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    Come funziona il “digiuno intermittente”, se funziona

    Complici alcune dichiarazioni di personaggi famosi e la pubblicazione di libri che se ne occupano, negli ultimi mesi è tornato di moda ed è diventato molto discusso il cosiddetto “digiuno intermittente”. Secondo chi lo pratica, non solo aiuterebbe a perdere peso velocemente, ma anche a mantenersi in salute e in generale a sentirsi meglio. Di recente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto di avere «perso 6 chili grazie al digiuno intermittente», aggiungendosi alla lista piuttosto lunga di persone che hanno detto di essere dimagrite seguendo questa pratica. In precedenza se ne era parlato molto in seguito ad alcune dichiarazioni di Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova, molto presente in televisione negli ultimi anni come esperta di cose intorno alla pandemia da coronavirus.Il digiuno intermittente ha ottenuto un certo successo perché viene spesso presentato come una soluzione per perdere rapidamente peso, con minori sacrifici rispetto a quelli richiesti dalle classiche diete. Chi lo pratica difficilmente si consulta prima con una persona che ha studiato nutrizione, ritenendo di dovere applicare solo qualche semplice regola per iniziare a dimagrire. È un approccio che può comportare qualche rischio, soprattutto per le persone con particolari problemi di salute, magari legati proprio al loro metabolismo e dei quali non sono pienamente consapevoli.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sul digiuno intermittenteA digiunoLa percezione di dover seguire regole molto semplici deriva probabilmente dal fatto che di per sé digiunare non è complicato: consiste nello smettere di mangiare e in alcuni casi di bere per un certo periodo di tempo. È una pratica che viene seguita da millenni, per motivi culturali e religiosi a seconda delle popolazioni e dei contesti interessati. Nell’antica Grecia si digiunava prima di consultare gli oracoli, mentre nello sciamanesimo in varie culture africane era praticato prima di poter “comunicare” con gli spiriti. Il digiuno è inoltre visto come una via per avere esperienze mistiche, come per esempio nel buddhismo. In molte religioni è un modo per fare penitenza, per meditare e per concentrarsi su necessità diverse da quelle terrene: durante il mese del Ramadan, centinaia di milioni di persone musulmane nel mondo digiunano nelle ore di sole. In un digiuno prolungato consiste anche lo sciopero della fame, forma di protesta adottata spesso dalle persone detenute.Uno degli effetti del digiuno prolungato è inevitabilmente il dimagrimento, perché in mancanza del cibo il nostro organismo prova a compensare utilizzando ciò di cui dispone, come le riserve di grasso e le proteine presenti nei tessuti muscolari. Partendo da questo presupposto, già all’inizio del Novecento alcuni gruppi di ricerca iniziarono a chiedersi se una versione attenuata con brevi periodi di digiuno potesse essere impiegata per trattare l’obesità. Erano i primi esperimenti e tentativi in genere poco sistematici e strutturati, che portarono a pochi studi e non molto rilevanti. Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta, quando iniziarono a essere pubblicate ricerche un poco più estese e articolate.Nelle prime esperienze documentate, erano previsti periodi di digiuno che variavano da un giorno a un paio di settimane a seconda dei casi. Già all’epoca si potevano trovare articoli entusiastici sul digiuno intermittente anche se non c’erano molti elementi per determinarne efficacia e sicurezza. Sperimentare e studiare le diete è sempre molto difficile, sia perché ogni persona è fatta diversamente e reagisce in modo diverso a trattamenti e terapie, sia perché seguire per lungo tempo un numero ragionevole di persone per determinare l’efficacia di una dieta richiede grandi risorse e soprattutto una certa dedizione da parte dei partecipanti allo studio. Questo spiega perché, a distanza di quasi un secolo dai primi studi, ancora oggi non ci sono elementi chiari sull’utilità del digiuno intermittente, come del resto è avvenuto per molti altri tipi di diete.I digiuni intermittentiNon esiste del resto un solo tipo di digiuno intermittente: ci sono più varianti e ognuno finisce col personalizzare le proprie abitudini alimentari come meglio crede, talvolta con qualche rischio per la salute. In linea generale, il digiuno intermittente consiste nell’astenersi dal cibo e dalle bevande caloriche per un certo periodo di tempo nel corso della giornata o della settimana. Frequenza e durata dei cicli di digiuno variano molto a seconda dei casi, ma si possono identificare due grandi categorie.La prima è quella delle diete a “digiuno periodico” nelle quali si alternano giornate intere di digiuno, o comunque di forte restrizione calorica, e giorni in cui si mangia normalmente. La seconda è la categoria delle diete con alimentazione a restrizione oraria: si mangia solo in alcune ore della giornata.In questi due filoni si inseriscono numerose diete che combinano fasi di digiuno alla normale alimentazione, in modi talvolta creativi e che ricordano un poco la regolazione del traffico a targhe alterne. C’è il digiuno a giornate, che prevede un giorno in cui si digiuna alternato a uno in cui si mangia; c’è la dieta 5:2 con due giorni di digiuno e cinque liberi; c’è la dieta “mima digiuno” dove viene consigliato il consumo soprattutto di verdure e che ha una durata di cinque giorni, nei quali si riduce progressivamente l’apporto calorico. Altri sistemi prevedono di mangiare in un intervallo di 8-10 ore e di digiunare per le restanti 16-14 ore: sono tra quelli più seguiti, semplicemente perché è relativamente più immediato saltare un pasto e sfruttare il sonno durante il quale già normalmente si digiuna.Roditori e umaniChi promuove il digiuno intermittente fa spesso riferimento agli studi effettuati su topi e altri roditori negli ultimi anni, dove si segnala come l’alimentazione a giorni alterni mantenga questi animali magri e più sani secondo alcuni parametri, per esempio con un aumento della durata della loro vita. Non è ancora completamente chiaro perché ciò avvenga, ma si ipotizza che in mancanza di nutrienti introdotti con l’alimentazione, l’organismo passi a utilizzare in modo più intensivo le risorse di glicogeno, una delle principali riserve energetiche dell’organismo, e il grasso corporeo.Negli esseri umani è più difficile replicare le medesime condizioni ottenute con i roditori e di conseguenza non ci sono elementi chiari per sostenere che il digiuno intermittente sia più efficace, o più sicuro e sano, rispetto alle classiche diete. Lo scorso anno un gruppo di ricerca aveva diviso 139 persone con obesità in due gruppi per sottoporle a due diversi tipi di diete: una di restrizione calorica classica, mangiando meno ai soliti pasti, e una di digiuno intermittente con pasti consentiti solo tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio. Per entrambi i gruppi era prevista nel complesso l’assunzione di 1500-1800 chilocalorie al giorno per gli uomini e di 1200-1500 chilocalorie per le donne.Al termine della sperimentazione durata circa un anno, il gruppo di ricerca ha riscontrato valori simili di perdita di peso tra i due gruppi, così come ha riscontrato dati paragonabili nella riduzione del grasso corporeo, della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. I due regimi calorici avevano in sostanza dato i medesimi risultati, suggerendo che non ci siano particolari differenze tra i due approcci e soprattutto che il digiuno intermittente non comporti miglioramenti significativi nella perdita di peso rispetto a una dieta normale.Mangiare menoCi sono vari elementi per ritenere che il digiuno intermittente funzioni solo quando porta a una riduzione delle calorie assunte ogni giorno rispetto alle proprie abitudini. È del resto una conclusione piuttosto intuibile, che sfata però uno dei miti o delle convinzioni di molte persone che seguono un digiuno intermittente, sostenendo di mangiare ciò che vogliono e nelle quantità che preferiscono nelle ore “consentite”, immaginando che in qualche modo il metabolismo cambi e provveda al dimagrimento nel resto delle ore della giornata.In realtà, se si verificano le dichiarazioni di chi sostiene il digiuno intermittente, per esempio tra persone con una certa visibilità pubblica, si nota che il principale motivo del dimagrimento è la riduzione della quantità di cibo assunta e che questa è molto più rilevante rispetto al periodo della giornata in cui si mangia o si digiuna. Renzi ha per esempio detto di avere ripreso a correre con maggiore assiduità, mentre Viola ha spiegato di avere eliminato quasi del tutto il consumo di bevande alcoliche, che sono particolarmente caloriche. In entrambi i casi ci sono stati cambiamenti nelle abitudini che vanno al di là dei giorni in cui si mangia o meno.Per molte persone il digiuno intermittente funziona meglio di altre diete perché si deve rispettare un programma orario rigido che riduce le possibilità di sgarrare, fare eccezioni o cedere a qualche tentazione. Gli orari di alcune versioni del digiuno intermittente favoriscono inoltre il salto o la riduzione di alcuni pasti, come la cena: se si deve fare l’ultimo pasto entro le 16 è probabile che si abbia meno fame essendo ancora sazi dal pranzo e che si vada a dormire prima che venga nuovamente fame, per esempio. Il numero inferiore di pasti aiuta ovviamente a mangiare meno ed è un’ulteriore dimostrazione che il digiuno intermittente è paragonabile a una dieta.Un dimagrimento sano passa di solito da una relativa riduzione delle calorie che si introducono con gli alimenti ogni giorno e dal praticare attività fisica. Diete con una marcata riduzione delle calorie dovrebbero essere seguite sotto la supervisione di medici e mediche, che a seconda dei casi possono raccomandare esami e accertamenti di vario tipo prima di prescrivere una dieta. LEGGI TUTTO

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    Cosa c’è nell’acqua di Fukushima

    Caricamento playerGià il mese prossimo il Giappone potrebbe iniziare a disperdere nell’oceano Pacifico l’acqua radioattiva accumulata nell’ex centrale nucleare di Fukushima Daiichi, danneggiata dal grande tsunami del 2011. Il 4 luglio l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), un’organizzazione autonoma all’interno del sistema delle Nazioni Unite, ha detto che il piano giapponese per effondere gradualmente l’acqua nel Pacifico nel corso dei prossimi decenni rispetta le sue regole di sicurezza. Era l’ultima importante certificazione che serviva alla Tokyo Electric Power Company (Tepco), l’azienda energetica che gestisce la centrale, per cominciarne la dismissione.L’acqua in questione è sia quella che è stata usata per raffreddare le barre di combustibile nucleare della centrale subito dopo l’incidente del 2011 e mantenerle alla giusta temperatura da allora in poi (ancora oggi), sia quella piovuta o penetrata dal suolo all’interno degli edifici dei reattori nucleari prima che fossero isolati. È contaminata da alcune sostanze radioattive, anche se è stata sottoposta a un processo di filtraggio che ne ha rimosse la maggior parte. Complessivamente sono 1,33 milioni di tonnellate (pari all’acqua contenuta in più di 500 piscine olimpioniche), che si trovano all’interno di più di mille grandi serbatoi.Per rimuovere dall’acqua quasi tutti i 64 elementi radioattivi assorbiti dal combustibile nucleare è stato usato un sistema chiamato ALPS, acronimo dell’inglese “Advanced Liquid Processing System”, che sostanzialmente è composto da una sequenza di filtri chimici che trattengono quasi del tutto le diverse sostanze. L’acqua che ne esce non è però priva di contaminazioni: alcuni elementi non possono essere rimossi né con ALPS né con altre tecnologie disponibili, almeno a certe concentrazioni. Il principale è il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno naturalmente presente nell’acqua del mare e nell’atmosfera: è estremamente difficile separarlo dall’acqua dato che chimicamente è molto simile all’idrogeno, uno dei due elementi che la compongono.Il trizio è considerato poco pericoloso per la salute umana perché non può penetrare attraverso la pelle, sebbene possa avere degli effetti sulle molecole del DNA. Può però essere inalato o ingerito se si trova nell’acqua o nel cibo. Dato che gli scienziati pensano che in grandi quantità possa essere dannoso, in tutto il mondo sono stati fissati dei limiti sulla quantità di trizio che può essere contenuto nell’acqua potabile; variano molto tra i paesi in base al livello di cautela scelto.In Italia e negli altri paesi dell’Unione Europea deve essere inferiore ai 100 becquerel per litro, negli Stati Uniti inferiore a 740, mentre il limite fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è molto più alto, pari a 10mila becquerel per litro (il becquerel è l’unità di misura dell’attività di un radionuclide, che corrisponde a un decadimento al secondo).Il piano del governo giapponese prevede di diluire l’acqua contaminata di Fukushima con acqua di mare fino ad arrivare a una quantità di trizio inferiore ai 1.500 becquerel per litro prima di riversarla nell’oceano, dove sarà ulteriormente diluita, tanto da non influire in modo apprezzabile sulla naturale concentrazione di trizio nell’oceano. In Giappone il limite legale per la presenza di trizio nell’acqua è di 60mila becquerel per litro.L’altro elemento radioattivo che non si riesce a rimuovere del tutto con il sistema ALPS è il carbonio-14, che secondo TEPCO nei serbatoi di Fukushima ha una concentrazione al di sotto del limite del 2 per cento fissato dalle regole internazionali: la società ha detto inoltre che la concentrazione sarà ulteriormente ridotta attraverso la diluizione con l’acqua di mare.Nel rapporto diffuso martedì e realizzato dopo due anni di studi di esperti di sicurezza nucleare di 11 paesi, l’IAEA ha detto che la dispersione dell’acqua contaminata di Fukushima nelle modalità previste dal piano della TEPCO avrà un effetto trascurabile sull’ambiente e sulle persone.Alcuni paesi vicini al Giappone e vari biologi hanno tuttavia espresso dei dubbi sulla sicurezza della dispersione dell’acqua e in particolare sulle possibili conseguenze dell’accumulo delle sostanze radioattive all’interno degli organismi marini attraverso la catena alimentare. Non preoccupa tanto la quantità di sostanze radioattive che un singolo pesce assorbirà dall’acqua, insomma, ma quella che si accumulerà soprattutto negli animali più grossi attraverso l’alimentazione, sebbene non si peschi più nell’area con raggio di 3 chilometri attorno alla centrale.«L’effetto della chimica della diluizione è invalidato dalla biologia dell’oceano», ha detto a Nature Robert Richmond, biologo marino dell’Università delle Hawaii; è uno dei cinque scienziati che stanno facendo da consulente sulla questione dell’acqua di Fukushima per il Pacific Islands Forum, un’organizzazione intergovernativa che riunisce 18 paesi del Pacifico, tra cui l’Australia, le Fiji e la Papua Nuova Guinea. Secondo Richmond, che ha studiato il piano della TEPCO e visitato la centrale di Fukushima, rimangono alcuni dubbi sulla sicurezza della dispersione dell’acqua.Shigeyoshi Otosaka, un oceanografo e chimico marino dell’Università di Tokyo, ha spiegato sempre a Nature che la comunità scientifica non conosce ancora con esattezza quali possano essere le conseguenze dell’accumulo di sostanze radioattive negli organismi marini. La TEPCO ha realizzato degli esperimenti di laboratorio in cui ha fatto crescere alcuni organismi all’interno di acqua trattata dal sistema ALPS e sostiene che le concentrazioni di trizio non superino le soglie di sicurezza. L’azienda e il governo giapponese hanno inoltre sottolineato più volte che in molte parti del mondo le centrali nucleari disperdono in mare acqua contenente trizio, anche in concentrazioni maggiori.La ragione per cui nel 2021 la TEPCO e il governo giapponese avevano deciso di disperdere l’acqua contaminata di Fukushima nell’oceano era che lo spazio per mettere nuovi serbatoi nel sito della centrale stava finendo e quello attualmente occupato dai serbatoi esistenti servirà per realizzare nuovi impianti per il trattamento dei materiali radioattivi della centrale. Era necessario insomma trovare una destinazione alternativa per l’acqua: l’alternativa che era stata considerata era di lasciarla evaporare nell’atmosfera, come era stato fatto nel 1979 dopo l’incidente della centrale nucleare statunitense di Three Mile Island, ma così facendo si avrebbe avuto un minore controllo sui livelli di sostanze radioattive disperse nell’ambiente.L’IAEA supervisionerà il processo di dispersione dell’acqua per tutta la sua durata, almeno quarant’anni, per controllare in maniera continuativa i livelli di radioattività. Avrà anche un ufficio permanente a Fukushima. LEGGI TUTTO

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    Il 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato

    Lunedì 3 luglio è stato il giorno più caldo mai registrato a livello globale, secondo i dati analizzati dai Centri nazionali per la previsione ambientale (NCEP), che fanno parte del Servizio meteorologico nazionale del governo degli Stati Uniti. La temperatura media globale ha raggiunto i 17,01 °C, segnando un nuovo massimo dopo i 16,92 °C che erano stati registrati nell’agosto del 2016. Al nuovo record hanno contribuito le varie ondate di calore che nell’ultimo periodo hanno interessato diverse aree del pianeta.La giornata di lunedì è stata la più calda da quando è iniziato il rilevamento della temperatura media globale utilizzando i dati satellitari, alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Le notizie sul giorno più caldo sono arrivate a pochi giorni di distanza dalle prime conferme sul mese di giugno appena finito, che si è rivelato il più caldo mai registrato nel Regno Unito.Le ondate di calore delle ultime settimane sono state attribuite alle condizioni atmosferiche locali in combinazione con l’arrivo del nuovo El Niño, sui cui effetti, soprattutto per quanto riguarda l’Europa, ci sono comunque ancora incertezze. Con “El Niño” si indica l’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e che influenza il clima in buona parte del pianeta, contribuendo tra le altre cose all’aumento della temperatura media globale. Gli effetti di El Niño sono diventati via via più significativi anche a causa degli effetti del riscaldamento globale dovuto all’aumento delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, soprattutto per via delle attività umane.Nella parte meridionale degli Stati Uniti da settimane si registrano alte temperature ed eventi atmosferici estremi, mentre in Cina prosegue da giorni una intensa ondata di calore con temperature al di sopra di 35 °C in buona parte del paese. Nel Nord Africa sono state registrate temperature intorno ai 50 °C. In Antartide, dove ora è inverno, sono state rilevate anomalie nelle temperature con massime più alte del solito, che hanno contribuito a una accelerazione nella fusione del ghiaccio. In una delle stazioni di rilevamento antartiche è stata rilevata una temperatura di 8,7 °C, un nuovo record per il mese di luglio.In questa prima fase dell’estate le ondate di calore hanno interessato soprattutto la Spagna, ma sono state rilevate anomalie anche più a nord. Di recente è stato segnalato un aumento della temperatura nei mari attorno al Regno Unito e all’Irlanda, di 3-4 °C in più rispetto alla media registrata negli anni scorsi in questo periodo.È sempre difficile fare previsioni sull’andamento delle temperature nel breve periodo, ma secondo gli esperti è probabile che nel corso delle prossime settimane saranno superati nuovi record, sempre a causa di El Niño e di altri effetti riconducibili al cambiamento climatico. LEGGI TUTTO

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    Non fa male sapere che bere alcol fa male

    Caricamento playerNegli ultimi mesi il ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida ha in più occasioni difeso il consumo degli alcolici, e in particolare del vino, criticando la scelta del governo irlandese di introdurre etichette sulle bevande alcoliche con avvisi sui loro effetti nocivi per la salute, come avviene già sui pacchetti delle sigarette. Lollobrigida ha per esempio sostenuto che in Irlanda il vino «non sanno nemmeno consumarlo con moderazione come è giusto fare» e che un’etichetta che indica pericoli gravi per la salute «racconta una cosa distorta», nonostante tutte le più importanti istituzioni sanitarie a cominciare dall’Organizzazione mondiale della salute dicano da tempo che «nessuna quantità di consumo di alcol è sicura per la salute».Questo succede, peraltro, proprio nei giorni in cui il governo si sta esprimendo in varie modalità contro il consumo di altre sostanze stupefacenti, quelle a cui ci si riferisce normalmente come droghe: è da poco uscito un discusso spot istituzionale, finanziato dal Dipartimento politiche antidroga, in cui l’allenatore della Nazionale di calcio maschile Roberto Mancini ripete numerose volte che «tutte le droghe fanno male». Né in questa né in comunicazioni simili, tuttavia, viene quasi mai incluso esplicitamente l’alcol, nonostante diversi riconosciuti studi lo indichino come molto più pericoloso della maggior parte, se non tutte, delle sostanze che intendiamo normalmente quando ci riferiamo alle droghe. Una discussione analoga si è sviluppata attorno alla proposta di riforma del codice della strada del ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che contiene alcune misure ancora poco chiare che però sembrano irrigidire l’approccio verso i consumatori di sostanze psicotrope, compresa la marijuana.La legge irlandese richiede l’applicazione degli avvisi sulla salute entro due anni su tutti i prodotti alcolici venduti nel paese, birra compresa, la principale bevanda alcolica bevuta nel paese – ed elemento importantissimo dell’economia nazionale – e non è quindi indirizzata esclusivamente ai vini. Nel caso dell’Italia, il dibattito sulla scelta dell’Irlanda si è concentrato sul vino semplicemente perché il nostro paese ne produce ed esporta molto, più di altre bevande a base di alcol. Qualcosa di analogo si è verificato in Spagna e in Francia, altri paesi che producono ed esportano molto vino, con associazioni di categoria ed esponenti politici che hanno accusato il governo irlandese di «fare terrorismo» sul consumo di vino.Si è parlato di demonizzazione e di proibizionismo, nonostante l’Irlanda non abbia vietato in alcun modo il consumo di vino e delle altre bevande alcoliche. Come ha spiegato il governo irlandese, le etichette con gli avvisi sui pericoli per la salute hanno l’obiettivo di rendere i consumatori di alcol più consapevoli dei rischi in un contesto dove si beve molto, con numerose implicazioni sociali e per la salute pubblica. Bere alcol è una scelta come molte altre che spetta ai singoli, sulla base delle loro preferenze e dei loro gusti, e proprio per questo è importante sapere quali implicazioni può avere.AlcolL’etanolo (o alcol etilico, quello che comunemente chiamiamo “alcol”) è una sostanza prodotta attraverso la fermentazione degli zuccheri e degli amidi da parte dei lieviti. Nelle birre è di solito presente in concentrazioni inferiori al 10 per cento, mentre nei vini può raggiungere il 20 per cento, percentuali più alte riguardano soprattutto i liquori e i distillati, dove la parte alcolica della bevanda può arrivare al 70 per cento. A parità di porzione, gli effetti a breve termine di una birra sono naturalmente diversi da quelli di un distillato, semplicemente perché si assume una quantità inferiore di alcol, ma i rischi per la salute sono presenti in entrambi i casi perché non c’è una soglia entro la quale il consumo di alcol è definibile “sicuro”.Quando beviamo un bicchiere di vino, una birra o un cocktail, l’alcol contenuto nella bevanda viene assorbito molto rapidamente dallo stomaco e dall’intestino tenue: si distribuisce nell’organismo e il compito di smaltirlo spetta in particolare al fegato, che trasforma l’etanolo in acetaldeide e successivamente in acido acetico. È un’attività intensa e il fegato può smaltire solo una certa quantità di alcol in un certo periodo di tempo: una persona adulta di medio peso (intorno ai 70 chilogrammi) riesce a smaltire circa 8 grammi di alcol all’ora. In un bicchiere di vino di media gradazione ci sono circa 10-12 grammi di etanolo, di conseguenza il tempo per smaltirlo per quella persona è di poco più di un’ora. Se si bevono più bicchieri o bevande con una gradazione alcolica più alta, il tempo per smaltire l’etanolo aumenta molto.Il lavoro molto intenso per il fegato può portare a infiammazioni e a un ispessimento dei tessuti, con la formazione di lesioni e cicatrici (cirrosi) che riducono in generale la capacità del fegato di svolgere le proprie funzioni molto importanti per il metabolismo. Il consumo di alcol riduce l’attività del sistema immunitario e può avere effetti sul sistema cardiocircolatorio. L’alcol deprime alcune attività dei neuroni ed è tossico per il sistema nervoso centrale, con riduzione delle capacità cognitive e danni che possono diventare permanenti. L’alcol è inoltre un fattore causale di circa 200 tra malattie e tipologie di infortuni.– Leggi anche: Come mai bere alcol di giorno sembra dare un effetto diversoCancro e alcolL’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Ciò non significa che se si consuma alcol allora ci si ammala sicuramente di cancro: la classificazione serve per indicare una sostanza che se assunta può aumentare il rischio di ammalarsi di un determinato tipo di tumore durante l’intera propria vita. Allo stesso modo non consumare alcol non dà la certezza di non ammalarsi di un determinato tumore, ma è un comportamento che espone a un rischio diverso.Nel suo uso corretto, come quello della IARC, la parola “cancerogeno” indica qualcosa che causa un certo tipo di cancro, in sostanza: una sostanza è cancerogena o non lo è. La classificazione dello IARC, che prevede vari gruppi, non indica quali sostanze sono “più” o “meno” cancerogene, ma semplicemente esprime quanto si è sicuri che una sostanza sia davvero cancerogena. Per le sostanze nel “Gruppo 1”, quello dell’alcol, la certezza è ormai consolidata, per quelle comprese nel “Gruppo 2A” il livello di certezza è minore e così via. Man mano che si accumulano nuovi studi e conoscenze le cose possono cambiare, con lo spostamento di alcune sostanze da un gruppo all’altro (difficilmente quelle comprese nel “Gruppo 1” saranno riclassificate, considerato il livello di certezza sui loro effetti).Ogni agente cancerogeno agisce in modo diverso e ciò determina anche gli effetti sull’organismo. Nel “Gruppo 1” oltre all’alcol ci sono gli insaccati e il fumo, per esempio, il cui consumo ha effetti diversi ed è l’eventuale causa di particolari tipi di tumore.Il consumo di alcol può causare almeno sette diversi tipi di cancro, anche nel caso in cui se ne assumano quantità minime. Le aree più interessate sono: bocca e gola, laringe, esofago, colon-retto, fegato e seno (nelle donne). Gli effetti su altri organi non sono necessariamente legati al cancro, ma sono stati accertati rischi e danni a carico di: cervello, cuore, polmoni, stomaco, pancreas, colecisti, reni, vescica e apparato riproduttivo.I rischi derivanti dal consumo di più sostanze cancerogene si possono sommare, come nel caso del bere sostanze alcoliche e del fumo. È stato rilevato che le persone che bevono e fumano hanno un rischio più alto di sviluppare tipi di cancro come quelli al cavo orale, alla laringe e all’esofago, rispetto alle persone che o fumano o consumano alcol.Il famoso bicchiere di vino rosso al giornoCome segnalano studi e istituzioni scientifiche, compresa l’OMS, il mito secondo il quale “un bicchiere di vino rosso al giorno fa bene al cuore” non ha prove scientifiche convincenti. Le ricerche che lo hanno ipotizzato si sono basate per lo più su esperienze osservazionali (dove i gruppi di ricerca si limitano a osservare i fenomeni) senza tenere in considerazione condizioni di salute preesistenti.Anche nel caso in cui ci fossero benefici, questi non sarebbero comunque tali da superare i danni che causa il consumo di alcol. Il consenso nella letteratura scientifica è che qualsiasi quantità di alcol consumata fa aumentare i rischi per la salute. «Il dibattito sui possibili e cosiddetti “effetti protettivi” dell’alcol distoglie l’attenzione dal più grande contesto dei danni causati dall’alcol; per esempio, anche se è ormai chiaro che l’alcol può causare il cancro, questo fatto non è ancora ampiamente noto alle persone nella maggior parte dei paesi», dice l’OMS.Un mondo di alcolTra molti c’è la percezione che la maggior parte delle persone consumi alcol, ma in realtà si stima che il 57 per cento della popolazione mondiale non lo faccia. Questa maggioranza è quasi sempre sottorappresentata, sia a causa delle massicce campagne pubblicitarie che invitano a bere, sia per la presenza degli alcolici in numerosi prodotti culturali (serie tv, film, libri, fumetti, per citarne alcuni). C’è anche una certa pressione sociale nei confronti di chi non beve alcol o vorrebbe provare a smettere, che spesso viene trascurata e sottostimata.– Leggi anche: Beviamo da un pezzoL’idea che un consumo moderato di alcol comporti pochi rischi deriva spesso dalle leggi, per esempio quelle che impongono un limite massimo di alcol nel sangue per poter guidare, o dalle pubblicità dei produttori di bevande alcoliche che ricordano di “bere responsabilmente”. Segnali e messaggi di questo tipo non mettono in evidenza i rischi per la salute, e soprattutto la loro esistenza a prescindere dalla quantità di alcol consumato.La legge in Irlanda con le indicazioni su rischi e danni causati dall’alcol è un primo tentativo nella direzione indicata dalle istituzioni sanitarie per rendere più consapevoli i consumatori di bevande alcoliche, in modo da fornire più elementi sui rischi e la pericolosità di alcuni comportamenti. Una ricerca condotta nello Yukon, nel nord-ovest del Canada, ha rilevato che l’aggiunta delle etichette di avvertimento ha fatto ridurre le vendite dei prodotti alcolici del 7 per cento rispetto alle aree del paese dove non sono impiegati gli avvertimenti sulle confezioni. Sull’efficacia di questo approccio mancano comunque studi più ampi e strutturati, benché ci siano dati più attendibili sugli effetti positivi che ha comportato l’introduzione delle etichette sui prodotti del tabacco in molti paesi.Alcol e altre drogheProprio perché ogni sostanza agisce diversamente sul nostro organismo, e in modo ancora diverso da persona a persona (siamo fatti tutti diversamente e ci comportiamo in modo diverso), è molto difficile stabilire quali droghe abbiano possibili effetti negativi per la salute più di altre. Uno studio che viene spesso citato risale al 2007 e fu pubblicato sulla rivista medica The Lancet, quando un gruppo di ricerca provò a stimare gli effetti negativi sia in termini di dipendenza sia di danno fisico di numerose sostanze che solitamente chiamiamo “droghe”, alcol compreso. Dallo studio era emerso che alcuni anabolizzanti, cannabis, LSD ed ecstasy possono avere effetti negativi inferiori rispetto all’alcol.Una valutazione sulla pericolosità relativa delle droghe effettuata nell’Unione Europea nel 2015 segnalò che in generale la sostanza più dannosa è l’alcol con un punteggio di 72 su 100 nella scala di pericolosità. L’alcol era prima dell’eroina (55) e del crack (50). Le altre 17 sostanze considerate avevano ottenuto un punteggio pari o inferiore a 38, cioè quello assegnato alla cocaina. Il punteggio del tabacco era superiore a quello della cannabis, e ancora minori erano i punteggi dell’MDMA e dell’LSD. È bene comunque ricordare che più le sostanze sono diverse più è difficile metterle a confronto e valutare i relativi fattori di rischio.CostiCosì come si tende a pensare che ci siano più consumatori di alcol che persone che si astengono, c’è anche una percezione alquanto diffusa sul fatto che i danni causati dall’alcol siano dovuti a un gruppo minoritario di forti bevitori. In realtà gli effetti negativi principali dell’alcol (cancro, infortuni e violenza) sono distribuiti ampiamente nella popolazione, anche tra chi consuma dosi relativamente basse di alcolici, come spiega l’Istituto superiore di sanità:Anche se i forti consumatori di alcol sono indubbiamente ad alto rischio di danni alcol-correlati, contribuiscono solo in minima parte al totale delle vittime di alcol ma rappresentano comunque per l’industria il target di consumatori dai quali deriva gran parte del profitto. Di conseguenza, anche la riduzione dei consumatori a rischio e dannosi non è un obiettivo realisticamente supportato o supportabile da un approccio mirato a trarre il massimo profitto dalla commercializzazione del prodotto. In questo “paradosso della prevenzione”, la maggior parte dei danni correlati all’alcol si verifica tra i consumatori di alcol a rischio da basso a moderato semplicemente perché sono più numerosi nella popolazione.ItaliaSecondo l’ultimo rapporto sul consumo di alcol realizzato nel 2020 dall’ISTAT con dati riferiti all’anno precedente, il 66,8 per cento della popolazione maggiore di 11 anni ha consumato almeno una bevanda alcolica all’anno. La quantità di consumatori di alcolici abituali (almeno una porzione al giorno) è pari al 20,2 per cento, in riduzione rispetto a dieci anni prima quando era il 27 per cento. La quota di persone che consumano occasionalmente alcol è invece passata dal 41,5 per cento del 2009 al 46,6 per cento del 2019.È stato calcolato che in media ogni giorno in Europa muoiono 800 persone per cause riconducibili al consumo di alcol. In Italia ogni giorno muoiono in media 48 persone a causa dell’alcol, circa 17mila ogni anno.***Il Telefono Verde Alcol (TVAl) 800 632000 è un servizio nazionale di ascolto per il contrasto al consumo rischioso e dannoso di bevande alcoliche, attivo dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16. Il servizio è anonimo e gratuito sotto la responsabilità del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità. LEGGI TUTTO

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    È il giorno del telescopio spaziale Euclid

    Caricamento playerAlle 17:11 (ora italiana) di oggi un razzo Falcon 9 della compagnia spaziale privata SpaceX trasporterà oltre l’atmosfera terrestre Euclid, il nuovo telescopio spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), per studiare due delle caratteristiche più sfuggenti dell’Universo: la materia oscura e l’energia oscura. Condizioni del meteo permettendo, il lancio avverrà da Cape Canaveral in Florida (Stati Uniti) e il telescopio impiegherà circa un mese per raggiungere il proprio punto di osservazione a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. La missione è molto attesa perché potrebbe offrire dati importanti per capire meglio l’evoluzione e la struttura dell’Universo.OscuroSiamo fatti di materia e circondati dalla materia, di conseguenza ne abbiamo un’esperienza diretta in ogni istante della nostra esistenza, tanto da non farci nemmeno caso. La materia è tantissima, ma in termini cosmologici – cioè dello studio dell’Universo nel suo complesso – è poca roba: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più condivise, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura. Entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti e non sappiamo nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino. Al tempo stesso, siamo ormai abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene.Rappresentazione schematica di che cosa si intende per “materia” in rapporto alle altre forme “oscure” ipotizzate (ESA)Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo, e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui l’Universo è strutturato e sta insieme.Un esempio che viene spesso utilizzato per dare l’idea del problema parte dalle galassie, i grandi sistemi che comprendono stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri. La quantità di materia osservabile di una galassia è però relativamente poca: sulla base delle conoscenze di cui disponiamo, non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e gravità). Uno dei modi per trovare una spiegazione è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione. Qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rilevare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa: la materia oscura.La galassia NGC 5005 visibile nella costellazione dei Cani da Caccia (NASA, ESA e L. Ho, Peking University; Gladys Kober, NASA/Catholic University of America)La sua esistenza aiuterebbe a spiegare molte cose, ma non tutto sul funzionamento dell’Universo. Circa un secolo fa l’astrofisico statunitense Edwin Hubble scoprì che l’Universo si sta espandendo mentre studiava il modo in cui appaiono le galassie più distanti da noi. Quasi 70 anni dopo, si sarebbe scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo. Era una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.Da quella scoperta è passato circa un quarto di secolo e ancora non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie. Una delle più condivise ipotizza che ci sia un particolare tipo di energia – cioè l’energia oscura – che contrasta in qualche modo la gravità e che fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione. È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello Spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.Studiare qualcosa che non è osservabile è molto difficile, ma nel corso del tempo chi si occupa di astrofisica ha trovato qualche soluzione. Una di queste è raccogliere dati estremamente precisi su quello che invece riusciamo a osservare e confrontarlo con ciò che dovrebbe succedere secondo i modelli teorici, in modo da capire che cosa manca nella realtà per completare il quadro. Il telescopio spaziale Euclid avrà proprio questo compito: effettuare misurazioni molto precise e di una enorme porzione di cielo per trovare indizi su ciò che nemmeno i suoi strumenti possono vedere.Com’è fatto EuclidEuclid è stato costruito da Thales Alenia Space a Torino e da Airbus Defence and Space a Tolosa, in Francia. Il telescopio vero e proprio è un cilindro alto circa 4 metri con un diametro di 1,2 metri ed è collegato al “modulo di servizio”, una base rettangolare che contiene al proprio interno sistemi per gestire e trasmettere verso la Terra i dati raccolti, per la propulsione e per la distribuzione dell’energia elettrica. Telescopio e base messi insieme fanno raggiungere a Euclid un’altezza di 4,7 metri e una larghezza di 3,7 metri. La massa complessiva è di 2 tonnellate, più o meno quanto un SUV di grandi dimensioni.Il telescopio spaziale Euclid nelle ultime fasi di preparazione: si notano il telescopio vero e proprio (il cilindro bianco centrale) e i pannelli fotovoltaici (ESA)A un lato del modulo di servizio è assicurato un grande pannello che serve a proteggere il telescopio spaziale dalla radiazione solare e a raccogliere l’energia elettrica, attraverso pannelli fotovoltaici, per alimentare i sistemi di Euclid. Lo schermo ha la funzione di evitare che si scaldino troppo i due principali strumenti del telescopio, che devono funzionare rispettivamente a -120 e a -180 °C.Lo strumento VIS (VISible instrument) serve per realizzare immagini nello spettro visibile, cioè la porzione di luce che riusciamo a cogliere con i nostri occhi. NISP (Near-Infrared Spectrometer and Photometer) è invece uno strumento per le osservazioni nell’infrarosso, la parte della radiazione elettromagnetica che non riusciamo a vedere perché ha una frequenza inferiore a quella della luce visibile. Entrambi gli strumenti sono stati forniti dallo Euclid Consortium, una collaborazione internazionale di scienziati cui partecipano 14 paesi europei e altri gruppi di ricerca da Stati Uniti, Canada e Giappone. Il progetto ha coinvolto più di duemila persone con vari gruppi di ricerca e di lavoro anche in Italia.Superata l’atmosfera terrestre, Euclid inizierà un lungo viaggio che gli permetterà di raggiungere il punto di Lagrange “L2” a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, in direzione opposta rispetto al Sole. È un punto di osservazione particolare che in sostanza permette di seguire la Terra a grande distanza, in modo da compiere osservazioni nello Spazio profondo. L2 è utilizzato spesso per questo tipo di missioni e da più di un anno ospita anche il James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale più potente e che compie attività di osservazione in buona parte diverse da quelle che farà Euclid.Il viaggio di Euclid verso L2 durerà circa un mese. Una volta arrivato a destinazione il telescopio attiverà i propri strumenti e seguiranno un paio di mesi di test e di calibrazioni. Terminata questa fase di avvio, a ottobre il telescopio sarà pronto per iniziare a osservare e rilevare dati su galassie lontane miliardi di chilometri. Il suo obiettivo sarà mappare circa un terzo del cielo, creando una mappa tridimensionale molto precisa, che potrà essere impiegata per calcolare l’espansione dell’Universo.Il telescopio spaziale sfrutterà anche un effetto particolare chiamato “lente gravitazionale”, che si verifica quando la luce emessa da una galassia arriva distorta a chi la sta osservando a grandissima distanza, a causa delle concentrazioni di materia che trova lungo il proprio percorso. Questa materia che devia la luce è costituita da altre galassie – che possono quindi essere osservate – e per una parte consistente dalla materia oscura, che non può essere invece rilevata.Grazie a misurazioni molto accurate si può ricostruire quanta materia sia necessaria per determinare una lente gravitazionale, indagare quanta materia “normale” sia stata coinvolta e dedurre quanta materia oscura abbia contribuito al fenomeno. In questo modo si può inferire la presenza della materia oscura e soprattutto scoprire come è distribuita nella porzione di Universo osservato.I datti raccolti da Euclid saranno processati dalla parte scientifica dello Euclid Consortium e messi poi a disposizione della comunità scientifica. Immagini, dati sulla luminosità delle galassie e molto altro potranno essere utilizzati per nuove ricerche e per pianificare future nuove missioni spaziali, alla ricerca di cosa non riusciamo a vedere. LEGGI TUTTO

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    Com’è la giornata media di un essere umano nel mondo

    Caricamento playerUn gruppo formato principalmente da ricercatori e ricercatrici della McGill University a Montréal, in Canada, ha utilizzato un insieme molto ampio ed eterogeneo di dati e statistiche – demografiche, economiche e di altro tipo, nazionali e internazionali – per elaborare una stima di quanto tempo le persone dedicano in media ogni giorno ad azioni e attività comuni a tutti come nutrirsi, lavarsi, dormire e lavorare. Le informazioni ricavate sono sorprendenti per alcuni aspetti (lavoriamo “solo” 2,6 ore) e prevedibili per altri, e si spiegano principalmente perché a fare media è l’intera popolazione umana: circa 8 miliardi di persone, di ogni età e luogo geografico.I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e intitolata The global human day, sono considerati dal gruppo un’indicazione fondamentale per comprendere la ripartizione del tempo su scala mondiale nell’arco di una giornata. E si prestano a essere utilizzati in diversi ambiti di ricerca per studiare in dettaglio quali siano i fattori alla base delle differenze nelle ripartizioni tra un paese e l’altro, e su quali sia possibile intervenire per cercare di distribuire il tempo diversamente in modo da ridurre o contrastare eventuali rischi globali.La ricerca si basa sull’aggregazione di dati relativi a 145 paesi, raccolti da enti, agenzie e organizzazioni nazionali e internazionali (Banca Mondiale, OCSE, Unicef e altri), tra il 2000 e il 2019: il periodo successivo non è stato preso in considerazione per evitare condizionamenti dei risultati dovuti alla pandemia. I dati includono sondaggi sul tempo destinato alle varie attività quotidiane, statistiche sull’occupazione e sugli orari di lavoro degli adulti, e sull’istruzione e l’occupazione tra i giovani.La singola categoria più ampia nella ripartizione del tempo è quella del sonno e del riposo a letto: un essere umano trascorre in media circa 9,1 ore al giorno dormendo o riposando. È una media significativamente maggiore rispetto a quella del sonno tra gli adulti: che è 7,5 ore, secondo uno studio danese del 2020 che utilizzò dati ricavati tramite dispositivi indossabili su un campione internazionale di circa 70 mila adulti. Il motivo della differenza è che la ricerca della McGill University include nella stima il tempo trascorso a letto anche senza dormire, e soprattutto include il sonno e il riposo di bambini piccoli e neonati (12-16 ore al giorno).Un bambino dorme in una palafitta a Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni, in Brasile, il 29 luglio 2020 (Pedro Vilela/Getty Images)Le restanti 15 ore al giorno circa non destinate al sonno né al riposo sono state suddivise in tre macro-gruppi, ciascuno dei quali con diverse categorie e sottocategorie. Il macro-gruppo più grande (9,4 ore) riguarda le attività con «risultati umani diretti», cioè svolte dalle persone con l’obiettivo di ottenere un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro menti e sulle loro esperienze.Sono attività di questo tipo, per esempio, la pulizia personale e la cura del proprio aspetto e della propria salute, che occupano in totale poco più di un’ora al giorno. Alla consumazione dei pasti è dedicata in totale poco più di un’ora e mezzo, preparazione dei cibi esclusa (che rientra in un altro macro-gruppo e prende un’altra ora circa). La categoria che all’interno di questo macro-gruppo richiede più tempo di tutte – circa un terzo di tutto il tempo da svegli – sono le «attività passive, interattive e sociali»: occupano in media 4,6 ore al giorno e includono leggere, utilizzare dispositivi con schermi o display, giocare, passeggiare, socializzare e anche star seduti senza fare niente.Il tempo trascorso per l’istruzione e le attività scolastiche e universitarie è poco più di un’ora al giorno, e comprende la frequentazione delle lezioni, lo studio, la ricerca e la didattica a distanza. Circa 12 minuti al giorno è il tempo destinato alle pratiche religiose, incluse le cerimonie, le preghiere e le attività di meditazione: che è più o meno lo stesso tempo dedicato in media alle cure mediche e all’assistenza, inclusa quella domestica e non retribuita, alle persone che ne hanno bisogno.Un ragazzo si lava vicino a una fabbrica di mattoni a Islamabad, in Pakistan, il 27 dicembre 2011 (AP Photo/Muhammed Muheisen)Un altro macro-gruppo riguarda le attività con «risultati esterni», descritte come quelle che hanno lo scopo di produrre cambiamenti fisici nel mondo: occupano complessivamente 3,4 ore al giorno. Includono tutte le attività necessarie alla fornitura di alimenti (1,8 ore circa), inclusa l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, la lavorazione dei prodotti e la preparazione dei pasti. E includono anche l’estrazione di materie prime ed energia dall’ambiente (6 minuti circa), la costruzione di edifici, infrastrutture e manufatti (42 minuti circa), il mantenimento della pulizia e dell’ordine della casa e degli spazi abitati (48 minuti circa), e la gestione dei rifiuti (36 secondi circa).Il terzo e più piccolo macro-gruppo di attività – poco più di 2 ore al giorno – sono quelle con «risultati organizzativi», relative cioè all’organizzazione dei processi sociali e dei trasporti. Includono lo spostamento di persone (quasi un’ora circa) e di merci (18 minuti circa), e ogni attività commerciale, finanziaria, governativa, politica e, in generale, di gestione del tempo e dei diritti delle persone (un’altra ora circa).L’esterno di un locale nel quartiere Soho, a Londra, il 12 aprile 2021 (AP Photo/Alberto Pezzali)La prima grande classificazione utilizzata dai ricercatori e dalle ricercatrici della McGill University si basa quindi sul risultato e sull’obiettivo per cui le attività sono svolte, a prescindere che siano a pagamento oppure no. Per esempio: l’assistenza fisica all’infanzia, che fa parte del primo macro-gruppo e occupa circa 18 minuti al giorno, include sia il lavoro retribuito degli asili che quello non retribuito dei genitori. E la preparazione del cibo, che fa parte del secondo macro-gruppo, include sia cucinare a casa che lavorare in un ristorante.Tenendo invece in conto soltanto le attività economiche considerate un’«occupazione» dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), la media del tempo di lavoro su scala mondiale è di circa 2,6 ore al giorno: circa l’11 per cento della giornata, o un sesto delle ore di veglia. Potrebbe sembrare poco, scrivono gli autori e le autrici della ricerca, ma equivale a una settimana lavorativa di 41 ore per tutta la forza lavoro mondiale (che è circa il 66 per cento della popolazione in età lavorativa, cioè di età compresa tra 15 e 64 anni).Quasi un terzo delle attività economiche quotidiane in tutto il mondo riguarda la crescita e la raccolta di cibo (44 minuti circa), principalmente sotto forma di agricoltura. Circa un quarto (37 minuti circa) è formato dalle attività commerciali, finanziarie, politiche e gestionali. E circa un settimo (22 minuti circa) riguarda la produzione di manufatti, inclusa la fabbricazione di veicoli, macchinari, elettronica, elettrodomestici e tutti gli altri beni mobili e i loro componenti intermedi. Il tempo che resta è perlopiù suddiviso tra costruzione e manutenzione degli edifici, trasporto di merci e altri materiali, preparazione del cibo, istruzione e ricerca.Un contadino in una risaia a Bhaktapur, in Nepal, il 17 ottobre 2022 (AP Photo/Niranjan Shrestha)L’obiettivo della ricerca era ricavare, a partire da dati relativi a tutta la popolazione mondiale, una stima di quanta parte del loro tempo le persone dedicano in media alle diverse attività nell’arco della giornata. Ma i ricercatori e le ricercatrici hanno anche cercato di capire come la ricchezza (in termini di PIL pro capite) influenzi l’utilizzo del tempo, e hanno riscontrato alcune evidenti disparità, in parte prevedibili.Le persone che abitano nei paesi a più alto reddito, rispetto ai residenti nelle aree più povere, trascorrono in media circa 1,5 ore in più al giorno in attività ricreative, interattive e sociali come leggere, utilizzare dispositivi, giocare, passeggiare e altro. Viceversa, nei paesi più poveri le persone dedicano in media oltre un’ora alla coltivazione e alla raccolta del cibo: attività che nei paesi più ricchi occupa in media meno di 5 minuti al giorno.Dalla ricerca emergono anche attività che invece non variano in modo significativo con la ricchezza, come il tempo utilizzato per preparare il cibo, per il trasporto umano, per la pulizia personale e altre, per un totale del 30 per cento del tempo quotidiano delle persone da sveglie. Questo non implica che le parti di tempo dedicate a tali attività siano universali tra gli esseri umani, aggiungono gli autori e le autrici della ricerca: perché certamente variano da individuo a individuo. Solo che la variazione non è coerente con quella del PIL pro capite, e quindi la ricchezza materiale in questi casi potrebbe non essere influente.Una nave portacontainer passa davanti al castello Burg Pfalzgrafenstein, nel mezzo del fiume Reno a Kaub, in Germania, il 12 agosto 2022 (AP Photo/Michael Probst)Un altro aspetto colto dai ricercatori e dalle ricercatrici è la scarsa quantità di tempo dedicato alla gestione dei rifiuti fuori delle abitazioni rispetto al tempo dedicato a mantenere puliti e in ordine gli spazi abitati. «Sembra plausibile che molti problemi di rifiuti, tra cui l’accumulo di plastica negli oceani e la contaminazione tossica delle acque, potrebbero essere notevolmente ridotti attraverso una riallocazione relativamente piccola del budget totale del tempo umano».I risultati della ricerca costituiscono parte di un progetto più ampio, lo Human Chronome Project, che nelle intenzioni degli autori e delle autrici dovrebbe raccogliere e integrare dati tratti da altre fonti e servire come base per futuri lavori di ricerca sulle attività umane nel mondo. Questo approccio, concludono, potrebbe fornire una prospettiva empirica generale su ciò che la nostra specie sta facendo sul pianeta e prendere decisioni più informate su come ridistribuire il tempo per raggiungere obiettivi di sviluppo globale. LEGGI TUTTO

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    Il primo volo commerciale di Virgin Galactic, oggi

    Oggi Virgin Galactic, la società per il “turismo spaziale” del miliardario britannico Richard Branson, effettuerà il proprio primo volo commerciale verso lo Spazio con un equipaggio che comprende tre italiani dell’Aeronautica Militare e del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che fanno parte della missione Virtute 1. La partenza è in programma per le 17 (ora italiana) da Spaceport America, la base di lancio della società costruita nel deserto del New Mexico (Stati Uniti). Se la missione avverrà senza imprevisti, nei prossimi mesi Virgin Galactic inizierà a gestire periodici voli spaziali con biglietti da 250mila dollari per persona.Virtute 1 è una missione con scopi scientifici, quindi diversa dai voli spaziali che saranno organizzati in futuro e pensati più che altro per consentire ai passeggeri di Virgin Galactic di sperimentare per qualche minuto gli effetti della quasi totale assenza di peso. La missione è stata finanziata dall’Aeronautica Militare in collaborazione con il CNR, in una iniziativa insolita per l’Italia che di solito collabora con attività più strutturate e di lungo periodo con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) attraverso la propria Agenzia Spaziale Italiana (ASI).Nei pochi minuti in cui l’equipaggio sarà negli strati più alti dell’atmosfera saranno effettuati tredici esperimenti negli «ambiti della termofluidodinamica, della biomedicina e dello sviluppo di materiali innovativi e sostenibili», dice il comunicato stampa dalla missione. I partecipanti indosseranno inoltre tute con alcuni sensori per valutare gli effetti del volo spaziale sul loro organismo.Dell’equipaggio fanno parte il colonnello Walter Villadei, che dal 2021 ha avviato la formazione come astronauta professionale; l’iniziativa fa parte del suo addestramento in vista di una futura missione sulla Stazione Spaziale Internazionale. Insieme a Villadei a bordo ci saranno il tenente colonnello Angelo Landolfi dell’Aeronautica e Pantaleone Carlucci, ingegnere e ricercatore del CNR. Saranno accompagnati da un istruttore e da quattro piloti di Virgin Galactic.🇮🇹 Ciao, #Galactic01!Meet the crew from the @ItalianAirForce & @CNRSocial_. On June 29, they will take-off to conduct more than a dozen experiments in space, which will examine how microgravity effects the human body and other materials. Learn more about their roles and sign… pic.twitter.com/1CKq2FTKtn— Virgin Galactic (@virgingalactic) June 26, 2023Il volo sarà effettuato a bordo di SpaceShipTwo – VSS Unity, uno “spazioplano” che si comporta come un aeroplano, capace però di raggiungere gli strati più alti dell’atmosfera. Viene trasportato a 15mila metri da un aeroplano più grande, poi si sgancia e prosegue il proprio volo fino a raggiungere gli 80mila metri circa di altitudine. Dopo qualche minuto nel quale i membri a bordo galleggiano liberi all’interno della cabina, lo spazioplano effettua un rapido rientro sulla Terra, atterrando poi come un normale aeroplano.(Virgin Galactic)Virgin Galactic esiste dal 2004 e lo sviluppo dei suoi spazioplani ha richiesto diverso tempo, anche a causa di un grave incidente nel 2014, nel quale era morto uno dei piloti che stavano partecipando a un volo sperimentale. All’epoca Branson aveva promesso di far parte di uno degli equipaggi dell’ultima fase di test, prima di avviare i voli commerciali per i clienti. Il test era stato eseguito con successo nell’estate del 2021 con l’obiettivo di trasportare i primi clienti a partire dal 2022, ma a causa di alcuni problemi tecnici e di autorizzazioni da parte del governo degli Stati Uniti si erano resi necessari vari rinvii fino al primo volo commerciale di oggi.VSS Unity e sullo sfondo Spaceport America (Virgin Galactic)A pieno regime, Virgin Galactic effettuerà almeno un volo al mese e la società dice di avere ricevuto prenotazioni e manifestazioni di interesse da parte di un migliaio di clienti. L’azienda non è comunque l’unica a offrire servizi di questo tipo: il settore del cosiddetto “turismo spaziale” si sta espandendo e comprende già da qualche anno Blue Origin, la compagnia spaziale fondata dall’ex CEO di Amazon Jeff Bezos. Entrambe le aziende offrono voli suborbitali: i loro veicoli superano gli strati più alti dell’atmosfera e poi tornano indietro compiendo un volo parabolico, senza effettuare un’orbita (cioè un giro completa) intorno alla Terra.Virgin Galactic dice di condurre spedizioni “nello Spazio”, ma non tutti sono convinti che possano essere definiti in questo modo. Per l’Agenzia federale per l’aviazione degli Stati Uniti, lo Spazio inizia oltre gli 80 chilometri di altitudine quindi dove arriva lo spazioplano dell’azienda, mentre convenzioni più condivise internazionalmente identificano l’inizio dello Spazio oltre la cosiddetta linea di Kármán, a 100 chilometri di altitudine. LEGGI TUTTO

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    Anche i delfini “parlano” ai loro piccoli in modo diverso

    Caricamento playerAnche i delfini tursiopi, come gli umani, comunicano con i loro neonati con suoni più acuti rispetto a quelli che rivolgono agli adulti. È la conclusione di uno studio scientifico pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences e realizzato registrando per più di trent’anni i suoni prodotti da 19 femmine tursiopi che vivono nella baia di Sarasota, in Florida.Secondo gli autori dello studio, anche per i tursiopi si può dunque parlare di “maternese”, espressione con cui in ambito accademico si indicano i versi e i suoni, spesso privi di senso compiuto, con cui in molte culture del mondo ci si rivolge ai bambini che ancora non sanno parlare e che si pensa aiuti a creare legami affettivi e ad avvicinare all’uso della lingua. Nel caso degli umani si usa anche la variante “parentese” (dall’inglese parent, genitore), dato che anche i padri possono usare questo tipo di comunicazione.I tursiopi (Tursiops truncatus) hanno alcune caratteristiche comuni con gli umani: sono animali sociali; anche tra loro il rapporto tra madri e figli è duraturo (nella baia di Sarasota dura tre anni in media, a volte di più); e per tutta la vita possono imparare a produrre nuovi suoni. Come le altre specie di delfini, i tursiopi emettono suoni utilizzando dei sacchi pieni d’aria che si trovano appena sotto lo sfiatatoio, il buco attraverso cui respirano, e che permettono loro di fischiare, in sostanza. Tra i diversi suoni che producono, ciascuno ha un proprio fischio personale, che costituisce una sorta di “nome” per ogni individuo e viene utilizzato nella comunicazione con altri delfini.Non conosciamo bene il significato e le funzioni di queste comunicazioni, ma per quanto riguarda i fischi personali si pensa che servano per aggiornare gli altri delfini sulla propria posizione. «È come se si dicessero periodicamente “Io sono qui, io sono qui”», ha spiegato ad Associated Press Laela Sayigh, biologa marina del Woods Hole Oceanographic Institution e una degli autori dello studio. E quando a farlo sono le madri rivolte ai loro piccoli il suono è più acuto, stando alle analisi di Sayigh e dei suoi colleghi, che hanno confrontato i fischi personali prodotti dalle stesse delfine nei casi in cui comunicavano con i figli piccoli e in quelli in cui li indirizzavano ad altri adulti. Più nello specifico, la frequenza massima del fischio personale e l’ampiezza di frequenze usata per produrlo sono maggiori quando le tursiopi comunicano con i figli.Do you hear the pitch change between these 2 whistles? It’s a bottlenose dolphin mom using “baby talk!”Find out more about #WHOI biologist Laela Sayigh’s study in @PNASNews from @AP: https://t.co/A8yZWUqB80📸 & 🎵: Sarasota Dolphin Research Program, NMFS MMPA Permit 20455 pic.twitter.com/GnKRNzgWrL— Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI) (@WHOI) June 27, 2023Sono state fatte diverse ipotesi sul perché i delfini usino il “maternese”. Una possibilità è che serva per aiutare i piccoli a produrre i suoni, come è stato teorizzato per gli umani. Un’altra è che sia più efficace ad attirare la loro attenzione. Secondo alcune ricerche degli anni Ottanta sarebbe questa la funzione principale del parentese tra gli umani.Per quanto riguarda questo studio non si possono trarre eccessive conclusioni perché i ricercatori hanno preso in considerazione i soli fischi personali e non le altre forme di comunicazione usate dai delfini: in sostanza non sappiamo se anche quando producono altri suoni le madri tursiopi usino frequenze diverse nel caso in cui si rivolgano ai loro piccoli.Lo studio comunque potrebbe implicare qualcos’altro di altrettanto interessante per la scienza del comportamento animale: che il maternese sia un prodotto dell’evoluzione convergente, cioè di processi evoluzionistici che si verificano in diverse specie in modo indipendente.– Leggi anche: L’esperimento che provò a insegnare a parlare a un delfino LEGGI TUTTO