in

Bassa produttività, bassi salari e rischio povertà: un problema che viene da lontano

Il rapporto Istat “Condizioni di vita e reddito delle famiglie in Italia 2023-2024” sul basso livello dei salari ha riacceso il dibattito politico, con le consuete critiche all’inefficienza del governo. Citiamo solo la consueta filippica del segretario della Cgil, Maurizio Landini: “Sono dati che gridano vendetta, il governo si assuma le sue responsabilità”. L’esecutivo guidato da ha in mano leve strategiche per modificare le dinamiche del mercato del lavoro, ma attribuirgli responsabilità storiche è fuorviante perché, come vedremo, “l’unica colpa” è aver aumentato il numero degli occupati, circostanza che altrove meriterebbe un qualche riconoscimento ma che in un Paese malato di assistenzialismo è quasi un’onta. L’analisi dei dati Istat e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) evidenzia, infatti, che le criticità salariali italiane affondano le loro radici in scelte economiche e monetarie decennali, ben precedenti all’insediamento dell’attuale governo.

Una dinamica storica: salari e produttività in Italia

I dati Istat del 2024 confermano che il potere d’acquisto delle famiglie italiane è in calo, nonostante un aumento nominale del reddito del +4,2% nel 2023. La realtà è che questa crescita non compensa l’inflazione, portando a una riduzione del reddito reale del -1,6%. Il 23,1% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale, con un peggioramento soprattutto per gli anziani soli e le famiglie numerose. Il fenomeno della povertà lavorativa colpisce il 10,3% degli occupati, segnalando che avere un lavoro non garantisce più un’esistenza dignitosa.

Secondo il rapporto Oil 2024-2025, l’Italia ha registrato la peggiore performance salariale tra i paesi del G20 dal 2008 ad oggi, con una perdita dell’8,7% dei salari reali. La crisi finanziaria del 2008-2012 ha rappresentato uno spartiacque negativo, ma già dalla fine degli anni ‘90 il sistema italiano aveva scelto la strada della moderazione salariale. Come ha sottolineato Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro dell’Università Bocconi, la “spirale della bassa produttività e l’avvitamento con i bassi salari” hanno radici nel protocollo Ciampi del 1993 (sostanzialmente avallato – anche a costo di spaccature interne – da quello che oggi è il principale partito di opposizione, “erede” del vecchio Pds), quando l’Italia si preparava all’ingresso nell’euro adottando politiche di contenimento della spesa e del costo del lavoro. Questa scelta ha prodotto un sistema industriale concentrato su settori a basso valore aggiunto, dove i salari non possono crescere se non a costo di un’erosione della competitività.

Settori produttivi e valore aggiunto: il peso del terziario

Un altro elemento cruciale è la distribuzione settoriale della forza lavoro. In Italia, su circa 24 milioni di occupati, la maggioranza si concentra nel terziario (18-19 milioni), mentre l’industria occupa tra i 4 e i 5 milioni di persone e l’agricoltura poco meno di un milione. Questo significa che gran parte dei lavoratori è impiegata in ambiti caratterizzati da bassa produttività e retribuzioni limitate, come ristorazione, ospitalità e piccole imprese contoterziste. Settori ad alta innovazione e ad alto valore aggiunto, come la tecnologia e la manifattura avanzata, non riescono a trainare il mercato del lavoro.

Carlo Lottieri dell’Istituto Bruno Leoni, sulle pagine del Giornale, ha evidenziato come il problema dei bassi salari derivi anche dalla scarsa formazione della forza lavoro. L’Italia ha uno dei tassi più bassi di laureati in Europa e la scuola non funge più da ascensore sociale. Se la produttività è bassa, gli stipendi restano stagnanti. “Abbiamo bisogno di meno Stato e più concorrenza, meno burocrazia e più libera iniziativa”, ha scritto. In sintesi, la rigidità normativa e fiscale disincentiva l’investimento in capitale umano e tecnologico, aggravando la stagnazione salariale.

Il paradosso dell’occupazione sotto il governo Meloni

Se da un lato il problema salariale è di lunga durata, dall’altro il governo Meloni ha contribuito, in maniera paradossale, ad accentuarne alcuni effetti. Il numero di occupati è passato da 23,519 milioni a luglio 2023 a 24,037 milioni a dicembre 2024, con 518mila nuovi posti di lavoro. Tuttavia, questa crescita non si è tradotta in un aumento della produttività, come evidenziato da Del Conte: “Le aziende assumono tanto perché pagano poco”.

Il governo ha varato misure come il taglio del cuneo fiscale e la decontribuzione per i contratti a tempo indeterminato, aumentando il reddito disponibile per oltre 11 milioni di famiglie. Tuttavia, la crescita occupazionale ha riguardato settori a bassa remunerazione, consolidando un modello in cui l’aumento dei lavoratori non significa miglioramento delle condizioni salariali. Se proprio si vuole muovere una critica (a scoppio ritardato) all’esecutivo, dovrebbe riguardare il secondo modulo della riforma Irpef: abbassare la seconda aliquota (da 28mila a 50mila euro) dal 35 al 33% avrebbe portato un beneficio evidente per l’anno in corso. Alle contestazioni di oggi si sarebbe potuto replicare con un provvedimento efficace, ma si è dovuto rinviarlo perché spendere 2,5 miliardi di euro a carico del bilancio pubblico non è possibile. I motivi? Fra poco li analizzeremo.

Il salario minimo: una non-soluzione

Nel dibattito sulle retribuzioni spesso emerge la proposta del salario minimo. Tuttavia, la sua applicazione solleva dubbi. Un salario minimo di 9 euro l’ora, come proposto congiuntamente dalle opposizioni, potrebbe comprimere verso il basso retribuzioni superiori, mentre rischierebbe di espellere dal mercato alcune fasce di lavoratori, favorendo il lavoro nero. La contrattazione collettiva in Italia già garantisce livelli minimi retributivi in molti settori, ma il vero nodo è il modello produttivo su cui si regge il sistema economico italiano.

La stabilità economico-finanziaria conseguita a discapito dei redditi

Uno dei principali effetti delle politiche economiche degli ultimi anni è stato il contenimento dei conti pubblici e il miglioramento della stabilità finanziaria. Tuttavia, ciò è avvenuto spesso a scapito dei redditi dei lavoratori. L’aumento del tasso di occupazione, che potrebbe essere visto come un successo, ha paradossalmente contribuito ad abbassare la media dei salari, aumentando il numero di occupati con redditi bassi. In altre parole, “l’unica colpa” di Meloni è stata proprio quella di incrementare la partecipazione al mercato del lavoro, senza che ciò si traducesse in un aumento significativo del benessere economico delle famiglie.

L’economista Antonio Martino, già nel 2017 in un’intervista al Giornale, metteva in guardia da questo fenomeno. «Se il disavanzo delle partite correnti non determina una svalutazione della moneta nazionale, il sistema si riporta in equilibrio con le variabili macroeconomiche interne: prezzi, livello dell’occupazione e sviluppo. L’Italia ristagna da tanto tempo proprio per questo motivo», aveva detto. La rigidità imposta dall’euro ha infatti impedito che gli squilibri fossero corretti attraverso aggiustamenti del cambio, costringendo l’Italia a una compressione dei salari reali per mantenere la competitività. Non si gabelli questo come un argomento “euroscettico” ma se un’analisi deve essere approfondita – e la situazione retributiva in Italia lo impone – non si può trascurare nessuno dei fattori che concorre alla determinazione di una condizione di evidente squilibrio.

Conclusioni/1: Quale futuro per i salari in Italia?

Le dinamiche salariali italiane non sono il risultato di scelte governative recenti, ma di un lungo percorso di moderazione economica, bassa produttività e settorializzazione della forza lavoro. La crescita dell’occupazione registrata nel 2023-2024 è un dato positivo, ma non basta a risolvere il problema della qualità del lavoro e del livello retributivo. Senza un deciso cambio di rotta su innovazione, formazione e produttività, il mercato del lavoro italiano resterà bloccato in una spirale di bassi salari e crescita economica stagnante. Il vero obiettivo, come diceva l’agenda di Lisbona del 2000, non dovrebbe essere solo more jobs, ma more and better jobs.

Conclusioni/2: “Aggiustare” un sistema squilibrato

Se la Germania, avendo un consistente avanzo di bilancio, può permettersi di spendere mille miliardi di euro in infrastrutture e difesa, mentre Paesi euro come Italia e Spagna non possono farlo perché si sballerebbero i conti pubblici, allora il problema strutturale della zona euro è evidente.

Se si propone, come ha fatto Société Générale, di usare addirittura il Tpi della Bce – che peraltro non è utilizzabile perché questi Paesi non sono in equilibrio di bilancio secondo Maastricht (anche se l’eventuale attivazione sarebbe a discrezione dell’Eurotower con tutte le polemiche che ne conseguirebbero) – per monetizzare il debito pubblico e consentire investimenti in difesa, allora come si può pensare che ci siano risorse pubbliche per finanziare una ulteriore detassazione volta ad aumentare i salari netti? La realtà è che la costruzione della moneta unica vincola la spesa pubblica e limita le possibilità di intervento a favore del reddito disponibile dei cittadini, generando così un sistema in cui la stabilità finanziaria viene garantita, ma a costo di una stagnazione dei salari e della capacità di crescita economica.


Fonte: https://www.ilgiornale.it/taxonomy/term/40822/feed


Tagcloud:

Caso Almasri, la Camera respinge la mozione di sfiducia al ministro Nordio

Le foto della vacanza a 5 stelle alle Maldive di Giulia De Lellis e Tony Effe