«Allons enfants européens, le temps d’agir est arrivé». Ci voleva , portatore (in)sano dell’armamentario protezionista, per trasmutare la divisiva Christine Lagarde in una marseillaise rivoluzionaria e affratellante, più comunitaria che comunarda; perfino capace, da un palco di Francoforte, di tirare le orecchie ai tedeschi visti come l’ostacolo principale ai vari progetti, circolati e regolarmente abortiti negli anni, di armonizzazione e semplificazione delle norme di natura finanziaria. Come , che la scorsa settimana auspicava un embrassons-nous («Muoversi in ordine sparso porta alla sconfitta»), anche la presidente della Bce pare convinta che sia finito il tempo dei veti incrociati e dello sguardo tenuto ossessivamente sull’ombelico degli interessi nazionali. Rispetto a un anno fa, altri ritardi sono stati accumulati e il declino dell’Europa nell’innovazione è diventato più evidente. «Il divario tecnologico tra noi e Stati Uniti è ormai innegabile – riflette a voce alta l’ex capo dell’Fondo monetario internazionale – Anche l’ambiente geopolitico è diventato meno favorevole, con crescenti minacce al libero scambio provenienti da ogni parte del mondo. Essendo l’economia più aperta tra le principali, l’Unione europea è più esposta a queste tendenze rispetto ad altre».
Tanto che alla contrazione della manifattura si è aggiunto ieri il declino dei servizi con l’indice Pmi composito rilevato da S&P Global sceso sotto le attese a novembre da 50 a 48,1 punti. E l’euro è scivola a 1,035 dollari, segnando il livello più basso da novembre 2022.
Da dove partire, quindi, per non restare irrimediabilmente indietro? Lagarde individua nella frammentazione del mercato dei capitali uno dei primi ostacoli da rimuovere, benché il percorso sia reso accidentato dalle oltre 55 proposte normative e 50 iniziative non legislative su cui, dal 2015 a oggi, si è depositata la polvere. E il motivo è presto detto, con la leader dell’Eurotower che punta il dito contro «gli interessi consolidati (che) si oppongono o indeboliscono ogni singolo provvedimento provocandone in ultima istanza il fallimento». Tra le righe, un esplicito riferimento al «nein» di Berlino al progetto di acquisizione di Commerzbank da parte di Unicredit.
Se da un lato c’è bisogno di semplificare, armonizzare e sburocratizzare, dall’altro occorre muoversi anche per aggiustare l’insufficiente canalizzazione dei risparmi europei verso i mercati dei capitali. Lagarde inquadra così il fenomeno: nel 2023, gli europei hanno risparmiato circa il 13% del loro reddito, rispetto all’8% negli Stati Uniti. Tuttavia, circa 11.500 miliardi di euro, pari a circa un terzo del totale delle attività finanziarie delle famiglie, sono detenuti in contanti e depositi. Una delle principali ragioni è che gli investimenti al dettaglio nell’Ue sono frammentati, opachi e costosi. «Uno European Savings Standard – propone la numero uno della Bce – potrebbe risolvere questo problema offrendo prodotti di investimento accessibili, trasparenti e a costi contenuti, idealmente completati da incentivi fiscali armonizzati tra i diversi Paesi».
Un altro fattore che impatta su tutto ciò che si identifica con progresso è dato dal fatto che l’allocazione dei risparmi non favorisce settori e aziende innovative. Manca un primo tassello: il volano del venture capital, i cui investimenti sono solo circa un terzo rispetto agli Stati Uniti.
Anche in questo caso servono meno ostacoli e barriere burocratiche, allo scopo di creare, «un maggior numero di aziende in rapida crescita che attirino il finanziamento dei venture capitalist», nonché un coinvolgimento maggiore della Banca europea degli investimenti. Tutto molto condivisibile, Madame Bce. Ma alle parole seguiranno i fatti?