Per capire quale sarebbe la migliore reazione dei Paesi europei ai dazi americani bisogna partire da due premesse. La prima è che ci si trova di fronte a una scelta di politica economica e commerciale, quella dei superdazi, che non ha precedenti né fondamenti economici. Certo, nell’attuale governo Usa esistono i consiglieri che la sostengono, ma la teoria secondo la quale i dazi, attraverso l’azzeramento del deficit commerciale con l’estero, rimetterebbero in piedi l’industria Usa non trova tra gli economisti una condivisione sufficiente a renderla credibile, soprattutto a causa dei prevedibili effetti collaterali, primo fra tutti quello della recessione. La seconda è data dalla risposta dei mercati finanziari, paragonabile solo eventi quali il Covid o il crac Lehman Brothers: entrambi hanno infatti anticipato una recessione economica. E in questo caso il crollo deriva dalla perdita di fiducia dei grandi investitori internazionali verso il governo degli Stati Uniti d’America.
Con queste premesse l’Europa ha davanti due strade: quella di rispondere colpo su colpo e con misure anche sanzionatorie; oppure quella di cogliere l’occasione per sparigliare le carte. Nel primo pacchetto ci sono i controdazi; le possibili nuove tasse; e strumenti come l’Aci (Anti-Coercion Instrument). I controdazi sono la risposta più immediata e già utilizzata, pur con modalità selettive e differenti, da Canada e Cina. Tra le nuove imposte c’è tutto il mondo del Web. Mentre l’Aci è un sistema vigore da dicembre 2023 e mai utilizzato finora, noto anche come bazooka, una sorta di arma finale. Non essendo mai stata utilizzata, non esistono esempi concreti. Si sa che consente all’Unione di reagire attraverso un sistema strutturato, simile alle procedure d’infrazione che vengono applicate ai Paesi membri. O – se si vuole – alle condizioni poste in ambito Antitrust. Comunque si parte aprendo un dialogo con il Paese coinvolto, a cui far seguito, se necessario, misure di risposta proporzionate e temporanee. Fino a un’escalation che può riguardare beni, servizi, investimenti, appalti pubblici, proprietà intellettuale, regole sanitarie o ambientali. Vista la situazione, il pacchetto «ritorsivo» presenta varie controindicazioni. Tra queste, l’effetto escalation rischia sia di peggiorare le Borse, sia di danneggiare due volte le imprese: tutte quelle che esportano prodotti lavorati con materie a loro volta importate, si troveranno tassate due volte. Inoltre, agendo così, l’Ue commetterebbe lo stesso errore economico che sta commettendo Trump. In altri termini con questa reazione si rischia di cadere nel trappolone della Csa Bianca.
Diversa sarebbe invece un’Europa che colga le due opportunità che le si presentano davanti: la prima è quella di compensare una parte dei dazi Usa eliminando un po’ di tasse nascoste, lacci e lacciuoli che le imprese denunciano da tempo.
Ripensando il green deal, tanto per iniziare, ma non solo: si pensi alla riforma delle accise, che sta per arrivare come una nuova mannaia, e tante altre direttive e norme (su imballaggi, etichette, supply chain, solo per citarne alcune). La seconda è quella di andare su nuovi mercati, con accordi e diplomazia. Un percorso che richiede tempo. Ma che alla lunga può portare gli europei a colmare domani gli spazi lasciati liberi oggi da Trump.