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    Chi è chi in “Oppenheimer”

    Caricamento playerIl film Oppenheimer di Christopher Nolan sulla vita di Robert Oppenheimer, “il padre dell’atomica”, ha un cast molto nutrito con una cinquantina di attrici e attori che interpretano fisici e politici famosissimi, funzionari meno conosciuti e diversi altri personaggi molto importanti per la storia. Molti di loro non vengono nemmeno presentati per nome e cognome, una scelta deliberata per non distogliere troppo l’attenzione dal protagonista principale del film, Oppenheimer. La mancanza di riferimenti può però confondere con una quantità così grande di personaggi e aspetti appena accennati, e sapere chi-è-chi è piuttosto importante per seguire la storia, o per ricostruire dopo aver visto il film i pezzi in cui ci si è persi. Questa è quindi una rapida guida al chi-è-chi non solo nel film, ma anche nella realtà di chi fece l’atomica.Robert Oppenheimer (1904 – 1967)(AP Photo)Tra i fisici più influenti nella storia del Novecento, è considerato “il padre dell’atomica”. Coordinò buona parte del lavoro dei gruppi di ricerca a Los Alamos, dove furono sviluppati i primi modelli di bomba atomica alla fine della Seconda guerra mondiale. Oppenheimer aveva 38 anni quando fu scelto per l’incarico e aveva accumulato una specchiata carriera accademica, occupandosi di astronomia teorica, fisica nucleare, meccanica quantistica e di relatività, argomento molto dibattuto all’epoca nella comunità scientifica. Dopo i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki in Giappone, Oppenheimer divenne un convinto sostenitore della necessità di evitare la proliferazione di ordigni nucleari, ma rimase inascoltato. Per le sue vicinanze agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù finì sotto inchiesta, rimanendo emarginato dalle istituzioni governative che si occupavano di nucleare. Diversi anni dopo di Hiroshima disse: «Penso che Hiroshima abbia causato più morti e sofferenze disumane di quanto sarebbe stato necessario per diventare un motivo efficace per mettere fine alla guerra». Nel film è interpretato da Cillian Murphy.Leslie Groves (1896 – 1970)(AP)Generale dell’esercito, nel 1942 assunse il comando del Manhattan Project, l’ambizioso programma di ricerca per la costruzione di armi atomiche. Fu Groves a scegliere Oppenheimer, sorprendendo diversi colleghi e osservatori, convinto che fosse la persona giusta per dirigere i gruppi di ricerca a Los Alamos. Groves si occupò direttamente degli aspetti logistici e organizzativi di buona parte del progetto, partecipò ai gruppi di lavoro che studiavano i progressi della Germania nazista nella costruzione di una bomba atomica e collaborò alla scelta delle città giapponesi da bombardare. Nel film è interpretato da Matt Damon.Lewis Strauss (1896 – 1974)(AP Photo/Henry Griffin)Fu tra i principali esponenti della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti, costituita alla fine della Seconda guerra mondiale per trasferire parte del controllo dell’energia atomica dall’esercito ai civili. Molto influente, sostenne la necessità di costruire una bomba a idrogeno e di mantenere la massima segretezza sui piani atomici statunitensi, soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica. Strauss fu tra i principali critici di Oppenheimer ai tempi delle audizioni per la sua vicinanza agli ambienti comunisti statunitensi in gioventù; fu inoltre a favore della rimozione delle autorizzazioni di sicurezza per Oppenheimer, che di fatto lo estromisero da qualsiasi decisione e confronto a livello governativo sul nucleare. Nel film è interpretato da Robert Downey Jr.Enrico Fermi (1901 – 1954)(AP)Premio Nobel per la Fisica nel 1938, fu tra i principali studiosi del decadimento radioattivo e delle forze nucleari debole e forte. Dopo avere lavorato in Italia, si trasferì negli Stati Uniti e guidò la progettazione e la costruzione del “Chicago Pile-1”, il primo reattore nucleare a fissione nel 1942. Il suo lavoro fu fondamentale per studiare la reazione nucleare a catena e per la produzione del materiale fissile necessario per le prime bombe atomiche. Nel film compare in pochissime scene, interpretato da Danny Deferrari.Jean Tatlock (1914 – 1944)(Wikimedia)Psichiatra e attivista comunista, fu fidanzata e poi amante di Oppenheimer, tanto da essere storicamente considerata il suo vero grande amore. Il loro rapporto fu centrale nelle audizioni del 1954 sulle presunte frequentazioni comuniste di Oppenheimer. La relazione amorosa durò circa tre anni, il rapporto sarebbe stato in seguito descritto come tumultuoso, ma non si sa di preciso cosa portò Tatlock a interrompere la relazione. La sua morte venne considerata un suicidio, anche se negli anni diverse persone, tra cui suo fratello, continuarono a sostenere che si fosse trattato di un omicidio politico particolarmente ben congegnato. Nel film è interpretata da Florence Pugh.Edward Teller (1908 – 2003)(AP)Se Oppenheimer è “il padre della bomba atomica”, Teller è considerato “il padre della bomba a idrogeno”. Di origini ungheresi, si dedicò alla fisica nucleare e molecolare, ma si occupò anche di meccanica quantistica. Fu tra i primi scienziati a essere coinvolti nel Manhattan Project e quasi da subito sostenne la necessità di sviluppare una bomba a fusione nucleare, potenzialmente molto più potente delle bombe a fissione in via di sviluppo a Los Alamos. Ebbe un rapporto complicato con Oppenheimer, che non voleva distrazioni dall’obiettivo principale di ricerca orientato verso la fissione, di conseguenza per vario tempo lavorò a Los Alamos a propri progetti. Teller testimoniò contro Oppenheimer alle audizioni del 1954, ricevendo pesanti critiche dalla comunità scientifica. Fu sempre un fermo sostenitore della necessità di rendere il più potente possibile l’arsenale atomico degli Stati Uniti, contro eventuali minacce sovietiche. Nel film è interpretato dal regista Benny Safdie.Ernest Lawrence (1901 – 1958)(AP)Premio Nobel per la Fisica nel 1939 per l’invenzione del ciclotrone, il primo acceleratore di particelle elementari, isolò nei propri laboratori il plutonio, di importanza essenziale per le ricerche a Los Alamos legate alla bomba atomica. Diede un importante contributo allo sviluppo delle tecniche di separazione dell’uranio 235, elemento utilizzato come materiale fissile per la bomba sganciata su Hiroshima. Dopo la Seconda guerra mondiale fu tra i principali sostenitori di “Big Science”, la richiesta al governo statunitense di finanziare grandi progetti scientifici per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Nel film è interpretato da Josh Hartnett.Leo Szilard (1898 – 1964)(AP Photo/Henry Griffin)Ungherese, fu uno dei più eminenti fisici nucleari europei e già nel 1933 ipotizzò che fosse possibile sviluppare una reazione nucleare a catena, il principio alla base degli ordigni nucleari e in forma controllata dei reattori per la produzione di energia elettrica. Quando dalla teoria si passò alla pratica con i primi esperimenti di fissione in Germania, nel 1939 Szilard propose ad Albert Einstein di inviare una lettera all’allora presidente degli Stati Uniti, Franklin D. Roosevelt, per segnalare la possibilità che il regime nazista si dotasse di armi atomiche: la lettera fu scritta da Szilard e firmata da Einstein, che aveva una maggiore fama. Fu quella lettera a convincere Roosevelt ad avviare le prime attività di ricerca sul nucleare, che sarebbero poi sfociate nel Manhattan Project. Nel film è interpretato da Máté Haumann.Katherine Oppenheimer (1910 – 1972)Katherine Puening sposò Oppenheimer nel 1940, dopo che Tatlock aveva interrotto la relazione con lui. Puening aveva fatto parte del partito comunista statunitense, aveva un dottorato in botanica e due matrimoni alle spalle. Il primo figlio, concepito con Oppenheimer quando Puening era ancora in una precedente relazione, nacque nel maggio del 1941, mentre la loro seconda figlia nacque tre anni dopo a Los Alamos, dove la famiglia si era trasferita per seguire lo sviluppo della bomba atomica. Ebbero un matrimonio complicato con alcune storie extraconiugali, ma rimasero insieme fino alla morte di Oppenheimer nel 1967. Nel film è interpretata da Emily Blunt.Niels Bohr (1885 – 1962)(AP Photo/Alan Richard)Danese, fu uno dei più grandi e importanti fisici del Novecento. I suoi studi furono fondamentali per comprendere la struttura atomica e per la meccanica quantistica, per questo già nel 1922 ricevette il Nobel per la Fisica. A Bohr si deve il principio di complementarietà, secondo il quale nella meccanica quantistica l’aspetto duplice di alcune rappresentazioni fisiche di ciò che avviene a livello atomico e subatomico non può essere osservato contemporaneamente durante il medesimo esperimento. Non fu mai presente in forma stabile a Los Alamos, ma fece più volte visita ai gruppi di ricerca, diventando un punto di riferimento soprattutto per i ricercatori più giovani. In seguito avrebbe detto infatti: «Non avevano bisogno del mio aiuto per fare la bomba atomica». Nel film lo interpreta Kenneth Branagh.Werner Heisenberg (1901 – 1976)(AP Photo/Gerhard Baatz)Tedesco, fu tra i pionieri della meccanica quantistica, insieme ai fisici Max Born e Pascual Jordan, e per le sue ricerche fu insignito del Premio Nobel per la Fisica nel 1932. È conosciuto soprattutto per il principio di indeterminazione, che stabilisce i limiti nella misurazione dei valori di alcuni tipi di grandezze in un sistema fisico. Rimase in Germania nel corso della Seconda guerra mondiale e guidò il gruppo di lavoro civile all’interno del programma nucleare militare tedesco, voluto dal regime nazista per sviluppare armi atomiche. Nel film è interpretato da Matthias Schweighöfer.Boris Pash (1900 – 1995)(Wikimedia)Ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, lavorò nel controspionaggio e fu tra i responsabili delle indagini su sospette attività di spionaggio sovietico all’Università della California. In quell’occasione interrogò e fece verifiche anche su Oppenheimer, concludendo che probabilmente fosse ancora legato al partito comunista statunitense. Pash non ritenne comunque che Oppenheimer lavorasse come spia sovietica, convinto che la sua posizione di rilievo e la sua immagine pubblica fossero un deterrente nel diventarlo. Nel film è Casey Affleck.Albert Einstein (1879 – 1955)(AP)Probabilmente il fisico più famoso della storia del Novecento, sviluppò a partire dai primi anni del secolo la teoria della relatività, fondamentale per la fisica moderna insieme alla meccanica quantistica. Tedesco di origini ebraiche, nei primi anni Trenta si trasferì negli Stati Uniti per sfuggire al regime nazista. Non partecipò attivamente al Manhattan Project, ma firmò la lettera scritta da Szilard per avvisare il presidente statunitense Roosevelt sui pericoli legati all’eventuale sviluppo di armi atomiche da parte della Germania nazista. Einstein era profondamente pacifista e in seguito confidò di avere fatto un errore nel firmare una lettera che, secondo alcuni storici, avviò la cosiddetta “corsa all’atomica”. Nel 1955 Einstein sottoscrisse un manifesto insieme ad alcuni intellettuali come il filosofo britannico Bertrand Russell sui pericoli derivanti dalle armi nucleari. Nel film è l’attore Tom Conti, con un trucco secondo molti poco realistico.Harry Truman (1884 – 1972)(AP)Divenne presidente degli Stati Uniti alla morte di Franklin D. Roosevelt, di cui era il vice, nell’aprile del 1945 e solo in quel momento fu messo al corrente del Manhattan Project e dei piani per costruire la bomba atomica. Pochi mesi dopo, Truman fu il primo e unico capo di stato ad autorizzare bombardamenti nucleari su due città, consapevole di causare la morte di decine di migliaia di civili. Oppenheimer incontrò Truman alla Casa Bianca alcune settimane dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki e confidò al presidente di sentire «le mani sporche di sangue». Truman rimase colpito da quell’affermazione, avendo autorizzato personalmente i due bombardamenti, e allontanò in malo modo Oppenheimer, dicendo in seguito ai propri collaboratori: «Non voglio mai più vedere quel piagnone in quest’ufficio». Fu eletto per un secondo mandato presidenziale nel 1948, lavorò per il miglioramento dei diritti civili nel paese e non si ricandidò nel 1952. Nel film è interpretato da Gary Oldman, anche lui molto truccato.Haakon Chevalier (1901 – 1985)(Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images)Incontrò Oppenheimer nel 1937 all’Università della California, Berkeley, e insieme costituirono un gruppo che promuoveva idee di sinistra e aveva legami con il partito comunista negli Stati Uniti. Chevalier ebbe indirettamente un ruolo importante nelle audizioni che portarono alla revoca dei permessi di sicurezza di Oppenheimer e di fatto misero fine alla sua carriera. Nel 1942 aveva riferito a Oppenheimer di conoscere una persona che stava cercando di avere informazioni sul Manhattan Project per conto dei sovietici. Oppenheimer riferì tardivamente questa circostanza alle autorità e omise informazioni su Chevalier cercando di proteggerlo, attività che sembrarono sospette a chi conduceva le indagini e che influirono notevolmente sulla scelta della revoca dei permessi nel 1954. Nel film è Jefferson Hall.Klaus Fuchs (1911 – 1988)(Keystone/Getty Images)Tedesco, emigrò nel Regno Unito all’inizio del nazismo. Capace fisico teorico, a Los Alamos lavorò a importanti calcoli per i primi modelli della bomba atomica a implosione sotto la guida di Hans Bethe, dando contributi molto importanti anche per il successivo sviluppo della bomba a fusione, a guerra finita. All’inizio degli anni Cinquanta confessò di avere trasmesso informazioni sulle attività segrete del Manhattan Project all’Unione Sovietica e fu condannato a 14 anni di carcere nel Regno Unito, dove si era trasferito. Scontò nove anni di pena e si trasferì nella Germania dell’Est dove divenne direttore dell’Istituto centrale di fisica nucleare di Dresda. Nel film è interpretato da Christopher Denham.David Hill (1919 – 2008)(Wikimedia)Lavorò con Enrico Fermi al “Chicago Pile-1” al Met Lab dell’Università di Chicago, dove rimase per buona parte della Seconda guerra mondiale. Quando divenne imminente il lancio delle prime bombe atomiche sul Giappone, Hill sottoscrisse una petizione avviata da Leo Szilard con la quale si chiedeva al presidente Truman di dare un avvertimento al governo giapponese prima di un bombardamento atomico. Anni dopo da consigliere della Federazione degli scienziati americani testimoniò davanti a una commissione del Senato degli Stati Uniti opponendosi alla nomina di Lewis Strauss alla carica di Segretario del commercio, anche per il ruolo che aveva avuto nelle indagini contro Oppenheimer nel 1954. Nel film è interpretato da Rami Malek.William L. Borden (1920 – 1985)(Wikimedia)Tra il 1949 e il 1953 ebbe un ruolo molto importante come direttore esecutivo della Commissione congiunta del Congresso degli Stati Uniti sull’energia atomica. Ma è ricordato soprattutto per avere scritto nel 1953 una lettera all’allora potentissimo capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, nella quale segnalava che «molto probabilmente» Oppenheimer era una spia dell’Unione Sovietica, senza fornire prove specifiche. Fu uno dei primi passi verso l’indagine del 1954 con la quale Oppenheimer avrebbe perso le autorizzazioni di sicurezza. Nel film è interpretato da David Dastmalchian.Roger Robb (1907 – 1985)(AP Photo/John Rous)Magistrato, fu consigliere speciale durante le audizioni della Commissione per l’energia atomica sul ruolo di Oppenheimer e sui suoi presunti legami con l’Unione Sovietica. Secondo gli osservatori dell’epoca, interrogò Oppenheimer molto duramente, con un trattamento di solito riservato a chi era accusato di alto tradimento. Nel film è interpretato da Jason Clarke.Isidor Isaac Rabi (1898 – 1988)(AP Photo)Premio Nobel per la Fisica nel 1944, studiò il momento magnetico dell’atomo e mise le basi per lo sviluppo di sistemi di diagnostica per immagini che usiamo ancora oggi, come la risonanza magnetica nucleare. Rabi non partecipò direttamente alle attività di ricerca di Los Alamos, ma fu comunque un importante consulente per il Manhattan Project e fu tra gli scienziati presenti durante “Trinity”, il primo test della storia su una bomba nucleare. Quel giorno vinse una scommessa tra i fisici presenti su quanta energia avrebbe sprigionato l’esplosione: arrivò tardi ed era rimasto un solo numero disponibile, 18 kilotoni, l’esplosione ne produsse 18,6. Nel film è interpretato da David Krumholtz.Gordon Gray (1909 – 1982)(AP Photo)Funzionario nei governi di Harry Truman e Dwight Eisenhower, fu a capo dalla commissione che si occupò di indagare i presunti legami di Oppenheimer con il comunismo e l’Unione Sovietica. Fu molto criticato per come gestì il proprio ruolo senza lasciare a Oppenheimer la possibilità di difendersi adeguatamente. Fu uno dei due membri, su tre, della commissione a votare a favore della revoca dei permessi di sicurezza per Oppenheimer, sancendo di fatto la fine della sua carriera nelle istituzioni statunitensi. Nel film è interpretato da Tony Goldwyn.Vannevar Bush (1890 – 1974)(AP Photo)Ingegnere e inventore, ebbe un ruolo chiave per gli Stati Uniti nel corso della Seconda guerra mondiale, coordinando una grande quantità di lavori di ricerca su nuove tecnologie da impiegare in ambito bellico. Fu tra i principali sostenitori della necessità di sviluppare armi atomiche e nel periodo del Manhattan Project fu il principale punto di collegamento tra il gruppo di ricerca e la presidenza degli Stati Uniti. Dopo la Seconda guerra mondiale cercò di opporsi al test della prima bomba a fusione, ritenendo che avrebbe portato a un’ulteriore corsa agli armamenti da parte dell’Unione Sovietica. Nel 1954 difese pubblicamente in più occasioni Oppenheimer dalle accuse che gli erano state mosse. Nel film è Matthew Modine.Robert Serber (1909 – 1997)(Wikimedia)Fisico, ebbe un ruolo molto importante a Los Alamos: fare in modo che i nuovi ricercatori che arrivavano al laboratorio fossero messi il più rapidamente possibile al passo col lavoro di ricerca già svolto. Oppenheimer aveva scelto di non compartimentare conoscenze e informazioni tra singoli dipartimenti, mantenendo il più aperta possibile la comunicazione interna in modo che a Los Alamos tutti sapessero l’andamento e l’entità dello sforzo collettivo. Serber preparò alcune lezioni, conosciute come The Los Alamos Primer, per questo scopo. Fu anche tra i primi a entrare a Hiroshima e Nagasaki per verificare gli effetti dei bombardamenti atomici. Nel film è Michael Angarano.Lilli Hornig (1921 – 2017)(Wikimedia)Fu tra le relativamente poche donne che parteciparono alle attività di ricerca a Los Alamos, dove era arrivata seguendo il marito, il chimico Donald Hornig. Le furono affidati vari compiti di ricerca legati allo studio del plutonio e delle sue caratteristiche. Firmò una petizione che chiedeva che il primo attacco nucleare fosse condotto su un’isola disabitata a scopo dimostrativo. Dopo la Seconda guerra mondiale divenne docente di chimica e promosse numerose iniziative per dare alle donne pari opportunità di accesso nel settore della ricerca e non solo. Nel film è interpretata da Olivia Thirlby. LEGGI TUTTO

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    L’uccello a rischio di estinzione alle Hawaii

    Oltre ad aver provocato la morte di oltre 110 persone e danni a centinaia di edifici, i recenti incendi boschivi a Maui, nell’arcipelago statunitense delle Hawaii, hanno complicato le attività per la salvaguardia di una specie di uccelli a grave rischio di estinzione: gli ʻakikiki.Al momento in natura ne esistono solo cinque, sulla vicina isola di Kauai, mentre alcuni delle poche decine allevate in cattività hanno rischiato di morire quando un albero è caduto nella riserva di Maui, in cui vivono, proprio a causa di un incendio. A prescindere dagli incendi comunque gli ultimi esemplari esistenti in natura potrebbero avere pochi mesi di vita, e per salvare la specie si sta cercando di eliminare la causa principale della decimazione della sua popolazione: le zanzare.L’ʻakikiki (Oreomystis bairdi), detto anche rampichino di Kauai, è un uccello passeriforme autoctono dell’isola, che si trova nella parte nord-ovest dell’arcipelago, nell’oceano Pacifico. È lungo circa 13 centimetri, pesa più o meno 15 grammi e ha un piumaggio grigio scuro su testa, dorso e fianchi, e più chiaro nella parte inferiore. Negli ultimi anni la sua popolazione si è ridotta così tanto e così velocemente che secondo il dipartimento del Territorio e delle Risorse naturali dello stato le possibilità che la specie riesca a sopravvivere in natura sono «scarse».Alle Hawaii ci sono numerosissime specie di uccelli che sono sopravvissute per milioni di anni sia grazie alla posizione isolata dell’arcipelago, sia perché i loro predatori erano relativamente pochi. Con l’arrivo dei popoli polinesiani prima e di quelli europei dopo, sulle isole furono introdotte nuove specie di animali, tra cui bovini e ovini, che contribuirono a cambiare gli equilibri dell’ecosistema. Il problema più grosso per gli ʻakikiki però è molto più recente, e riguarda anche altre specie di uccelli.Come ha spiegato David Smith, amministratore della divisione di Scienze forestali e Fauna selvatica del dipartimento, il progressivo aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale ha favorito la proliferazione delle zanzare, che hanno facilitato la diffusione della malaria tra gli uccelli. Inizialmente il problema non riguardava gli ʻakikiki, che vivevano a quote più elevate nelle foreste pluviali di Kauai, e fino a una ventina di anni fa gli ornitologi si dicevano «cautamente ottimisti» sulle possibilità di sopravvivenza della specie, visto che quell’ambiente non era adatto alle zanzare. Poi però le cose sono cambiate. Nel 2012 gli ʻakikiki in natura erano meno di 500 e nel 2018 poche centinaia. All’inizio del 2023 alcune decine e a inizio luglio solo 5.Smith ha detto che al momento alle Hawaii ci sono tre specie di uccelli «sul punto di estinguersi», per cui la situazione è «semplicemente critica»: gli ʻakikiki e gli ‘akeke’e a Kauai e i kiwikiu, che vivono a Maui.Il fatto che 500 delle circa 1.700 specie di piante e animali considerate a rischio dall’Endangered Species Act (una delle leggi statunitensi che stabiliscono come proteggere la fauna e la flora) si trovi proprio alle Hawaii ha fatto sì che tra gli scienziati l’arcipelago abbia cominciato a essere conosciuto come «la capitale mondiale delle specie a rischio di estinzione», ha notato in un recente articolo il Washington Post.Il biologo Justin Hite ha spiegato che il programma per cercare di portare in salvo i cinque ʻakikiki che vivono in natura è stato sospeso perché l’operazione li sottoporrebbe a uno stress che probabilmente li porterebbe comunque alla morte. Raccogliere le uova non ancora schiuse e provare a favorire la loro riproduzione altrove è «l’ultimo tentativo per salvare la specie», ha aggiunto Jennifer Pribble, che segue il programma per la loro conservazione nella riserva gestita dallo zoo di San Diego a Maui, dove al momento ne vivono 34. L’altra riserva si trova sull’isola di Hawaii e invece ne ospita 17.Gli esemplari cresciuti in cattività vivono in gabbie dotate di zanzariere, in modo da non essere punti. Al contempo gli addetti provano a facilitare la loro riproduzione, sia simulando le condizioni ambientali e meteorologiche di Kauai con foglie di felce, muschio e un sistema di acqua a spruzzo, sia incoraggiando lo stesso tipo di relazioni che si creerebbero in natura. Dal momento che gli ‘akikiki sono monogami, gli scienziati cercano di far scegliere a una femmina il maschio preferito in modo da aumentare le probabilità che le uova vengano deposte, ha spiegato sempre Hite.C’è poi un intervento molto più strutturato, che come anticipato punta alla causa del problema: è un progetto proposto da un insieme di stati federali, agenzie statali e organizzazioni non profit che prevede per così dire di sterilizzare le zanzare.– Ascolta anche: Vicini e Lontani: “Nemico pubblico”I maschi di zanzara che vivono alle Hawaii sono portatori di un parassita appartenente al genere chiamato Wolbachia e si riproducono con femmine che hanno il medesimo tipo di parassita. Gli scienziati stanno quindi infettando i maschi con un diverso tipo di Wolbachia incompatibile con le femmine, in modo da impedire la riproduzione. In base al progetto le prime zanzare dovrebbero essere rilasciate entro la fine di quest’anno o l’inizio dell’anno prossimo attraverso droni, prima a Maui e poi a Kauai.Smith ha osservato che le zanzare non sono native delle Hawaii e «non hanno un ruolo ecologico fondamentale», pertanto a suo dire eliminandole ci sarebbero «enormi vantaggi ambientali e quasi nessuno svantaggio». Non tutti però sono convinti del progetto, che come ha notato il Washington Post è già costato decine di milioni di dollari e potrebbe richiedere anni prima di funzionare. Un gruppo ambientalista, Hawaii Unites, ha chiesto di bloccare il progetto sostenendo che non siano stati fatti studi ambientali adeguati e che la presenza di altre zanzare potrebbe avere effetti indesiderati per altri animali.Hite ha detto che gli ʻakikiki non sono una specie particolarmente conosciuta dalle persone anche perché non hanno piume molto colorate né melodie elaborate o riconoscibili. A suo dire comunque non intervenire per la loro salvaguardia oggi potrebbe significare perdere uccelli «molto molto belli e colorati» più avanti.– Leggi anche: Gli incendi a Maui c’entrano con le piante portate dalla colonizzazione statunitense LEGGI TUTTO

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    Perché c’è una certa attenzione per una nuova variante del coronavirus

    Da alcune settimane le principali istituzioni sanitarie stanno tenendo sotto controllo una nuova variante del coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia iniziata nel 2020, che presenta numerose mutazioni ed è stata rilevata in almeno tre continenti. È stata chiamata BA.2.86 ed è alquanto diversa dalle varianti già in circolazione, con differenze soprattutto nella proteina “spike”, che il virus utilizza per legarsi alle cellule e replicarsi portando avanti l’infezione.Per ora la variante non suscita particolari preoccupazioni, considerati i livelli di immunizzazione ormai raggiunti tra la popolazione, ma offre comunque nuovi elementi sulla circolazione del coronavirus in una fase in cui pochissime persone fanno ancora i test e sono state ridotte al minimo le attività di rilevazione delle nuove infezioni da parte delle istituzioni.L’identificazione di BA.2.86 ha qualcosa in comunque con quanto avvenne con la variante Omicron nella seconda metà del 2021. All’epoca quella versione del virus si era fatta notare in alcuni paesi dell’Africa meridionale per avere caratteristiche molto particolari, tali da determinare nei mesi successivi nuove ondate di COVID-19 in buona parte del mondo. Le cose da allora sono però cambiate enormemente grazie all’immunizzazione offerta dai vaccini o a quella naturale (e molto più rischiosa) ottenuta con la malattia: secondo gli esperti è improbabile che BA.2.86 possa causare ondate simili a quelle di Omicron.BA.2.86 è stata legata ad almeno 6 casi in quattro paesi: Regno Unito, Stati Uniti, Israele e Danimarca. Il numero di infezioni dovuto alla variante è sicuramente più alto, ma non essendoci più sistemi di rilevazione paragonabili a quelli di un paio di anno fa è difficile fare stime sull’effettiva diffusione della variante. Anche per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha definita «variante da tenere sotto controllo», in attesa che siano effettuati nuovi studi e analisi sulle sue caratteristiche e sulla sua presenza tra la popolazione.Stando alle prime analisi, comunque, la proteina “spike” di BA.2.86 ha almeno 34 differenze significative rispetto a BA.2, una delle subvarianti di Omicron già nota da tempo. L’ipotesi è che il virus sia mutato in seguito a un caso di COVID-19 durato a lungo, come avvenuto in passato con altre varianti con numerose mutazioni. Le differenze riguardano alcune aree della proteina “spike” cui si collegano gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal nostro organismo per impedire al virus di legarsi alle cellule. C’è quindi la possibilità che la nuova variante riesca a eludere parte delle difese immunitarie maturate con precedenti infezioni o in seguito alla vaccinazione.Per fare valutazioni più accurate sarà necessario raccogliere un maggior numero di campioni da persone infettate da BA.2.86, ma la loro ricerca potrebbe non essere semplice. La maggior parte delle persone ha smesso di fare tamponi e test quando ha sintomi simili a quelli influenzali, di conseguenza è probabile che negli ultimi mesi molte persone abbiano avuto un’infezione da coronavirus senza saperlo, e che magari l’abbiano trasmessa a qualcun altro. Il fatto che la variante sia stata identificata in posti distanti tra loro e con casi all’apparenza non collegati suggerisce inoltre che BA.2.86 sia già particolarmente diffusa.Nonostante qualche titolo allarmato sui giornali, è comunque presto per trarre qualche conclusione o preoccuparsi più di tanto, considerato che BA.2.86 potrebbe fare la fine di diverse altre varianti rilevate nell’ultimo anno, che sono sostanzialmente scomparse nel giro di qualche mese. Nel caso di un’infezione, la maggior parte delle persone dovrebbe comunque sviluppare sintomi molto lievi grazie all’immunità ormai acquisita, ma è bene ricordare che ci sono persone fragili più a rischio di altre, che potrebbero avere complicazioni anche a distanza di quasi quattro anni dall’inizio della pandemia.Per ora in Italia la situazione continua a rimanere sotto controllo. Negli ultimi giorni si è rilevato un minimo aumento dei casi rilevati, dei pochi che ancora si sottopongono ai test, comunque non paragonabile all’aumento dei casi (comunque contenutissimo se paragonato alle ondate dei primi tempi) rilevato tra aprile e maggio. LEGGI TUTTO

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    La maggior parte delle api non è in pericolo, e anzi

    Il MoMA di New York, uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea al mondo, ha recentemente mostrato sul suo profilo Instagram quattro arnie fatte costruire sul tetto dell’edificio «come parte della missione di sostenibilità del MoMA», per «il ruolo essenziale che le api svolgono nel nostro ecosistema». Per l’installazione delle arnie il MoMA aveva contattato a febbraio Andrew Coté, presidente dell’Associazione degli apicoltori di New York, che aveva però rifiutato. La motivazione di Coté era che la popolazione già esistente di api occidentali – uno dei nomi comuni dell’Apis mellifera, la specie di ape più diffusa al mondo – sarebbe responsabile dell’esaurimento delle limitate risorse floreali presenti in città per gli insetti impollinatori.La convinzione che le api stiano diminuendo pericolosamente cominciò a diffondersi nei primi anni Duemila, quando la popolazione di api mellifere si era ridotta fortemente a causa di un anomalo spopolamento degli alveari. Furono fatti molti studi e una lunga serie di iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il cui successo ebbe tra i suoi vari effetti una grande attenzione al tema e una rapida espansione delle attività di apicoltura. Questa espansione è ancora oggi sostenuta in alcuni casi dalla convinzione, ormai infondata, che la popolazione delle api stia diminuendo.Tra il 2011 e il 2021, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), il numero di alveari nel mondo è cresciuto del 26 per cento, passando da 81,4 a 101,6 milioni. Alle ragioni storiche della diffusione delle api occidentali, allevate su larga scala per l’impollinazione oltre che per la produzione del miele e della cera, si intersecano da qualche anno interessi più ampi e di tipo diverso, tra cui il desiderio delle persone e delle aziende di mostrare un segno visibile di particolare sensibilità e attenzione per l’ambiente.L’attuale sovrappopolazione di api occidentali pone tuttavia numerosi rischi per l’ambiente e, nello specifico, per migliaia di altre specie di api e di insetti impollinatori con cui le api occidentali competono per le stesse risorse. E per salvaguardare la biodiversità alcuni apicoltori hanno cominciato a suggerire ai loro clienti interessati all’installazione di arnie nelle proprie strutture – di solito sui tetti degli edifici – di scegliere altri modi di tutelare l’ambiente. Suggeriscono di installare cassette per altri insetti, per esempio, o mettere a dimora piante che incrementino la disponibilità di nettare, cioè la risorsa necessaria per gli impollinatori.– Leggi anche: Sulle Alpi austriache si discute di genetica delle apiCome raccontato dal giornalista David Segal in un recente articolo sul New York Times l’idea che le api siano in pericolo e il desiderio di molti di difenderle allevandole in una o più arnie risalgono storicamente alla semplificazione dei fenomeni, ancora non del tutto spiegati, che determinarono uno spopolamento degli alveari negli anni Duemila.Un apicoltore statunitense, David Hackenberg, notò nel 2006 che in molti dei suoi circa 400 alveari le api erano scomparse. E la stessa cosa fu riferita in seguito da altri apicoltori in altri paesi nel Nord America e in Europa: il fenomeno, definito sindrome dello spopolamento della colonia (Colony Collapse Disorder, CCD), fu oggetto di diversi studi che non riuscirono a chiarirne esattamente le cause. Alcune ricerche attribuirono lo spopolamento all’uso di certi pesticidi, altre ipotizzarono che potesse essere causato da un virus e da un fungo parassita, e altre ancora citarono la scarsità di foraggio disponibile per le api e il cambiamento climatico.Un’ape raccoglie il polline dai fiori di un ciliegio selvatico vicino a Berlino, in Germania, il 25 aprile 2013 (Sean Gallup/Getty Images)Le molte campagne di sensibilizzazione avviate in quel periodo resero il ripopolamento degli alveari un obiettivo noto e largamente condiviso dall’opinione pubblica. Fu in generale la prima volta che un così gran numero di persone si interessò agli insetti impollinatori, ha detto al New York Times Scott Hoffman Black, direttore dell’organizzazione internazionale non profit Xerces Society for Invertebrate Conservation. Ma il rovescio della medaglia fu che nel dibattito andarono perse tutte le sfumature di una questione complessa e condizionata da fattori economici.Negli Stati Uniti per esempio circa un milione di alveari è trasportato ogni anno in paesi come la California, dove le api sono fondamentali per l’impollinazione dei mandorli – un mercato da cinque miliardi di dollari all’anno – e di altri raccolti le cui coltivazioni dipendono da colonie di api numerose e in buona salute. È un’industria estesissima, in parte descritta anche in un recente articolo del New Yorker, e attrezzata per sopperire a una quantità preventivata di perdite stagionali. Una quota compresa tra il dieci e il 20 per cento degli alveari, indipendentemente dalla sindrome dello spopolamento, non sopravvive durante i mesi invernali.Una parte di queste perdite è correlata all’evoluzione stessa delle tecniche e dei mezzi utilizzati per prolungare il rendimento degli alveari, in cui le api regine vengono spesso sostituite prima del tempo con esemplari più giovani, scrive il New Yorker, e in cui parte del miele che potrebbe servire alle api per superare l’inverno viene prelevato prima che abbiano la possibilità di mangiarlo. Nonostante gli alti tassi di mortalità delle api, la progressiva intensificazione degli sforzi per allevarle su larga scala ha fatto sì che ci siano sul pianeta «più api mellifere oggi di quante ce ne siano mai state nella storia dell’umanità», ha detto Black al New York Times.– Leggi anche: È stato approvato il primo vaccino per le apiIl dibattito dell’ultimo decennio ha generato inoltre confusione e superficialità riguardo alle api che hanno bisogno di essere salvate. A parte le api mellifere – l’unico gruppo che alimenta un’industria multimiliardaria e che non ha bisogno di aiuto – esistono oltre 20mila specie di api selvatiche (il nome improprio con cui sono di solito definite le api diverse dall’Apis mellifera). Non producono miele e vivono perlopiù in nidi nel terreno o in cavità nei tronchi d’albero, ma sono indispensabili impollinatori di piante, fiori e colture. Eppure molte di queste specie, le cui popolazioni sono effettivamente in declino, non ricevono le attenzioni delle api mellifere.Un apicoltore controlla le arnie costruite sul tetto del grande magazzino Fortnum & Mason a Londra, nel Regno Unito, il 22 luglio 2008 (Peter Macdiarmid/Getty Images)Nella letteratura scientifica l’ape occidentale è a volte paragonata alle specie invasive e definita una «specie controllata introdotta in modo massiccio» (Massively Introduced Managed Species, o MIMS), la cui popolazione è in aumento in quasi tutti i continenti a scapito di altri impollinatori selvatici. Secondo una ricerca del 2020 la densità delle colonie di api nel bacino del Mediterraneo, che ospita circa 3.300 specie di api selvatiche, è aumentata in modo esponenziale tra il 1963 e il 2017. Ma le api selvatiche sono state gradualmente sostituite dall’Apis mellifera: il rapporto tra api selvatiche e fiori era quattro volte maggiore rispetto a quello tra api mellifere e fiori all’inizio del periodo, e le proporzioni di entrambi i gruppi sono diventate più o meno simili 50 anni dopo.– Ascolta anche: “Vicini e lontani”, un podcast sulle specie alieneIl crescente interesse per la costruzione di arnie sui tetti e le terrazze di edifici commerciali come hotel e B&B negli Stati Uniti e in Europa, ha scritto Segal, asseconda in parte un diffuso desiderio di fare qualcosa di positivo per l’ambiente e riflette un’accresciuta attenzione per le iniziative ecosostenibili. Da questo punto di vista le api mellifere sono uno dei modi più popolari e visibili per attuare questa sorta di «greenwashing apiario», anche in paesi – come la Slovenia, per esempio – in cui esiste per giunta una lunghissima tradizione di apicoltura.Secondo un rapporto del 2020 del Royal Botanic Kew Gardens, l’istituto di ricerca del più grande giardino botanico di Londra, il foraggiamento delle moltissime colonie di api presenti in città rischia di soppiantare altre specie di api. «L’apicoltura per salvare le api potrebbe in realtà avere l’effetto opposto», era scritto nel rapporto. Ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che le api mellifere siano diventate una sorta di trofeo vivente che le aziende desiderano mostrare, ha detto al New York Times Richard Glassborow, presidente dell’Associazione degli apicoltori di Londra.Un’ape selvatica raccoglie il polline da un fiore in un campo vicino a Wernigerode, in Germania, il 18 giugno 2022 (AP Photo/Matthias Schrader)Persone come Coté e Glassborow, ha scritto Segal, si trovano nella particolare condizione di essere appassionati di api da miele in luoghi con troppe api da miele. A fronte dell’interesse per l’installazione di nuove arnie cercano piuttosto di convincere le aziende a costruire cassette per insetti diversi dalle api, per esempio i bombi, o piantare alberi e fiori in modo da aumentare gli approvvigionamenti alimentari per gli insetti impollinatori: inclusi quelli meno considerati e in declino come le falene e le vespe, essenziali per l’impollinazione delle piante selvatiche e di molti raccolti.– Leggi anche: Dovremmo conoscere meglio le vespeIn particolare nelle aree urbane gli alveari sono così diffusi da aver provocato una riduzione anziché un incremento della quantità di miele che riescono a produrre. In Slovenia, secondo dati del governo citati dal New York Times, la produzione di miele è inferiore a quella di 15 anni fa nonostante il numero di alveari nel paese sia più che raddoppiato. E questo succede perché non c’è abbastanza nettare per tutti, secondo l’apicoltore sloveno Matjaz Levicar, e le api mellifere lo usano per alimentarsi anziché trasformarlo in miele. «In Slovenia dobbiamo nutrire le colonie di api mellifere con lo zucchero per la maggior parte dell’anno», ha detto Levicar. LEGGI TUTTO

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    L’ultima grande epidemia di colera in Italia, 50 anni fa

    Il 20 agosto 1973, cinquant’anni fa, una donna inglese morì all’ospedale dei Pellegrini di Napoli: le era stata diagnosticata una enterocolite, un’infiammazione intestinale, ma poi si sarebbe scoperto che era stata la prima persona morta per l’epidemia di colera che interessò la città e poi si estese in altre parti dell’Italia meridionale nelle settimane successive, diventando l’ultima grande epidemia di colera nel paese.Il colera è un’infezione dovuta al batterio Vibrio cholerae che ha come sintomo principale la diarrea, e che nei casi più gravi porta alla morte per disidratazione. Il batterio si trasmette per via orale, diretta o indiretta, se in qualche modo del materiale fecale entra in contatto con degli alimenti (crudi o poco cotti) o con l’acqua che si beve: per questo le epidemie di questa malattia sono legate a problemi dei sistemi fognari e nell’approvvigionamento di acqua potabile. Dato che il batterio del colera può vivere anche nei fiumi e nelle zone costiere, le epidemie possono essere legate al consumo di molluschi.In origine il colera era endemico, cioè periodicamente presente, in India e in Bangladesh. Nel resto del mondo si è diffuso più volte a partire dall’Ottocento, dando origine a sei pandemie che causarono la morte di milioni di persone. La settima iniziò in Asia nel 1961 e arrivò a essere contenuta nel 1975, ma in un certo senso si può considerare ancora in corso perché i ceppi batterici che ne furono responsabili sono tuttora in circolazione: di fatto ha reso la malattia endemica in molti altri paesi. Fu proprio nel corso di questa pandemia che il colera arrivò a Napoli.Un cartello vieta la raccolta di mitili nello specchio di mare antistante il Castel dell’Ovo, a Napoli, il 21 ottobre 1973 (ANSA/ARCHIVIO CARBONE/PRIMA PAGINA)Le prime infezioni note si ebbero nei giorni dopo Ferragosto. Dopo Linda Heyckeey, la donna inglese, morirono il 22 agosto Adele Dolce e, all’ospedale Maresca di Torre del Greco, un comune vicino a Napoli, Rosa Formisano il 26 agosto e Maria Grazia Cozzolino il 27. Fu il primario dell’ospedale di Torre del Greco, Antonio Brancaccio, a ipotizzare che la malattia che aveva causato la morte delle donne potesse essere una forma di colera. Il 29 agosto il Mattino diffuse la notizia dell’epidemia, parlando di cinque morti e cinquanta persone infette ricoverate.Napoli era già stata interessata da grandi epidemie di colera in passato, nel 1837, nel 1884 e nel 1910-11, ma si pensava che in un paese ormai industrializzato non potesse più succedere. In ogni caso già il primo settembre cominciò una campagna vaccinale, che venne portata avanti nei luoghi più diversi, dalle farmacie alle sezioni dei partiti politici, a un palazzetto. In alcuni casi le tante persone radunatesi per farsi vaccinare protestarono contro la lentezza delle procedure e le lunghe attese; ci furono anche tentativi di assalto ai centri di vaccinazione e ai furgoni che trasportavano i vaccini. Nonostante questo moltissime persone furono vaccinate in poco tempo: più di un milione in una settimana.– Leggi anche: Il 1973 fu anche l’anno dell’austerity per la crisi petroliferaLa campagna vaccinale contribuì ad arginare la diffusione del batterio insieme ad altre pratiche igieniche e alla chiusura temporanea di luoghi di socialità. A Napoli l’ultimo caso fu registrato il 19 settembre e già il 12 ottobre l’epidemia poteva considerarsi conclusa nella città. Le morti accertate furono 24, la maggior parte (15) a Napoli; le altre città dove ci furono più infezioni furono Bari (6 morti) e Foggia, in Puglia. È possibile comunque che sia i casi di infezione che i morti siano stati di più.All’epoca la diffusione del colera venne ricondotta all’importazione di cozze dalla Tunisia, dove il colera si era diffuso nel maggio del 1973, e si pensò che i molluschi fossero il principale mezzo di trasmissione del batterio e per questo vennero distrutti gli allevamenti di cozze presenti lungo le coste napoletane. In realtà poi si verificò che nei molluschi non era presente il ceppo responsabile dell’epidemia, che era invece diffuso nelle acque marine (dove ad agosto in molti facevano il bagno) a causa dell’inadeguatezza del sistema fognario di Napoli, che risaliva agli anni Ottanta dell’Ottocento.Un gruppo di vigili del fuoco distrugge delle cozze nel mare di Napoli, il 9 settembre 1973 (AP Photo, LaPresse)Dopo il 1973 non ci furono più estese epidemie di colera in Italia. Nel 1994 a Bari ci fu una ventina di casi, legati a problemi di igiene nel mercato del pesce ed efficacemente curati fin dall’inizio. Quest’estate in due occasioni si è parlato di presunti nuovi casi di colera in Italia: all’inizio di luglio in Sardegna e all’inizio di agosto a Lecce, in Puglia. In entrambi i casi è stato verificato che sebbene nelle feci dei pazienti in questione ci fossero batteri Vibrio cholerae, non erano dei ceppi che causano la malattia.– Leggi anche: Perché Napoli non è Londra, spiegato col colera da Antonio Pascale LEGGI TUTTO

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    La sonda russa Luna-25 si è schiantata sulla Luna

    Caricamento playerLa sonda della missione spaziale russa Luna-25 si è schiantata sulla Luna, dove sarebbe dovuta atterrare per attività di esplorazione e ricerca. Lo ha fatto sapere l’agenzia spaziale russa Roscosmos, dicendo di aver perso il contatto con la sonda sabato. La missione Luna-25 era partita su un razzo Soyuz da Vostochny, nell’estremo est della Russia e non lontano dal confine cinese, l’11 agosto; avrebbe dovuto raggiungere il suolo lunare lunedì. Non si sa cosa abbia causato la «situazione d’emergenza» che ha portato allo schianto. Roscosmos ha detto che farà un’indagine in merito.Luna-25 era la prima missione lunare russa in quasi cinquant’anni: la precedente, Luna-24, fu lanciata nel 1976, quando ancora era in corso la “corsa allo Spazio” tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nominando la nuova missione Luna-25, il governo russo del presidente Vladimir Putin ha voluto sottolineare la continuità con la stagione piuttosto importante dell’esplorazione spaziale sovietica e cercare di dimostrare che la Russia è tornata a essere un paese capace di operare nello Spazio. Oltre agli obiettivi scientifici, la missione aveva anche un evidente valore politico e simbolico, che si è amplificato ulteriormente con l’inizio della guerra in Ucraina.Se tutto fosse andato come da programmi, la sonda avrebbe dovuto raggiungere il suolo lunare sul polo sud del satellite, dove avrebbe prelevato e analizzato campioni di terreno e ghiaccio dal polo sud lunare. Il polo sud lunare è anche l’obiettivo della missione spaziale indiana Chandrayaan-3, partita il 14 luglio: la sua sonda è attualmente in orbita attorno al satellite e dovrebbe cercare di atterrarci nei prossimi tre o quattro giorni.La Russia avrebbe voluto arrivare prima dell’India perché il polo sud lunare è stato poco esplorato e nessuna nave spaziale è mai allunata in questa regione; le missioni finora si sono concentrate nella zona equatoriale. Il polo sud lunare è considerato interessante per la presenza di acqua sotto forma di ghiaccio, che in futuro potrebbe essere sfruttata per il mantenimento di una base con esseri umani. LEGGI TUTTO

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    C’è un grande punto interrogativo nello Spazio

    Caricamento playerIl 26 luglio il sito del James Webb Space Telescope (JWST), il più grande e potente telescopio spaziale mai realizzato, ha diffuso una fotografia di due stelle in formazione che si trovano a 1.470 anni luce di distanza dalla Terra, nella costellazione delle Vele. L’immagine è piuttosto spettacolare come tutte quelle fatte dal JWST, uno strumento sofisticatissimo che ci permette di vedere ammassi di galassie lontane miliardi di anni luce da noi. Varie persone però hanno notato soprattutto un dettaglio secondario rispetto al soggetto della fotografia: una forma luminosa apparentemente a forma di punto interrogativo.La si distingue in basso a destra rispetto alla nebulosa in cui si stanno formando le due stelle, nella versione in alta risoluzione della fotografia. Sui social network l’immagine è stata commentata scherzosamente ipotizzando che l’Universo voglia chiederci qualcosa.Fotografia della coppia di stelle in formazione nella nebulosa Herbig-Haro 46/47 realizzata dal James Webb Space Telescope e diffusa il 26 luglio 2023; l’apparente punto interrogativo è in basso a destra rispetto alla nebulosa (NASA, ESA, CSA, Joseph DePasquale (STScI), Anton M. Koekemoer (STScI))Dettaglio ingrandito della fotografia in cui è indicata la posizione del “punto interrogativo” (NASA, ESA, CSA, Joseph DePasquale (STScI), Anton M. Koekemoer (STScI))Chris Britt, astronomo dello Space Telescope Science Institute, il centro di ricerca che gestisce il JWST, ha spiegato al New York Times che un’altra formazione a forma di punto interrogativo era già stata osservata: è una fusione galattica, cioè due galassie in grande avvicinamento, chiamata II Zwicky 96 e molto più vicina alla Terra. Entrambe le formazioni sono così lontane che è difficile capire meglio come siano fatte e perché sembrino avere questa forma particolare.Anche questo “punto interrogativo” potrebbe essere dovuto alla fusione di due galassie. È una delle ipotesi che lo Space Telescope Science Institute ha menzionato al sito di divulgazione Space.com: «La loro interazione potrebbe aver causato la forma distorta che sembra un punto interrogativo». Matt Caplan, professore di fisica della Illinois State University, ha detto al sito che la parte superiore del punto interrogativo potrebbe essere una parte di una galassia più grande modificata dalla fusione.Sappiamo in ogni caso che si tratta di qualcosa di molto distante per via del suo colore rossastro, e potrebbe essere la prima volta che viene osservato. È così per molti oggetti spaziali fotografati dal JWST, che ha una risoluzione molto maggiore di quella di Hubble, il precedente più grande telescopio spaziale costruito dall’umanità. Il nuovo telescopio, realizzato dalla NASA, l’agenzia spaziale statunitense, insieme all’Agenzia spaziale europea (ESA) e a quella canadese (CSA) e lanciato nello Spazio alla fine del 2021, è in grado di vedere galassie distanti anche più di 13 miliardi di anni luce, cioè che esistevano solo 450 milioni di anni dopo il Big Bang.Dennis Overbye, il giornalista scientifico autore dell’articolo del New York Times, ha osservato che se si accettano le regole della meccanica quantistica «bisogna accettare che il caso fa parte della fondamentale realtà delle cose»: nell’enormità dell’Universo è possibile che si veda qualcosa con una forma che su questo pianeta ha un significato.– Leggi anche: Il significato del punto LEGGI TUTTO

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    Ötzi aveva la pelle più scura di quanto credessimo 

    Un gruppo di ricerca internazionale ha analizzato più approfonditamente il DNA di Ötzi, l’uomo vissuto oltre 5.300 anni fa i cui resti furono trovati nel 1991 sulle Alpi tra l’Italia e l’Austria. Le analisi hanno permesso di ricostruire in modo più accurato il genoma di Ötzi, che è la più antica mummia umana naturale mai trovata in Europa, e alcune sue caratteristiche fisiche: principalmente il fatto che avesse la pelle più scura di quanto si pensasse in base a precedenti studi meno approfonditi e che verosimilmente avesse sviluppato una calvizie più o meno pronunciata.Lo studio ha anche ricostruito che Ötzi – così chiamato dal nome austriaco della regione dove fu trovato, Ötztal – discendesse soprattutto da popolazioni agricole dell’Anatolia, più o meno nell’odierna Turchia. Sono informazioni importanti, che aggiungono nuovi elementi non solo alle conoscenze su Ötzi ma anche a quelle sulle origini delle persone europee, di cui contribuiscono a sfatare alcuni pregiudizi ancora esistenti su una presunta “purezza” delle popolazioni europee, associata a una serie di caratteristiche fisiche a partire dalla pelle chiara.L’analisi dei geni responsabili del colore della pelle della mummia dice che la sua pelle conteneva molta più melanina di quanto si pensasse, e che era mediamente più scura delle tonalità di pelle più scure oggi presenti in Europa. Per farsi un’idea più precisa Johannes Krause, genetista dell’Istituto Max Planck (Germania), uno degli enti di ricerca che hanno partecipato allo studio, ha spiegato: «Direi che basti guardare la mummia. Probabilmente rappresenta il colore della pelle di Ötzi piuttosto bene. È relativamente scura, anche più scura dei più scuri toni di pelle comuni nel sud dell’Europa odierno, ad esempio in Sicilia e in Andalusia. Non scura come quella delle persone originarie delle regioni a sud del Sahara».La scoperta spiega peraltro proprio l’attuale colore della mummia, che in passato si supponeva fosse legato al processo di mummificazione ma non era mai stato veramente spiegato. Rende inoltre imprecisa l’attuale ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano dove la mummia è conservata: tale ricostruzione è la seconda che sia mai stata fatta ed era stata realizzata dopo le prime analisi genetiche, poco più di dieci anni fa. In realtà da vivo Ötzi aveva la pelle più scura e probabilmente non molti capelli, dato che i suoi geni indicano una predisposizione per la calvizie e all’epoca della morte aveva circa 45 anni. Quest’ultimo dettaglio contribuirebbe a spiegare perché non furono trovati molti capelli attaccati alla mummia.La ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano (ANSA / UFFICIO STAMPA MUSEO ARCHEOLOGICO DI BOLZANO)Il ritrovamento di Ötzi (o “Uomo del ghiaccio”, come è anche chiamato) nel 1991 fu un evento straordinario per la gran quantità di informazioni che sono state ottenute studiandolo. Si stima che Ötzi sia vissuto tra il 3350 e il 3120 avanti Cristo. Secondo le ricostruzioni sarebbe morto colpito alla schiena da una freccia: il suo corpo rimase congelato nel ghiaccio, che contribuì alla sua conservazione. Fu trovato da alcuni escursionisti: aveva ancora addosso alcuni indumenti, oltre a un’ascia e un arco.Nel 2012 furono pubblicati i risultati del primo sequenziamento del genoma della mummia: secondo quelle analisi Ötzi aveva la pelle chiara, gli occhi marroni (in precedenza si riteneva che fossero azzurri) e ascendenze steppiche (aveva cioè antenati provenienti dall’Europa orientale e Asia centrale). Quest’ultimo dato era considerato abbastanza sorprendente: le ascendenze steppiche sono piuttosto comuni tra le odierne popolazioni dell’Europa meridionale, ma secondo le conoscenze attuali gli umani appartenenti a questa componente ancestrale comparvero in Europa ben dopo la morte di Ötzi.A sinistra la prima ricostruzione del volto di Ötzi, a destra la seconda: nessuna delle due mostra quello che era il vero colore della pelle di Ötzi (ANSA / ANDREE KAISER – NATIONAL GEOGRAPHIC)Le analisi appena pubblicate sono state svolte con tecnologie di sequenziamento più sofisticate, accurate e approfondite rispetto a quelle disponibili nel 2012, a partire dal DNA estratto dall’osso dell’anca di Ötzi: lo studio, accessibile e leggibile a questo link, è stato pubblicato sulla rivista Cell Genomics. Vi ha partecipato anche l’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research di Bolzano.Secondo lo studio, contrariamente a quanto si era pensato finora, nel DNA di Ötzi non ci sono tracce di ascendenze steppiche e il 92 per cento della sua ascendenza genetica è associato a quello di antiche popolazioni dell’Anatolia, probabilmente migrate verso il nord dell’Europa attraverso la penisola balcanica, che praticavano l’agricoltura.Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research, ha detto che lo studio potrebbe contribuire a decostruire l’erronea credenza di una qualche “purezza” della popolazione europea: «Sono proprio studi come questi che dimostrano che i nostri antenati sono tutti migrati in un momento o nell’altro, che siamo tutti un grande miscuglio genetico», ha detto.– Leggi anche: Ci sono altre mummie preistoriche come Ötzi sulle montagne? LEGGI TUTTO