Dunque le cose stanno così: il nuovo corso di Monte dei Paschi sta funzionando. Leggo, infatti, che nei primi nove mesi dell’anno la banca senese ha avuto un balzo in avanti rispetto al 2023 del 68,6% con un utile di 1,57 miliardi. Morale: sganciata dalla pratica viziosa e invasiva della politica – e che in quelle latitudini, come noto, aveva un colore preciso – ha preso ad operare secondo criteri più squisitamente manageriali. Adesso Mps è attesa alla sfida più affascinante, quella di completare il processo di privatizzazione avviato con successo. Per intanto, entro la fine di questo mese, il Tesoro dovrebbe promuovere il collocamento sul mercato di una ulteriore tranche di azioni con il controllo del Mef che scenderebbe sotto il 20 per cento. Oggi è al 26,7%. Si tratta di una notizia buona in sé, tuttavia il cerchio verrebbe a chiudersi nel modo migliore solo nel momento in cui il Tesoro uscisse del tutto da Rocca Salimbeni. Altrimenti bisognerebbe continuare a sottolineare il fatto che nel nostro Paese le privatizzazioni faticano moltissimo (un eufemismo) a compiersi per intero. È come se vi fosse una resistenza ultima affinché si agisca con risolutezza per muovere gli ultimi passi. La storia insegna che proprio quelli sono i più difficili. Se Monte dei Paschi intende recitare un ruolo da protagonista sul terreno di possibili aggregazioni bancarie, è opportuno che il prima possibile venga sciolto qualsiasi legame con il ministero dell’Economia e delle Finanze. Il mercato non può che fare il tifo per questa soluzione.
La privatizzazione completa di Mps avrebbe un significato forte anche dal punto di vista simbolico (i simboli non sono mai da sottovalutare): una rinascita finalmente libera, del nostro più antico istituto, dalle incrostazioni ideologiche. Una rottura definitiva con un passato ingombrante, con una storia profondamente sbagliata. Non solo per Siena, naturalmente.
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