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    È morto il biologo britannico Ian Wilmut, aveva guidato il gruppo di ricerca per la clonazione della pecora Dolly

    È morto a 79 anni il biologo Ian Wilmut: aveva guidato la ricerca per la clonazione della pecora Dolly, primo caso in cui fu clonato un mammifero usando una sua cellula adulta. Con le sue attività di ricerca, Wilmut ha reso possibili importanti sviluppi e progressi nella ricerca sulle cellule staminali, le cellule non specializzate in grado di differenziarsi e svolgere funzioni diverse all’interno di un organismo.La clonazione di Dolly divenne un argomento estremamente discusso, anche al di fuori degli ambienti scientifici: a suscitare interesse e qualche timore fu la possibilità, che ai tempi appariva particolarmente concreta e vicina, di clonare gli esseri umani. In varie occasioni Wilmut disse di essere contrario perché sarebbe inutile, oltre che moralmente discutibile, sostenendo invece che la ricerca debba concentrarsi sullo sviluppo di nuove cure per migliorare la vita delle persone.– Leggi anche: A che punto siamo con la clonazione (AP Photo/Michael Probst, File) LEGGI TUTTO

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    Che cos’è l’infertilità secondaria?

    Caricamento playerSecondo diverse ricerche l’infertilità secondaria, cioè la difficoltà a rimanere incinte di nuovo o a portare a termine una gravidanza dopo che si è già partorito, è molto comune ed è un problema di salute pubblica che ha conseguenze significative sulle persone coinvolte e sulla società in generale.L’infertilità può dipendere sia dalla donna che dall’uomo. Quella primaria viene definita come l’incapacità di concepire di una coppia in relazione da almeno cinque anni che ha avuto per un determinato periodo di tempo regolari rapporti sessuali non protetti. Il periodo di tempo di sesso non protetto che viene considerato per arrivare a parlare di infertilità può variare, ma è generalmente pari a un anno e diminuisce con l’aumentare dell’età. L’infertilità secondaria è invece l’incapacità di concepire o di portare a termine una gravidanza dopo almeno una precedente gravidanza andata a buon fine senza trattamenti per la fertilità. I medici solitamente diagnosticano l’infertilità secondaria dopo che una coppia ha tentato di concepire per 6-12 mesi senza successo.Secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, l’infertilità secondaria riguarda il 6 per cento delle donne in una relazione fissa tra i 15 e i 49 anni che, dopo aver partorito una prima volta, hanno difficoltà a rimanere incinta di nuovo dopo un anno di tentativi. Il 14 per cento ha difficoltà a rimanere incinta di nuovo o a portare a termine una gravidanza. Intervistato dallo Huffington Post, il ginecologo e specialista in endocrinologia riproduttiva Banafsheh Kashani ha anche fornito un’indicazione sui tempi: l’infertilità secondaria «si verifica se si sta cercando di rimanere incinta da più di un anno e si hanno meno di 35 anni o se si sta provando da più di 6 mesi e si hanno più di 35 anni». Questa situazione non è comunque rara, dicono gli esperti: l’infertilità secondaria è comune quasi quanto l’infertilità primaria.Uno studio del 2022 condotto da un gruppo di ricercatori e ricercatrici iraniane e pubblicato sull’International Journal of Reproductive BioMedicine (IJRM) ha analizzato il fenomeno dell’infertilità a livello globale basandosi sulle informazioni del Global Burden of Disease (GBD) che raccoglie i più recenti dati epidemiologici di 195 paesi nel mondo per valutare qual è il peso sulla salute delle diverse malattie e fattori di rischio. Lo studio copre gli anni che vanno dal 1993 al 2017 e prende in considerazione sette regioni del mondo. I risultati hanno dimostrato che, in tutte le regioni studiate, i tassi di infertilità secondaria sono molto più alti nelle donne che negli uomini e che nei paesi ad alto reddito, che comprendono anche l’Europa, sono inferiori che altrove, molto probabilmente a causa di un migliore e di un maggiore accesso a medici specializzati e a cliniche per il trattamento del problema.Media dei tassi di infertilità ogni 100mila persone in varie regioni del mondo nel periodo 1993-2017Le cause dell’infertilità secondaria possono essere diverse e sono simili a quelle dell’infertilità primaria: endometriosi, squilibri ormonali, sovrappeso o sottopeso, ostruzione delle tube uterine, cicatrici nell’utero dovute a un taglio cesareo, patologie che colpiscono il sistema riproduttivo maschile, alterazioni del tratto genitale, uso di alcol o tabacco. Ma una delle cause più comuni è l’età avanzata, oltre cioè i 35 anni. In Italia, ma anche in molti altri paesi, l’età media delle madri alla nascita del primo figlio è aumentata: poiché nell’infertilità secondaria si tratta di concepire un secondo figlio, l’età è di conseguenza ancora più alta e il passare del tempo influisce sul numero e sulla qualità sia degli ovociti che degli spermatozoi. L’infertilità secondaria, proprio come l’infertilità primaria, può essere però diagnosticata come inspiegabile.L’infertilità è un problema di salute pubblica che ha un forte impatto sulle persone coinvolte. E questi effetti collaterali negativi rappresentano a loro volta un onere sociale. Jonah Bardos, direttore di una clinica della fertilità a Miami, ha spiegato che l’infertilità secondaria può causare diversi disagi: può far nascere la sensazione «che prima tutto funzionasse» e che poi qualcosa non funzioni più, mentre in altre persone ancora crea un forte senso di colpa dovuto al desiderio di volere un altro figlio quando altri non sono stati in grado di concepire nemmeno il primo. «Essere presenti e sostenere i propri cari durante questo processo è una parte importante», dice il medico che ha dato anche alcuni semplici suggerimenti. È ad esempio importante evitare di fare alcuni commenti molto comuni che non sono però affatto «innocui»: chiedere a una coppia quando avrà il secondo figlio, quando darà un fratello o una sorella maggiore al bambino che già c’è o dire: «Non vorrai viziare tuo figlio facendolo rimanere figlio unico».Priyanka Ghosh, che lavora presso il centro di fertilità della Columbia University, dice che «l’infertilità secondaria può essere un’esperienza frustrante» ma spiega anche che «molte persone riescono ad avere un secondo figlio dopo una valutazione e un trattamento». Il suggerimento degli specialisti è dunque quello di rivolgersi a dei centri specializzati: «Spesso le persone rimandano il consulto», spiega Banafsheh Kashani: «Questo perché potrebbero essere occupate con il figlio che già hanno o perché sono convinte che, visto che ha già funzionato, funzionerà ancora». I controlli vengono dunque ritardati, riducendo la probabilità che gli interventi possano poi essere efficaci.I test che vengono fatti per diagnosticare l’infertilità secondaria sono gli stessi dei casi di infertilità primaria: storia clinica delle persone coinvolte, studi ormonali, ecografie, esami delle tube, valutazione della qualità del seme e altri esami ancora che possono poi consentire di scegliere i trattamenti e le tecniche più adatte. LEGGI TUTTO

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    Un modo discusso per trattare il nanismo

    Caricamento playerNei mesi scorsi, i genitori di alcuni bambini con una particolare forma di nanismo hanno manifestato a Tbilisi, in Georgia, chiedendo al governo di rispettare la promessa di finanziare un costoso trattamento per ridurre gli effetti della condizione che interessa i loro figli. Le proteste sono state documentate dai giornali e dalla televisione georgiana, inducendo infine il governo a finanziare un’iniziativa che entro fine anno consentirà a un gruppo di bambini di ricevere le prime dosi di Voxzogo, un farmaco relativamente recente sviluppato negli Stati Uniti dove l’opportunità del suo utilizzo è piuttosto discussa.Il Voxzogo (il cui principio attivo si chiama vosoritide) favorisce lo sviluppo delle ossa nelle persone con acondroplasia – la forma di nanismo più comune – e di conseguenza rende più probabile una maggiore crescita in altezza, con uno sviluppo degli arti. Negli Stati Uniti il trattamento può arrivare a costare circa 350mila dollari all’anno e non sempre è coperto dalle assicurazioni sanitarie, mentre in altre parti del mondo dove la sanità è per lo più pubblica la spesa è coperta dai servizi sanitari. In Italia, per esempio, da circa un anno il Voxzogo è rimborsato dal Servizio sanitario nazionale, a patto che la diagnosi di acondroplasia sia confermata attraverso una «opportuna analisi genetica».Ma la discussione intorno al Voxzogo non è legata al suo costo, quanto all’opportunità di utilizzare un farmaco che, se da una parte riduce gli effetti più evidenti dell’acondroplasia, e cioè la bassa statura, dall’altra non garantisce di migliorare i problemi di salute che potranno avere le persone con questa condizione per tutta la loro vita. Il trattamento deve essere inoltre iniziato nei primi anni di vita, circostanza che mette i genitori davanti a una scelta difficile poco tempo dopo la nascita di un figlio. Le implicazioni e le sfumature sono moltissime, senza contare che la bassa statura non è di per sé “una malattia” e può essere rischioso vederla e trattarla come tale.In tutto il mondo ci sono circa 250mila persone con acondroplasia e molte altre con diverse forme di nanismo. Si identificano come “persone di bassa statura” o “persone piccole” (“little people”), soprattutto nei paesi anglosassoni dove vari termini hanno assunto nel tempo una connotazione stereotipata e in alcuni casi dispregiativa. Nonostante le difficoltà date dal vivere in un mondo spesso fuori scala, dall’altezza delle maniglie delle porte a quella degli interruttori solo per fare qualche esempio, la maggior parte di queste persone vive normalmente e grazie ai miglioramenti di terapie e interventi chirurgici ha un’aspettativa di vita più lunga rispetto a un tempo. I problemi comunque non mancano, con casi ricorrenti di discriminazioni e il rischio di marginalizzazione nella società.Il nanismo è dovuto a una grande varietà di fattori genetici, non sempre semplici da ricostruire. La causa dell’acondroplasia, per esempio, è stata scoperta con certezza solo nella prima metà degli anni Novanta, quando si è notato il ruolo di un gene che in una determinata versione porta al malfunzionamento di una proteina (recettore del fattore di crescita del fibroblasto 3, FGFR3). In condizioni normali questa limita la formazione del nuovo tessuto osseo, ma nelle persone con acondroplasia il gene fa sì che questo meccanismo sia quasi sempre attivo, impedendo alle ossa di continuare a svilupparsi.Ciò compromette buona parte della crescita e fa sì che la statura di una persona non aumenti più di tanto fino alla fine dell’adolescenza, quando il processo normalmente si riduce. Il mancato sviluppo interessa buona parte delle ossa, ma è più evidente nelle gambe e nelle braccia, che appaiono sproporzionate rispetto al resto del corpo. La testa ha una crescita ancora diversa, con un maggiore sviluppo della fronte e in alcuni casi una ridotta dimensione del foro occipitale, l’apertura alla base del cranio che mette in comunicazione la cavità cranica (dove c’è buona parte del cervello) con il canale vertebrale (dove c’è buona parte del resto del sistema nervoso centrale).La dimensioni ridotte del foro occipitale possono costituire un serio rischio per la salute. Al crescere del sistema nervoso aumentano anche le dimensioni del tronco encefalico, la struttura alla base del cervello che si collega poi al canale vertebrale all’altezza del collo: se il foro occipitale non ha dimensioni adeguate, questa parte del sistema nervoso può schiacciarsi e può portare a una morte improvvisa. Nei bambini di cinque anni con acondroplasia il rischio è 50 volte superiore rispetto al resto della popolazione. L’andamento dello sviluppo del foro occipitale deve quindi essere tenuto sotto controllo nei primi anni di vita e in media un bambino su cinque deve essere sottoposto a un intervento chirurgico per allargare l’apertura. L’intervento è di solito risolutivo, ma in alcuni casi è necessaria una nuova operazione dopo qualche tempo se lo sviluppo porta nuovamente il foro occipitale a essere insufficiente.Lo sviluppo ridotto del tessuto cartilagineo, che ha molto in comune con quello osseo, influisce anche sulla crescita delle cartilagini del naso e può comportare problemi respiratori. Fin dai primi anni di vita c’è un alto rischio di apnee notturne, cioè fasi in cui durante il sonno si interrompe per qualche momento il respiro, mettendo sotto stress il cuore. Ci sono comunque accorgimenti che si possono adottare, a cominciare dalla posizione mentre si è distesi, per ridurre i rischi. In età adulta possono manifestarsi problemi legati alla postura, con dolori alle articolazioni, anche se fare attività fisica aiuta di solito a ridurre i sintomi (che in misura diversa interessano in generale la popolazione con l’invecchiamento).Come segnala un lungo articolo pubblicato di recente sul sito di Nature, una ventina di anni fa iniziarono a essere sviluppati trattamenti per ridurre gli effetti dell’acondroplasia, con risultati incoraggianti in laboratorio su una proteina (CNP) coinvolta nella crescita delle ossa. Quelle prime esperienze portarono allo sviluppo del Voxzogo, che non agisce direttamente sulla proteina FGFR3 (quella che per chi ha una specifica variante genetica ferma quasi completamente la crescita), ma con un altro meccanismo che se attivato interferisce con i segnali che fermano la crescita delle ossa.Una decina di anni fa l’azienda farmaceutica statunitense BioMarin aveva avviato i primi test clinici del Voxzogo. La sperimentazione iniziale aveva dato esiti promettenti e, avvicinandosi il momento in cui la società avrebbe chiesto l’autorizzazione per mettere in commercio il farmaco, la Food and Drug Administration (l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) aveva organizzato un gruppo di lavoro e consulenza per capire con quali parametri dovesse essere valutato il Voxzogo. Nel 2018 furono presi in considerazione i possibili effetti e infine si concluse che il modo migliore per fare una valutazione fosse misurare il cambiamento in altezza dei partecipanti alla sperimentazione, su base annuale.Nel 2021 il farmaco fu approvato dalla FDA, e in seguito dall’Agenzia europea per i medicinali, sulla base di un test clinico che aveva coinvolto 120 partecipanti con un’età compresa tra i 5 e i 15 anni: alcuni avevano ricevuto il farmaco vero e proprio e altri, in un gruppo di controllo, una sostanza che non faceva nulla (placebo). In media, la somministrazione del Voxzogo aveva portato a un aumento dell’altezza di 1,57 centimetri in più rispetto al gruppo di controllo. Il farmaco era stato quindi approvato con una procedura accelerata, in mancanza di altri trattamenti, con la richiesta a BioMarin di proseguire gli studi negli anni seguenti per valutare l’effetto complessivo del farmaco sulla statura delle persone interessate.Dal momento dell’approvazione, la società ha lavorato molto per far conoscere il proprio prodotto ai genitori di bambini con acondroplasia e la richiesta del trattamento è aumentata sensibilmente. Sempre secondo i dati forniti da Nature, nel primo trimestre del 2022 le vendite hanno fruttato a BioMarin circa 19,7 milioni di dollari, mentre nel secondo trimestre di quest’anno hanno raggiunto i 113 milioni di dollari. Sono cifre relativamente contenute per il settore farmaceutico, ma l’azienda confida di potere aumentare le vendite, soprattutto se FDA ed EMA daranno a breve l’autorizzazione per iniziare la somministrazione del farmaco prima dei due anni di età.A oggi i bambini cui viene somministrata una dose di Voxzogo sono circa duemila, molti negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, ma anche in altre parti del mondo. Per i loro genitori è una speranza per ridurre le difficoltà che i figli potrebbero incontrare con l’età, secondo chi sceglie di non ricorrere al farmaco è invece una scelta rischiosa perché problematizza la bassa statura, lasciando in secondo piano gli altri problemi di salute che comunque le persone con acondroplasia potrebbero avere e che non sono necessariamente legati all’altezza.Il confronto intorno al Voxzogo potrebbe cambiare nei prossimi anni se si rivelasse utile anche nel ridurre i rischi legati allo scarso sviluppo del foro occipitale. Un test clinico in merito è già in corso e si sono osservati alcuni effetti positivi, ma saranno necessari altri quattro anni prima di avere dati a sufficienza per trarre qualche conclusione. Il farmaco è del resto disponibile da poco e interviene su processi come quelli della crescita che non solo richiedono tempo, ma che hanno esiti diversi e molto soggettivi. È anche per questo motivo che i genitori di bambini con acondroplasia sono spesso in difficoltà quando viene proposto loro di avviare il percorso terapeutico. Da tempo medici e associazioni lavorano per mostrare ai genitori di bambini con forme di nanismo che la loro condizione – se tenuta sotto controllo – è gestibile e che trattarla in altro modo può avere effetti psicologici imprevisti.L’acondroplasia può essere trasmessa dai genitori ai figli, ma nella maggior parte dei casi la mutazione genetica si manifesta spontaneamente. La prima diagnosi avviene di solito in fase prenatale, dopo un’ecografia di routine durante il terzo trimestre nella quale inizia a essere visibile il diverso sviluppo delle ossa lunghe. Un test del DNA fetale può inoltre portare ad avere una conferma diagnostica, che in casi di procreazione assistita può anche essere effettuato prima della gravidanza (analisi preimpianto).Per chi se ne occupa, è importante che le circostanze aleatorie che portano al nanismo siano spiegate ai genitori, prima di essere messi davanti alla scelta sull’avviare o meno un trattamento come quello a base di Voxzogo. Deve essere chiaro il rapporto tra costi e benefici, nel caso in cui si scelga di procedere con il farmaco o meno, così come si devono avere presenti gli eventuali effetti avversi.Dal canto suo BioMarin sostiene di non avere sviluppato il Voxzogo solamente per l’aumento della statura. Oltre alla sperimentazione sul foro occipitale, la società dice di avere in programma l’analisi di altri potenziali effetti del farmaco nel ridurre le apnee notturne e gli interventi medici, oltre a valutare l’eventuale miglioramento della qualità della vita. Il settore potrebbe del resto rivelarsi molto redditizio e questo spiega perché varie altre aziende farmaceutiche abbiano sperimentazioni in corso, alcune in fase di conclusione.Insieme alla società californiana Tyra Biosciences, la multinazionale farmaceutica Sanofi sta studiando come utilizzare in ambiti diversi da quelli per cui era stato sviluppato un farmaco antitumorale. Il suo principio attivo interviene sempre su FGFR3 con lo scopo di rallentare la crescita delle cellule di alcuni tipi di tumore. Una versione a basso dosaggio del farmaco potrebbe essere impiegata per contrastare gli effetti dell’acondroplasia, ma saranno necessari ancora alcuni anni prima di terminare i test clinici. Altre società stanno invece sviluppando sistemi basati su anticorpi per inibire FGFR3.In Italia a metà luglio sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale le indicazioni per la rimborsabilità e il prezzo del Voxzogo nella fascia di età compresa tra i 2 e i 5 anni. Viene erogato in ambito ospedaliero (classe H) con un prezzo per dieci fiale di quasi 11mila euro, rimborsato dal Servizio sanitario nazionale. In queste settimane le regioni hanno iniziato a recepire le indicazioni, di conseguenza il farmaco potrebbe essere disponibile in tempi diversi sul territorio nazionale. LEGGI TUTTO

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    La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi

    Uno studio pubblicato la scorsa settimana su Science ha proposto una nuova ipotesi sulla storia dell’evoluzione umana che, se confermata da altre ricerche, potrebbe farci scoprire qualcosa dell’ultimo antenato comune a noi e ai Neanderthal, la specie molto vicina alla nostra che visse tra mezzo milione e qualche decina di migliaia di anni fa. Secondo lo studio, realizzato da un gruppo di ricerca internazionale, 930mila anni fa una specie di ominini (come vengono chiamate più correttamente le specie a cui un tempo ci si riferiva come “ominidi”) da cui discendiamo rischiò l’estinzione, arrivando a contare meno di 1.300 individui, forse a causa di un cambiamento climatico. E solo dopo 117mila anni la popolazione si riprese, aumentando di numero.L’ipotesi è basata su un’analisi statistica del DNA di 3.154 persone viventi che  provengono da 50 diverse zone del mondo: il genoma di ognuno di noi deriva da quello dei suoi antenati e nelle mutazioni che presenta contiene indizi della loro storia (il genoma è tutto il DNA che troviamo all’interno di una cellula). Prendendo in considerazione le differenze tra i genomi esaminati, il gruppo di ricerca ha indagato sulle possibili dinamiche demografiche responsabili dell’attuale diversità genetica tra le popolazioni umane. Ha poi concluso che a un certo punto del nostro passato accadde qualcosa che fece da “collo di bottiglia” alla variabilità genetica, cioè la contenne, e causò una grossa differenza tra il DNA dei nostri antenati e quello degli altri primati.Il collo di bottiglia sarebbe stato appunto una grande diminuzione della popolazione della specie da cui poi si evolse Homo sapiens, la nostra. Gli autori dello studio hanno stimato che la popolazione si ridusse del 98,7 per cento, lasciando in vita meno di 1.280 individui. Rischiò dunque di estinguersi: se fosse successo, Homo sapiens non sarebbe mai esistito.Secondo le ipotesi degli scienziati le cose sarebbero andate così: sette milioni di anni fa tra i primati si distinse una specie che, nel giro di sei milioni di anni, sviluppò un cervello di grandi dimensioni e un’altezza superiore. Quella specie viveva in Africa e, secondo la nuova ipotesi, 930mila anni fa dovette affrontare una grave carenza di cibo dovuta a un cambiamento climatico, una fase di raffreddamento che sappiamo si verificò grazie agli studi geologici. Secondo la teoria, tale cambiamento causò la morte della stragrande maggioranza dei nostri antenati diretti, ma circa 1.300 di loro sopravvissero. Passarono poi circa 117mila anni prima che la popolazione tornasse a espandersi in modo significativo verso l’Asia e l’Europa, dando origine a specie diverse: i Neanderthal (Homo neanderthalensis), i Denisovani e una popolazione che restò in Africa da cui discenderebbero gli Homo sapiens. I ricercatori hanno anche ipotizzato che l’antenato comune sarebbe una specie già nota e identificata come Homo heidelbergensis.L’ipotesi comunque resta da dimostrare. A sostegno delle conclusioni del gruppo di ricerca – composto da scienziati cinesi e italiani, dell’Accademia cinese delle scienze, dell’Università normale orientale di Shanghai, dell’Università del Texas, della Sapienza di Roma e dell’Università di Firenze –  ci sarebbe il fatto che in Africa sono stati trovati pochissimi fossili di specie antenate della nostra risalenti al periodo compreso tra 950mila e 650mila anni fa. Se l’ipotesi del nuovo studio fosse corretta, questo si spiegherebbe col fatto che essendoci pochissimi individui le possibilità che i resti di alcuni di loro si fossilizzassero erano molto basse.Il collo di bottiglia però è solo una possibile ipotesi per spiegare l’origine della varietà genetica umana attuale. Brenna Henn, una genetista dell’Università della California, ha detto al New York Times che le differenze nei genomi di oggi siano state dovute a separazioni delle popolazioni antiche e a loro riunificazioni successive. Per Henn bisognerebbe mettere alla prova anche ipotesi diverse.Invece Nick Ashton, un archeologo del British Museum di Londra, ha fatto notare che al di fuori dell’Africa sono stati trovati fossili di “parenti” degli umani risalenti al periodo in cui ci sarebbe stato il collo di bottiglia: secondo lui un cambiamento climatico di portata tale da ridurre del 98 per cento una popolazione in Africa avrebbe dovuto avere delle conseguenze anche in altre parti del mondo. Stephan Schiffels, un genetista del Max Planck Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia (Germania), ha invece qualche dubbio sul metodo statistico utilizzato dagli autori del nuovo studio. Pensa che servano più prove. LEGGI TUTTO

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    L’India ha lanciato una sonda per studiare il Sole

    Caricamento playerSabato l’India ha fatto partire la sua prima missione spaziale di osservazione del Sole: si chiama Aditya-L1, è partita dal Centro spaziale Sriharikota, nell’India meridionale, e trasporterà una sonda a 1,5 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. Il nuovo lancio è arrivato a pochi giorni di distanza da un risultato storico per l’esplorazione spaziale indiana: l’atterraggio sulla Luna della missione Chandrayaan-3, che prevede di esplorare il suolo del satellite con un robot automatico (rover) per un paio di settimane. La missione indiana è stata la prima ad approdare con successo al polo sud della Luna.Alle 11:50 ora locale (le 8:20 in Italia) il razzo Pslv Xl, che pesa 320 tonnellate ed è stato progettato dall’ISRO (Indian Space Research Organistation) è decollato con successo, iniziando un viaggio che durerà quattro mesi: la missione Aditya-L1 prevede alcune orbite intorno alla Terra prima di raggiungere l’obiettivo, posto a circa l’1 per cento della distanza totale che ci separa da Sole. In quella posizione, indicata come punto di Lagrange, le attrazioni gravitazionali di Sole e Terra in parte si compensano, permettendo alla sonda di raggiungere una situazione di “stallo” e di orbitare intorno al Sole, alla stessa velocità della Terra, con un consumo di carburante molto limitato.🌞 Aditya-L1: India’s Sun Gazer 🚀🌠🤩 With the launch of Aditya-L1, ISRO will enter the most elite club of space faring nations.👉 The Aditya-L1 mission is a solar mission by the Indian Space Research Organisation (ISRO).👉 It is the first Indian mission to study the Sun… pic.twitter.com/dnLTrXcmSP— Raj Malhotra (@Rajmalhotrachd) September 2, 2023Da quella posizione Aditya-L1 sarà in grado di osservare il Sole con continuità, anche quando dalla Terra è nascosto causa eclissi, e di portare avanti diversi studi: in particolare verranno analizzati la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera solare, la fotosfera, ossia la superficie solare, e la cromosfera, cioè il sottile strato dell’atmosfera solare spesso 10mila chilometri fra corona e fotosfera.Uno degli obiettivi è studiare l’attività solare, e in particolare i venti e le eruzioni solari che influenzano la Terra e gli oggetti nella sua orbita attraverso radiazioni, calore, flussi di particelle e flussi magnetici. I venti solari possono influenzare anche il funzionamento dei satelliti in orbita intorno alla Terra: l’India ne ha 50, che svolgono funzioni fondamentali di comunicazione, studio e prevenzione di fenomeni atmosferici potenzialmente pericolosi per la popolazione.La missione è stata chiamata Aditya in onore della divinità indù del Sole, conosciuta con questo nome oltre che con quello di Surya. La siglia L1 rappresenta il Lagrange point 1, destinazione finale.#WATCH | Indian Space Research Organisation (ISRO) launches India’s first solar mission, #AdityaL1 from Satish Dhawan Space Centre in Sriharikota, Andhra Pradesh.Aditya L1 is carrying seven different payloads to have a detailed study of the Sun. pic.twitter.com/Eo5bzQi5SO— ANI (@ANI) September 2, 2023Se la missione sarà completata con successo l’India entrerà in un gruppo ristretto di paesi che hanno realizzato studi di questo genere sul Sole: il primo fu il Giappone nel 1981, seguito dagli enti spaziali statunitense ed europeo (NASA e ESA) a partire dagli anni Novanta. Nel 2020 La sonda Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha iniziato da  il suo viaggio verso il Sole, che la porterà ad esplorarne i poli. Nel 2021 la sonda della NASA Parker Solar Probe è entrata per la prima volta nell’atmosfera solare.La partenza della missione Aditya-L1 (AP Photo/R. Parthibhan)L’India ha celebrato vivacemente il successo del lancio, confermando la grande attenzione alle missioni spaziali del governo di Narendra Modi: con l’atterraggio controllato sulla Luna del 23 agosto è stato il quarto paese a riuscirci dopo Stati Uniti, Russia (quando era ancora Unione Sovietica) e Cina.– Leggi anche: Parker Solar Probe è entrata nell’atmosfera solare LEGGI TUTTO

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    Non c’entra solo Chernobyl con i cinghiali radioattivi

    Caricamento playerI cinghiali sono tra le specie selvatiche più diffuse nell’Europa centrale. Sono molto prolifici, abituati sempre di più alle attività umane e in alcuni casi sono radioattivi, al punto che in alcuni paesi, come la Germania, è vietato il consumo delle carni di determinati esemplari. La presenza di elementi radioattivi in questi animali è nota da tempo e non suscita particolari preoccupazioni (ci sono molte altre fonti inquinanti più pericolose per la salute), ma le cause della loro condizione sono ancora oggi dibattute perché potrebbero aiutarci a comprendere meglio le conseguenze ambientali di alcune attività umane nel lungo periodo.La responsabilità della radioattività nei cinghiali era stata inizialmente attribuita all’incidente nella centrale nucleare di Chernobyl del 1986, ma secondo una ricerca scientifica da poco pubblicata è probabile che parte della contaminazione sia riconducibile ai numerosi test nucleari che furono effettuati nel mondo tra gli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo.Oltre al caso della Germania, di cinghiali radioattivi si era parlato anche in Italia una decina di anni fa, quando alcune analisi avevano portato all’identificazione di esemplari interessati dal fenomeno in Val Sesia, in provincia di Vercelli (Piemonte). Il fenomeno era stato indagato dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), che nel 2013 aveva definito il rilevamento di elementi radioattivi in alcuni cinghiali della zona come effetti nel lungo periodo dell’incidente di Chernobyl.Nelle ore seguenti al disastro nucleare, avvenuto nell’odierna Ucraina, si erano diffuse nell’atmosfera importanti quantità di isotopi radioattivi, che erano poi ricaduti in buona parte dell’Europa. Era stato riscontrato un temporaneo aumento della radioattività in diversi animali, che in buona parte dei casi si era poi ridotta negli anni seguenti. I cinghiali in alcune aree geografiche avevano fatto eccezione, mantenendo livelli significativi, e vari gruppi di ricerca erano arrivati alla conclusione che ciò derivasse dalla loro particolare predilezione per i tartufi.Nel tempo le piogge trasportano in profondità gli isotopi che si sono depositati sul suolo, che a loro volta si accumulano nei tartufi che crescono sottoterra, fino a quando non vengono intercettati dal fiuto dei cinghiali. Esistono numerose specie e varietà di tartufi, talvolta con un profumo e un sapore distanti da quelli cui siamo solitamente abituati. I cinghiali ne consumano grandi quantità specialmente d’inverno, quando non hanno molte alternative per nutrirsi.Gli accumuli di isotopi sono inoltre più probabili nelle porzioni di territorio dove l’attività umana è pressoché assente, quindi con minore probabilità che sia spostato il materiale radioattivo depositato al suolo. In alcune aree geografiche meno antropizzate come le zone montuose delle Alpi bavaresi è quindi frequente trovare cinghiali radioattivi, in molti casi con valori al di sopra di quelli consentiti dalla legge per l’impiego delle loro carni. Per questo motivo in Baviera ne è stato vietato il consumo, con conseguenze sull’aumento della loro popolazione, visto che cacciarli non porta a particolari ritorni economici.Per lungo tempo la spiegazione di Chernobyl aveva convinto la maggior parte dei gruppi di ricerca, ma erano comunque state sollevate ipotesi su altre fonti degli isotopi che ancora oggi interessano i cinghiali. Tra chi riteneva che Chernobyl fosse solo un pezzo della storia c’è Bin Feng, un ricercatore che ipotizzava che questi animali stessero in un certo senso pagando anche le conseguenze dei test nucleari svolti intorno alla metà del secolo scorso, molti dei quali per esempio sui territori dell’ex Unione Sovietica. Circa un quarto delle duemila bombe nucleari era stato infatti sperimentato con esplosioni nell’atmosfera, con il conseguente rilascio di particelle radioattive finite a grande distanza e cadute poi al suolo.Insieme al suo gruppo di ricerca, Feng ha analizzato le carni di 48 cinghiali cacciati in Baviera, misurando i livelli di isotopi di cesio in ogni esemplare: in quasi il 90 per cento dei casi superavano i limiti di legge. L’analisi si è poi spostata su due specifici isotopi del cesio: il cesio-137 e il cesio-135, che si presentano in rapporti diversi a seconda della loro origine da un reattore o da un’esplosione nucleare.In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology, il gruppo di ricerca scrive che tutti i campioni contenevano cesio radioattivo proveniente sia da Chernobyl sia da detonazioni nucleari, con proporzioni molto variabili a seconda degli animali esaminati. In circa un quarto dei campioni, la radioattività derivante dai test nucleari era da sola sufficiente per superare i limiti di legge per un consumo in sicurezza della carne di cinghiale.(Environ. Sci. Technol. 2023)Feng e colleghi nel loro studio dicono che la «sovrapposizione di vecchie e nuove tracce di cesio-137 può superare ampiamente l’impatto di qualsiasi singola fonte e mette in evidenza il ruolo centrale delle emissioni storiche di cesio-137 nelle attuali sfide contro l’inquinamento ambientale». Il cesio-137 dimezza la propria radioattività ogni 30 anni, un tempo di dimezzamento relativamente breve, ma comunque sufficiente per costituire un problema ambientale. Oltre a depositarsi nel suolo, può essere presente nell’acqua e nell’aria, e può finire nel nostro organismo attraverso l’ingestione di cibo o acqua contaminati, con conseguenze per la salute.È per questo motivo che ci sono regolamenti e leggi che vietano l’utilizzo e il consumo di alimenti con livelli di radioattività tali da non renderli sicuri per il normale consumo. Oltre agli isotopi dovuti all’attività umana è utile ricordare che altri sono naturalmente contenuti nella crosta terrestre e che finiscono nell’acqua, nelle piante e di conseguenza nella catena alimentare. Le autorità sanitarie di solito non fanno particolari distinzioni sull’origine dei contaminanti, ma si occupano di misurarne i livelli a cominciare da quelli nell’acqua che viene utilizzata per il consumo umano. LEGGI TUTTO

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    Il verme estratto vivo dal cervello di una paziente in Australia

    Caricamento playerNel cervello di una donna ricoverata in Australia per alcuni problemi di salute è stato trovato un verme vivo lungo circa 8 centimetri, che era cresciuto nel suo organismo nel corso di diversi mesi. Il caso, il primo di questo genere a essere registrato, è stato di recente esposto in uno studio scritto dai medici che avevano curato la paziente e pubblicato su Emerging Infectius Diseases, una rivista scientifica pubblicata dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti. Parassitosi di questo tipo sono estremamente rare, ma secondo gli autori potrebbero passare spesso inosservate complicando il loro tracciamento.– Leggi anche: L’ameba mangia-cervello, parliamoneTutto era iniziato nel gennaio del 2021 in un ospedale del New South Wales, uno stato dell’Australia, quando una donna di 64 anni era stata ricoverata a causa di persistenti dolori addominali ed episodi di diarrea che proseguivano ormai da tre settimane. La paziente aveva inoltre riferito di avere spesso la tosse e di faticare a dormire, con frequenti sudori notturni.Dopo avere effettuato alcuni esami, i medici avevano diagnosticato una probabile infezione polmonare la cui causa era ignota. La terapia per trattarla aveva iniziato a dare qualche risultato positivo, ma dopo alcune settimane la paziente era stata nuovamente ricoverata con febbre e tosse. Non trovando spiegazioni convincenti per i sintomi, i medici si erano orientati verso una possibile malattia autoimmune, prescrivendo farmaci per ridurre l’attività immunitaria e provare a vedere se in questo modo ci fossero miglioramenti nelle condizioni della loro paziente.Nei primi mesi del 2022, la paziente aveva iniziato ad avere difficoltà a ricordare le cose e aveva iniziato a sviluppare una forma di depressione. I medici erano allora intervenuti effettuando una risonanza magnetica all’encefalo, notando una sospetta lesione tale da rendere necessarie una biopsia per fare qualche approfondimento diagnostico. Nel giugno dello scorso anno la paziente era stata quindi sottoposta a un intervento chirurgico alla testa per ispezionare la lesione. Spostando alcuni dei tessuti cerebrali che apparivano danneggiati, la neurochirurga che stava facendo l’operazione aveva notato una strana struttura cilindrica simile a un filamento, un corpo estraneo che aveva deciso di asportare. Con sua grande sorpresa e tra lo stupore delle altre persone in sala operatoria, dopo pochi istanti si era accorta di avere iniziato l’estrazione di un verme cilindrico (o per meglio dire un nematode) vivo, lungo circa 8 centimetri e con un diametro intorno al millimetro.(Canberra Health Services via AP)Analisi successive avevano permesso di stabilire che il parassita era un esemplare di Ophidascaris robertsi, un nematode che conduce buona parte del proprio ciclo vitale all’interno dei pitoni tappeto (Morelia spilota), serpenti molto comuni in Australia e che devono il loro nome ai motivi che hanno sulla pelle simili a quelli dei tappeti orientali.Quando uno di questi nematodi diventa il parassita di un pitone tappeto, produce uova che vengono poi rilasciate nell’ambiente insieme alle feci del serpente. Le uova vengono poi accidentalmente ingerite da alcuni mammiferi, magari mentre brucano l’erba, ed è nel loro organismo che le uova si schiudono e portano alla formazione degli stadi iniziali del parassita. Se un pitone si nutre di uno dei mammiferi infetti, riceve il nematode e il ciclo torna a ripetersi. In questo modo il parassita ha la possibilità di continuare a riprodursi e diffondersi.Non è chiaro come la paziente sia entrata in contatto con Ophidascaris robertsi, ma i medici hanno una buona ipotesi sulla base delle abitudini della 64enne e alcune ricerche svolte nell’area in cui vive. Vicino alla sua casa c’è un lago intorno al quale vivono alcuni esemplari di pitoni tappeto, con i quali non aveva comunque mai avuto contatti diretti. La paziente frequentava la zona per raccogliere alcune varietà di spinaci selvatici che utilizzava poi per la preparazione dei piatti. È probabile che alcune foglie avessero tracce delle feci di un pitone tappeto contenenti le uova del parassita, che la paziente le avesse portate in casa e consumate senza lavarle a sufficienza, contaminando altri alimenti sullo stesso tagliere o senza lavarsi accuratamente le mani dopo averle maneggiate.Nella maggior parte dei casi un lavaggio poco accurato non implica che necessariamente ci si ritrovi con un parassita, ma qualche rischio c’è e di solito è sufficiente qualche accorgimento come lavarsi le mani e non usare le stesse stoviglie per alimenti diversi per ridurre i rischi. Non si può inoltre escludere che al momento della contaminazione la paziente avesse qualche problema al sistema immunitario, che non si era quindi attivato al meglio per eliminare il parassita. Esistono comunque moltissimi parassiti e alcuni sono più abili di altri nel passare inosservati eludendo le difese del sistema immunitario.Nel loro studio, i medici australiani hanno spiegato di non essere riusciti a diagnosticare prima il problema della loro paziente perché le larve del parassita sono molto piccole, difficili da identificare soprattutto se i sintomi sembrano indicare altre cause del malessere. È probabile che alcuni dei disturbi segnalati inizialmente dalla paziente fossero dovuti allo spostamento delle larve dal tratto intestinale ad altri organi, compresi i polmoni le cui condizioni avevano spinto i medici a sospettare inizialmente un’infezione polmonare. Non si sa esattamente come abbia fatto il verme a finire nella scatola cranica della donna.Il gruppo di ricerca ha spiegato che a sei mesi circa dalla rimozione del nematode i problemi neurologici segnalati dalla paziente erano ancora presenti, seppure migliorati rispetto al periodo precedente. Le condizioni di salute della paziente sono tenute sotto controllo ancora oggi a circa un anno di distanza dall’intervento chirurgico, anche perché la ripresa nel caso di danni neurologici può richiedere molto tempo. Un farmaco somministrato dopo la scoperta del nematode dovrebbe aver soppresso altre eventuali larve nell’organismo della paziente. LEGGI TUTTO

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    Fatichiamo ancora a spiegarci il vetro

    Caricamento playerSe non esistesse il vetro probabilmente non stareste leggendo questo articolo, non solo perché costituisce lo schermo del vostro dispositivo, ma anche perché Internet funziona in buona parte grazie alle reti in fibra ottica, sottili filamenti di vetro attraverso i quali passano i dati sotto forma di impulsi di luce. È del resto sufficiente guardarsi intorno per notare quanto il vetro sia presente nelle nostre esistenze, tanto da dare per scontata la sua esistenza. La maggior parte delle persone non vi dedica molti pensieri, a parte quando deve riciclare qualche bottiglia o rompe un bicchiere, con alcune eccezioni: i vetrai, sicuramente, ma anche i fisici. Per questi ultimi il vetro è un mistero, o per meglio dire un problema ancora da risolvere.Per chi il vetro lo fa, la produzione non ha niente di così misterioso, anche perché è un processo che abbiamo affinato in millenni. Il più comune e diffuso è il vetro alla calce-soda, realizzato partendo dalla silice derivata dalla sabbia e da ossidi di calcio e sodio. Riducendo la quantità di questi due ultimi ingredienti e aggiungendo il triossido di boro si ottiene il vetro borosilicato, come per esempio il “pirex”, con una maggiore resistenza ai forti sbalzi di temperatura e per questo utilizzato per cucinare oppure nei laboratori. La miscela di ingredienti viene portata ad alta temperatura in una fornace, che supera i 1800 °C, ottenendo del materiale fuso incandescente e malleabile che viene poi lavorato per dargli la forma desiderata, in alcuni casi attraverso la tecnica della soffiatura. Il prodotto ottenuto viene poi fatto raffreddare, fino a quando diventa solido, almeno all’apparenza.A scuola infatti impariamo che lo stato di aggregazione delle molecole, o più semplicemente lo “stato della materia”, può essere sostanzialmente di tre tipi: solido, liquido e gassoso (cui si aggiunge il plasma, che è costituito da gas ionizzati). In linea di massima, un materiale può passare attraverso i tre stati e comportarsi molto diversamente, proprio a seconda dello stato in cui si trova. A livello microscopico, la differenza è dovuta in sostanza al modo in cui si muovono gli atomi o le molecole: all’aumentare della temperatura, per esempio, diventano più energetiche e tendono quindi a muoversi di più di quanto facciano a temperature estremamente basse. Ed è questo movimento a determinare, insieme ad altri fattori, lo stato di aggregazione.Una sostanza può evaporare – passando dallo stato liquido a quello gassoso – come fa per esempio l’acqua riscaldata in una teiera. Oppure una sostanza può passare dallo stato solido a quello gassoso senza passare per quello liquido, come fa un blocco di ghiaccio secco a temperatura ambiente (altro non è che anidride carbonica in entrambi i casi, in stati diversi, appunto).C’è però una fase in cui una sostanza sembra avere allo stesso tempo le caratteristiche di un solido e di un liquido. È la “fase vetrosa” nella quale un materiale ha un comportamento paragonabile a quello di un solido, ma la sua struttura è disordinata come quella di un liquido. La natura della transizione vetrosa che regola questo fenomeno è studiata da tempo, ma non ha a oggi trovato risposte soddisfacenti. Più in generale, non è stata ancora trovata una spiegazione completa ai processi che portano il vetro ad avere le proprietà che conosciamo, e che in definitiva fanno sì che lo trattiamo come un solido pur sapendo che è anche qualcos’altro.In molti casi, il modificarsi della temperatura è il principale responsabile dei cambiamenti di stato. In un sistema, man mano che questa diminuisce, gli atomi o le molecole si muovono sempre meno fino a quando non riescono più a spostarsi ma solo a “vibrare”, rimanendo al medesimo posto. Questo rallentamento del loro movimento può avere effetti diversi.Il primo è quello in cui gli atomi si dispongono in modo ordinato, mantenendo una certa distanza gli uni dagli altri e una disposizione geometrica sempre uguale nello spazio. In questo caso formano un “reticolo cristallino” che a seconda di come è fatto può influenzare fortemente le proprietà del materiale. Il modo in cui gli atomi di carbonio si dispongono in base alla variazione della temperatura (e della pressione), per esempio, può dare origine a solidi cristallini con marcate differenze nella loro durezza, producendo della grafite oppure del diamante.Esempio di un reticolo cristallino, a sinistra, e di una struttura amorfa (Cornig)Il secondo è quello in cui il cambiamento di stato avviene in modo più disordinato: gli atomi non si organizzano in strutture ordinate e riducono drasticamente i loro movimenti mantenendo una distribuzione paragonabile a quella che avevano allo stato liquido. Una sostanza in queste condizioni viene definita amorfa, cioè senza forma definita, contrariamente a quella ordinata dei solidi cristallini. Il vetro è quindi un solido amorfo e lo possiamo definire, con una certa approssimazione, come uno stato intermedio tra solido e liquido.Buona parte dei solidi è di natura cristallina, motivo per cui vista l’eccezione che costituiscono a volte ci si riferisce ai solidi amorfi parlando di “stato vetroso”, ma non c’è solamente il vetro propriamente detto: qualsiasi solido che presenti le molecole in strutture non cristalline, come vari tipi di plastica o di materiali ceramici, è tecnicamente un vetro.Un liquido ha la caratteristica di spostarsi con relativa facilità e di adattarsi a ciò che lo contiene, come fa per esempio dell’acqua all’interno di una tubatura. Questa capacità è legata alla viscosità: più gli atomi hanno difficoltà a muoversi, più possiamo dire che un liquido è viscoso. In condizioni di temperatura e pressione standard, l’acqua ha una viscosità di 1 mPa∙s (cioè di un millipascal-secondo), quindi molto bassa. Il miele, come sa bene chiunque provi a spalmarlo su una fetta biscottata senza romperla, ha una viscosità pari a diecimila volte quella dell’acqua. A differenza di quest’ultima, a parità di condizioni, gli atomi nel miele si possono muovere meno facilmente tra loro.Nel caso dei solidi amorfi l’ordine di grandezza è molto maggiore, circa un milione di miliardi (1015) rispetto alla viscosità dell’acqua. Ciò che è sorprendente, o per lo meno ancora inspiegabile fino in fondo, è come sia possibile che la struttura rimanga pressoché la stessa nel passaggio da liquido a solido amorfo, mentre la viscosità aumenti così tanto. Per quanto ne sappiamo, una sostanza con gli atomi disposti in strutture paragonabili dovrebbe comportarsi allo stesso modo, eppure non lo fa.L’argomento è dibattuto da tempo tra i fisici e chi si occupa di ingegneria dei materiali, e ha portato anche a qualche accesa diatriba tra chi sostiene di avere risolto la questione e i loro detrattori. Nell’ultima ventina di anni qualche progresso è stato raggiunto grazie ad alcune simulazioni al computer, che permettono di ricreare vari scenari sulla transizione vetrosa.È per esempio emerso che man mano che il vetro fuso si solidifica le molecole che lo costituiscono non rallentano uniformemente. In alcune zone il processo è molto rapido e le porta a comportarsi come farebbero in un solido, in altre è invece più lento e continuano a muoversi come farebbero in un liquido. Anche in questo caso, dal punto di vista strutturale, le varie aree hanno le medesime caratteristiche. La particolarità del fenomeno ha fatto sì, come ha detto qualcuno una volta, che ci siano «più teorie sulla transizione vetrosa di quanti teorici che le propongono».Alla lunga lista delle teorie si è da poco aggiunto uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PNAS e realizzato da un gruppo di ricerca dell’Università della California, Berkeley. Basandosi su alcune simulazioni al computer ed esperimenti svolti in precedenza, è stata elaborata una teoria secondo la quale nel vetro le molecole si riconfigurano di continuo, con movimenti molto localizzati. Il gruppo di ricerca l’ha sperimentata in una condizione bidimensionale e partendo dai solidi cristallini, ma ritengono di poterla applicare anche a un modello tridimensionale rilevando quella che potrebbe essere una fase ancora sconosciuta, coinvolta nella formazione dei solidi amorfi.Un altro studio pubblicato sempre quest’anno e realizzato in Germania e Italia ha preso in considerazione i dati sull’espansione termica e la transizione vetrosa raccolti su oltre 200 materiali nel corso degli ultimi cento anni. L’analisi ha permesso di identificare altre variabili, oltre al movimento degli atomi, da valutare quando si studiano i solidi amorfi. In particolare, hanno rilevato come a livello microscopico gli atomi o le molecole di questi materiali non si muovano in modo indipendente.Ogni anno si aggiungono nuove ricerche sul tema che confermano gli studi precedenti o propongono teorie alternative. Scoprire qualcosa di più sul fenomeno potrebbe rivelarsi molto utile non solo per capire un pezzetto in più su come funziona il mondo, e probabilmente vincere un premio Nobel, ma anche per sfruttare le nuove conoscenze per sviluppare tecnologie innovative. In ambito medico, per esempio, alcuni farmaci potrebbero essere prodotti come solidi amorfi invece che in una forma cristallina, in modo da renderli più semplici da somministrare e da assimilare nel momento in cui entrano in contatto con il nostro organismo.(Getty Images)In attesa di nuovi sviluppi, tra tante incertezze c’è comunque qualcosa di certo su una delle cose che si sentono dire spesso sul vetro. Secondo una convinzione piuttosto diffusa, i vetri delle cattedrali sarebbero più spessi alla base perché nel corso dei secoli la forza di gravità fa sì che il vetro – non essendo del tutto solido – fluisca verso il basso complice l’effetto del proprio stesso peso. In realtà la viscosità del vetro è tale da rendere impossibile una circostanza simile in tempi prettamente umani.Uno studio ha calcolato che a temperatura ambiente sarebbero necessari centomila miliardi di miliardi di anni perché ciò avvenga, tantini considerato che l’Universo ha un’età stimata di 13,8 miliardi di anni. I vetri delle cattedrali europee più antiche hanno talvolta la parte inferiore più spessa semplicemente per il modo in cui venivano realizzati, con tecniche che non consentivano di avere uno spessore uniforme paragonabile a quello dei vetri che usiamo alle finestre dei giorni nostri. LEGGI TUTTO