Se prima la Francia calzava i sandali per affrontare l’«Himalaya di bilancio», come da icastica espressione del neo-premier, François Bayrou, ora ai piedi si ritrova le infradito. Il taglio del rating francese da parte di Moody’s (da A2 a Aa3) non è solo una stilettata alla debordante prosopopea transalpina, ma mette a nudo le criticità con cui Parigi dovrà fare i conti: forse subito, non appena i mercati riapriranno, in quello che sarà un crash test per verificare la tenuta degli Oat decennali; di certo in futuro poiché – mette il dito sulla piaga l’agenzia – «le finanze pubbliche saranno indebolite nei prossimi anni» a causa di una «probabile frammentazione politica» che finirà per impedire «un significativo consolidamento fiscale».
Con la Francia, Moody’s sembra aver perso speranza e pazienza: in ottobre, quando l’allora primo ministro Michel Barnier aveva squadernato una manovra «lacrime e sangue» da 60 miliardi, la valutazione sul debito francese era rimasta invariata malgrado le due consorelle, Standard & Poor’s e Fitch, ne avessero già declassato il rating ad «AA-». Qualche osservatore fa notare che si tratta di valutazioni ancora generose se paragonate a quelle dell’Italia (che oscilla fra «Baa3» e la tripla «B»), dove peraltro c’è un governo stabile e una traiettoria di risanamento meglio definita. La Francia ha sì «un’economia grande, ricca e diversificata», ma corre un rischio esiziale: quello, sottolinea sempre Moody’s, «di un aumento sostenuto dei costi di finanziamento», tale da poter creare «una spirale negativa tra deficit più elevati, un onere del debito più elevato e costi di finanziamento più alti». Il perfetto mix per una tempesta perfetta.
Da qualche settimana, non a caso, si vanno amplificando le voci secondo cui alcune mani forti starebbero addirittura scommettendo sul default della Francia. Spifferi che non si sono tradotti (per ora) in un surriscaldamento dello spread fra Oat e Bund, rimasto lo scorso venerdì attorno agli 80 punti base contro i 111 del differenziale fra i nostri Btp e l’omologo tedesco. Ma si tratta di un livello non del tutto rassicurante, almeno a dare retta a quanti indicano quota 100 come il possibile punto di rottura. È probabile che i mercati, prima di muoversi, aspettino al varco la formazione del nuovo esecutivo. La missione ha preso le mosse ieri con le consultazioni fra Bayrou, i presidenti del Parlamento e personalità del mondo economico. Moody’s è però pessimista: «C’è una probabilità molto bassa che il prossimo governo riduca in modo sostenibile l’entità dei deficit di bilancio oltre il prossimo anno». Il che significa un disavanzo destinato a salire oltre quel 6% del Pil che rappresenta l’obiettivo, forse irrealistico, per il 2025, considerando la congiuntura.
Resta l’interrogativo su come si comporterà la Bce in caso di attacco speculativo contro Parigi. La presidente Christine Lagarde ha rivelato giovedì scorso che durante il board non ha parlato del Tpi, il nuovo scudo anti-spread. Francoforte non ne discute per un motivo semplice: la Francia non potrebbe chiedere l’apertura del paracadute, essendo sotto procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo e non potendo sottostare ai vincoli chiesti per l’attivazione.
Primo fra tutti, l’impegno a quelle riforme strutturali su cui è naufragato Barnier. Anche se un modo per togliere ai francesi le infradito ci sarebbe: il varo di un whatever it takes 2.0. Farebbe bene all’intera Eurolandia.