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    Le cose sorprendenti che potremo fare col nervo vago

    Caricamento playerDa circa un anno un gruppo di ricerca negli Stati Uniti è al lavoro su una delle più articolate e complesse strutture nervose del nostro organismo, che si sta rivelando molto più importante e versatile di quanto si ritenesse un tempo: il nervo vago. È un canale di comunicazione fondamentale tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali. Contribuisce al controllo di processi involontari come la respirazione, il battito cardiaco, la digestione e ha un ruolo centrale nella regolazione di alcune attività del sistema immunitario. Sappiamo che svolge tutte queste funzioni, ma non sappiamo di preciso come; inoltre, si sospetta che ci possano essere altre sue attività che ancora sfuggono alle nostre conoscenze e che potrebbero rivelarsi molto utili nel trattare alcune malattie. Ed è per questo che lo studio delle sue strutture più intime è così importante.Una delle ricerche più promettenti è svolta appunto negli Stati Uniti, più precisamente a Manhasset, a quaranta minuti di automobile da Manhattan, nello stato di New York. Pizzicata tra due campi di golf c’è la sede dei Feinstein Institutes for Medical Research, un centro di ricerca con una cinquantina di laboratori che nell’autunno dello scorso anno ha ricevuto 6,7 milioni di dollari dal governo statunitense per realizzare la «prima mappa anatomica del nervo vago», attraverso un progetto estremamente ambizioso e complesso che nei programmi dei suoi responsabili si dovrà concludere entro il 2025.Il progetto Reconstructing Vagal Anatomy (REVA, letteralmente “Ricostruire l’anatomia vagale”) prevede di catalogare e mappare le 160mila fibre nervose che si stima costituiscano il nervo vago e tutte le sue principali diramazioni. Il lavoro di ricerca è un’attività delicata e laboriosa che inizia con l’asportazione da un cadavere del nervo, avendo cura di non danneggiarne i filamenti che nelle sue parti terminali possono essere sottili all’incirca quanto un capello. Ogni terminazione deve essere inoltre catalogata in base all’organo e ai tessuti cellulari cui è collegata.Il gruppo di ricerca divide poi in segmenti il nervo e lo inserisce in una particolare cera. Si ottiene in questo modo un blocchetto che viene poi affettato, un po’ come si fa con un’affettatrice in salumeria, per produrre sezioni sottilissime da analizzare al microscopio. L’impiego di reagenti consente di fare assumere alle fibre nervose colorazioni differenti in base alle loro caratteristiche, facilitando in questo modo le analisi. In un certo senso il processo ricorda dal vero ciò che avviene con una TAC o una risonanza magnetica, esami di diagnostica per immagini che mostrano parti del corpo come se venissero appunto affettate, in modo da vedere come cambiano i loro tessuti.Visited the Feinstein Institutes for Medical Research @NorthwellHealth today and got to chat with @StavrosZanos about his team’s vagus nerve research. Here is a tiny section of the vagus nerve (in wax)!! pic.twitter.com/Nw4daVfJTH— Grace Wade (@grace_wade_) May 22, 2023I nervi sono formati da fasci di conduttori di impulsi (gli “assoni”) provenienti da uno o più neuroni e hanno la funzione di trasportare le informazioni da e verso il sistema nervoso centrale (i cui principali componenti sono il cervello e il midollo spinale). Se i vasi sanguigni sono le tubazioni dell’acquedotto, i nervi sono i cavi che fanno funzionare Internet: la loro presenza è fondamentale per far funzionare i muscoli, per percepire tutto ciò che abbiamo intorno e per molte altre attività. A seconda della loro funzione, i nervi appaiono in modo diverso ed è proprio grazie a queste differenze che chi lavora al REVA può mappare il nervo vago. Per esempio, le fibre nervose con uno strato più spesso di mielina, una sostanza che fa da isolante, sono di solito coinvolte nella trasmissione degli impulsi per controllare i muscoli dove non devono esserci dispersioni dei segnali.Evitare che alcuni tipi di impulsi si perdano per strada è importante nel caso del nervo vago, considerato il lungo e intricato percorso che compie all’interno del nostro organismo (e che probabilmente gli è valso il nome “vago” dalla parola latina “vagus” che significa vagabondo, nomade). Ha origine nel tronco encefalico, alla base del cervello, fuoriesce dal cranio e prosegue nel collo per addentrarsi poi nel torace e nell’addome. In realtà ci sono due nervi vaghi: uno scende lungo il collo a sinistra e l’altro a destra, con vari punti di contatto specialmente nella parte finale del loro decorso.Rappresentazione schematica del decorso del nervo vago dalla base del cervello fino all’addome (Northwell Health)Il medico dell’antichità Galeno fu tra i primi a dedicare qualche attenzione al nervo vago. Sezionando alcuni maiali vivi si era accorto che tagliando il nervo della laringe (una diramazione del vago) il maiale perdeva la capacità di stridere, perché non aveva più il controllo sulle proprie corde vocali. Ci sarebbero voluti secoli prima di comprendere meglio i meccanismi dietro al funzionamento del sistema nervoso, le cui fibre sono spesso minuscole e difficili da isolare dal resto dell’organismo. Fu ricostruito il percorso compiuto dal vago e vari trattati iniziarono a ipotizzarne l’importanza, visto che dal cervello si spingeva oltre lo stomaco.Con i progressi della scienza medica nel Novecento il vago tornò al centro dell’attenzione di alcuni gruppi di ricerca interessati a verificare le sue potenzialità come sistema per trattare alcune condizioni, legate per esempio agli spasmi muscolari dovuti alle malattie come l’epilessia. Alla fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti fu per esempio sviluppato un dispositivo che riduceva gli spasmi applicando una bassa tensione elettrica al vago. Le ricerche nel settore portarono una decina di anni dopo all’approvazione da parte delle autorità sanitarie dei primi dispositivi per controllare alcune forme di epilessia che non rispondono ai farmaci solitamente impiegati per limitarne gli effetti.Lo sviluppo delle nuove tecniche di diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica, permise di individuare meglio l’intricata serie di diramazioni del vago, inducendo una certa creatività nella ricerca. Considerato che innerva lo stomaco, ci si chiese se fosse possibile intervenire sui segnali che il vago invia dallo stomaco, che insieme ad altri meccanismi consentono di percepire il senso di sazietà e pienezza che ci spingono a smettere di mangiare. Nelle persone con forme gravi di obesità, questo sistema sembra non funzionare a dovere e per questo si ritiene che modularne i segnali possa avere esiti positivi nel trattamento dell’obesità.Ci sono dispositivi che, come nel caso di quelli contro l’epilessia, producono piccoli impulsi elettrici per modulare diversamente i segnali nervosi dallo stomaco. La loro utilità è ancora dibattuta: secondo alcuni studi, a parità di tempo le persone che lo utilizzano riescono a perdere più peso rispetto a chi non lo impiega, ma ottenere dati affidabili è difficile a causa della grande quantità di variabili che dipendono da come è fatta ciascuna persona e dalle abitudini che ha.Test e sperimentazioni con dispositivi per stimolare il vago proseguono ancora oggi e in molti ambiti, proprio per via della grande quantità di funzioni svolte da questa struttura nervosa. Sono stati sviluppati dispositivi per provare a regolare la pressione sanguigna, che potrebbero un giorno sostituire i farmaci per tenerla sotto controllo specialmente tra le persone ipertese, così come ce ne sono per provare a ridurre gli effetti di alcuni tipi di ictus sulla parte superiore del corpo.Negli ultimi trent’anni sono inoltre emerse altre funzioni del vago che non tendiamo ad associare comunemente ai nervi, come la capacità di intervenire suoi processi infiammatori. Tra i pionieri delle ricerche in questo settore c’è il neurochirurgo Kevin Tracey. Insieme al proprio gruppo di ricerca negli anni Novanta ha lavorato a un nuovo farmaco per ridurre la produzione delle citochine, cioè le proteine che stimolano il sistema immunitario a contrastare le infezioni. In condizioni normali il meccanismo induce un’infiammazione che rende i tessuti cellulari inospitali alla proliferazione di virus e batteri, ma in alcuni casi la produzione di citochine finisce fuori controllo portando a una reazione immunitaria che può causare seri danni anche ai tessuti non infetti. È la cosiddetta “tempesta di citochine” di cui si era parlato molto nei primi tempi della pandemia da coronavirus, quando il sistema immunitario di alcune persone finiva fuori controllo nel tentativo di eliminare l’infezione virale.Tracey e colleghi avevano sperimentato il loro farmaco iniettandolo nel cervello di alcuni ratti con importanti infezioni batteriche cerebrali. Dopo la somministrazione l’infiammazione si riduceva sensibilmente, ma Tracey aveva notato che l’effetto non era limitato al cervello, ma anche al resto dell’organismo dei ratti. Era un risultato insolito considerato che il cervello è isolato e protetto dal resto dell’organismo proprio per evitare pericolose infezioni. Il gruppo di ricerca trascorse mesi a chiedersi come potesse essere possibile, infine provò a recidere il nervo vago di uno dei ratti e notò che l’effetto antinfiammatorio non era più riscontrabile. Tracey ha raccontato di recente alla rivista New Scientist di avere reagito con una certa sorpresa alla scoperta: «Gli scienziati non dicono più “eureka”, adesso dicono “porca miseria”, e fu quello che dicemmo».Il processo non è ancora compreso nella sua interezza e le caratteristiche del “riflesso infiammatorio”, come lo chiama Tracey, sono ancora dibattute. La presenza delle citochine nell’organismo viene rilevata da alcune terminazioni nervose e segnalata al cervello, che tramite il vago invia i segnali per modulare la presenza di quelle proteine. È stato riscontrato che un aumento nell’attività di segnalazione del vago può ridurre i livelli di infiammazione e ridurre il rischio di danni agli organi o in generale ai tessuti cellulari, come avviene nel caso di alcune malattie croniche.Le ricerche in questo ambito hanno aperto la possibilità di sviluppare dispositivi per provare a interrompere i processi infiammatori senza ricorrere ai farmaci. Tracey sviluppò un primo prototipo nel 2012 che fu impiegato in una sperimentazione con un piccolo gruppo di persone affette da artrite reumatoide, una malattia che causa una costante infiammazione delle articolazioni portando a dolore e deformazioni, che possono essere debilitanti. Tra le persone con il dispositivo, il 70 per cento segnalò una riduzione di circa un quinto dei sintomi, mentre più in generale circa la metà disse di avere riscontrato un miglioramento. Attualmente è in corso una sperimentazione clinica che coinvolge 250 persone per valutare con più accuratezza gli effetti del dispositivo, in vista di una sua eventuale autorizzazione nei prossimi anni a partire dagli Stati Uniti, dove viene svolto lo studio.Tracey ha detto a New Scientist che intervenire direttamente sul vago non ha solo il beneficio di ridurre l’assunzione di farmaci antinfiammatori che possono avere vari effetti avversi, specialmente nel caso di un loro impiego prolungato. A differenza di alcuni farmaci, la stimolazione del nervo rende possibile il mantenimento di quote minime di citochine, sufficienti per non disattivare alcune funzioni molto importanti del sistema immunitario.Elaborazione grafica di un impianto per stimolare il nervo vago (RESETRA)Approcci analoghi a quelli sviluppati da Tracey potrebbero rendere possibile il trattamento di varie condizioni legate alle infiammazioni croniche, ma secondo gli esperti potranno mostrare a pieno le loro potenzialità solo quando sarà risolto un problema non di poco conto. A oggi non sappiamo come reagisca di preciso il nervo vago alle stimolazioni e quali processi si inneschino nel resto dell’organismo: sappiamo solo che si ottengono alcuni risultati. Gli stimolatori sono diversi tra loro, alcuni agiscono attraverso la pelle, altri andando più in profondità, e non è chiaro se attivino solamente i distretti del vago nelle loro vicinanze o anche a grande distanza. Queste difficoltà si riflettono anche nella difficile identificazione di eventuali effetti avversi da ricondurre alla stimolazione.La mappatura del nervo vago in corso ai Feinstein Institutes for Medical Research potrebbe aiutare a risolvere il mistero, per esempio individuando con maggiore precisione il ruolo di specifiche fibre nervose, in modo da rendere più precisa l’applicazione degli elettrodi e degli impulsi. Le possibilità di miniaturizzazione dei microchip stanno infatti rendendo possibili innesti di alta precisione, come dimostrato in recenti esperienze svolte su alcune aree del cervello. La semplice identificazione delle fibre non sarà comunque risolutiva, almeno fino a quando non sarà anche chiarito il ruolo di ciascuna in processi che coinvolgono il sistema nervoso, altri organi e naturalmente il cervello. LEGGI TUTTO

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    Bisogna credere di più ai narcolettici

    A Massimo Zenti hanno affibbiato molti nomignoli. È stato lo scansafatiche, il pigro, a scuola finiva sempre nella categoria è-intelligente-ma-non-si-applica, molte persone lo consideravano depresso, altre sotto effetto di sostanze stupefacenti. In realtà Zenti era semplicemente narcolettico ma nessuno lo sapeva, né lui né le persone che gli stavano attorno. Malgrado si sforzasse di avere una vita sociale normale la sua reputazione era segnata dalla costante e irrefrenabile necessità di farsi una dormita, anche nei posti e nei momenti meno opportuni. A 21 anni, dopo l’ennesimo ciclo di visite ed esami, uno specialista dei disturbi del sonno lo chiamò per comunicargli la diagnosi. «Mi disse che doveva darmi una brutta notizia, cioè che avevo la narcolessia. Fu uno dei giorni più belli della mia vita. Finalmente scoprii che non era colpa mia».La narcolessia è una malattia neurologica, ovvero causata da una disfunzione del sistema nervoso centrale. Il sintomo principale e più conosciuto è l’eccessiva sonnolenza diurna. Spesso le persone narcolettiche si addormentano in momenti di inattività e dormono più volte al giorno per poco tempo, tra dieci minuti e un quarto d’ora. Dopo qualche ora, o anche meno, si ripresenta la necessità di fare un nuovo sonnellino e non possono farne a meno. Secondo diverse persone che ne soffrono, la sensazione che si prova è quella di voler restare svegli dopo non aver dormito per 24 consecutive.Da decenni scienziati e medici di molti paesi studiano la narcolessia per indagarne le cause e trovare una terapia per alleviare i sintomi o ancora meglio una cura. Le conseguenze di questa malattia sono debilitanti per il fisico, ma quelle che incidono di più per chi ne soffre riguardano la vita sociale e le relazioni.Da presidente dell’associazione nazionale narcolettici, Zenti ha ricevuto centinaia di confidenze che gli hanno ricordato la sua esperienza. «Hai una perenne sensazione di colpevolezza, di non fare abbastanza», dice. «Si finisce presto in un vortice di negatività. Ci si rende conto di essere malati, ma non si capisce mai bene qual è il confine tra la malattia e la mancanza di volontà. E in pochi ti capiscono o ti credono».I dati dicono che 4 persone ogni 10mila hanno la narcolessia, ma molte persone sono malate senza saperlo. In Occidente servono in media circa dieci anni per avere una diagnosi corretta, e molto spesso le persone che ne soffrono riescono a prenderne coscienza dopo aver vissuto quasi tutta la loro vita segnata da esperienze per certi versi inspiegabili. C’è un umorismo scontato anche se un po’ crudele nelle storie delle persone che si addormentano in posti dove non dovrebbero dormire: sui banchi di scuola, sulla scrivania al lavoro, a una festa, dal dentista, allo stadio, in autobus per poi svegliarsi straniti al capolinea. Ma la narcolessia non è divertente.Zenti ricorda in particolare le discussioni con gli insegnanti e con la madre. Il suo percorso scolastico è stato disastroso perché dormiva in classe. Si era imposto di frequentare gli amici e nelle uscite serali concentrava tutte le sue forze. «Provavo a giustificarmi, però a forza di dirmi che ero pigro mi ero convinto di esserlo per davvero», dice. Uno dei tanti medici che lo visitarono disse alla madre che forse il figlio assumeva qualche sostanza stupefacente con effetti rilassanti. «Mi portarono a fare il test tossicologico del capello, e non ci fu modo di spiegare che non prendevo nulla fino a quando il test fu negativo».Quando iniziò a lavorare come addetto alla documentazione di una compagnia aerea trovò uno stratagemma che sapeva essere insostenibile, addormentarsi al bagno. «Funzionò per tre mesi, al quarto mi lasciarono a casa con la classica frase “questo lavoro non fa per te”». A 21 anni finalmente riuscì a ottenere la diagnosi dopo una serie di esami al centro narcolessia e disturbi del sonno dell’istituto di scienze neurologiche di Bologna, il più importante in Italia. Qui è stata fatta la maggior parte delle diagnosi ai circa duemila malati italiani, un numero sicuramente sottostimato rispetto alla realtà.Giuseppe Plazzi, il direttore del centro narcolessia e disturbi del sonno, si occupa di narcolessia da molti anni. Ormai gli bastano pochi minuti per individuare alcuni segnali indicativi della possibile malattia. Oltre all’eccessiva sonnolenza diurna, un altro sintomo tipico e abbastanza bizzarro è la cataplessia: è un improvviso e breve episodio di debolezza muscolare accusato provando emozioni come il riso, la sorpresa, la rabbia. Capita anche durante l’orgasmo. La cataplessia può coinvolgere improvvisamente tutti i muscoli e causare una caduta senza perdita di conoscenza, oppure iniziare dal viso e scendere man mano fino alle ginocchia.Un altro sintomo della narcolessia sono le allucinazioni ipnagogiche, esperienze spaventose che precedono il sonno o percepite durante una fase di sonnolenza. Compaiono ombre, figure, animali e false percezioni di ogni tipo, difficili da distinguere dalla realtà soprattutto prima della diagnosi. L’esperienza è ancora più terrificante se l’allucinazione è associata all’impossibilità di muoversi, fuggire o difendersi da quello che sta accadendo.Un’altra cosa sorprendente è che le persone narcolettiche sognano non appena chiudono gli occhi e non solo, anche quando li socchiudono. È come se il sogno travalicasse la linea raggiungendo la veglia, e rendendo difficile distinguere i sogni dalla realtà.– Leggi anche: 9 cose strane che succedono mentre dormiamoMolti di coloro che faticano a dormire la notte potrebbero pensare che dormire un sacco sia una fortuna, in realtà i sintomi diurni della narcolessia si riflettono anche sulle ore notturne in cui il sonno non è mai continuo ed è spesso attraversato da incubi. Sia il continuo sognare che i ripetuti riposini sono un segno evidente dell’incapacità del cervello umano di controllare il ritmo tra il sonno e la veglia. «Oltre a condizionare le relazioni e la socialità, questi sintomi portano a un rischio molto serio di incidenti domestici e sul lavoro», dice Plazzi.Nonostante sia stata descritta già nel 1880 dal medico francese Jean-Baptiste-Édouard Gélineau, la narcolessia e i suoi misteri continuano ancora oggi ad affascinare gli studiosi del cervello e del sonno. Negli anni Cinquanta del Novecento la scoperta delle fasi del sonno – un’alternanza tra fase REM, movimenti oculari rapidi (rapid eye movements), e fase non REM – consentì di descrivere in modo accurato il sonno notturno con risvolti notevoli sulla ricerca delle cause della narcolessia e di altri disturbi.Tra gli anni Ottanta e Novanta furono allestiti in molti paesi laboratori e stanze insonorizzate per proteggere le osservazioni del sonno di persone sane e pazienti. Gli esami venivano fatti con elettroencefalografi sofisticati per misurare diversi parametri: l’attività respiratoria, quella muscolare, la temperatura, l’attività cardiaca, la pressione arteriosa. Nacque la polisonnografia, un esame utilizzato ancora oggi per diagnosticare i disturbi del sonno.– Leggi anche: Perché mentre ci addormentiamo abbiamo degli scattiLa scoperta più importante in questo campo risale al Duemila. Emmanuel Mignot della Stanford University scoprì che il cervello dei pazienti narcolettici non aveva le cellule adibite alla produzione dell’orexina (conosciuta anche come ipocretina o oressina), una proteina, anzi più propriamente un peptide, che regola il sonno e la veglia.Per molti anni Mignot studiò le origini della narcolessia indagando il DNA dei cani, tra cui quello di Watson, il suo cane narcolettico. Nelle fasi più avanzate della sua ricerca, prelevando il fluido spinale da pazienti narcolettici, Mignot scoprì che i cani hanno l’orexina ma non i recettori per attivare la risposte chimiche indispensabili per regolare il sonno, mentre nelle persone ci sono i recettori, ma manca l’orexina che non viene proprio prodotta.Negli ultimi anni questa scoperta ha permesso ai centri di ricerca e all’industria farmacologica di sperimentare terapie più efficaci contro i sintomi della malattia. Assumere l’orexina non basta, perché questa proteina se assunta e non prodotta dal corpo non riesce a superare la barriera emato-encefalica, cioè la struttura che regola il passaggio di sostanze chimiche da e verso il cervello, proteggendo il sistema nervoso da infezioni. Per risolvere questo problema negli ultimi anni sono state create e sperimentate diverse molecole sintetiche che imitano il comportamento dell’orexina.L’istituto di scienze neurologiche di Bologna ha partecipato a uno studio sperimentale in collaborazione con altri centri di ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine. Lo studio è stato interrotto prematuramente perché sono emersi effetti collaterali al fegato in alcuni pazienti coinvolti, ma i dati raccolti dicono che la nuova molecola elimina tutti i sintomi della narcolessia. «Sono risultati molto promettenti, sappiamo che c’è un modo per cambiare la vita a migliaia di persone», dice Plazzi. «Ne beneficeranno molti altri pazienti di altri disturbi e malattie del sonno».Finora contro i sintomi della narcolessia erano stati utilizzati due tipi di farmaci: Stimolanti molto simili alle anfetamine per far stare svegli, sedativi per dormire di notte o antidepressivi per inibire la fase del sonno REM. Zenti sta partecipando a una sperimentazione. «Per me ora la narcolessia è un ricordo. Non ho sonnolenza e dormo regolarmente». Molti altri pazienti in Italia che non hanno avuto accesso alle cure sperimentali invece sono alle prese con la carenza del farmaco più utilizzato per dormire di notte. I farmacisti dicono che bisogna aspettare almeno fino a novembre per le nuove forniture. «Mi chiamano da molte regioni italiane, non sanno che fare», conclude Zenti. «Purtroppo essendo una malattia rara non gliene frega niente a nessuno, è complicato trovare una soluzione». LEGGI TUTTO

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    L’astronauta Frank Rubio è tornato sulla Terra dopo 371 giorni consecutivi nello Spazio, più di ogni altro astronauta statunitense

    L’astronauta Frank Rubio è ritornato sulla Terra dopo 371 giorni: è la più lunga permanenza consecutiva nello Spazio di un astronauta statunitense. Inizialmente la sua missione doveva durare circa 6 mesi, ma la durata è stata raddoppiata dopo che il veicolo che doveva portare lui e altri due cosmonauti russi a terra era stato danneggiato da un asteroide o da un pezzo di spazzatura spaziale. Il veicolo aveva dovuto tornare a terra vuoto, e gli astronauti avevano dovuto aspettare altri sei mesi per l’invio di un nuovo sistema di trasporto e la possibilità di tornare sulla Terra.Prima di Rubio, il record statunitense per la permanenza nello Spazio più lunga era di Mark Vande Hei, che era stato nello Spazio per 355 giorni, fra il 2021 e il 2022. Il record mondiale è però detenuto da un cosmonauta russo, Valeri Polyakov, che rimase nello Spazio per 437 giorni, fra il 1994 e il 1995, a bordo della stazione spaziale russa Mir.Con Rubio sono tornati a terra anche i cosmonauti russi Sergey Prokopyev e Dmitri Petelin. Tutti e tre si trovavano a bordo della Stazione spaziale internazionale. Sono atterrati in Kazakistan e hanno usato il sistema di trasporto russo Soyuz, come avviene di frequente per i viaggi di andata e ritorno dalla Stazione spaziale internazionale.– Leggi anche: Qui dentro ci sono pezzi di un asteroide L’astronauta statunitense Frank Rubio (Ivan Timoshenko, Roscosmos space corporation via AP) LEGGI TUTTO

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    Perché scrivere molte volte una parola può renderla strana

    Il déjà vu, che in francese significa “già visto” e descrive la sensazione ingannevole di aver già vissuto un’esperienza in realtà mai vissuta prima, è uno dei fenomeni più studiati nelle moderne scienze cognitive, tra quelli già descritti oltre un secolo fa da autori famosi e influenti come il filosofo francese Henri Bergson e il neurologo austriaco e fondatore della psicanalisi Sigmund Freud. In tempi recenti alcuni dei ricercatori che da diversi anni analizzano e riproducono in laboratorio l’esperienza del déjà vu hanno ampliato le conoscenze su un fenomeno opposto, in un certo senso, oltre che più raro e meno studiato: il jamais vu (in francese, “mai visto”).Se il déjà vu è definito come un’impressione illusoria di familiarità di un’esperienza presente in rapporto a un passato indefinito, il jamais vu è un’impressione illusoria di estraniazione di un’esperienza presente rispetto a un passato in cui quell’esperienza si è già certamente verificata altre volte. Il jamais vu, in altre parole, si verifica quando una qualsiasi situazione che dovrebbe essere estremamente familiare non viene riconosciuta come tale dall’osservatore. Implica spesso un senso di disagio e inquietudine, perché l’impressione di trovarsi in una certa situazione per la prima volta coesiste con la consapevolezza che non sia la prima volta.Un’esperienza di jamais vu nella vita quotidiana, spesso riportata dalle persone coinvolte negli studi su questo fenomeno, è scrivere a mano più volte una stessa parola, correttamente, al punto da soffermarsi poi su quella parola con l’impressione che ci sia qualcosa di sbagliato o di anomalo nel modo in cui è scritta. Un’altra è ripetere a voce una parola più e più volte, e avere a un certo punto l’impressione che quella parola sia un suono privo di significato.Situazioni di questo tipo furono ricreate in laboratorio da un gruppo di psicologi e neuroscienziati dell’Università di Grenoble in Francia, di Helsinki in Finlandia e di St. Andrews in Scozia per un esperimento sull’«alienazione delle parole e la sazietà semantica», condotto su 94 studenti di psicologia della University of Leeds. I risultati furono pubblicati nel 2020 in una ricerca recentemente premiata con l’Ig Nobel, i premi attribuiti ogni anno alle ricerche più bizzarre e insolite.– Leggi anche: L’importanza delle ricerche scientifiche strambeIl primo esperimento della ricerca prevedeva che i partecipanti trascorressero del tempo scrivendo ripetutamente una stessa parola. Come possibile stimolo del jamais vu furono scelte dodici parole, alcune molto comuni come door, money e room, e altre meno come ting (“tintinnio”) e ague (“febbre malarica”). I ricercatori chiesero a ciascun partecipante di scrivere a mano una parola più volte il più velocemente possibile, e strutturarono l’esperimento in modo che i partecipanti potessero smettere di scrivere nel momento in cui fossero sopraggiunti o male alla mano, o noia o un senso di estraniazione.Il senso di estraniazione fu la ragione più frequente per cui i partecipanti, circa il 70 per cento, decidevano di smettere di scrivere. E si verificava di solito per parole familiari e dopo circa un minuto, cioè dopo aver scritto la stessa parola mediamente 33 volte. La stessa sensazione fu riportata dal 55 per cento dei partecipanti ma in un tempo ancora più breve – in media dopo aver scritto la stessa parola 27 volte – anche in un secondo esperimento, per cui fu utilizzata come parola soltanto l’articolo the, scelta dai ricercatori in quanto una tra le più comuni in assoluto nella lingua inglese.I ricercatori trovarono le descrizioni dei partecipanti riguardo all’esperienza da loro provata pienamente compatibili con la caratteristiche del jamais vu: la non familiarità e la dissociazione delle parole dal loro significato. Alcuni dissero che più osservavano le parole, più le parole sembravano strane e prive di significato. «Sembrano soltanto serie di lettere invece che parole intere», disse uno dei partecipanti. «Sembra quasi che non sia nemmeno una parola, ma che qualcuno mi abbia ingannato facendomi credere che lo sia», disse un altro. La maggior parte di loro disse inoltre di aver provato un’esperienza del genere altre volte in passato, in contesti quotidiani e non sperimentali.Come hanno scritto su The Conversation due coautori della ricerca, il neuropsicologo inglese Chris Moulin e il neuroscienziato cognitivo inglese Akira O’Connor, il metodo da loro seguito – chiedere di scrivere ripetutamente una parola – non è una novità nella ricerca scientifica nel campo della psicologia. Nel 1907 la psicologa statunitense Margaret Floy Washburn, una delle più influenti del XX secolo, pubblicò i risultati di un esperimento simile condotto sui suoi studenti, da cui emerse una «perdita del potere associativo» delle parole quando gli studenti fissavano le parole per tre minuti.Sul piano teorico il jamais vu condivide inoltre alcune caratteristiche con un concetto reso noto nel 1919 da Freud, il «perturbante» (Unheimliche), poi diventato una delle più importanti categorie filosofiche ed estetiche del Novecento. Freud definì perturbante il sentimento che si prova quando qualcosa di massimamente familiare diventa nella percezione soggettiva il contrario di sé: qualcosa che turba, familiare e allo stesso tempo per niente familiare. E l’effetto perturbante, scrisse Freud, può scaturire in particolare dalle situazioni in cui uno stesso fatto, gesto o fenomeno si ripete identico a sé stesso.– Leggi anche: Che rapporto abbiamo con i noi stessi del passatoSecondo Moulin e O’Connor il jamais vu è un fenomeno che richiede maggiori studi e approfondimenti, ma la loro ipotesi è che sia una particolare impressione che può presentarsi quando la ripetizione porta in generale a una trasformazione e a una perdita di significato delle parole e delle esperienze. O’Connor ha citato un altro esempio, un caso di jamais vu capitato a lui direttamente: stava guidando in autostrada, quando a un certo punto provò un senso di estraniazione e sentì il bisogno di fermarsi sulla corsia di emergenza per «resettare» l’elaborazione delle informazioni e ritrovare familiarità con i pedali e il volante.Il jamais vu potrebbe essere, secondo Moulin e O’Connor, un sorta di segnale cognitivo che qualcosa è diventato «troppo automatico, troppo fluido, troppo ripetitivo». E potrebbe essere un modo per interrompere una sensazione di irrealtà emergente e recuperare il controllo sulle cose, in modo da dirigere l’attenzione dove è necessario e non rischiare di perderla durante l’esecuzione di compiti ripetitivi per un lungo periodo di tempo.La ricerca sul jamais vu potrebbe inoltre espandere le conoscenze su altri fenomeni che hanno caratteristiche simili. La perdita di significato dovuta alla ripetizione continua di una stessa parola è associata, per esempio, all’effetto della trasformazione verbale nella percezione dei suoni delle parole. Si verifica quando sentire ripetere una stessa parola più volte porta l’ascoltatore o l’ascoltatrice a distorcere la percezione del suono, dopo un certo numero di ripetizioni, fino a renderlo compatibile con parole diverse da quella iniziale e quindi con altri significati.Capire perché scrivere una parola ripetutamente genera un senso di estraniazione e fa sì che la realtà cominci a sfuggire, secondo Moulin e O’Connor, potrebbe anche servire a spiegare alcuni comportamenti studiati in relazione al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), tra cui la tendenza a controllare di continuo e fissare a lungo gli oggetti che possono generare incertezza, come i fornelli del gas o le porte. Controllare più volte che la porta sia chiusa – come scrivere ripetutamente una parola, appunto – potrebbe rendere quel compito privo di significato e quindi inefficace, rendendo difficile o impossibile sapere se la porta sia chiusa oppure no, in un circolo vizioso. LEGGI TUTTO

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    Quanto cambia nella vita avere fratelli e sorelle

    Secondo una delle più conosciute frasi fatte sui rapporti familiari nessuna persona sceglie la propria famiglia: i propri genitori, prima di tutto, ma nemmeno fratelli e sorelle. Che è sicuramente vero, nella misura in cui è vero che non “decidiamo” in quale ambiente nascere: per quanto riguarda la famiglia, appunto, ma anche molto altro. Tra le molte influenze che subiamo e a nostra volta esercitiamo nel corso della vita quella tra fratelli e sorelle è di un tipo abbastanza eccezionale: può essere più forte dell’influenza dei genitori, e il più delle volte dura più a lungo. Ma allo stesso tempo è completamente diversa, e tende a subire un’evoluzione man mano che fratelli e sorelle lasciano la casa in cui sono nati e cresciuti.Nella ricerca scientifica i legami familiari, soprattutto quello tra gemelli, sono considerati una preziosa opportunità di studiare l’influenza dei fattori sia ambientali che ereditari nella definizione delle caratteristiche fisiche e psichiche delle persone. Ma i rapporti tra fratelli e sorelle sono anche un frequente spunto di conversazioni comuni. Capita spesso di parlare di una persona ponendola in relazione con i suoi fratelli e le sue sorelle, per valutarne somiglianze e differenze. E capita spesso di chiedersi se e in che misura questi particolari rapporti siano importanti nella costruzione dell’identità delle persone, anche per la loro semplice presenza, e senza che le persone stesse ne abbiano consapevolezza.È molto probabile che l’influenza reciproca tra fratelli e sorelle abbia a sua volta subito un’evoluzione storica significativa sul piano collettivo, dovuta all’allungamento dei tempi di coabitazione nello stesso ambiente familiare rispetto al passato: un fenomeno da tempo noto e diffuso in Italia, ma anche in altri paesi dell’Europa mediterranea e in aumento anche negli Stati Uniti. In Italia, secondo un rapporto dell’ISTAT pubblicato nel 2022, la tendenza a lasciare la famiglia di origine più tardi che in passato rende la coabitazione tra fratelli e sorelle un fenomeno piuttosto normale nella fascia più giovane della popolazione.Il 68,2 per cento delle persone tra 18 e 24 anni vive con almeno un fratello o una sorella. Questa percentuale scende al 23,1 se si considera la fascia di età 25-34 anni, e diminuisce progressivamente man mano che l’età aumenta. Ma la solidità dei legami si manifesta anche in seguito, come attestato dal fatto che molti fratelli e sorelle non conviventi abitano a poca distanza tra loro. Circa una persona su due (50,7 per cento) vive infatti in un’altra abitazione ma nello stesso comune del fratello o della sorella più vicini.– Leggi anche: Perché i gemelli identici ci affascinanoSebbene tutte le famiglie differiscano le une dalle altre per molti aspetti e sfumature, tanto più in contesti sociali e culturali diversi, l’influenza del rapporto con fratelli e sorelle nella definizione dei caratteri e di altre caratteristiche delle persone è da tempo oggetto di molte ricerche, principalmente su campioni di famiglie europee e statunitensi. Sono studi accomunati prima di tutto da un accresciuto interesse per le relazioni sociali in generale e per come siano cambiate a seguito del progressivo calo della mortalità e della fertilità: condizioni che hanno reso possibili legami più durevoli, attivi e intensi, familiari e non, ma anche più complessi, ambigui e incerti.I fratelli della famiglia Jackson: Michael, Tito, Jackie, Jermaine, e dietro di loro Randy e Marlon, nell’ottobre 1972 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)Per le persone che hanno fratelli o sorelle è probabile che i rapporti con loro – intensi o no, conflittuali o meno – siano i più lunghi di tutta la vita. Se questi rapporti determinino poi un miglioramento o un peggioramento della qualità della vita dipende da molte variabili ed è una questione discussa da diversi punti di vista. Una ricerca pubblicata nel 2012 e basata sull’analisi di diversi studi sulle relazioni tra fratelli e sorelle nell’infanzia e nell’adolescenza, condotti nei precedenti due decenni, suggerisce che le interazioni positive con un fratello o una sorella durante l’adolescenza favoriscano l’empatia, il comportamento prosociale e il rendimento scolastico.Altri studi indicano però che questi effetti positivi variano al variare del numero di componenti della famiglia. Nella letteratura scientifica esiste infatti un rapporto inverso molto chiaro tra numero di fratelli o sorelle e buoni risultati scolastici e prestazioni nei test di intelligenza psicometrica. Ma l’universalità di questo rapporto è a sua volta messa in discussione da altre ricerche che includono altre variabili specifiche come l’ordine di nascita e il genere, e suggeriscono che non tenere conto di questi altri fattori per studiare i risultati scolastici ed economici possa restituire stime distorte dell’influenza di avere uno o più fratelli e sorelle.– Leggi anche: L’altissimo QI dei geni è una ballaSecondo un ampio studio del 2005 sull’intera popolazione norvegese, per esempio, la dimensione della famiglia sul livello di istruzione dei figli ha effetti meno importanti rispetto all’ordine di nascita. Avere o non avere fratelli e sorelle risultò infatti piuttosto ininfluente per il livello di istruzione del primogenito o della primogenita, che tendeva a essere lo stesso indifferentemente dal numero di fratelli e sorelle più piccole che aveva. Era però influente per i nati successivamente, penalizzante in particolare per le donne: quelle nate più tardi avevano guadagni più bassi (che fossero impiegate a tempo pieno o meno), meno probabilità di lavorare a tempo pieno e maggiori probabilità di avere il primo parto da adolescenti. Al contrario, anche se gli uomini nati più tardi avevano un reddito a tempo pieno più basso rispetto ai nati prima, non avevano meno probabilità di lavorare a tempo pieno.L’ordine di nascita all’interno delle famiglie numerose non è invece un fattore altrettanto influente nella definizione del carattere e dell’identità delle persone, contrariamente a quanto suggerito da molte teorie incerte e luoghi comuni, come quello sui presunti tratti ricorrenti nei figli di mezzo, per esempio. Una ricerca condotta da un gruppo del dipartimento di psicologia dell’Università di Lipsia e dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica PNAS, analizzò un ampio insieme di dati relativi a tre campioni di popolazione degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Germania. E non riscontrò effetti dell’ordine di nascita sull’estroversione, sulla stabilità emotiva, sulla piacevolezza, sulla diligenza e sull’immaginazione delle persone.I fratelli Marx, da sinistra Zeppo, Harpo, Chico e Groucho, nel 1933 (AP Photo)Ovviamente le relazioni tra fratelli e sorelle possono anche essere negative, e in alcuni casi pessime, al punto da condizionare pesantemente tutta la vita. Avere cattivi rapporti con fratelli e sorelle aumenta le probabilità di abuso di sostanze, depressione e ansia durante l’adolescenza. E due studi longitudinali su un campione piuttosto esteso di popolazione del Regno Unito indicano che il bullismo tra fratelli adolescenti aumenti il rischio di compiere atti di autolesionismo nella prima età adulta e il rischio di soffrire di psicosi (varie condizioni patologiche caratterizzate da un’alterazione del rapporto con la realtà).Alcune riflessioni e studi recenti si sono concentrati su quanto le relazioni tra fratelli e sorelle siano soggette a un’evoluzione nel corso del tempo e possano cambiare anche molto, specialmente in seguito alla fine della coabitazione, o alla morte dei genitori. In un recente articolo sul rapporto tra fratelli e sorelle, intitolato Le relazioni più lunghe della nostra vita, l’Atlantic ha scritto che questo rapporto ha generalmente due fasi distinte: una prima fase in cui è molto radicato nel tessuto familiare e guidato dai genitori, e un’altra in cui sopraggiunge l’indipendenza.Le tenniste statunitensi Venus e Serena Williams durante un match del torneo di doppio femminile a Wimbledon, a Londra, il 25 giugno 2014 (AP Photo/Alastair Grant)In questa seconda fase quello tra fratelli e sorelle diventa un caso piuttosto unico di legame in parte ancora «involontario», perché nessuno sceglie i propri fratelli o le proprie sorelle, appunto, ma in parte anche «volontario». Continuare a frequentare i propri fratelli e sorelle, così come smettere di farlo, tende infatti a non essere più un atto condizionato da dinamiche familiari e obblighi morali o di altro tipo. Tant’è che allontanarsi da un fratello o da una sorella è solitamente considerato un fatto meno eccezionale e in un certo senso meno grave che allontanarsi da un genitore o da un coniuge. In estrema sintesi, scrive l’Atlantic, fratelli e sorelle sono «persone costrette a stare insieme che poi all’improvviso non lo sono più».La seconda fase della relazione tra fratelli e sorelle è tendenzialmente caratterizzata da un’indipendenza economica e affettiva che può dare l’opportunità di costruire una relazione diversa rispetto a quella della giovinezza. A volte le persone rimangono bloccate nei ruoli interpretati nella fase precedente, a volte riescono a liberarsene. E una delle ragioni per cui capita di avere un rapporto completamente diverso, secondo la statunitense Katherine Jewsbury Conger, sociologa della University of California Davis, è il venir meno di un particolare fattore a volte percepito all’interno del contesto familiare: i favoritismi.I fratelli Noel e Liam Gallagher ritratti su un cartello retto da un fan fuori da un negozio, a Glasgow, il 7 gennaio 2012 (Jeff J Mitchell/Getty Images)Utilizzando il campione di uno studio longitudinale su tre generazioni di famiglie rurali dell’Iowa cominciato alla fine degli anni Ottanta (il Family Transitions Project), Conger ha intervistato coppie di fratelli e sorelle, sia insieme che separatamente, dagli anni della scuola media fino all’età adulta. E ha scoperto che ricordavano anche a distanza di anni quale dei due condividesse più interessi con la madre o con il padre, o avesse più bisogno di aiuto per i compiti a casa o per altro, e che questa condizione non era causa di dissidi. Nei racconti emergevano invece conflitti e tensioni nei rapporti nei casi in cui fosse presente la percezione di favoritismi slegati da necessità particolari e specifiche.L’eventuale risentimento per questo tipo di dinamica familiare, in cui coesistono sentimenti sia positivi che negativi verso il fratello o la sorella, tende a raggiungere il picco prima dell’adolescenza. Dopodiché le persone cominciano a essere più indipendenti e a trascorrere più tempo con gli amici e meno con i genitori. E comincia a emergere per la prima volta la natura «volontaria» delle relazioni tra fratelli e sorelle, e l’idea che sia necessaria una qualche forma di impegno per mantenerle. L’adolescenza è per questo motivo considerata un punto di svolta nel rapporto tra fratelli e sorelle, dal momento che pone in molti casi le basi delle relazioni future: quanto saranno attive e impegnate, o distanti e poco coinvolgenti, in età adulta.Non significa che quanto emerge nella relazione tra fratelli e sorelle durante l’adolescenza sia destinato a rimanere immutato per sempre: come affermato da Conger è possibile che più avanti nella vita quel legame venga in parte riscritto a seguito di un «ricentramento dinamico». La parola «ricentramento» si riferisce al fatto che rispetto all’infanzia, una fase in cui i bambini e le bambine vedono i genitori come il centro della famiglia, il legame tra fratelli e sorelle e il cambiamento di quella relazione diventa il nuovo centro.Spesso gli eventi e i passaggi più significativi nel corso della vita delle persone, sia positivi che negativi, possono contribuire a un ricentramento della relazione tra fratelli e sorelle: un matrimonio, una gravidanza, una nascita o un lutto. Ma queste stesse occasioni possono anche lasciare inalterati o peggiorare i rapporti, come nel caso dell’assistenza ai familiari, che secondo una ricerca del 2014 può far riemergere in alcuni casi risentimenti del passato legati ai favoritismi nel nucleo familiare d’origine.Una conclusione condivisa da molte ricerche e riflessioni sul rapporto tra fratelli e sorelle è che l’influenza reciproca sia comunque duratura. Per molte persone la relazione con fratelli e sorelle è infatti la più lunga di tutta la vita: precede quella con il o la partner, e sopravvive generalmente a quella con i genitori. Spesso è anche una delle relazioni più intense. Uno studio del 2013 condotto su oltre un milione di svedesi riscontrò una correlazione tra la morte di un fratello o una sorella in età adulta e il rischio di morire di infarto fino a 18 anni dopo il lutto. E citò come possibili cause sia le predisposizioni genetiche condivise che lo stress causato dal lutto, fattori di rischio di infarto miocardico.È probabile che la maggior parte delle persone con fratelli o sorelle sia diversa da come sarebbe stata senza. Come ha scritto l’Atlantic «fratelli e sorelle sono una parte viva della storia di qualcuno e una forma di memoria che vive al di fuori di noi stessi». LEGGI TUTTO

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    La scoperta di una misteriosa creatura marina su Instagram

    Ryo Minemizu è un fotografo giapponese specializzato in foto sottomarine che mostrano creature variopinte, spesso minuscole, che vivono a varie profondità nell’oceano Pacifico al largo della costa del Giappone. Come molti altri fotografi, Minemizu condivide le proprie immagini su Instagram, in un profilo fitto di immagini di animali dalle forme più strane che ricorda i grandi cataloghi di specie di un tempo, non sempre conosciute e che talvolta attirano la curiosità dei ricercatori. Questa è la storia di una di quelle foto e di quanto possa essere complicato e sorprendente scoprire qualcosa di nuovo su esseri viventi mai visti prima, che magari sono qualcos’altro rispetto a ciò che sembrano.Come racconta il sito della rivista Science, tra le persone incuriosite dalle foto di Minemizu c’era Igor Adameyko, un neurobiologo dell’Università di Vienna, che aveva notato sul profilo Instagram del fotografo un’immagine scattata nel 2018 e condivisa nel 2020 che mostrava una strana creatura marina non identificata. Adameyko si era messo in contatto con Minemizu chiedendogli se per caso avesse raccolto un esemplare di quello strano animale e se fosse interessato a spedirglielo, così da poterlo analizzare. Il fotografo accettò e dopo qualche tempo Adameyko ricevette un pacchetto contenente l’esemplare, grande più o meno quanto una lenticchia e conservato in formalina.L’analisi rivelò che l’animale aveva una parte esterna fluttuante, con una struttura che ricordava tanti piccoli tentacoli collegata a una parte centrale semisferica. A prima vista sembrava che le strutture simili ai tentacoli fossero piccole appendici, ma osservando più attentamente Adameyko si accorse che non si trattava di un singolo animale, ma di una serie di tanti piccoli organismi lunghi pochi millimetri. Erano almeno una ventina e Adameyko iniziò a riferirsi a loro informalmente come “marinai”, visto che sembravano avere la funzione di far muovere nell’acqua la creatura.Una successiva analisi della semisfera rivelò qualcosa di ancora più particolare: era formata da un insieme di centinaia di minuscoli organismi simili ai girini, con una testa grande quanto la punta di una matita e una coda più sottile di un capello umano. Le varie code, ha spiegato di recente Adameyko con un gruppo di colleghi sulla rivista scientifica Current Biology, erano tutte annodate insieme al centro della semisfera, con la testa di ogni organismo rivolta verso l’esterno.(Current Biology)Invece di semplificare le cose, l’analisi della struttura di quello strano animale aveva complicato la ricerca di una possibile specie di appartenenza. Né Adameyko né diversi altri colleghi erano in grado di stabilire che cosa avesse fotografato Minemizu qualche anno prima.Fu solo dopo alcune analisi per rivelare particolari dettagli anatomici, come quelli del sistema nervoso dell’organismo, che Adameyko e colleghi iniziarono a ipotizzare che si trattasse di un esemplare appartenete ai Lophotrochozoa, il vasto gruppo (“clado”) che comprende i molluschi, vari invertebrati acquatici e gli anellidi come i lombrichi, per citarne alcuni. L’ipotesi era che si trattasse di un parassita, ma servivano analisi del DNA per poterlo confermare. L’esemplare era stato conservato in formalina, una sostanza usata spesso per conservare materiali biologici, ma che degrada velocemente il DNA. Fu quindi necessario utilizzare tecniche solitamente impiegate per la raccolta di materiale da reperti antichi, in modo da ottenere ugualmente qualche informazione.Infine, l’analisi del DNA permise di restringere il campo: l’organismo apparteneva ai digenei (Digenea), una sottoclasse di animali vermiformi noti per avere spesso un ciclo vitale particolare, che comporta la colonizzazione di animali di diverse specie. Le modalità variano, ma in generale i parassiti adulti vivono all’interno di un ospite e producono uova che finiscono nell’ambiente circostante, di solito attraverso le feci dell’animale che hanno colonizzato. Le uova si trasformano in larve all’interno di altri animali entrati in contatto con le feci, che a loro volta vengono poi mangiati dagli animali in cui il parassita può passare dalla larva alla fase adulta. Dopodiché produce le uova e il ciclo ricomincia.Le larve simili a girini raggruppate nella parte centrale dell’esemplare analizzato (Current Biology)Nel caso di alcune specie, le larve vivono liberamente e hanno sviluppato la capacità di rimanere insieme, imitando la forma dei piccoli organismi che vivono negli ambienti acquatici di cui si nutrono i pesci. In questo modo un pesce le ingerisce pensando di avere davanti qualcosa di cui va ghiotto e rimedia una parassitosi.Lo strano insieme di organismi fotografato da Minemizu sembra fare qualcosa di simile, ma ciò che è veramente insolito è che lo facciano utilizzando due diverse forme della fase larvale (“cercaria”). Sia i marinai sia i “girini” appartengono infatti alla stessa specie. Secondo la ricerca, i girini sono responsabili della colonizzazione vera e propria dei pesci attraverso le loro branchie o l’apparato digerente, mentre i marinai hanno il compito di portare in giro il groviglio di girini nell’acqua.Questa separazione dei compiti era stata osservata in passato in alcune specie di digenei che conducono il loro stadio larvale all’interno di un altro animale, mentre non era stato ancora osservato nel caso di larve che vivono liberamente nell’ambiente esterno.La scoperta apre nuove possibilità sulla ricerca di altre specie simili nelle quali le larve non hanno da subito bisogno di un ospite e, in un certo senso, collaborano per raggiungerne e invaderne uno. Adameyko ha in programma di proseguire le ricerche per comprendere come funzioni questa forma di collaborazione e se le larve abbiano un sistema per orientarsi, forse seguendo la luce. Minemizu nel frattempo ha pubblicato centinaia di fotografie di altre creature marine, che potrebbero nascondere qualche altra sorpresa a conferma di quanto ci sia ancora da scoprire negli oceani, che del resto ricoprono più del 71 per cento della superficie del nostro pianeta. LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’autunno

    Caricamento playerAlle 8:50 di sabato 23 settembre è finita l’estate e iniziato l’autunno. L’equinozio d’autunno è quel momento dell’anno in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Spesso si parla dell’equinozio come di un giorno intero ma è tecnicamente scorretto, perché è solo l’istante preciso in cui si verifica un fenomeno astronomico. E l’ora in cui avviene quell’istante cambia ogni anno.Visto che l’equinozio d’autunno può essere in giorni diversi, le stagioni non cambiano sempre lo stesso giorno. Il giorno dell’equinozio d’autunno ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno – l’altro è l’equinozio di primavera – in cui il dì ha la stessa durata della notte (anche se poi non è esattamente così a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre).L’inizio delle stagioni è scandito da eventi astronomici precisi: l’estate e l’inverno cominciano con i solstizi, in cui le ore di luce del giorno sono al loro massimo (estate) o al loro minimo (inverno); mentre la primavera e l’autunno cominciano il giorno degli equinozi, i momenti in cui la lunghezza del giorno è uguale a quella della notte.Tuttavia, oggi in Italia il giorno sarà ancora un po’ più lungo della notte per qualche minuto e la vera parità tra dì e notte sarà tra qualche giorno. Questo si deve a un fenomeno chiamato “rifrazione atmosferica” per cui la luce del Sole è curvata dall’atmosfera: è quella cosa per cui vediamo il Sole qualche minuto prima che sorga effettivamente.Gli equinozi e i solstizi (e le durate del dì e della notte) sono determinati dalla posizione della Terra nel suo moto di rivoluzione intorno al Sole, cioè il movimento che il nostro pianeta compie girando intorno alla sua stella di riferimento. L’equinozio è il momento in cui il Sole si trova all’intersezione del piano dell’equatore celeste (la proiezione dell’equatore sulla sfera celeste) e quello dell’eclittica (il percorso apparente del Sole nel cielo). Al solstizio invece il Sole a mezzogiorno è alla massima o minima altezza rispetto all’orizzonte.Le variazioni del momento in cui avvengono equinozi e solstizi sono causate dalla diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario (è il motivo per cui esistono gli anni bisestili, che permettono di rimettere “in pari” i conti).In Italia, la primavera cade tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre, l’inverno tra il 21 e il 22 dicembre. Oltre alle stagioni astronomiche, poi, ci sono anche quelle meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.Il momento dell’equinozio non c’entra con quello del cambio dell’ora, che quest’anno andrà spostata indietro tra sabato 28 e domenica 29 ottobre. LEGGI TUTTO