«Noi oggi non ci stiamo attrezzando, abbiamo ancora da capire, come molti operatori, come si andrà a definire il quadro di regole che riguardano l’elezione del cda e quali saranno le intenzioni del consiglio di amministrazione di Generali. Dopo che questi due elementi saranno chiariti potremo prendere le nostre decisioni». Così l’ad di Mediobanca, Alberto Nagel, ha risposto a una domanda su una eventuale lista di Mediobanca per il rinnovo del cda di Generali, nel corso della conference call di presentazione dei risultati del primo trimestre 2024-2025 al 30 settembre 2024. «Come tutti gli operatori abbiamo uno scambio di vedute con l’esecutivo e noi, così come altri, abbiamo rappresentato quelle che possono essere delle migliorie a vantaggio di tutto il mercato, tutto il sistema, ha aggiunto Nagel in merito al dialogo in corso con il governo sulla legge Capitali. «Poi ognuno fa il suo mestiere – ha precisato – e sta alla controparte, sta al governo tirare le conclusioni».
Al momento, la composizione azionaria di Generali vede Mediobanca al 13,1% circa. Seguono il gruppo Del Vecchio tramite Delfin, con una quota del 9,93%, e il gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, che ha una partecipazione del 6,92%. Anche il gruppo Benetton è presente con una quota del 4,8%.
La legge Capitali prevede che dal primo gennaio 2025 per la presentazione della lista del consiglio di amministrazione di una società quotata sia richiesta una maggioranza qualificata pari ai due terzi dei membri del cda uscente. Questo rappresenta una soglia elevata, ideata per rendere il processo di approvazione della lista del cda più rigoroso e inclusivo delle diverse posizioni all’interno del consiglio. Inoltre, una volta approvata la lista del cda e se questa risulta poi la più votata in assemblea, il sistema elettorale per la distribuzione dei seggi cambia a seconda del risultato complessivo delle altre liste. Se le liste di minoranza ottengono meno del 20% dei voti, la distribuzione dei seggi avviene con una riserva minima del 20% per le minoranze. Al contrario, se superano il 20% dei voti, si applica una ripartizione proporzionale con una soglia minima del 3% per le liste delle minoranze. Non è tuttavia chiaro se con il sistema proporzionale si suddividerà solo la quota minoritaria di seggi riservata alle liste perdenti oppure si ripartirà l’intero cda, nel qual caso si potrebbero creare board con maggioranze molto risicate.
La seconda questione riguarda il “secondo turno”. La legge Capitali impone che la lista del board contenga un numero di candidati superiore di un terzo rispetto ai posti disponibili, in modo da poter poi sottoporre i singoli amministratori al voto individuale dei soci. Non è stato però ancora chiarito se al voto di ballottaggio possa partecipare solo chi ha sostenuto al primo turno la lista del cda oppure tutti i presenti in assemblea, con il rischio di azioni di disturbo. Nei sistemi di governance anglosassoni, dove è adottata una doppia votazione per i candidati al cda proposti dal board uscente, entrambi i voti sono generalmente aperti a tutti i partecipanti all’assemblea degli azionisti, non solo a coloro che hanno votato in favore della lista del consiglio.
Il primo voto consente agli azionisti di approvare o respingere la lista dei candidati, mentre il secondo offre un’ulteriore conferma e permette di esprimere un consenso formale sugli individui nella lista. Questo doppio livello di voto può garantire una maggiore legittimazione ai candidati e rende più inclusivo il processo decisionale, coinvolgendo l’intero corpo degli azionisti.
In alcuni casi, viene prevista una ratifica nel secondo voto, dove i candidati devono ottenere una maggioranza significativa o addirittura una soglia di consenso più alta per consolidare il loro mandato. In questo modo, tutti gli azionisti, indipendentemente dal loro voto iniziale, possono comunque influire sul risultato finale e confermare o respingere le nomine proposte dal cda.
Come detto, la legge Capitali è pensata per tutelare maggiormente le minoranze, in modo da determinare un riequilibrio di potere tra manager e soci. Questa innovazione potrebbe indebolire tutti quei manager che hanno nel capitale soci forti con vedute differenti. A essere chiamate in causa non sono solo Generali (che in aprile dovrà rinnovare il cda e sperimenterà per prima la nuova formula) e Mediobanca, al cui interno da tempo è in atto un confronto fra il consiglio e gli azionisti rilevanti come Caltagirone (7,76% di Piazzetta Cuccia) e Delfin (19,81%). Ma anche di Tim, Prysmian, Fineco, Unicredit e altre grandi quotate italiane che utilizzano la lista del cda.
La Consob avrebbe dovuto emanare disposizioni attuative della disciplina della lista del board entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge. A quasi nove mesi dal via libera del Parlamento nulla è accaduto nelle more di un pronunciamento del comitato per la riforma del Testo Unico della Finanza, costituito dal Tesoro cooptando gli esperti della materia. Il legislatore, però, non ha più molto tempo perché le società, a partire da Generali, dovranno adeguare gli statuti.
Resta aperto, così, il dibattito. Occorre, infatti, ricordare che la legge Capitali si proponeva un obiettivo chiaro. Da un lato, come ha spiegato il professor Roberto Sacchi della Statale di Milano, intendeva «limitare l’asimmetria fra la lista del cda e le altre liste, dovuta al fatto che solo il cda uscente può utilizzare le risorse economiche e informative delle società, dall’altro lato evitare il rischio di autoreferenzialità, autoperpetuazione e, in presenza di un socio di controllo forte, di strumentalizzazione da parte sua della lista del consiglio».
Parole che ben si adattano a quei casi dove il gioco di sponda tra un azionista di peso e i fondi (che non a caso sono tra le istituzioni più critiche nei confronti della nuova normativa) depotenzia le prerogative delle minoranze, anche quelle in possesso di quote rilevanti.