More stories

  • in

    Probabilmente quel superconduttore rivoluzionario non è nemmeno un superconduttore

    Nelle ultime settimane fisici di diverse parti del mondo hanno provato a verificare la presunta scoperta di un materiale apparentemente dotato di superconduttività a temperatura e pressione ambiente che era stata annunciata da un gruppo di studiosi sudcoreani. Se confermata, la scoperta sarebbe stata rivoluzionaria perché avrebbe avuto enormi ripercussioni pratiche su tutto ciò che funziona grazie all’energia elettrica. Ma non è andata così: non solo il materiale LK-99 non è un superconduttore a temperatura e pressione ambiente, come sostenevano gli studiosi sudcoreani, ma non ha caratteristiche superconduttive nemmeno a temperature bassissime, cioè nelle condizioni in cui funzionano i materiali superconduttori attualmente noti.La superconduttività è la qualità dei materiali in cui la corrente elettrica passa quasi senza incontrare resistenza. Infatti quando gli elettroni scorrono in un materiale conduttivo normale, come un filo di alluminio, incontrano un certa resistenza che riduce la corrente elettrica a parità di tensione applicata e provoca una dispersione sotto forma di calore. Se negli impianti e negli apparecchi elettrici potessimo usare dei superconduttori, basterebbe meno energia per farli funzionare. Il problema è che i superconduttori attualmente noti sono tali solo a temperature nell’ordine di -200 °C o ad altissime pressioni, o entrambe le cose, mentre non hanno la stessa proprietà in condizioni più normali e quindi possono essere usati in pochissimi contesti e con alti costi.– Leggi anche: La superconduttività, spiegata con un po’ di parole in piùLa scoperta di superconduttori a temperatura e pressione ambiente sarebbe quindi dirompente e avrebbe enormi ripercussioni, e per questo ogni volta che un gruppo scientifico annuncia qualcosa del genere (era già successo più volte, ma finora non sono mai state vere scoperte) c’è grande interesse, non solo tra i fisici della materia, ma anche tra aziende e semplici appassionati del tema.L’annuncio del gruppo sudcoreano aveva attirato grandi attenzioni ed entusiasmi, ma gli scienziati erano stati da subito scettici. Lo studio in merito non era stato sottoposto a una revisione di scienziati terzi (la peer review), e c’erano dubbi anche sulle competenze dei suoi autori. Parlando con Science Michael Norman, un fisico teorico dell’Argonne National Laboratory, uno dei più grandi laboratori di ricerca statali degli Stati Uniti, nato a partire dalle ricerche di Enrico Fermi, li ha definiti «veri dilettanti». «Non sanno molto della superconduttività e il modo in cui avevano presentato alcuni dei dati era sospetto», ha detto.Quello che più conta comunque sono le verifiche di quanto affermato da Sukbae Lee, Ji-Hoon Kim e dagli altri autori dello studio diffuso il 22 luglio. Gli studiosi sudcoreani avevano spiegato nel dettaglio le caratteristiche del materiale LK-99, che essendo fatto di elementi relativamente comuni come piombo, rame e fosforo è sia facile da produrre in laboratorio sia da studiare teoricamente.Più di dieci gruppi di ricerca hanno analizzato la questione e condiviso i propri risultati su arXiv, la principale piattaforma utilizzata per la condivisione veloce di studi scientifici: anche in questo caso sono studi senza peer review (un processo per cui è necessario del tempo), ma il loro numero, l’attenzione che la questione ha generato nella comunità scientifica e il fatto che siano più o meno concordi ha già praticamente azzerato le aspettative nei confronti dell’LK-99.Per la maggior parte le analisi sul materiale sono teoriche, ma alcune sono state fatte riproducendo dei campioni di LK-99. Né un gruppo di ricerca del Laboratorio nazionale di fisica (CSIR–NPL) dell’India né tre scienziati del Centro internazionale per i materiali quantistici (ICQM), un istituto di ricerca che ha sede a Pechino, hanno trovato proprietà superconduttive nel materiale a temperatura ambiente. I due studi non giungono esattamente alle stesse conclusioni, ma attribuiscono un fenomeno che secondo Lee e Kim era legato alla superconduttività ad altre caratteristiche.I sudcoreani infatti sostenevano che l’LK-99 respingesse i campi magnetici, una caratteristica che i superconduttori hanno per via dell’effetto Meissner e che è alla base delle tecnologie utilizzate da alcuni treni a levitazione magnetica, che viaggiano senza stare a contatto con i binari e quindi sperimentano attrito solo con l’aria. Questa proprietà però è ben più comune nei materiali diamagnetici, cioè quelli che hanno una magnetizzazione con verso opposto al campo: secondo il gruppo indiano l’LK-99 avrebbe appunto questa proprietà. Invece per il gruppo cinese il materiale sarebbe lievemente ferromagnetico, cioè può essere magnetizzato sotto l’azione di un campo magnetico.Un altro gruppo cinese, dell’Università di Nanchino, ha fatto altre verifiche sperimentali e dice che l’LK-99 mostra qualità superconduttive ma solo a temperature molto basse, peraltro inferiori a quelle in cui si manifesta la superconduttività in altri materiali noti: non rappresenterebbe dunque un avanzamento tecnologico.Considerando questi e altri studi il Condensed Matter Theory Center (CMTC) dell’Università del Maryland, un centro di ricerca di fisica della materia condensata, quella branca scientifica in cui ci si occupa anche di superconduttori, ha concluso che l’LK-99 non sia un superconduttore. Gli studi sul materiale sono ancora in corso, ma ormai sembra che si possa escludere che ci cambierà la vita.– Leggi anche: Che cos’è l’energia LEGGI TUTTO

  • in

    Perché la Russia vuole tornare sulla Luna

    Nelle prime ore di venerdì è partita la missione spaziale russa Luna-25, il cui scopo è portare una sonda sul polo sud lunare per attività di esplorazione e di ricerca. Luna-25 è la prima missione lunare russa in quasi cinquant’anni: la precedente, Luna-24, fu lanciata nel 1976, quando ancora era in corso la “corsa allo Spazio” tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nominando la nuova missione Luna-25, il governo russo del presidente Vladimir Putin ha voluto sottolineare la continuità con la stagione piuttosto importante dell’esplorazione spaziale sovietica e cercare di dimostrare che la Russia è tornata a essere un paese capace di operare nello Spazio.Luna-25 è partita da Vostochny, nell’estremo est della Russia e non lontano dal confine cinese. È partita su un razzo Soyuz, che è in uso dall’epoca sovietica ed è stato più volte aggiornato. Secondo Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, la missione dovrebbe entrare nell’orbita lunare il 16 agosto e fare un primo tentativo di allunaggio il 21. Se l’allunaggio avrà successo, Luna-25 rimarrà attiva sul suono lunare per circa un anno, per condurre test ed esperimenti. Gli obiettivi di Roscosmos sono principalmente due: testare le proprie tecnologie e strumentazioni in vista di future missioni e prelevare e analizzare campioni di terreno e ghiaccio dal polo sud lunare.Il polo sud lunare è stato poco esplorato e nessuna nave spaziale è mai sbarcata in questa regione perché le missioni finora si sono concentrare nella zona equatoriale. È considerato interessante per la presenza di acqua, sotto forma di ghiaccio, che in futuro potrebbe essere sfruttata per il mantenimento di una base con esseri umani.Luna-25 porterà sulla Luna un “lander”, cioè una sonda che rimarrà fissa là dove è allunata. La missione non comprende invece un “rover” (un veicolo automatico capace di spostarsi sulla superficie lunare) e nemmeno un “orbiter”, cioè un veicolo che orbita attorno alla Luna per raccogliere dati dall’alto.Luna-25 punta piuttosto chiaramente a essere la prima a fare un allunaggio di successo nel polo sud lunare. La speranza della Russia è di riuscire a battere sul tempo la missione indiana Chandrayaan-3, che è partita un mese fa (il 14 luglio) ma che impiegherà più tempo a raggiungere la Luna perché ha preso un percorso più lungo che richiede un minor dispendio di carburante. Luna-25 dovrebbe fare il suo allunaggio il 21 agosto, mentre si stima che Chandrayaan-3 allunerà tra il 21 e il 23 agosto.Luna-25 si pone in continuità diretta con le missioni lunari sovietiche non soltanto nel nome. Il progetto della missione ricorda piuttosto da vicino i progetti sovietici di cinquant’anni fa: «L’architettura del lander è molto simile a quelli che l’Unione Sovietica usava per gli allunaggi negli anni Settanta, ma più piccolo», ha detto al New York Times Anatoly Zak, un esperto di settore spaziale russo.Per il governo russo di Vladimir Putin Luna-25 ha anche un evidente valore politico e simbolico, che si è amplificato ulteriormente con l’inizio della guerra in Ucraina. Per la Russia, e in particolare per un leader autoritario e nazionalista come Putin, i successi spaziali dell’Unione Sovietica sono uno dei momenti più gloriosi della storia russa. La cosiddetta “corsa allo Spazio”, cioè quel periodo di competizione tecnologica che portò Stati Uniti e Unione Sovietica a raggiungere eccezionali successi nell’ambito dell’esplorazione spaziale, è ancora oggi ricordata in Russia come uno dei momenti di massima potenza e influenza del paese.Dopo il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta, anche il programma spaziale russo entrò in grave crisi. La Russia continuò a mantenere le infrastrutture di epoca sovietica e a usarle per numerose importanti operazioni. Per esempio per alcuni anni dopo la fine del programma spaziale americano degli Shuttle, il razzo Soyuz russo è stato l’unico mezzo con cui era possibile mandare esseri umani in orbita. Ma le missioni più grandi e ambiziose furono bloccate praticamente del tutto. Per questo riportare la Russia nello Spazio è sempre stato una delle priorità del grande piano di restaurazione nazionale di Vladimir Putin.La necessità di mostrare a livello internazionale che la Russia è un paese capace di lanciare ambiziose missioni spaziali è diventata più urgente dopo l’invasione russa dell’Ucraina, quando la Russia è stata colpita da imponenti sanzioni occidentali che hanno, tra le altre cose, l’obiettivo di danneggiare il suo settore tecnologico privandolo dell’accesso alle tecnologie e ai componenti occidentali. La guerra inoltre ha annullato quasi del tutto i progetti di collaborazione tra l’agenzia spaziale russa e quelle occidentali.Con Luna-25 la Russia tenta di dimostrare di essere immune alle sanzioni, e capace di lanciare una missione lunare nonostante i tentativi dell’Occidente di isolarla e colpirla economicamente. In realtà le missioni come Luna-25 richiedono molti anni di preparazione, e difficilmente le sanzioni imposte poco più di un anno fa hanno influito pesantemente sulla missione. Non è chiaro invece se e quanto le sanzioni influiranno sulle prossime eventuali missioni. La Russia spera di lanciare nei prossimi anni una missione Luna-26, che dovrebbe essere un orbiter, e Luna-27, che dovrebbe essere costituita da un lander più grande e sviluppato di quello della missione attuale. LEGGI TUTTO

  • in

    Virgin Galactic ha effettuato il suo primo volo commerciale verso lo Spazio con turisti a bordo

    Virgin Galactic, la società per il “turismo spaziale” del miliardario britannico Richard Branson, ha effettuato il suo primo volo commerciale verso lo Spazio con a bordo turisti. In totale l’equipaggio era composto da sei persone: Keisha Schaff e la figlia Anastasia Mayers, due turiste di Antigua, nei Caraibi, e Jon Goodwin, ex canoista che partecipò alle Olimpiadi di Monaco del 1972; oltre a loro c’erano la pilota Kelly Latimer, il comandante CJ Sturckow, ex astronauta della NASA, e Beth Moses, istruttrice dell’azienda.Il volo è stato effettuato a bordo di SpaceShipTwo – VSS Unity, uno “spazioplano” che si comporta come un aeroplano ma è capace di raggiungere gli strati più alti dell’atmosfera. La partenza è avvenuta alle 17 ora italiana da Spaceport America, la base di lancio di Virgin Galactic, costruita nel deserto del New Mexico. Il volo funziona così: lo spazioplano viene trasportato a circa 15mila metri da un aeroplano più grande, poi si sgancia e prosegue il proprio volo fino a raggiungere gli 80mila metri circa di altitudine. Dopo qualche minuto nel quale i membri a bordo galleggiano liberi all’interno della cabina, effettua un rapido rientro sulla Terra, atterrando come un normale aeroplano.Lo spazioplano era stato impiegato a fine giugno per il suo primissimo volo commerciale: a bordo però c’era un equipaggio che faceva parte della Virtute 1, che è ufficialmente una missione con «scopi scientifici», quindi diversa dai voli spaziali pensati per consentire alle persone di sperimentare per qualche minuto gli effetti della quasi totale assenza di peso. Un volo spaziale di Virgin Galactic costa 450mila dollari: un prezzo che le persone sono disposte a pagare, secondo l’azienda, che dice di avere centinaia di clienti in attesa.Virgin Galactic successfully launched a 60-minute flight to the edge of space with civilians onboard.@GadiNBC spoke to the three new astronauts who got the ride of a lifetime. pic.twitter.com/Ke1w24q5IL— NBC Nightly News with Lester Holt (@NBCNightlyNews) August 11, 2023– Leggi anche: Il primo volo commerciale di Virgin Galactic Persone osservano le immagini che arrivano dall’interno dello “spazioplano” di Virgin Galactic durante il volo di giovedì 10 agosto (AP Photo/ Andrés Leighton) LEGGI TUTTO

  • in

    Quanti vulcani sottomarini ci sono nel Canale di Sicilia?

    Caricamento playerNel Canale di Sicilia, il tratto di mare tra la Sicilia, la Tunisia e Malta, sono stati individuati tre vulcani sottomarini di cui finora non si conosceva l’esistenza. La scoperta è avvenuta nel corso di una spedizione scientifica internazionale coordinata e finanziata dal Centro per la ricerca oceanica GEOMAR Helmholtz di Kiel, in Germania, e proposta dall’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (OGS) italiano e dall’Università di Malta: aveva l’obiettivo di mappare con maggiore precisione parte dei fondali di questa parte del mar Mediterraneo e studiarne il vulcanismo. Si è svolta tra il 16 luglio e il 5 agosto a bordo della nave tedesca Meteor.Sui fondali del mar Mediterraneo ci sono decine di vulcani sottomarini, che possono essere estinti o attivi come quelli in superficie e in alcuni casi hanno dimensioni maggiori di quelle dei vulcani emersi. Nella comunità scientifica non ci sono tuttavia particolari preoccupazioni relative a eventuali eruzioni dei vulcani che si trovano nei mari italiani; e per quanto riguarda quelli appena scoperti «non c’è alcuna evidenza che siano attivi», dice Emanuele Lodolo, ricercatore dell’OGS e uno dei proponenti della spedizione scientifica, «anche se in alcuni di essi ci sono dei fenomeni di idrotermalismo».I tre “nuovi” vulcani si trovano tra la costa meridionale siciliana e l’isola di Linosa, di cui il più grande è largo 6 chilometri e ha un’altezza di più di 150 metri rispetto al fondale circostante. Le posizioni esatte non sono ancora state diffuse in attesa della pubblicazione degli studi in merito su una rivista scientifica. Nel 2019 l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale aveva già trovato una serie di vulcani sconosciuti nel Canale di Sicilia, nell’area marina di fronte alla costa tra Mazara del Vallo e Sciacca; il più vicino alla terraferma dista solo 7 chilometri.Il Canale di Sicilia è una zona in cui si trovano molti vulcani (alcuni dei quali già noti da tempo) perché è attraversata da un “rift”, cioè una regione in cui la litosfera, lo strato sotto alla crosta terrestre, si estende e forma delle faglie. I fenomeni vulcanici che lo caratterizzano sono peraltro responsabili dell’origine di alcune delle isole dell’area, come Pantelleria e Linosa.La presenza dei “nuovi” vulcani è stata rilevata grazie a una serie di strumenti e principalmente attraverso un ecoscandaglio Multibeam, lo strumento più tecnologicamente avanzato per ottenere immagini ad alta precisione dei fondali, che si trova nella chiglia della Meteor. Rileva la forma dei fondali grazie all’emissione di onde acustiche: le onde vengono riflesse dai fondali e lo strumento registra i loro tempi di arrivo e così ricostruisce la morfologia del fondo del mare.Con l’ecoscandaglio sono stati localizzati i rilievi sottomarini. Poi, con l’utilizzo di un magnetometro a traino della nave, è stato verificato che fossero vulcani: in presenza di rocce vulcaniche infatti le misure del campo magnetico terrestre mostrano delle anomalie dovute alla presenza di minerali ferrosi in queste rocce. I ricercatori hanno poi recuperato alcuni campioni di roccia dai fondali usando draghe: nei prossimi mesi li analizzeranno per ottenere informazioni sull’età del vulcani e sulle caratteristiche dei magmi che li hanno generati.Un magnetometro sulla Meteor (Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale)La spedizione scientifica ha permesso di scoprire che, sebbene il Canale di Sicilia sia navigato da millenni, nelle mappe batimetriche, cioè dei fondali, disponibili ci sono degli errori grossolani: in particolare segnalano la presenza di rilievi sommersi che non esistono.«Il Canale di Sicilia è uno dei mari ancora meno studiati dal punto di vista scientifico e adesso piano piano stiamo riempiendo questo buco di conoscenza», racconta Lodolo. In generale i fondali del mar Mediterraneo sono stati mappati in alta risoluzione in larga parte, per più del 70 per cento, ma per certe aree le mappe sono tuttora poco precise: «Per quanto riguarda il Canale di Sicilia, non più del 30-40 per cento, una percentuale bassa rispetto a quelle degli altri mari attorno all’Italia».Avere mappe batimetriche più precise è importante sia per ragioni scientifiche che pratiche: serve per assicurare una maggiore sicurezza nella navigazione, per studiare la messa in posa di nuovi cavi sottomarini, valutare eventuali rischi associati alla presenza di vulcani vicini alle coste e salvaguardare gli ecosistemi marini. Tuttavia richiede lunghe spedizioni, importanti finanziamenti e, nel caso di tratti di mare vicini a più paesi come il Canale di Sicilia, vari permessi. L’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale progetta di continuare gli studi sui fondali in questa regione, che però non sono semplici anche per «questioni geopolitiche» dato che richiedono di navigare anche in acque libiche e tunisine.In ogni caso i nuovi dati raccolti finiranno nel database dell’European Marine Observation and Data Network (EMODnet), la rete dell’Unione Europea che raccoglie i dati sui mari da tutti i paesi membri, e poi all’interno del Progetto Seabed 2030, un’iniziativa internazionale per cercare di avere una mappa precisa dei fondali oceanici entro il 2030: nel 2020 li conoscevamo solo per il 19 per cento. «Oggi abbiamo tutta la tecnologia per mappare i fondali ad alta definizione, ma le batimetrie sono ancora poco attendibili in vari settori marini», aggiunge Lodolo.La nave Meteor (Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale)Il più grande vulcano sottomarino del Mediterraneo è il Marsili, che è anche il più esteso vulcano d’Europa: si trova nel mar Tirreno, tra Palermo e Napoli. Ha una forma allungata, copre circa 2.100 chilometri quadrati (una superficie simile a quella della provincia di Vercelli, o a quella di Siracusa), la sua base è a tre chilometri profondità e il suo punto più alto a poco più di 500 metri sotto il livello del mare. È attivo ma la sua ultima eruzione dovrebbe essere avvenuta tra 7mila e 2mila anni fa secondo le stime degli scienziati. E vista la profondità della sua sommità i rischi associati a un eventuale eruzione sarebbero molto bassi: probabilmente comporterebbe solo una deviazione momentanea del traffico marittimo e non dovrebbe causare tsunami.Altri vulcani sottomarini dei mari italiani molto noti – oltre a quelli attorno alle isole Eolie, a loro volta di origine vulcanica – sono il Vavilov, che si trova sempre nel Tirreno, a nord-ovest del Marsili, è inattivo ed è conosciuto dal 1959; e il Palinuro, che invece è a circa 65 chilometri dalle coste del Cilento, è attivo ed è stato scoperto negli anni Ottanta. Il vulcano sottomarino del Mediterraneo che si conosce da più tempo è il Kolumbo, che è nel mar Egeo e dista solo 8 chilometri dalle coste dell’isola di Santorini. La sua parte più alta è a soli 10 metri di profondità dal livello del mare e quando a metà del Seicento eruttò in maniera esplosiva causò la morte di 70 abitanti di Santorini e fece scoprire l’esistenza dei vulcani sottomarini.Anche la presenza di vulcani sottomarini nel Canale di Sicilia è nota da più di un secolo perché nel 1831 un’eruzione creò per breve tempo una piccola isola di fronte a Sciacca, l’isola Ferdinandea: raggiunse la considerevole altezza di 60 metri sopra il livello del mare, ma nel giro di un anno fu completamente erosa dal mare e ora la sua sommità è a 7 metri sotto il livello del mare. Di quelli appena scoperti, che si trovano più a sud, quello più superficiale ha la sommità a una profondità di circa 50-60 metri, mentre gli altri sono leggermente più profondi.La spedizione scientifica che ha permesso di scoprire i vulcani si chiama M191 SUAVE e vi hanno preso parte anche ricercatori dell’Istituto di ricerca dell’Acquario della Baia di Monterey (Stati Uniti), della Victoria University di Wellington (Nuova Zelanda) e delle Università di Birmingham, Oxford, Edimburgo (Regno Unito) e Kiel (Germania). I due responsabili scientifici erano Aaron Micallef dell’Università di Malta e Jörg Geldmacher del GEOMAR.Nel corso della spedizione è stato casualmente individuato il relitto di una nave circa a metà strada tra l’isola vulcanica di Linosa e la Sicilia: del relitto per ora si sa solo che è lungo 100 metri e largo 17 e che si trova a una profondità di 110 metri. «Ci siamo passati sopra con il magnetometro e possiamo dire che è costituito da materiale ferroso», aggiunge Lodolo, ma per il momento non se ne sa altro. L’OGS ne ha segnalato la posizione alle autorità marittime italiane. LEGGI TUTTO

  • in

    Anche quest’anno il momento migliore per vedere le stelle cadenti non è San Lorenzo

    La notte di San Lorenzo, tra il 10 e l’11 agosto, è tradizionalmente nota per essere quella in cui si vedono le stelle cadenti. Un tempo era effettivamente così, ma oggi le cose sono cambiate: in questo secolo il momento migliore va dall’11 al 13 agosto (quindi coinciderà con la notte tra venerdì 11 e sabato 12 agosto e la successiva).Le cosiddette stelle cadenti non sono davvero delle stelle: sono frammenti meteorici di roccia che si sono generati dalla disintegrazione di una cometa, e per la maggior parte sono grandi come granelli di sabbia. Quelli che si possono vedere da metà luglio alla fine di agosto appartengono al gruppo di detriti chiamato Perseidi, dal nome della costellazione di Perseo, e sono stati generati dalla cometa Swift-Tuttle. La cometa fu osservata distintamente per la prima volta nel 1862 dagli astronomi statunitensi Lewis Swift e Horace Parnell Tuttle, e il suo legame con le Perseidi fu scoperto nel 1866 dall’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli.Le scie luminose per cui diciamo “stelle cadenti” sono create dai detriti rilasciati dalla cometa nel corso delle sue orbite precedenti: sbattendo contro l’atmosfera terrestre a una velocità di più di 200mila chilometri orari, questi detriti si incendiano creando delle “palle di fuoco”. Il fenomeno è stato osservato per millenni e tra le prime notazioni su quanto accadeva nel cielo in questo periodo dell’anno ci sono quelle di astronomi cinesi, risalenti al 36 dopo Cristo. Nelle ore di maggiore attività è possibile osservare a occhio nudo circa cento scie luminose ogni ora.Le scie luminose lasciate dallo sciame meteorico delle Perseidi vengono chiamate “lacrime di San Lorenzo” perché un tempo il momento di massima attività si verificava il 10 di agosto, in corrispondenza del giorno in cui si commemora il santo cristiano. Le stelle cadenti vengono anche associate ai tizzoni ardenti su cui fu martirizzato San Lorenzo, che era un arcidiacono di origine spagnola probabilmente esistito a differenza di altri santi leggendari del Terzo secolo.Per osservare al meglio le Perseidi è sufficiente guardare il cielo di notte: meglio se nell’emisfero boreale e possibilmente lontano dai grandi centri urbani dove l’inquinamento luminoso tende a renderle meno visibili. Il posto migliore per osservarle solitamente è in montagna, dove l’aria è meno inquinata. Ovviamente anche le condizioni meteorologiche della zona in cui vi trovate influiranno sull’osservazione. LEGGI TUTTO

  • in

    Il primo studio sui prodotti mestruali fatto usando sangue umano 

    Negli Stati Uniti è stato pubblicato il primo studio sulla capacità assorbente e contenitiva dei prodotti mestruali svolto utilizzando sangue umano. È un aspetto rilevante, quello del sangue umano: finora per misurare la capacità di questo tipo di prodotti erano state utilizzate soprattutto acqua e soluzioni saline, che hanno una composizione e una viscosità molto diversa rispetto al sangue mestruale e permettono quindi di fare valutazioni meno accurate.Secondo lo studio, il prodotto più contenitivo è il disco mestruale, un piccolo oggetto di silicone simile come forma al diaframma anticoncezionale e come funzionamento alla coppetta mestruale che si inserisce all’interno della vagina e raccoglie il sangue fino a quando non viene rimossa e svuotata. Ma al di là di questo risultato lo studio è importante soprattutto per un’altra ragione: misurare con precisione la capacità dei vari prodotti mestruali permette di quantificare con altrettanta precisione l’abbondanza del flusso mestruale, e quindi di individuare e diagnosticare più facilmente eventuali anomalie o problemi medici.Lo studio è stato pubblicato da un gruppo di scienziate dell’Università della salute e della scienza dell’Oregon sulla rivista BMJ Sexual & Reproductive Health, dopo essere stato rivisto da ricercatori esperti del settore e indipendenti che ne hanno valutato l’attendibilità (peer-review). Lo studio è consistito in una serie di esperimenti fatti su 21 prodotti mestruali di marchi e dimensioni diverse tra assorbenti tradizionali, interni, mutande assorbenti, coppette e dischi.I marchi utilizzati erano prevalentemente statunitensi o canadesi, ma alcuni sono disponibili anche in Italia: per esempio le coppette Diva Cup, gli assorbenti interni Tampax e il disco Ziggy Cup di Intimina, che è invece un’azienda svedese (nello studio, liberamente accessibile, si possono vedere le immagini delle scatole dei prodotti testati).Il prodotto che risulta avere una maggiore capacità contenitiva è il disco e, in particolare, il Ziggy Cup che può contenere fino a 80 ml di sangue a fronte dei 61 mediamente contenuti dagli altri dischi. Prodotti come gli assorbenti tradizionali, quelli interni e le coppette, contengono mediamente tra i 20 e i 50 ml di sangue, mentre le mutande assorbenti sono il prodotto meno contenitivo, con una media di 2 ml.Per testare i prodotti sono stati usati globuli rossi umani impacchettati (human packed red blood cells, RBCs), cioè pacchi di sangue a cui è stato rimosso del tutto o parzialmente il plasma, normalmente utilizzati per alcuni tipi di trasfusioni. Il sangue in questione non poteva più essere utilizzato per scopi clinici ed era stato fornito alle scienziate dai laboratori dell’università. Il sangue usato non ha la stessa viscosità del sangue mestruale, che contiene anche secrezioni e tessuti di rivestimento dell’endometrio, nella parte interna dell’utero, ma è comunque una buona approssimazione rispetto ad altri tipi di liquidi.– Leggi anche: Le coppette mestruali sono affidabili quanto gli assorbenti usa e gettaLo studio appena pubblicato ha alcuni limiti, sottolineati dalle stesse scienziate che l’hanno condotto. La ricerca non ha potuto tener conto di una serie di variabili che influenzano molto la percezione dell’efficacia di un prodotto: il tipo di flusso mestruale di ogni persona, il modo in cui i prodotti mestruali vengono posizionati sulla biancheria o all’interno della vagina e in cui reagiscono ai movimenti, così come le abitudini personali. Le autrici scrivono per esempio che ci sono tanti motivi per cui una persona decide di cambiare l’assorbente o svuotare la coppetta o il dischetto, non necessariamente legati al fatto che si siano riempiti di sangue: per esempio il sentirsi più comode.Lo studio contiene però dati e risultati utili a migliorare la conoscenza su come funzionano le mestruazioni, con vari benefici, spiegati in parte anche in un editoriale intitolato Seguire il flusso: l’emergere della scienza della scienza mestruale, di tre scienziate e scienziati dell’università di Stanford.Gli studi sulle mestruazioni sono ancora molto pochi, a fronte di un generale aumento dell’offerta sui prodotti mestruali: avere criteri certi e affidabili su come funzionano permette di poterli scegliere in modo più informato. Anche perché, dice sempre lo studio, ad eccezione degli assorbenti interni non esistono regole e standard comuni per indicare quanto un prodotto sia effettivamente assorbente: le goccioline disegnate sulle scatole sono decise volta per volta dalle singole aziende, in modo piuttosto arbitrario e impreciso. Tra le altre cose, lo studio dice che la maggior parte dei prodotti testati riportava sulla scatola una capacità assorbente maggiore di quella effettiva.In assenza di dati e criteri certi per misurare la capacità assorbente e contenitiva dei prodotti mestruali è inoltre molto più difficile diagnosticare eventuali patologie. Paul Blumenthal, professore di ostetricia e ginecologia dell’università di Stanford, ha fatto al Guardian un esempio molto concreto: se una paziente dice al proprio medico di riempire un assorbente ogni due ore, in assenza di criteri più precisi non è detto che il medico conosca le marche di tutti gli assorbenti e sappia valutare quanto il sanguinamento sia eccessivo o magari sintomatico di qualche problema da curare. LEGGI TUTTO

  • in

    Anche sulle Ande ha fatto molto caldo, sebbene sia inverno

    Tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto, quando nell’emisfero australe è inverno, un’ondata di calore ha interessato varie parti del Sud America meridionale, facendo registrare temperature particolarmente elevate sia in Cile che in Argentina e causando una notevole fusione della neve sulle Ande.South America is living one of the extreme events the world has ever seenUnbelievable temperatures up to 38.9C in the Chilean Andine areas in mid winter ! Much more than what Southern Europe just had in mid summer at the same elevation: This event is rewriting all climatic books pic.twitter.com/QiiUKllWWP— Extreme Temperatures Around The World (@extremetemps) August 1, 2023Il primo agosto a Buenos Aires sono stati misurati 30 °C, la temperatura più alta mai registrata nei 117 anni di misurazioni del Servicio Meteorológico Nacional: in media ad agosto nella capitale argentina le temperature massime si aggirano intorno ai 17 °C e il precedente record di temperatura per il primo di agosto era di 24,6 °C. Lo stesso giorno a Santiago del Cile sono stati registrati 23 °C, quasi 7 °C al di sopra dei valori medi per questo periodo dell’anno. In altre località dei due paesi si sono raggiunti anche 37 o 39 °C.Raul Cordero, climatologo dell’Università di Santiago, ha detto a Reuters che ci sono state anomalie di temperatura rispetto alle medie anche di 15 °C. Sulle Ande l’effetto delle temperature si è visto in modo particolare nel parco naturale cileno di Yerba Loca, dove a 2.700 metri di altitudine si trova una stazione meteorologica dell’Università di Santiago ed è stata osservata una ingente fusione della neve nel giro di una settimana.En cuestión de días desapareció la Nieve estacional alrededor de nuestra estación de monitoreo “nival” en #LosAndes (2600 m snm, frente a Santiago🇨🇱)👇En pleno invierno austral, intensa #OlaDeCalor🔥eliminó la Nieve andina por debajo de los 3000 m snm en Chile central. pic.twitter.com/OygwvkDGQn— Antarctica.cl (@Antarcticacl) August 2, 2023La fusione della neve è particolarmente preoccupante perché negli ultimi anni anche parte del Cile, dell’Argentina e di altri paesi sudamericani è stata interessata da una siccità; e se si scioglie troppa neve in inverno significa che la prossima estate ci sarà meno acqua. Parlando con il quotidiano cileno La Tercera, Cordero ha detto che in primavera ed estate potrebbero esserci anche dei problemi di approvvigionamento per l’acqua potabile nelle grandi città del Cile centrale.L’ondata di calore è stata causata da un anticiclone, cioè una zona di alta pressione atmosferica associata al bel tempo, particolarmente persistente che è rimasto sul versante orientale delle Ande per vari giorni. È probabile che questo fenomeno meteorologico si possa ricondurre all’influenza del cosiddetto “El Niño”, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e influenza il clima di gran parte del pianeta ma soprattutto quello dei paesi sudamericani e del Sud-Est asiatico. Proprio per via della presenza di El Niño, che secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale è ufficialmente tornato a giugno, si prevede che nell’emisfero australe la prossima estate (quando in Italia sarà inverno) sarà particolarmente calda.2AGO | #Temperaturas máximas de ayer (°C)🌡️🔥Rivadavia 39Las Lomitas 36,8Tartagal 36,8Presidencia Roque Sáenz Peña 36,5Ceres 36Villa María del Río Seco 35,5Reconquista 35,2Resistencia 35,2Sunchales 34,8Rafaela 34,5Orán 34,1Sgo del Estero 33,8 pic.twitter.com/rWpRHO60YG— SMN Argentina (@SMN_Argentina) August 3, 2023Già all’inizio di luglio parte del Sud America era stata interessata da un’ondata di calore che aveva influito parecchio sulle temperature medie dell’emisfero australe: il 4 luglio la temperatura media dell’emisfero aveva superato di 1 °C la media dello stesso giorno per il periodo dal 1979 al 2000; non era mai successo in nessun altro giorno che ci fosse un’anomalia di temperatura superiore a 1 °C rispetto alle medie 1979-2000. Anche questa parte del mondo è interessata dalle conseguenze del riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra umane, tuttavia per via della conformazione geografica dei continenti meridionali finora si sono visti maggiori record di temperature nell’emisfero boreale. LEGGI TUTTO

  • in

    Abbiamo scoperto solo una piccola parte dei dinosauri

    Caricamento playerGli ultimi decenni sono stati più volte definiti una «età dell’oro» per lo studio dei dinosauri perché dall’inizio del secolo è aumentato tantissimo il numero di nuove specie fossili scoperte. «Ogni settimana si scopre in media una nuova specie di dinosauro», raccontava Steve Brusatte, professore dell’Università di Edimburgo e attualmente uno dei paleontologi più conosciuti e autorevoli del mondo, nel suo libro del 2018 Ascesa e caduta dei dinosauri. Oggi conosciamo più di mille specie secondo il Paleobiology Database gestito dalla comunità scientifica paleontologica, eppure si stima che siano ancora moltissime le specie sconosciute: probabilmente «milioni, o forse decine di milioni», ha detto Brusatte di recente allo Smithsonian Magazine.La maggior parte dei dinosauri più noti, quelli di cui molte persone conoscono i nomi grazie a programmi televisivi e ai romanzi e ai film della saga di Jurassic Park, furono scoperti alla fine dell’Ottocento nell’ovest degli Stati Uniti. Quel periodo è stato poi chiamato “guerra delle ossa”, perché gran parte degli scavi di fossili furono condotti da due paleontologi rivali, Edward Drinker Cope dell’Accademia di scienze naturali di Philadelphia e Othniel Charles Marsh dell’Università di Yale, che usarono anche metodi scorretti come la corruzione e il furto per potersi attribuire il maggior numero di ritrovamenti.Le più di cento specie individuate in quegli anni, tra cui alcuni triceratopi e stegosauri, erano soprattutto dinosauri molto grandi, che poi sono i primi a cui si pensa proprio per via della straordinarietà delle loro dimensioni rispetto a quelle degli animali di oggi. Per questa ragione i fossili più grandi erano quelli più ambiti, ma erano anche i più facili da trovare perché nel corso della storia avevano resistito di più alle trasformazioni geologiche e meteorologiche, oltre che alle attività umane. Le specie più piccole erano al contrario più difficili da recuperare e tendenzialmente meno interessanti per i musei: per molto tempo dunque sono state trascurate, ma ne esistevano in grandi numeri.Sono questi dinosauri di dimensioni minori che stiamo scoprendo negli ultimi anni. In gran parte le nuove scoperte si devono agli scavi in parti del mondo, come la Cina, dove a lungo non erano state fatte ricerche paleontologiche, ma anche in regioni già molto studiate avvengono nuovi ritrovamenti. Ad esempio a giugno è stata descritta la specie Iani smithi, un tipo di dinosauro erbivoro bipede lungo tre metri il cui fossile è stato trovato nello Utah, uno degli stati americani al centro della “guerra delle ossa” ottocentesca.In generale, oggi la comunità paleontologica sta cercando di ricostruire il più possibile come fossero fatti gli ecosistemi in cui i dinosauri vivevano, e per questo dà attenzione anche alle specie più piccole, cercandone di nuove anche dove in passato erano state fatte scoperte famose.Grazie a questi studi la nostra conoscenza del mondo dei dinosauri è molto aumentata e oltre alle nuove specie è stato possibile riconoscere nuovi cladi, cioè gruppi di specie che hanno un antenato comune. Il gruppo a cui appartiene la specie Iani smithi ad esempio è stato riconosciuto nel 2016. L’individuazione dei cladi può sembrare una finezza da esperti della materia, ma la ricostruzione di quello che si può descrivere come l’albero genealogico dei dinosauri è importante per comprendere meglio la storia dell’evoluzione tra 235 e 66 milioni di anni fa, un periodo di tempo lungo più del doppio di quello che ci separa dall’estinzione dei dinosauri.Nel 2016 i paleobiologi Jostein Starrfelt e Lee Hsiang Liow hanno fatto uno studio statistico per provare a stimare quante specie di dinosauri si siano estinte nel corso della preistoria e hanno stimato che potrebbero essere state più o meno il doppio di quelle che conosciamo, tra 1.543 e 2.468. Anche stime precedenti erano giunte a conclusioni simili, ma Brusatte è scettico sul fatto che siano accurate perché solo oggi sulla Terra vivono più di 10mila specie di uccelli – gli animali più imparentati con i dinosauri – e quindi è difficile pensare che in più di 150 milioni di anni non ci siano state più specie di dinosauri.Il problema delle stime fatte finora sul numero delle specie è che si basano sul numero di fossili che sono stati trovati e si sa che possono mostrarci solo una parte di quello che era il mondo dei dinosauri. Infatti non tutte le regioni della Terra hanno caratteristiche geomorfologiche che hanno consentito la formazione e la conservazione di fossili. Ad esempio non sappiamo nulla dei dinosauri che vivevano sulle montagne, cioè in zone dove i resti animali sono stati probabilmente distrutti nel corso del tempo per l’erosione. I fossili si formano più facilmente nei deserti, nelle pianure alluvionali e sui fondali marini, dove si accumulano sedimenti.È probabile che in passato come oggi le zone montuose fossero abitate da specie di animali diverse da quelle delle pianure e quindi per questo potremmo anche non conoscere mai molte specie di dinosauri. LEGGI TUTTO