Il numero fa una certa impressione e dovrebbe suscitare, in chi di dovere, più di una preoccupazione: sono quasi 118mila le imprese nel nostro Paese che si trovano a rischio usura. In incremento rispetto all’anno passato di oltre 2.600 unità. L’allarme l’ha lanciato recentemente la Cgia di Mestre. Nella rete sono finiti gli imprenditori più piccoli e perciò indifesi: artigiani, commercianti e, in generale, i titolari di piccole e microimprese. Marchiati come insolventi e, di conseguenza, finiti dritti nella centrale rischi di Bankitalia. Il che vuol dire solo una cosa: il niet a poter accedere a una linea di credito bancario. Il triste e drammatico fenomeno riguarda soprattutto le realtà collocate nelle grandi aree metropolitane. L’insolvenza di queste piccole imprese con la terribile prospettiva dell’incontro tentacolare con l’usura non si può circoscrivere unicamente a una viziosa gestione finanziaria della propria attività. Il motivo vero del crollo verticale e della segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia risiede, assai spesso, in altro. Ovvero, è dovuto all’oggettiva impossibilità a riscuotere con regolarità i pagamenti dei clienti. Oppure per essere stati contaminati da un fallimento che ha visto coinvolti, per l’appunto, i soggetti committenti. Dunque, le cose stanno così: il lavoro regolarmente effettuato non ha avuto riscontro nel pagamento della fattura emessa entro i termini concordati. Si tratta di un problema enorme che va avanti da anni e a cui sembra proprio che non vi sia la volontà di trovare un adeguato rimedio.
Forse, allo stato attuale, l’unica strada percorribile sarebbe quella di potenziare le risorse a disposizione del fondamentale «Fondo di prevenzione dell’usura», nato proprio come forma di contrasto al sovraindebitamento e veicolo di prestiti. Un accesso alternativo al canale tradizionale delle banche che, come noto, sono più sensibili a prestare denari a chi i denari li possiede.