ad esempio, proibire completamente il cambio di destinazione d’uso o stabilire dei limiti. In tal caso, prima di procedere, sarebbe necessaria la convocazione di un’assemblea per ottenere una deliberazione in merito alla possibilità di effettuare o meno il cambio di destinazione. Dunque, se il regolamento prevede dei divieti, è importante sapere che possono essere derogati con un voto unanime dell’assemblea e che, al di là del contenuto del regolamento, i condòmini possono autorizzare all’unanimità la variazione richiesta. LEGGI TUTTO

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    Certificazione unica, la scadenza: entro quando inviare i dati

    Scadenze fiscali: è tempo di CU, la certificazione unica, il documento fiscale che sintetizza in un unico modulo le informazioni relative ai redditi di lavoro dipendente, pensione e assimilati (come quelli da lavoro autonomo occasionale), incluse le ritenute fiscali e contributive operate, nonché eventuali detrazioni e deduzioni spettanti al lavoratore o al pensionato. I sostituti d’imposta utilizzano la Certificazione unica 2024 per attestare i redditi di lavoro dipendente e assimilati, i redditi di lavoro autonomo, provvigioni e redditi diversi nonché i corrispettivi derivanti dai contratti di locazioni brevi. In pratica tutte le informazioni per mettere il Fisco a conoscenza della situazione economica del contribuente, ai fini della dichiarazione dei redditi.Quando inviareLe scadenze principali inerenti la Certificazione Unica (CU) per il periodo d’imposta 2023 sono le seguenti:18 marzo 2024 – Invio telematico all’Agenzia delle Entrate: i sostituti d’imposta devono trasmettere telematicamente la CU all’Agenzia delle Entrate. Questa scadenza è valida per le certificazioni relative ai redditi di lavoro dipendente, ai redditi di lavoro autonomo, e ai redditi diversi. Solitamente la data è fissata al 16 marzo, ma quest’anno cade di sabato, motivo per cui tutto slitta a lunedì 18.Consegna della CU al percipiente: I sostituti d’imposta devono consegnare la CU ai percipienti entro il 16 marzo 2024. Anche in questo caso, la scadenza slitta al 18 marzo.In sostanza sia dipendenti sia pensionati ricevono la CU dal proprio sostituto d’imposta entro il 18 marzo 2024.Sostituti d’impostaLa CU 2024 viene rilasciata dal sostituto d’imposta, ovvero il soggetto che effettua i pagamenti al lavoratore (ad esempio, un datore di lavoro o un ente pensionistico). Questo ente si occupa di calcolare, trattenere e versare le imposte dovute dal lavoratore direttamente all’Agenzia delle Entrate, semplificando il processo fiscale per il contribuente.nel caso dei lavoratori dipendenti il sostituto d’imposta è il datore di lavoro;nel caso dei pensionati è l’Inps.La Certificazione Unica deve essere fornita dai sostituti d’imposta ai propri dipendenti, pensionati o altri beneficiari entro date stabilite dall’Agenzia delle Entrate, di solito entro il mese di marzo dell’anno successivo a quello di riferimento dei redditi. Questo documento è essenziale per i contribuenti per poter compilare in modo accurato e completo la propria dichiarazione dei redditi.I compensi derivanti dall’attività di colf e badanti non devono essere oggetto di CU, in quanto il datore di lavoro, in questo caso non è sostituto di imposta. LEGGI TUTTO