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    Perché i capelli diventano bianchi

    La comparsa dei primi capelli grigi è tra i segni più evidenti e riconoscibili dell’invecchiamento, ma nonostante sia un fenomeno che riguarda praticamente tutte le persone, a oggi non conosciamo ancora di preciso tutti i meccanismi che portano all’incanutimento. Sappiamo che il processo può iniziare presto in alcuni individui, mentre per altri si presenta in età molto avanzata. Una nuova ricerca da poco pubblicata suggerisce che il fenomeno sia legato a un comportamento anomalo delle cellule staminali nel bulbo pilifero, che col passare del tempo diventano meno efficienti nel mantenere la colorazione del capello.I principali pigmenti responsabili della colorazione dei capelli sono le melanine, molecole complesse (polimeri) con forme e funzioni diverse a seconda di dove si trovano nel nostro organismo. Nel caso dei capelli, le due forme di melanina coinvolte sono l’eumelanina, che ha un colore marrone-nero, e la feomelanina, che ha invece un colore più chiaro e che vira dal giallo al rosso. La loro produzione avviene a partire da uno specifico aminoacido, la tirosina, grazie all’attività dei melanociti, cioè di cellule che si trovano nel bulbo pilifero e che colorano il capello man mano che cresce inserendo al suo interno un tipo di melanina a seconda del soggetto.In generale, le persone con i capelli scuri e castani hanno un eccesso di eumelanina, mentre quelle che li hanno chiari hanno soprattutto feomelanina. La proporzione tra i due polimeri è regolata dalle caratteristiche genetiche cui si aggiungono fattori ambientali, che possono influire sulla colorazione dei capelli. Tra i fattori ambientali, il principale è la luce solare che interviene sulla melanina proprio come avviene per l’abbronzatura della pelle.– Ascolta anche: La guida di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariI raggi ultravioletti del Sole hanno un effetto distruttivo nei confronti della melanina, ma c’è una importante differenza tra ciò che avviene nella pelle e nei capelli, come ha spiegato la divulgatrice scientifica Beatrice Mautino nel suo libro La scienza nascosta dei cosmetici:Nella pelle, che è un organo vivo, questa azione [dei raggi UV] genera una catena di segnali molecolari che spingono i melanociti a produrre altra melanina per creare una barriera protettiva. I capelli, invece, sono fibre “morte”, anzi, trattandosi di proteine, possiamo tranquillamente dire che non sono mai state vive, e quindi la distruzione della melanina si manifesta semplicemente con uno schiarimento, senza che questo scateni alcuna reazione da parte dei melanociti, che continueranno il loro lavoro di produzione come sempre.I capelli crescono dalla base, dove c’è il bulbo pilifero, di conseguenza è solo in quel punto che ricevono il colore grazie ai melanociti. Con l’arrivo delle stagioni in cui siamo di solito meno esposti ai raggi solari – l’autunno e l’inverno – il lavoro dei melanociti non viene turbato più di tanto dai raggi ultravioletti e la parte nuova del capello cresce più scura rispetto alla punta scolorita nel periodo precedente dall’effetto del Sole. I capelli “tornano scuri” semplicemente perché quelli scoloriti dopo un certo periodo cadono nell’ambito del loro ciclo naturale o vengono tagliati.L’invecchiamento turba però l’attività dei melanociti, che col passare del tempo tendono a colorare sempre meno i capelli, fino a quando questi iniziano a ingrigire ed eventualmente a diventare bianchi. Negli anni vari gruppi di ricerca hanno identificato alcune componenti genetiche che determinano questo processo, ma i suoi meccanismi e le sue cause non sono ancora del tutto chiare.Uno studio del 2016, per esempio, identificò il gene IRF4 come un possibile responsabile nella regolazione dell’espressione di un enzima, che avrebbe un ruolo importante nella sintesi della melanina e nel mantenimento dei melanociti. Lo studio aveva però rilevato come i fattori ambientali fossero responsabili del 70 per cento dei casi di incanutimento, aprendo a nuove ricerche sul tema.Negli ultimi anni le attenzioni di vari gruppi di ricerca si sono concentrate sulle cellule staminali che si specializzano diventando melanociti. Ogni bulbo pilifero ha una certa scorta di queste cellule, che grazie all’intervento di particolari proteine avviano quando necessario il loro processo di specializzazione per diventare ciò che tinge il capello. Inizialmente si pensava che l’incanutimento iniziasse quando nel bulbo termina la scorta di cellule staminali, ma non tutti erano convinti perché c’erano indizi sul fatto che l’ingrigimento potesse iniziare anche prima della carenza di queste cellule.Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Nature ha indagato questi meccanismi nei topi, trovando spunti e implicazioni anche per gli esseri umani. Il gruppo di ricerca ha analizzato per lungo tempo le cellule staminali nei bulbi piliferi della pelliccia dei topi notando che in realtà queste passano ciclicamente dallo stadio in cui sono mature e producono la melanina a quando smettono di produrla, con un meccanismo non osservato prima e difficile da spiegare con le conoscenze generali sulle staminali.Col passare del tempo, queste cellule perdono però la loro capacità di passare da uno stadio all’altro. Sembra che quando il pelo cade, nel suo ciclo naturale, il bulbo pilifero si indebolisca e alcune sue funzioni rimangano compromesse, compresa la produzione della proteina che fa da interruttore per dire alle staminali come comportarsi. Il risultato è che il nuovo pelo cresce privo di melanine e di conseguenza senza colore.Quando il gruppo di ricerca ha provato a strappare alcuno peli ai topi, per simulare più velocemente le fasi di caduta e crescita, è stato osservato un maggiore accumulo di staminali nella riserva del bulbo pilifero, senza il loro passaggio allo stadio in cui producono melanina. Il risultato è stato un ingrigimento del pelo dei topi in poco tempo.Lo studio ha preso in considerazione i topi, ma alcune delle conclusioni possono essere applicate agli esseri umani, secondo il gruppo di ricerca. Il meccanismo di perdita e ricrescita del capello, con l’incapacità di produrre il colore, dovrebbe essere simile ed è quindi probabile che siano effettuate nuove osservazioni negli esseri umani.Al momento non è però chiaro perché le staminali smettano di comportarsi come dovrebbero. La pratica di strappare i peli durante gli esperimenti sui topi potrebbe avere inoltre interferito nel processo, considerando che una perdita traumatica è diversa da quella naturale e potrebbe avere altri tipi di conseguenze ancora non completamente note.Dopo lo studio del 2016 (quello sul gene IRF4) era stata ipotizzata a breve la produzione di un principio attivo che avrebbe potuto arrestare l’ingrigimento dei capelli, ma a distanza di circa sette anni non ci sono stati grandi progressi. I risultati della nuova ricerca hanno portato a qualche dichiarazione simile e alquanto ottimistica per contrastare l’incanutimento, ma è probabile che ancora per molto tempo la colorazione dei capelli con le tinte sarà l’unica possibilità per mascherare la perdita del colore.Al di là degli aspetti estetici, le ricerche in questo settore sono importanti perché possono offrire nuovi elementi sul comportamento di alcuni tipi di cellule staminali, così come sul ruolo di particolari geni che potrebbero essere coinvolti anche in alcune malattie come i tumori e più in generale nei processi di invecchiamento.– Leggi anche: I trapianti di capelli funzionano? LEGGI TUTTO

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    Il mito dei diecimila passi al giorno

    È probabile che le smartphone sul quale state leggendo questo articolo stia diligentemente prendendo nota del numero di passi che state facendo oggi, in modo da scoprire se a fine giornata abbiate raggiunto i diecimila, l’obiettivo su cui sono tarati praticamente tutti i pedometri e gli altri dispositivi che tengono traccia della propria attività fisica. È un traguardo talmente noto e promosso da applicazioni, tracker per il fitness e pubblicità da essere diventato per molte persone il metodo principale per distinguere le giornate in cui si è fatto qualcosa per la propria salute da quelle in cui si è stati indolenti e sedentari. Eppure lo standard dei diecimila passi non ha solide basi scientifiche e nacque molti anni fa più per ragioni di marketing che altro.La storia del contapassi ha origini incerte e ancora oggi dibattute, ma la sua invenzione viene spesso fatta risalire all’orologiaio svizzero Abraham-Louis Perrelet, il quale nel 1777 aveva perfezionato un primo meccanismo per la carica automatica degli orologi portatili che sfruttava i movimenti di chi li indossava. Partendo da quel sistema, tre anni dopo Perrelet aveva inventato un pedometro basato su alcuni principi di funzionamento dei suoi orologi e che consentiva di contare il numero di passi e di calcolare la distanza percorsa.Perrelet aveva probabilmente elaborato la propria idea basandosi su invenzioni e prototipi realizzati in passato, se si considera che già un secolo prima era stata segnalata l’esistenza di strumenti per misurare i passi e che già Leonardo da Vinci nel sedicesimo secolo aveva ipotizzato la costruzione di un pedometro a scopo militare (Leonardo aveva progettato anche un odometro, per misurare le distanze).Sarebbero stati però necessari circa due secoli dall’invenzione di Perrelet e alcuni intraprendenti giapponesi per rendere popolari i pedometri, la camminata come attività per tenersi in forma e l’obiettivo dei diecimila passi. Iniziò tutto un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando l’attenzione verso lo sport era crescente tra i giapponesi e l’eminente medico Iwao Ohya aveva iniziato a mettere in dubbio le abitudini di vita dei suoi connazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il settore terziario in Giappone si era rapidamente espanso e molte persone avevano iniziato a condurre una vita sedentaria, con molte ore passate alle scrivanie dei loro uffici.Stava per iniziare l’evento sportivo più conosciuto al mondo e Ohya riteneva che si dovesse fare qualcosa per spingere i giapponesi a muoversi di più per tenersi in salute. Si mise in contatto con Juri Kato dell’azienda produttrice di orologi Yamasa Tokei Keiki, proponendogli di costruire un pedometro impostato per contare diecimila passi al giorno. Non è chiaro perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ma dalle ricostruzioni sembra che fosse stata una scelta piuttosto arbitraria e legata alla necessità di proporre un numero tondo, facile da ricordare e ragionevolmente raggiungibile in una giornata.Una delle prime pubblicità del Manpo-kei (Yamasa Tokei Keiki)Juri Kato lavorò un paio di anni realizzando infine un pedometro meccanico, il Manpo-kei, nome traducibile dal giapponese come “contatore di diecimila passi”. Fu messo in vendita con una vasta campagna pubblicitaria, che metteva bene in evidenza la possibilità di contare i passi e soprattutto di assicurarsi che fossero almeno diecimila. In Giappone nacquero associazioni per promuovere l’importanza della camminata come attività sportiva accessibile a buona parte della popolazione, senza particolari distinzioni legate alle condizioni fisiche e all’età. Tra le strade di Tokyo e delle altre città giapponesi diventava sempre più frequente osservare persone con il Manpo-kei per tenere traccia dei loro passi.Nei decenni successivi furono messe in vendita versioni alternative e imitazioni di quel pedometro non solo in Giappone, ma in vari altri paesi occidentali, dove iniziava ad affermarsi la moda dei 10mila passi. La miniaturizzazione dei componenti elettronici e la progressiva diffusione dei dispositivi digitali portò i contapassi a essere sempre più diffusi, sia come singoli gadget elettronici sia all’interno di lettori MP3, poi dei cellulari e infine degli smartphone e dei tracker.Mentre i primi pedometri meccanici utilizzavano un piccolo pendolo o una piccola sfera di metallo per rilevare il movimento e far scattare un contatore, gli attuali dispositivi elettronici impiegano sistemi microelettromeccanici (MEMS), che mettono insieme sensori di vario tipo per rilevare il movimento. Sono solitamente più affidabili, anche grazie agli algoritmi che utilizzano i dati rilevati dai MEMS per valutare se sia stato effettivamente compiuto un passo o un altro movimento del corpo. Grazie agli accelerometri e ad altri sensori, per esempio, gli smartphone possono ricostruire la loro posizione nello spazio (se sono messi in tasca rivolti verso l’alto o verso il basso per esempio), utilizzando queste informazioni per calcolare correttamente i passi, con un margine di errore relativamente basso.Tra dispositivi e applicazioni l’assortimento è ormai molto ampio, ma una costante è rimasta: sono quasi tutti impostati con l’obiettivo dei diecimila passi giornalieri, pari a circa 7 chilometri.Un pedometro offerto dalla catena di fast food McDonald’s nell’ambito di un’iniziativa di marketing nel 2004 (Getty Images)Diecimila è un numero tondo e chiaro, facile da comunicare e ricordare, ma come mostra la storia del pedometro moderno non è sostenuto da particolari basi scientifiche. Camminare fa sicuramente bene ed è un’attività fisica a basso impatto per l’organismo, ma ogni persona è fatta diversamente e le sue condizioni di salute variano nel tempo a causa dell’invecchiamento e di altri fattori, di conseguenza non può esserci un numero di passi “salutare” uguale per tutti.Alcuni gruppi di ricerca hanno comunque messo alla prova la teoria dei diecimila passi, per vedere se porti effettivamente a qualche beneficio. Uno studio pubblicato nel 2019, per esempio, ha preso in considerazione 16.741 volontarie con un’età compresa tra 62 e 101 anni che tra il 2011 e il 2015 avevano utilizzato un pedometro per calcolare il numero di passi compiuti ogni giorno. Dall’analisi dei dati è emerso che le donne più sedentarie non superavano i 2.700 passi al giorno e che per le volontarie con una media di 4.400 passi giornalieri era stimabile una riduzione della mortalità pari al 41 per cento. La riduzione continuava a progredire all’aumentare dei passi giornalieri per poi stabilizzarsi intorno alla media di 7.500 passi al giorno. Oltre questo numero i benefici non erano sostanzialmente apprezzabili, secondo la ricerca a indicazione del fatto che basta camminare meno rispetto al diffusissimo obiettivo dei diecimila passi per ottenere comunque benefici.Lo studio aveva però preso in considerazione solamente la mortalità, trascurando altri fattori importanti, ma più difficili da stimare come la qualità della vita, le capacità cognitive e il mantenimento di particolari condizioni fisiche.Un’altra ricerca pubblicata nel 2020 aveva invece coinvolto 5mila persone, arrivando a conclusioni simili sul fatto che diecimila passi non influiscano sulla longevità. Dallo studio era emerso che per le persone che facevano 8mila passi al giorno il rischio di morte prematura era circa la metà rispetto a chi non ne faceva più di 4mila. Anche in questo caso non erano stati rilevati benefici statisticamente rilevanti nel fare più passi oltre gli 8mila giornalieri. Risultati simili erano stati ottenuti da un altro studio pubblicato nel 2021.– Ascolta anche: La scienza dei diecimila passi raccontata da “Ci vuole una scienza”Le ricerche effettuate negli anni hanno poi segnalato come siano poche le persone che fanno diligentemente almeno diecimila passi ogni giorno, seguendo per esempio le indicazioni dei loro dispositivi per contare i passi. Uno studio svolto in Belgio e spesso citato era consistito nel fornire pedometri ad alcune centinaia di volontari, incentivandoli a effettuare almeno diecimila passi al giorno per un anno. Tra le circa 660 persone che arrivarono alla fine della sperimentazione, solo l’8 per cento raggiunse l’obiettivo. A quattro anni di distanza, praticamente nessuno dei partecipanti allo studio aveva mantenuto l’abitudine di camminare a lungo nella giornata, tornando alla propria media personale prima dell’esperimento.Secondo gli esperti e le principali istituzioni sanitarie, camminare è una delle attività fisiche più semplici ed efficaci per mantenersi in forma. In generale, il consiglio è di dedicare all’attività fisica circa due ore e mezza ogni settimana, come extra rispetto a quella che eventualmente già si fa per lavorare o nel quotidiano. Considerando una media di circa cinquemila passi effettuati nel corso di una giornata, l’aggiunta di due-tremila passi equivalenti a una breve camminata può essere un obiettivo realistico per la maggior parte delle persone e fa raggiungere la quantità di passi segnalata negli ultimi anni dalle ricerche che hanno messo in dubbio il mito dei diecimila passi. LEGGI TUTTO

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    In Spagna c’è un gran caldo anomalo e precoce

    In Spagna è stata raggiunta la temperatura più alta mai registrata nel mese di aprile, con una massima di 38,4 °C rilevata nel tardo pomeriggio di giovedì all’aeroporto di Cordoba, nel sud del paese. In molte altre città dell’Andalusia, la regione dove si trova Cordoba, sono stati superati abbondantemente i 30 °C, con una massima di 35 °C a Siviglia. Nel complesso, nel mese di aprile le temperature massime rilevate in Spagna sono state per alcuni giorni superiori di 10-15 °C rispetto alla media stagionale. Secondo gli esperti, quello di quest’anno sarà l’aprile più caldo mai registrato nel paese e aggraverà le già difficili condizioni legate alla siccità e alla mancanza di riserve idriche per affrontare la tarda primavera e l’estate.Le temperature massime registrate negli ultimi giorni sono state causate dal passaggio di un fronte di aria calda sulla penisola iberica proveniente dall’Africa, combinato a una fase di lenta evoluzione delle condizioni atmosferiche dovuta all’alta pressione. È un fenomeno che si verifica con una certa frequenza, ma di solito verso la primavera inoltrata e l’estate, difficilmente con ondate di calore così estese e precoci.Per ridurre i rischi per la popolazione, varie amministrazioni locali spagnole hanno già messo in pratica le procedure che di solito sono adottate per le ondate di calore estive. In molte zone si è deciso di modificare gli orari nelle scuole, in modo da concentrare le lezioni nei periodi più freschi della giornata o interromperle in anticipo, mentre a Madrid è stato rafforzato il servizio dei mezzi pubblici per ridurre i tempi di attesa. Le piscine pubbliche sono state aperte con un mese di anticipo e sono stati avviati piani di assistenza per gli anziani e le fasce più deboli della popolazione.Il caldo degli ultimi giorni avrà ulteriori conseguenze sulla siccità sempre più grave in molte aree della Spagna. Nelle prime tre settimane di aprile è caduto circa un quarto della pioggia che normalmente si ha in questo periodo dell’anno. I dati degli ultimi giorni del mese non sono ancora disponibili, ma è probabile che questo mese si confermi come il più secco mai registrato nel paese.The river discharge anomaly, based on reanalysis data from March to April 25, 2023, shows a concerning picture of the #drought still affecting Southern Europe, particularly northern Italy. #rstats #dataviz pic.twitter.com/q6jwC9xlhp— Dr. Dominic Royé (@dr_xeo) April 27, 2023Secondo le previsioni, nel fine settimana le temperature massime dovrebbero scendere, ma già dall’inizio di maggio potrebbe tornare a fare caldo a cominciare dalla Spagna meridionale. Lo scorso anno a maggio erano state registrate massime superiori ai 40 °C, con un ulteriore peggioramento tra giugno e luglio con due ondate di calore che avevano interessato anche diverse altre aree dell’Europa. Il caldo e la siccità avevano contribuito a un aumento degli incendi boschivi, tra i più grandi registrati nel paese negli ultimi anni.È difficile ricondurre un singolo evento meteorologico al cambiamento climatico, soprattutto nel breve periodo, ma numerose ricerche segnalano ormai da tempo come questi eventi stiano diventando sempre più estremi proprio a causa del riscaldamento globale. Lo scorso anno è stato il secondo più caldo mai registrato in Europa con la stagione più calda mai rilevata. Nel suo complesso nel continente si sta assistendo a un aumento della temperatura media più intenso rispetto alla media globale, con grandi implicazioni sia nell’immediato per le emergenze sanitarie legate alle ondate di calore sia nel medio-lungo periodo per la mancanza di precipitazioni, specialmente nel sud dell’Europa.Il governo della Spagna ha di recente chiesto aiuto all’Unione Europea per sostenere gli agricoltori in difficoltà a causa del lungo periodo di siccità, che rende impraticabile la semina. Il paese è un importante esportatore di frutta, ortaggi e materie prime per il settore alimentare: raccolti più contenuti potrebbero avere conseguenze per il resto dell’Europa e influire sui prezzi, già aumentati a causa dell’inflazione.In Europa la fine dell’inverno e i primi mesi della primavera sono stati più caldi rispetto alla media, con scarse piogge in molti casi insufficienti per ripristinare le riserve idriche già messe a dura prova dalla siccità dello scorso anno. Le ondate di caldo hanno inoltre interessato precocemente altre zone del pianeta, con temperature sopra i 45 °C nel nord-ovest della Thailandia e 40 °C rilevati a Dacca, la capitale del Bangladesh. LEGGI TUTTO

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    Cosa succederebbe ai cani se sparissero gli umani?

    Caricamento playerImmaginare cosa succederebbe al mondo se la specie umana scomparisse da un momento all’altro, del tutto o in grande parte, è un esperimento mentale che hanno fatto moltissimi scrittori e sceneggiatori e probabilmente anche tante altre persone: le fantasie sull’apocalisse esistono da millenni e sono sia una fonte di intrattenimento sia un modo per riflettere sull’esistenza. C’è però anche chi si è figurato possibili scenari di estinzione umana per fare ragionamenti scientifici: ad esempio su cosa succederebbe ai cani.I cani sono stati i primi animali a essere domesticati e quindi in una certa misura a essere “creati” dagli esseri umani: nel corso dei millenni, favorendo gli accoppiamenti tra animali con certe caratteristiche di comportamento e di aspetto fisico piuttosto che altre, gli umani hanno condotto progressive selezioni artificiali che hanno portato dal lupo (Canis lupus) al cane (Canis lupus familiaris), che ne è una sottospecie, e poi alle diverse e numerose razze che distinguiamo. Come per tutte le specie domestiche, la vita dei cani dipende da quella degli umani, sia nel caso dei cani che hanno qualcuno che li nutre regolarmente, sia nel caso dei randagi, che sopravvivono in gran parte grazie ai rifiuti prodotti dalle persone.Per questo la prima difficoltà che i cani dovrebbero affrontare in caso di sparizione di tutte le persone sarebbe la ricerca di fonti di cibo, ragionano la bioeticista Jessica Pierce e l’ecologo Marc Bekoff in I cani senza di noi, pubblicato in italiano da Haqihana, una casa editrice specializzata in saggi divulgativi sul comportamento canino.Secondo i due studiosi, autori di vari libri sui cani e sul nostro rapporto con loro, è «quasi certo» che i cani sopravviverebbero a una scomparsa improvvisa degli umani «ammesso che non avvenisse su un pianeta diventato completamente invivibile per la crisi climatica». Questa conclusione deriva dal fatto che i cani che attualmente vivono in libertà in diverse zone del mondo riescono a sopravvivere abbastanza bene (secondo una stima citata da Pierce e Bekoff i cani randagi sarebbero 800 milioni nel mondo, quelli con una famiglia 200 milioni) e dalla flessibilità alimentare dei cani, che si adattano a mangiare anche cose diverse dalla carne: potrebbero sostentarsi con piante, frutti e insetti, oltre che con piccoli mammiferi e uccelli.Nell’immediato è verosimile che molti cani morirebbero – alcuni, più piccoli e deboli, anche uccisi e mangiati da altri cani – ma è probabile che nel complesso riuscirebbero ad adattarsi a nuovi stili di vita, facendo affidamento sugli istinti che hanno in comune con i lupi e gli sciacalli. Ovviamente le cose andrebbero in modo diverso in diverse parti del mondo a seconda delle specifiche caratteristiche climatiche, delle risorse naturali di cibo e della competizione con altre specie di predatori: in alcune regioni i cani prospererebbero, in altre potrebbero scomparire a loro volta. In generale però la specie continuerebbe a scorrazzare per il pianeta.– Leggi anche: I cani di ChernobylPierce e Bekoff hanno poi provato a immaginare cosa ne sarebbe dei cani nel più lungo periodo successivo alla scomparsa degli umani, e più in particolare a come i cani sarebbero cambiati dalla selezione naturale, tolta di mezzo quella artificiale. Per i due studiosi tentare di rispondere a questa domanda, anche senza poter mai verificare la bontà delle proprie ipotesi, è utile per capire meglio che animali sono i cani e i rapporti che abbiamo con loro.Il punto di partenza del loro ragionamento è che i cani non tornerebbero a essere lupi.Sappiamo che quando un gruppo di animali domestici si trova a vivere in libertà e perde ogni contatto con gli umani avviene un processo di feralizzazione, cioè di adattamento a uno stato selvatico. Le caratteristiche proprie delle specie domesticate – una maggiore mansuetudine, in aggiunta a tanti aspetti fisici – non scompaiono, quindi non si può parlare di una “de-domesticazione”, ma di un avvicinamento dei singoli animali ai comportamenti delle specie selvatiche sì. Nel caso in cui il gruppo di animali feralizzati continui a vivere in libertà per diverse generazioni, e in cui quindi la selezione naturale inizi ad agire, gli scienziati parlano di inselvatichimento secondario.Non sappiamo quante generazioni di cani dovrebbero susseguirsi per arrivare ai «cani post-umani», ma secondo Pierce e Bekoff è probabile che sarebbero molto diversi dai cani di oggi e diversi tra loro in base al contesto geografico. I cani più piccoli potrebbero specializzarsi nella caccia di insetti, piccoli rettili e anfibi, mentre quelli più grandi dovrebbero trovare altre strategie di adattamento e nel tempo diverse popolazioni di cani potrebbero evolvere in specie canine diverse.Ma si può anche ipotizzare che il rimescolamento dei geni canini portato dalla nuova libertà di accoppiamento porti a cani post-umani tutti di “taglia media”, cioè con un peso intorno ai 15 chili – ci sono cani che pesano poco più di un chilo e altri che superano i 100.Le altre caratteristiche fisiche sarebbero a loro volta influenzate dall’ambiente: ad esempio, ipotizzano Pierce e Bekoff, nei climi più freddi potrebbero essere favorite e dunque prevalere le orecchie più piccole, che disperdono meno il calore; nei climi miti invece è possibile che le orecchie di dimensioni maggiori, più adatte a captare i rumori, si rivelerebbero più utili nella caccia.Di certo scomparirebbero quei tratti fisici dei cani che gli umani hanno selezionato per ragioni estetiche ma che sono legati a problemi di salute, come i musi schiacciati dei carlini che causano problemi respiratori e l’eccesso di pieghe della pelle degli shar pei. Sparirebbero anche le orecchie pendule dei cocker e le code arricciate dei chow chow, perché sia le code che le orecchie sono usate dai cani per comunicare tra loro, e sarebbero favorite quelle che permettono di farlo meglio. Potrebbero scomparire anche le pellicce a macchie e di colori diversi, che non hanno alcuna funzione biologica.– Leggi anche: Il governo olandese vuole vietare il possesso di cani e gatti di certe razzeNel campo della riproduzione ci sarebbero sicuramente dei cambiamenti, ed è possibile che le femmine andrebbero in calore solo una volta all’anno invece che due (una più frequente disponibilità all’accoppiamento rispetto alle specie selvatiche è una delle caratteristiche comuni a tutte le specie domesticate). Un’altra possibilità è che, come succede nei branchi di lupi, la collaborazione dei padri, zii e altri membri di un gruppo di cani diventerebbe un elemento importante per la crescita dei cuccioli. Ma può anche darsi che i cani – o certe specie evolute dai cani – svilupperebbero stili di vita solitari.È più difficile immaginare cosa succederebbe ai tratti comportamentali dei cani selezionati dalla domesticazione: l’ipersocialità sviluppata stando con gli umani verrebbe sfruttata con altri scopi dai cani post-umani o si perderebbe come tratto caratteriale di specie?Pierce e Bekoff hanno finito il loro ragionamento cercando di stabilire se in prospettiva per i cani un mondo senza umani sarebbe un mondo migliore: sono giunti alla conclusione che i vantaggi (come la scomparsa di patologie dovute agli incroci tra cani della stessa razza, un maggior spazio in cui muoversi e maggiori possibilità di socialità) supererebbero gli svantaggi (come la maggiore esposizione alle malattie, l’assenza di cure e di cibo disponibile in abbondanza).Per i due studiosi portare avanti l’esperimento mentale, riflettere su questi vantaggi e svantaggi ma anche dedicare maggiori studi ai cani randagi e feralizzati potrebbe aiutarci a comportarci meglio nei confronti dei cani: capendo meglio la loro natura, saremmo più in grado di garantirgli buone condizioni di vita. Ad esempio, evitando che nascano animali sofferenti a causa di certe caratteristiche fisiche comuni a certe razze create dagli umani, ma anche facendo passeggiare e correre i cani in spazi sufficientemente grandi, e facendo interagire i cani tra loro nel modo migliore per dargli una buona qualità della vita.– Leggi anche: Il più noto libro di “biologia speculativa” LEGGI TUTTO

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    Il lander della società spaziale privata giapponese Ispace si è probabilmente schiantato sulla Luna

    La società spaziale privata giapponese Ispace ha detto che il tentativo di far atterrare sulla Luna il suo veicolo lunare Hakuto-R M1 è fallito: a pochi metri dalla superficie lunare le comunicazioni con il robot (lander) si sono interrotte, cosa che ha fatto presumere che sia precipitato e si sia quindi distrutto. Se la missione fosse stata completata, questo sarebbe stato il primo lander privato a raggiungere la superficie della Luna.Durante la trasmissione in diretta dell’evento il fondatore e amministratore delegato di Ispace, Takeshi Hakamada, aveva ipotizzato che la missione non fosse andata a buon fine. Dopo alcune ore, un comunicato diffuso dall’azienda ha confermato «un’elevata probabilità» che alla fine il lander si sia schiantato sulla superficie lunare.A oggi nessun veicolo di una società spaziale privata è riuscito ad allunare, mentre ci sono riuscite solo le agenzie spaziali di tre paesi: quella dell’ex Unione Sovietica, la NASA (Stati Uniti) e la CNSA (Cina). Nell’aprile del 2019 il lander israeliano Beresheet precipitò sulla superficie lunare durante una missione che aveva l’obiettivo di compiere alcune rilevazioni sulla Luna. Giovedì scorso invece è esploso poco dopo il lancio un prototipo di Starship, l’enorme astronave progettata dalla società spaziale privata statunitense SpaceX, che dovrà essere impiegata per il primo allunaggio con equipaggio del programma lunare Artemis (previsto non prima della fine del 2025).– Leggi anche: L’astronave Starship è esplosa poco dopo il lancio (AP Photo/ Eugene Hoshiko) LEGGI TUTTO

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    Costruire nuove strade è un problema matematico non da poco

    A un gruppo di abitudinari automobilisti che si ritrova periodicamente bloccato in un ingorgo stradale verrebbe spontaneo pensare che le condizioni del traffico migliorerebbero se venisse aperta una nuova strada oltre a quella che stanno percorrendo. Nella pratica, però, per quanto possa sembrare controintuitivo, aprire una nuova strada potrebbe causare un peggioramento dell’ingorgo.È un effetto noto come paradosso di Braess, dal nome del matematico tedesco che lo teorizzò negli anni Sessanta: Dietrich Braess. Ed è utilizzato anche per spiegare il caso contrario: la possibilità, attestata da esempi concreti, che la chiusura di una strada possa ridurre il traffico.Il paradosso di Braess, di cui ha scritto recentemente il giornale online norvegese Forskning.no, è soltanto uno dei vari fenomeni tenuti in considerazione quando vengono pianificate nuove strade per migliorare la viabilità e ridurre il rischio di congestione del traffico, che dipende da numerose variabili difficili da calcolare. È però una teoria utile a comprendere un fatto fondamentale: le persone alla guida tendono a vedere soltanto i propri “costi” e non gli effetti negativi del loro comportamento sul sistema di cui fanno parte. La gestione di questo sistema – non soltanto la costruzione di nuove strade, ma anche l’utilizzo di pedaggi, dissuasori e altri strumenti possibili – ne tiene conto e fa in modo che le scelte individuali non finiscano per penalizzare tutti gli automobilisti.La prima descrizione sistematica del paradosso di Braess risale alla pubblicazione del suo studio del 1968 Über ein Paradoxon aus der Verkehrsplanung (“Su un paradosso della pianificazione del traffico”), pubblicato mentre lavorava all’università della Ruhr a Bochum allo sviluppo di un nuovo modello teorico di spiegazione del traffico. Braess osservò che all’interno di una rete stradale i tempi di percorrenza ottimali non sempre si ottengono se ogni conducente sceglie il percorso a lui più conveniente. E concluse che sulla base di questa premessa esistono casi in cui l’espansione della rete può portare a tempi di percorrenza complessivi più lunghi.Per comprendere il paradosso viene di solito proposto un esempio matematico in cui occorre spostarsi da un punto A a un punto B, ma non è possibile farlo direttamente: serve passare o per un punto c o per un punto d. Sia in un percorso che nell’altro sono presenti un tratto con un’ampia carreggiata il cui tempo di percorrenza è invariabilmente 20 minuti e un tratto più stretto il cui tempo di percorrenza dipende dal traffico. Questa variabile è espressa dal numero di veicoli (T) presenti su quel tratto diviso 10 (se i veicoli sono 100, per esempio, il tempo di percorrenza sarà 10 minuti, ma se sono 500 sarà 50 minuti).Immaginando che ci siano 200 automobilisti che devono spostarsi lungo la rete da A a B, alla lunga la situazione si stabilizzerà in una divisione del gruppo in cui 100 automobilisti seguono un percorso e 100 seguono l’altro. E il tempo di percorrenza complessivo per tutti sarà di 30 minuti (perché 100 diviso 10 fa 10 minuti). A questo punto ci si chiede cosa potrebbe succedere nel caso ipotetico in cui venisse aperta tra i due punti intermedi c e d una nuova strada, un collegamento “ideale” che non richieda alcun tempo di percorrenza (0 minuti).I 200 automobilisti avrebbero l’opportunità di utilizzare questo collegamento per percorrere due tratti T/10 anziché uno. La percorrenza del tratto T/10 è infatti inferiore o uguale a 20 minuti (perché il traffico complessivo è di 200 automobilisti), ma mai superiore, e quel tratto è quindi preferibile rispetto al tratto il cui tempo di percorrenza è invariabilmente 20 minuti. Tutti prenderanno allora il collegamento tra i due punti intermedi, ma in questo modo il tempo di percorrenza complessivo da A a B sarà 40 minuti (20 + 20): paradossalmente, più del tempo necessario prima che venisse aperto il collegamento.Se ogni automobilista prende la decisione ottimale egoistica su quale sia il percorso più veloce, scrisse Braess, «un’estensione della rete stradale può provocare una ridistribuzione del traffico che si traduce in tempi di percorrenza individuali più lunghi».La spiegazione del paradosso di Braess, un fenomeno noto e studiato anche in economia, richiama in particolare nozioni relative alla cosiddetta “teoria dei giochi”. È l’area della matematica che attraverso modelli semplificati della realtà si occupa dello studio e dell’analisi delle interazioni tra due o più soggetti interessati a ottenere il massimo vantaggio possibile da queste interazioni.Il caso della rete stradale in cui gli automobilisti cercano di raggiungere dal punto A il punto B nel minor tempo possibile è un esempio di gioco non cooperativo: ciascun automobilista non conosce le strategie degli altri e cerca di seguire quella che ritiene essere la più vantaggiosa per sé. Ma non è detto che sia la più vantaggiosa in assoluto, come dimostra il paradosso. La particolare condizione del gioco in cui ogni partecipante non ha alcun incentivo a cambiare strategia, perché ci perderebbe, è definita equilibrio di Nash, dal nome del matematico statunitense e premio Nobel per l’Economia John Nash (la cui storia fu peraltro resa nota nel film del 2001 A Beautiful Mind).La condizione iniziale nel paradosso di Braess, cioè i 200 automobilisti distribuiti equamente tra i due percorsi, è un equilibrio di Nash. Nessun automobilista infatti ha interesse a cambiare strada: se lo facesse, impiegherebbe più tempo per arrivare a B, dal momento che il tempo di percorrenza del tratto variabile (T/10) diventerebbe 101/10 (10,1 minuti invece che 10). L’apertura del collegamento tra i due punti intermedi determina un nuovo equilibrio di Nash in cui tutti prendono la stessa strada, perché ignorano le scelte degli altri e pensano che avrebbero più da perdere nel fare una strada diversa da quella.Aumentare le capacità della rete in una situazione in cui le entità in movimento scelgono egoisticamente quale sia il percorso migliore, secondo Braess, può quindi portare in alcuni casi a un peggioramento delle prestazioni complessive della rete, perché l’equilibrio di Nash di un sistema di questo tipo non è necessariamente quello ottimale.In altri casi l’aggiunta di corsie a una strada esistente può generare un traffico indotto, una specie di “induzione della domanda” applicata al campo dei trasporti. Tende a verificarsi quando nuove strade vengono progettate e costruite, più che per tentare di risolvere un problema di traffico esistente, in previsione di un aumento del traffico futuro determinato da variabili come la crescita economica o il maggior numero di macchine vendute.In casi del genere può succedere che la costruzione di una nuova strada non si limiti a soddisfare una domanda latente di viaggi in macchina, repressa a causa di limitazioni esistenti nell’infrastruttura, ma porti anche a un aumento del traffico indotto. Gli automobilisti, in altre parole, potrebbero scegliere di viaggiare in macchina in casi in cui non lo avrebbero fatto altrimenti.– Leggi anche: Perché si formano gli ingorghi sulle stradeSebbene il modello teorico su cui si basa sia una rappresentazione molto semplificata della realtà, il paradosso di Braess è stato utilizzato anche per spiegare empiricamente casi storici in cui le prestazioni di una rete stradale malfunzionante migliorarono a seguito della riduzione anziché dell’espansione della rete.A Seul, in Corea del Sud, la demolizione di un’autostrada a sei corsie negli anni Duemila, necessaria per la costruzione di un parco pubblico, ridusse i tempi di viaggio dentro e fuori la città (senza ridurre significativamente il volume complessivo del traffico, cioè la quantità di macchine in movimento). Nel 1990 la chiusura provvisoria della 42a strada a New York per la Giornata della Terra, il 22 aprile, determinò una riduzione degli ingorghi. E uno studio pubblicato nel 2008 sulla rivista Physical Review Letters individuò alcune strade a Boston, New York e Londra la cui chiusura avrebbe ridotto i tempi di viaggio previsti per alcuni percorsi.Nella pratica, però, come per altri fenomeni controintuitivi, occorre una combinazione di condizioni molto rare perché il paradosso di Braess si verifichi concretamente. E sono molto rare anche perché questo fenomeno è ampiamente noto e tenuto in considerazione da decenni in fase di gestione della viabilità e progettazione delle strade. «L’importante quando si pianifica un nuovo sviluppo della rete stradale è effettuare simulazioni e verificare se questo fenomeno si verifica», ha detto a Forskning.no Helge Holden, docente di matematica alla Norwegian University of Science and Technology (NTNU) a Trondheim.A Oslo, in Norvegia, un possibile caso di paradosso di Braess citato da Forskning.no fu evitato negli anni Novanta grazie a una consulenza fornita all’amministrazione della città dal Transportøkonomisk institutt (TØI), un istituto nazionale di ricerca multidisciplinare sui trasporti. L’idea di costruire una corsia in più dopo due lunghe gallerie (Granfosstunnelen) sulla tangenziale 150 fu messa da parte perché, secondo le simulazioni effettuate dall’istituto, avrebbe causato un aumento del traffico anziché una distribuzione su più strade.Le ricerche nell’ambito della gestione del traffico stradale suggeriscono che la costruzione o la chiusura delle strade possono condizionare in modi non facilmente prevedibili le numerose variabili alla base della formazione degli ingorghi. Alcune persone potrebbero per esempio cambiare non soltanto il percorso ma anche le abitudini e gli orari di viaggio. E per simulare i vari flussi di traffico nel caso di chiusura di una o più strade – per convertirle in piste ciclabili, per esempio – occorre molta potenza di calcolo, ha detto Stefan Flügel, ricercatore del TØI. LEGGI TUTTO

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    L’aria della Pianura Padana è sempre la più inquinata dell’Europa occidentale

    Caricamento playerGli ultimi dati sulla qualità dell’aria diffusi dall’Agenzia europea dell’ambiente (EEA) confermano una cosa già risaputa ma sempre problematica: la Pianura Padana è la regione più inquinata dell’Europa occidentale. Secondo l’EEA, che è l’organismo dell’Unione Europea che monitora le condizioni ambientali, nonostante un generale miglioramento della qualità dell’aria rispetto al passato i livelli di sostanze inquinanti presenti nell’aria che respiriamo continuano a rappresentare un grande rischio per la salute.Nel 2021 il 97 per cento della popolazione urbana europea è stato esposto a concentrazioni di particolato fine (il cosiddetto PM2,5, l’inquinante più dannoso per la salute) maggiori dei limiti ideali fissati dalle più aggiornate linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Le linee guida europee sono meno stringenti, ma in alcune parti d’Europa sono comunque state disattese, in particolare per il particolato di dimensioni maggiori (PM10) e l’ozono, i cui limiti sono stati superati in Pianura Padana.Le ragioni delle specifiche condizioni di inquinamento del Nord Italia sono ben note. Innanzitutto la Pianura Padana è una regione piena di città e molto popolata nonché densamente industrializzata, con la conseguente emissione di grandi quantità di sostanze inquinanti nell’atmosfera. Ci sono altre zone d’Europa che hanno caratteristiche simili, ma a queste si aggiunge la conformazione geografica del bacino del Po e le condizioni meteorologiche ad essa legate: chiusa tra le Alpi e gli Appennini, la Pianura Padana è una regione in cui soffia poco vento e c’è un’alta stabilità atmosferica, ragione per cui le sostanze inquinanti presenti nell’aria ristagnano, non vengono disperse.Le sostanze inquinanti prese in considerazione in queste analisi dell’EEA sono quelle per cui l’esposizione a lungo termine è associata allo sviluppo di patologie di vario genere, principalmente cardiovascolari e respiratorie, e a una riduzione dell’aspettativa di vita. Le principali sono il particolato, cioè l’insieme delle sostanze solide e liquide sospese nell’aria in particelle di diametro fino a mezzo millimetro, che possono depositarsi nei bronchi e penetrare nel sistema circolatorio, l’ozono, tra le sostanze più rischiose per chi soffre d’asma, e il biossido di azoto, ritenuto cancerogeno. Il PM2,5 è l’inquinante che ha l’impatto maggiore sulla salute e in particolare è associato a infezioni respiratorie, cancro ai polmoni e infarti.In generale, l’inquinamento dell’aria è particolarmente dannoso per i bambini e gli adolescenti. Le stime dell’EEA dicono che ogni anno causa più di 1.200 morti premature tra le persone con meno di 18 anni nei 32 paesi di cui analizza le caratteristiche.Secondo una classifica delle città più inquinate del 2021, che tiene conto delle concentrazioni di PM2,5, in Italia i comuni più inquinati tra quelli con più di 50mila abitanti sono:1. Cremona2. Padova3. Vicenza4. Venezia5. Brescia6. Piacenza7. Bergamo8. Alessandria9. Asti10. VeronaMilano è dodicesima nella classifica italiana e Torino quattordicesima. Se si considera la classifica europea complessiva, solo due città polacche e una croata – tra quelle con più di 50mila abitanti – hanno valori di concentrazione di PM2,5 maggiori di Cremona.Il particolato causato dalle attività umane è dovuto principalmente alla combustione di legna e carbone, a molte attività industriali e ai mezzi di trasporto stradali alimentati con i combustibili fossili. Il biossido d’azoto è prodotto principalmente dai mezzi stradali e a sua volta causa la presenza di ozono, che si forma da reazioni chimiche favorite dalla presenza di vari composti volatili, tra cui il metano.– Leggi anche: L’inquinamento dell’aria spiegato bene LEGGI TUTTO