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Diciamo pure subito, senza timore di essere smentiti, che una campagna elettorale con le regioni del Nord e quelle del Sud le une contro le altre armate non era una prospettiva troppo gradita nei due palazzi che si fronteggiano sul Colle più alto di Roma, il Quirinale e la Consulta. Ma naturalmente la decisione dei giudici costituzionali di stoppare il referendum abrogativo sulla legge Calderoli, legge ordinaria in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione sull’autonomia differenziata, ha una ragione giuridica evidente: dopo la sentenza della stessa Corte costituzionale 192 del 14 novembre scorso in seguito al ricorso di quattro regioni a guida centrosinistra – sentenza che ha di fatto smontato la legge impugnata cancellandone 7 punti e riscrivendone in modo “costituzionalmente corretto” altri 5 – della Calderoli resta ben poco.
Lo stop della Consulta: no a un referendum su una legge che non c’è più
«La Corte ha rilevato che l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari. Ciò pregiudica la possibilità di una scelta consapevole da parte dell’elettore», recita la nota serale della Consulta per la stampa, in attesa del deposito delle motivazioni. Come a dire: se non c’è più l’oggetto, su cosa si vota? Non solo. Proprio perché a restare in piedi è di fatto solo il principio dell’autonomia differenziata, principio contenuto nell’articolo 116 con la riforma del Titolo V voluta dall’allora centrosinistra nell’ormai lontano 2001, «il referendum verrebbe ad avere una portata che ne altera la funzione, risolvendosi in una scelta dell’autonomia differenziata, come tale, e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma della Costituzione; il che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo eventualmente di una revisione costituzionale».
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Il sospiro di sollievo di Palazzo Chigi, che evita lo scontro su tema divisivo
Il primo grande sospiro di sollievo arriva da Oltre Oceano, ed è quello di Giorgia Meloni. La premier, impegnata nella cerimonia di insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, si evita infatti una campagna elettorale insidiosissima, campagna che la avrebbe costretta a difendere una legge che non ha mai sentito sua e che la avrebbe costretta a subire la propaganda di un’opposizione per una volta unita attorno alla bandiera dell’unità del Paese contro la legge “spacca Italia”. E tutto sommato a tirare un sospiro di sollievo è la stessa Lega. Che con il governatore del Veneto Luca Zaia sostiene che «la Corte ha prima affermato la costituzionalità della legge, suggerendo i correttivi, e oggi pone la parola fine al referendum togliendo incertezza alla fase operativa».
E ora? Primo step nuova legge delega sui Lep. Ma con calma
Fase operativa che, tuttavia, dopo l’intervento della Consulta con la sentenza 192 del 2024 avrà per forza di cose tempi lunghi. Le Camere, hanno dettato i giudici costituzionali, si devono poter esprimere compiutamente su tutti i passaggi fondamentali della riforma, dai provvedimenti che fissano gli ormai famosi quanto ancora imprecisati Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) fino alle intese con le singole regioni, che potranno essere emendate dal Parlamento a differenza di quanto previsto fin qui dalla legge quadro. Inoltre ad essere trasferite non potranno essere le materie in blocco ma solo singole funzioni. Dulcis in fundo, va preventivamente calcolato l’impatto dei Lep e del loro finanziamento integrale su saldi di finanza pubblica che difficilmente possono sopportare nuova spesa, e che ora sono stati fissati in un Piano strutturale di bilancio non più modificabile a meno di eventi eccezionali.
I tempi lunghi investiranno per par condicio anche il premierato
Nell’immediato il primo passaggio obbligato è la riscrittura in modo puntuale e non generico della legge delega sui Livelli essenziali di prestazione (Lep). «La Corte ha detto che la delega deve essere chiara, non può essere generica, e ha chiesto un maggior coinvolgimento del Parlamento. Faremo in modo che le Camere possano emendare le intese», conferma il presidente meloniano della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni. Ma né Meloni né Forza Italia hanno voglia di riaprire subito la questione («scriveremo una legge equilibrata», dice il vicepremier e leader azzurro Antonio Tajani). Insomma, tempi lunghi. Che investiranno anche – per par condicio – l’altra riforma costituzionale in campo, quella del premierato. Tanto che la stessa premier, nella conferenza stampa di inizio anno, ha evocato il referendum confermativo sulla “sua” riforma dopo le prossime elezioni politiche.