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    Com’è la giornata media di un essere umano nel mondo

    Caricamento playerUn gruppo formato principalmente da ricercatori e ricercatrici della McGill University a Montréal, in Canada, ha utilizzato un insieme molto ampio ed eterogeneo di dati e statistiche – demografiche, economiche e di altro tipo, nazionali e internazionali – per elaborare una stima di quanto tempo le persone dedicano in media ogni giorno ad azioni e attività comuni a tutti come nutrirsi, lavarsi, dormire e lavorare. Le informazioni ricavate sono sorprendenti per alcuni aspetti (lavoriamo “solo” 2,6 ore) e prevedibili per altri, e si spiegano principalmente perché a fare media è l’intera popolazione umana: circa 8 miliardi di persone, di ogni età e luogo geografico.I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e intitolata The global human day, sono considerati dal gruppo un’indicazione fondamentale per comprendere la ripartizione del tempo su scala mondiale nell’arco di una giornata. E si prestano a essere utilizzati in diversi ambiti di ricerca per studiare in dettaglio quali siano i fattori alla base delle differenze nelle ripartizioni tra un paese e l’altro, e su quali sia possibile intervenire per cercare di distribuire il tempo diversamente in modo da ridurre o contrastare eventuali rischi globali.La ricerca si basa sull’aggregazione di dati relativi a 145 paesi, raccolti da enti, agenzie e organizzazioni nazionali e internazionali (Banca Mondiale, OCSE, Unicef e altri), tra il 2000 e il 2019: il periodo successivo non è stato preso in considerazione per evitare condizionamenti dei risultati dovuti alla pandemia. I dati includono sondaggi sul tempo destinato alle varie attività quotidiane, statistiche sull’occupazione e sugli orari di lavoro degli adulti, e sull’istruzione e l’occupazione tra i giovani.La singola categoria più ampia nella ripartizione del tempo è quella del sonno e del riposo a letto: un essere umano trascorre in media circa 9,1 ore al giorno dormendo o riposando. È una media significativamente maggiore rispetto a quella del sonno tra gli adulti: che è 7,5 ore, secondo uno studio danese del 2020 che utilizzò dati ricavati tramite dispositivi indossabili su un campione internazionale di circa 70 mila adulti. Il motivo della differenza è che la ricerca della McGill University include nella stima il tempo trascorso a letto anche senza dormire, e soprattutto include il sonno e il riposo di bambini piccoli e neonati (12-16 ore al giorno).Un bambino dorme in una palafitta a Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni, in Brasile, il 29 luglio 2020 (Pedro Vilela/Getty Images)Le restanti 15 ore al giorno circa non destinate al sonno né al riposo sono state suddivise in tre macro-gruppi, ciascuno dei quali con diverse categorie e sottocategorie. Il macro-gruppo più grande (9,4 ore) riguarda le attività con «risultati umani diretti», cioè svolte dalle persone con l’obiettivo di ottenere un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro menti e sulle loro esperienze.Sono attività di questo tipo, per esempio, la pulizia personale e la cura del proprio aspetto e della propria salute, che occupano in totale poco più di un’ora al giorno. Alla consumazione dei pasti è dedicata in totale poco più di un’ora e mezzo, preparazione dei cibi esclusa (che rientra in un altro macro-gruppo e prende un’altra ora circa). La categoria che all’interno di questo macro-gruppo richiede più tempo di tutte – circa un terzo di tutto il tempo da svegli – sono le «attività passive, interattive e sociali»: occupano in media 4,6 ore al giorno e includono leggere, utilizzare dispositivi con schermi o display, giocare, passeggiare, socializzare e anche star seduti senza fare niente.Il tempo trascorso per l’istruzione e le attività scolastiche e universitarie è poco più di un’ora al giorno, e comprende la frequentazione delle lezioni, lo studio, la ricerca e la didattica a distanza. Circa 12 minuti al giorno è il tempo destinato alle pratiche religiose, incluse le cerimonie, le preghiere e le attività di meditazione: che è più o meno lo stesso tempo dedicato in media alle cure mediche e all’assistenza, inclusa quella domestica e non retribuita, alle persone che ne hanno bisogno.Un ragazzo si lava vicino a una fabbrica di mattoni a Islamabad, in Pakistan, il 27 dicembre 2011 (AP Photo/Muhammed Muheisen)Un altro macro-gruppo riguarda le attività con «risultati esterni», descritte come quelle che hanno lo scopo di produrre cambiamenti fisici nel mondo: occupano complessivamente 3,4 ore al giorno. Includono tutte le attività necessarie alla fornitura di alimenti (1,8 ore circa), inclusa l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, la lavorazione dei prodotti e la preparazione dei pasti. E includono anche l’estrazione di materie prime ed energia dall’ambiente (6 minuti circa), la costruzione di edifici, infrastrutture e manufatti (42 minuti circa), il mantenimento della pulizia e dell’ordine della casa e degli spazi abitati (48 minuti circa), e la gestione dei rifiuti (36 secondi circa).Il terzo e più piccolo macro-gruppo di attività – poco più di 2 ore al giorno – sono quelle con «risultati organizzativi», relative cioè all’organizzazione dei processi sociali e dei trasporti. Includono lo spostamento di persone (quasi un’ora circa) e di merci (18 minuti circa), e ogni attività commerciale, finanziaria, governativa, politica e, in generale, di gestione del tempo e dei diritti delle persone (un’altra ora circa).L’esterno di un locale nel quartiere Soho, a Londra, il 12 aprile 2021 (AP Photo/Alberto Pezzali)La prima grande classificazione utilizzata dai ricercatori e dalle ricercatrici della McGill University si basa quindi sul risultato e sull’obiettivo per cui le attività sono svolte, a prescindere che siano a pagamento oppure no. Per esempio: l’assistenza fisica all’infanzia, che fa parte del primo macro-gruppo e occupa circa 18 minuti al giorno, include sia il lavoro retribuito degli asili che quello non retribuito dei genitori. E la preparazione del cibo, che fa parte del secondo macro-gruppo, include sia cucinare a casa che lavorare in un ristorante.Tenendo invece in conto soltanto le attività economiche considerate un’«occupazione» dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), la media del tempo di lavoro su scala mondiale è di circa 2,6 ore al giorno: circa l’11 per cento della giornata, o un sesto delle ore di veglia. Potrebbe sembrare poco, scrivono gli autori e le autrici della ricerca, ma equivale a una settimana lavorativa di 41 ore per tutta la forza lavoro mondiale (che è circa il 66 per cento della popolazione in età lavorativa, cioè di età compresa tra 15 e 64 anni).Quasi un terzo delle attività economiche quotidiane in tutto il mondo riguarda la crescita e la raccolta di cibo (44 minuti circa), principalmente sotto forma di agricoltura. Circa un quarto (37 minuti circa) è formato dalle attività commerciali, finanziarie, politiche e gestionali. E circa un settimo (22 minuti circa) riguarda la produzione di manufatti, inclusa la fabbricazione di veicoli, macchinari, elettronica, elettrodomestici e tutti gli altri beni mobili e i loro componenti intermedi. Il tempo che resta è perlopiù suddiviso tra costruzione e manutenzione degli edifici, trasporto di merci e altri materiali, preparazione del cibo, istruzione e ricerca.Un contadino in una risaia a Bhaktapur, in Nepal, il 17 ottobre 2022 (AP Photo/Niranjan Shrestha)L’obiettivo della ricerca era ricavare, a partire da dati relativi a tutta la popolazione mondiale, una stima di quanta parte del loro tempo le persone dedicano in media alle diverse attività nell’arco della giornata. Ma i ricercatori e le ricercatrici hanno anche cercato di capire come la ricchezza (in termini di PIL pro capite) influenzi l’utilizzo del tempo, e hanno riscontrato alcune evidenti disparità, in parte prevedibili.Le persone che abitano nei paesi a più alto reddito, rispetto ai residenti nelle aree più povere, trascorrono in media circa 1,5 ore in più al giorno in attività ricreative, interattive e sociali come leggere, utilizzare dispositivi, giocare, passeggiare e altro. Viceversa, nei paesi più poveri le persone dedicano in media oltre un’ora alla coltivazione e alla raccolta del cibo: attività che nei paesi più ricchi occupa in media meno di 5 minuti al giorno.Dalla ricerca emergono anche attività che invece non variano in modo significativo con la ricchezza, come il tempo utilizzato per preparare il cibo, per il trasporto umano, per la pulizia personale e altre, per un totale del 30 per cento del tempo quotidiano delle persone da sveglie. Questo non implica che le parti di tempo dedicate a tali attività siano universali tra gli esseri umani, aggiungono gli autori e le autrici della ricerca: perché certamente variano da individuo a individuo. Solo che la variazione non è coerente con quella del PIL pro capite, e quindi la ricchezza materiale in questi casi potrebbe non essere influente.Una nave portacontainer passa davanti al castello Burg Pfalzgrafenstein, nel mezzo del fiume Reno a Kaub, in Germania, il 12 agosto 2022 (AP Photo/Michael Probst)Un altro aspetto colto dai ricercatori e dalle ricercatrici è la scarsa quantità di tempo dedicato alla gestione dei rifiuti fuori delle abitazioni rispetto al tempo dedicato a mantenere puliti e in ordine gli spazi abitati. «Sembra plausibile che molti problemi di rifiuti, tra cui l’accumulo di plastica negli oceani e la contaminazione tossica delle acque, potrebbero essere notevolmente ridotti attraverso una riallocazione relativamente piccola del budget totale del tempo umano».I risultati della ricerca costituiscono parte di un progetto più ampio, lo Human Chronome Project, che nelle intenzioni degli autori e delle autrici dovrebbe raccogliere e integrare dati tratti da altre fonti e servire come base per futuri lavori di ricerca sulle attività umane nel mondo. Questo approccio, concludono, potrebbe fornire una prospettiva empirica generale su ciò che la nostra specie sta facendo sul pianeta e prendere decisioni più informate su come ridistribuire il tempo per raggiungere obiettivi di sviluppo globale. LEGGI TUTTO

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    Sui figli unici circolano tanti pregiudizi

    Caricamento playerSecondo il più recente rapporto Istat sulla natalità della popolazione residente in Italia, nel 2020 il numero medio di figli per donna è sceso a 1,24: nel biennio 2008-2010 era 1,44. I dati più recenti indicano inoltre che i nuclei familiari con un solo figlio sono la tipologia prevalente: circa il 47 per cento del totale dei nuclei con figli. E tendenze simili a queste sono registrate da tempo anche in altri paesi.Nonostante la presenza di figli unici nelle famiglie sia quindi tutt’altro che un’anomalia statistica, sia in Italia che in altri paesi occidentali è ancora molto diffuso un luogo comune secondo cui sarebbe meglio per un bambino o per una bambina crescere in compagnia di almeno un fratello o una sorella. Questa affermazione – peraltro rafforzata nel 2020 dalla diffusa impressione che l’isolamento durante la pandemia causasse maggiori disagi ai figli unici – non è tuttavia sostenuta da solide prove scientifiche.La letteratura esistente su questo argomento, ripresa dai vari studiosi e professionisti che se ne sono occupati negli ultimi anni, non mostra differenze significative tra figli unici e figli con sorelle o fratelli nell’ambito delle abilità e competenze misurabili. E smentisce gli stereotipi negativi e positivi esplicitamente o implicitamente attribuiti da molti ai figli unici: l’idea che siano destinati a diventare persone viziate, insicure, eccentriche o prepotenti, per esempio, oppure insolitamente precoci e geniali.– Leggi anche: Il calo delle nascite è un bene o un male?Piuttosto si verifica un altro fenomeno, ha scritto recentemente l’Atlantic: che questi pregiudizi siano talmente radicati nel lessico quotidiano, e così strettamente associati all’espressione linguistica «figlio unico», da circolare già tra i bambini stessi – compresi i figli unici – e condizionare gran parte delle osservazioni e riflessioni che si fanno sui bambini senza fratelli né sorelle.Storicamente, la ricerca scientifica considerata pertinente a questo argomento si è concentrata su due diversi aspetti della questione: quello economico e quello sociale. Un’ipotesi presa in considerazione dagli economisti che si sono occupati direttamente o indirettamente del tema dei figli unici è che una famiglia più numerosa implichi meno risorse da investire per ciascun figlio, in teoria: e cioè meno tempo o denaro per l’istruzione e per altri tipi di formazione, oltre che per i beni di prima necessità. Questa disponibilità o meno di risorse dovrebbe pertanto riflettersi in una qualche differenza tra i figli unici e quelli con fratelli e sorelle.Confrontare le differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle – relativamente a dati misurabili come risultati scolastici o test del quoziente intellettivo – può tuttavia essere insufficiente o comunque problematico, come scrisse sul New York Times l’economista Emily Oster: perché le famiglie differiscono l’una dall’altra in molti altri aspetti, sia misurabili che non misurabili, a parte il fatto di avere uno o più figli.Una serie di studi e analisi condotte negli anni Duemila sulle famiglie norvegesi è tuttavia considerata significativa, perché fondata su informazioni ritenute particolarmente affidabili e complete per via di un dettagliato lavoro di raccolta e rendicontazione dei dati da parte del governo. E quei dati indicano che il numero di bambini in un nucleo familiare è scarsamente rilevante nel determinare il livello di istruzione o il quoziente intellettivo di quei bambini.I figli unici non hanno inoltre né più né meno probabilità di altri di trovare lavoro o di avere salari più alti. E hanno le stesse probabilità degli altri di diventare genitori adolescenti, un risultato che i ricercatori tendono a classificare come indesiderato. Nel complesso, secondo Oster, «quando si tratta di ciò che gli economisti definiscono “successo”, avere fratelli e sorelle – o non averli – proprio non sembra avere importanza».– Leggi anche: Il complicato rapporto tra i progressisti e la geneticaQuanto all’aspetto sociale della questione, come scrisse il Washington Post in un articolo del 2019, molti dei pregiudizi riguardo ai figli unici sembrano derivare in parte anche dai limiti di alcune ricerche dell’Ottocento e del Novecento nell’ambito delle scienze sociali.In un influente studio di psicologia del 1896 condotto su oltre mille bambini, un ricercatore della Clark University in Massachusetts scriveva che i figli unici «hanno amici immaginari», «non vanno d’accordo con gli altri bambini» e «hanno una cattiva salute, nella maggior parte dei casi». Il punto trascurato nello studio, come spiegò al Washington Post la psicologa sociale statunitense Susan Newman, è che molti di quei bambini vivevano in fattorie a enormi distanze l’una dall’altra e lavoravano ogni giorno per molte ore: una condizione di isolamento probabilmente più penalizzante per i figli unici, e in ogni caso certamente diversa dalle attuali condizioni di vita della maggior parte dei bambini nelle città.Quelle conclusioni furono la base di altri stereotipi che circolarono molto nei decenni successivi, al punto da stimolare un’articolata narrazione sulla «sindrome del figlio unico». Furono largamente respinte dalla comunità scientifica soltanto nella seconda metà del Novecento, e in particolare dopo la pubblicazione di un importante studio di revisione di 141 ricerche da parte delle psicologhe sociali statunitensi Toni Falbo e Denise Polit, nel 1987. Dalle loro ricerche non emersero differenze significative di personalità, socialità, intelligenza e risultati scolastici tra i bambini figli unici e quelli con fratelli e sorelle.L’opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi che si sono occupati dei pregiudizi sui figli unici è che avere fratelli o sorelle può sì determinare benefici significativi, come dimostrano tra l’altro alcuni studi che mettono in relazione la felicità durante la vecchiaia con la presenza di rapporti familiari solidi e sani tra fratelli e sorelle.Le innumerevoli variabili che condizionano l’infanzia a livello individuale rendono tuttavia particolarmente difficile trarre conclusioni chiare sulle differenze tra bambini figli unici e bambini con fratelli e sorelle. Che non vuol dire che quelle differenze non esistano, sostengono gli studiosi: soltanto che le ricerche esistenti non mostrano significative differenze misurabili, o mostrano differenze che tendono a svanire e uniformarsi in età adulta.– Leggi anche: In Asia il calo delle nascite non è più un problema solo del GiapponeAltre relazioni differenti da quelle tra fratelli e sorelle possono svolgere le stesse funzioni, aggiunge l’Atlantic, citando informazioni aneddotiche riferite da Falbo riguardo alle capacità dei bambini figli unici di sentirsi più a loro agio nelle interazioni con gli adulti e gli insegnanti rispetto ai loro coetanei con fratelli e sorelle.Come dato scientifico a sostegno di possibili differenze tra figli unici e persone con fratelli e sorelle, da approfondire, l’Atlantic cita infine i risultati di uno studio longitudinale, cioè una ricerca che effettua ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo, solitamente decenni. Pubblicato negli anni Settanta e intitolato Project Talent, lo studio mise insieme interviste effettuate a oltre 400 mila adolescenti nel 1960, e poi condotte sullo stesso campione altre tre volte: uno, cinque e undici anni dopo il diploma. Lo studio concluse che, tra gli intervistati, i figli unici erano più interessati ad attività solitarie e meno inclini a partecipare ad attività di gruppo. LEGGI TUTTO