L’ex Ilva di Taranto non può più rifornire di acciaio le industrie italiane, Fincantieri in testa. A poche ore dall’appello del numero uno di Federacciai Antonio Gozzi che ha chiesto di trattare il polo siderurgico come un dossier militare strategico da salvare con i fondi della Difesa, viene meno uno dei pilastri che ne giustificherebbero l’impegno finanziario: la strategicità del sito per l’industria italiana.
A bocce ferme infatti ormai l’ex Ilva produce con un solo altoforno (4.500 tonnellate di acciaio al giorno dalle precedenti 10mila tonnellate): può onorare i vecchi contratti, ma non può più accettare alcuna nuova commessa con le grandi industrie, Fincantieri in primis. E non potrà farlo sicuramente fino a febbraio 2026, fino quando Taranto andrà a un solo altoforno. Non è un caso che proprio ieri il ceo del gruppo navale Pierroberto Folgiero abbia chiarito che nel caso di un eventuale spostamento della produzione in Romania in mancanza di meglio verrà utilizzato l’acciaio di Bucarest.
Un quadro drammatico per il futuro dello storico polo pugliese arenatosi dopo l’incidente dell’Altoforno1 che ha compromesso l’impegno del socio privato azero Baku Steel. Impegno ulteriormente complicato dalla irragionevole resistenza degli enti locali, e del Comune di Taranto in particolare, a dare il via al contratto di programma interministeriale propedeutico al rilascio dell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale necessaria per garantire la continuità produttiva e quindi un eventuale investimento da parte del socio privato azero che ormai appare sempre più lontano.
Contro il piano del governo per privatizzare Taranto insiste poi il «no» del neo sindaco Piero Bitetti al posizionamento, nel porto, di una nave rigassificatrice e di un dissalatore che servono a Baku Steel per produrre e avviare poi la transizione ai forni elettrici. Una situazione di stallo sulla quale, alla vigilia di un vertice tra enti locali, governo e sindacati, che si terra oggi alla Fiera del Levante, torna il tema della nazionalizzazione. E questa volta a evocarla e nientemeno che il principale oppositore. «Riteniamo sia giunto il momento di un cambio di paradigma. Serve un’assunzione piena di responsabilità da parte dello Stato. Lo diciamo con chiarezza: la strada da percorrere è la nazionalizzazione dell’impianto. Solo con una regìa pubblica sarà possibile garantire investimenti seri, bonifiche reali, tutela occupazionale e salute dei cittadini», ha detto il sindaco Bitetti.
Un’operazione che come anticipato da Moneta sarà particolarmente onerosa a questo punto per le casse dello Stato. Guardando ai numeri – secondo Davide Lorenzini, esperto del settore siderurgico – per il salvataggio di Taranto occorrono rapidamente quasi 7 miliardi di euro. In base ai valori di perizia, infatti, 1,8 miliardi servono per l’acquisto degli impianti, un miliardo per le manutenzioni immediate, almeno due miliardi per ripristinare il circolante e altrettanti tra capex e opex, cioè gli investimenti.
A tendere poi, e in base al piano di decarbonizzazione che si concretizzerà, potrebbero servire altri 5-6 miliardi da spalmare da qui al triennio 2030-32.
Numeri da capogiro che riguardano anche il fronte occupazionale: al momento sono in cassa 4mila lavoratori ma la forza lavoro è di oltre 10mila persone, e oltre 20mila compreso anche l’indotto.