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Così i dazi diventano un autogol


È cosa nota: la lingua batte dove il dente duole. Il dente che fa molto male, che scricchiola, è quello della globalizzazione. Gli ottimisti a oltranza pensavano alla globalizzazione come la panacea ai mali dei mondi. Alla prova dei fatti le cose non sono andate così.

Intendiamoci, qualcosa di buono in materia di miglioramento della qualità della vita di molte popolazioni c’è stato; tuttavia, in senso generale, oggi prevale nel sistema mondo una tensione continua, logiche di sopraffazione, diffidenza diffusa. E questo sta interessando in modo evidente anche le realtà tradizionalmente più avanzate come gli Stati Uniti e la vecchia Europa.

Un interesse che si traduce con il desiderio programmatico di un ritorno a forme di protezionismo. Dunque: protezionismo versus globalizzazione.

Se fosse tale tentativo a prendere il centro della scena finirebbe oggettivamente sotto scacco quella vicenda di libertà che si chiama concorrenza.

L’aumento dei dazi come forma di difesa rispetto alle mosse aggressive di potenze spregiudicate, quali la Cina, rischia di essere il classico pannicello caldo. Il declino della manifattura in Occidente questo è il fenomeno più eclatante non è dovuto principalmente alla concorrenza spietata di Pechino, piuttosto a ritardi interni nella comprensione dell’impatto del progresso tecnologico e dei conseguenti processi di automazione. Ecco perché il dare nuova vita al protezionismo rischia di essere una risposta sulla difensiva e quindi poco attenta a prendere di petto la situazione. I mercati si proteggono non con l’introduzione di schermi protettivi di corto respiro.

L’economia reale domanda sempre di essere lasciata libera di agire per affermare il suo protagonismo in fatto di forza e dinamicità. Spetta ai governi che scommettono sul valore della libertà farsi carico di questo rischio d’impresa. Un rischio difficile. Ma un passaggio culturale, e perciò economico, fondamentale.

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Fonte: https://www.ilgiornale.it/taxonomy/term/40822/feed


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