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Perché non premiare chi ripara le merci?


La classe media che per decenni ha sorretto la democrazia liberale contribuente, lavoratrice, risparmiatrice si sta logorando in silenzio. Stipendi inchiodati, casa irraggiungibile, risparmio che evapora, welfare assottigliato: i ventenni per eguagliare i genitori, spesso emigrano.

Il denaro oggi più che mai è il centro della nostra grammatica sociale. Ma in un mondo materialista, dove tutto si misura e si valida attraverso il potere d’acquisto, cosa accade quando la maggioranza non può più accedere a quella che chiamiamo ricchezza? Quando chi lavora non può permettersi una casa e fatica a mettere via cento euro al mese, il denaro smette di essere strumento e diventa idolo: un tempio senza fedeli.

Coloro che dovrebbero validare il sistema economico ne vengono esclusi e la ricchezza si concentra in nodi finanziari globali, lontani dalla vita quotidiana.

Senza ceto medio né il capitalismo né la democrazia reggono. La storia è spietata: al suo tramonto arrivano prima l’autoritarismo che promette protezione, poi la rivoluzione che promette giustizia. Se non vogliamo scegliere fra questi due inganni serve un cambio di paradigma, non l’ennesima toppa fiscale.

Il consumismo finanziario ha vinto solo a metà: ha creato una rivoluzione tecnologica senza precedenti, ma ha fallito nel disegnare il futuro. Oggi occorre passare dalla quantità al valore durevole. Qui la nuova direttiva europea «Right to Repair» indica un sentiero: ogni prodotto dovrà essere riparabile, i ricambi garantiti per anni. È un colpo all’obsolescenza programmata, ma potrebbe restare lettera morta se l’Italia non la fa propria con coraggio liberale.

Perché non azzerare l’IVA sulla manutenzione e applicare, al contrario, una carbon-malus ai beni usa-e-getta? Colpirebbe la concorrenza sleale del low-cost asiatico, non la piccola impresa italiana. Perché non varare detrazioni piene per le officine che rigenerano elettrodomestici, bici, computer? La manifattura di qualità esiste già: occorre solo aprirle il mercato interno finora drogato dall’import low-cost ingannevole. Detassare la manutenzione risponde anche all’adagio liberale «meno Stato-più mercato».

Riparare gli oggetti per riparare il Paese: è così che la libertà torna virtù invece di vizio. Ogni euro speso per riparare un oggetto resta in Italia, crea lavoro artigiano, riduce rifiuti e dipendenze energetiche. Ma la rivoluzione non è solo fiscale. Bisogna rimettere in bilancio la dignità di cura, cultura ed educazione, lavori che salvano comunità ma non finiscono nei fogli Excel della produttività.

Il consumismo è diventato un vizio e per superarlo bisogna agire ripartendo dai fondamentali di una civiltà, riscoprendone relazioni e coesione, riscrivendo le regole e superando l’assolutismo individualista.

La società materialista si è impantanata perché ha confuso il mezzo con il

fine. Una cultura che ridia senso a valore, misura, tempo e limite può rifondare la fiducia. Serve una grammatica del futuro, non solo una nuova visione del PIL, e una libertà limpida capace di separare le virtù dai vizi.


Fonte: https://www.ilgiornale.it/taxonomy/term/40822/feed


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