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    Sull’asteroide Bennu c’è molto carbonio

    I pezzi dell’asteroide Bennu portati sulla Terra dalla missione OSIRIS-REx della NASA contengono molto carbonio e molta acqua, secondo le prime analisi del materiale nella capsula recuperata un paio di settimane fa. È una scoperta importante perché queste sostanze sono necessarie allo sviluppo di esseri viventi e la loro presenza sugli asteroidi del sistema solare potrebbe aiutarci a capire come e dove ha avuto e può avere origine la vita.I campioni di Bennu sono atterrati nel deserto dello Utah alla fine di settembre all’interno di una capsula con un diametro di 81 centimetri e altezza di 50 e sono stati sottoposti a un esame preliminare al Johnson Space Center di Houston, in Texas. «Il campione di OSIRIS-REx è il pezzo di asteroide più ricco di carbonio che sia mai stato portato sulla Terra», ha detto l’amministratore dell’agenzia spaziale statunitense Bill Nelson nel presentare le prime scoperte mercoledì, «e aiuterà gli scienziati a indagare sulle origini della vita sul nostro pianeta».Gli asteroidi sono corpi spaziali rocciosi che orbitano nel sistema solare e hanno dimensioni molto inferiori ai pianeti e forme più irregolari. Secondo gli studi più condivisi, sono ciò che rimane del “disco protoplanetario”, l’enorme ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole dal quale miliardi di anni fa si formarono la Terra e gli altri pianeti del sistema solare, oltre ai satelliti naturali come la Luna. Per questo lo studio delle rocce raccolte su Bennu potrebbe darci informazioni aggiuntive sulle origini del sistema solare e sulla formazione degli elementi necessari all’origine della vita. Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona, che è lo scienziato a capo di OSIRIS-REx, ha definito i campioni di Bennu «una capsula del tempo» per ciò che potrebbe farci imparare sulla storia del sistema solare.L’interno della capsula della missione OSIRIS-REx, aperta all’interno di un contenitore trasparente al Johnson Space Center di Houston (Dante Lauretta/NASA via AP)La capsula che ha portato i pezzi di Bennu sulla Terra è stata esaminata dall’interno di un grosso contenitore sigillato costruito per evitare che i campioni fossero contaminati da sostanze di origine terrestre. Questo tipo di contenitore è chiamato “scatola a guanti” (in inglese glovebox) perché per manipolare il suo contenuto senza venire fisicamente in contatto con esso si usano dei guanti lunghi e robusti inseriti nella struttura della scatola.Mari Montoya, a sinistra, e Curtis Calva raccolgono dei pezzi dell’asteroide Bennu attraverso la scatola a guanti contenente la capsula di OSIRIS-REx, il 27 settembre 2023 (NASA via AP)Quando gli scienziati hanno aperto la capsula all’interno della scatola a guanti si sono accorti che probabilmente sono arrivati sulla Terra più dei 60 grammi di rocce di Bennu che erano state previsti dalla NASA: della polvere aggiuntiva dell’asteroide e alcuni piccoli pezzi di roccia sono rimasti al di fuori del contenitore interno per la conservazione del campione. Prima di procedere con l’osservazione del campione principale è stata studiata proprio questa polvere, che ammonta a 1,5 grammi di materiale. Il peso complessivo dei pezzi di Bennu portati sulla Terra invece non lo si conosce ancora, perché ritardati dallo studio della polvere gli scienziati non hanno ancora cominciato a studiare il campione principale.La parte esterna della capsula di OSIRIS-REx dove si è raccolta la polvere di Bennu (Erika Blumenfeld, Joseph Aebersold/NASA via APLa polvere è stata analizzata con un microscopio elettronico (cioè un microscopio che usa elettroni al posto della luce e così consente di “vedere” oggetti molto piccoli) e con altri strumenti che consentono di stabilire gli elementi chimici che compongono un campione.Così è stato scoperto che le rocce di Bennu sono ricche di carbonio. Uno dei pezzi esaminati è fatto per il 4,7 per cento di questo elemento, che è la base di tutte le macromolecole biologiche, le molecole fondamentali di cui sono fatti gli esseri viventi, umani compresi. Sono anche state trovate delle piccole quantità d’acqua all’interno dei cristalli che compongono i pezzi di Bennu analizzati finora. È possibile che all’interno del campione principale possano essere presenti anche maggiori quantità d’acqua.A sinistra la capsula di OSIRIS-REx aperta, a destra la polvere di Bennu presente nel riquadro bianco vista più da vicino (Dante Lauretta/NASA via AP)È previsto che lo studio dei pezzi di Bennu andrà avanti per i prossimi due anni: almeno il 70 per cento del campione resterà al Johnson Space Center, mentre il resto sarà analizzato da circa 200 scienziati in varie parti del mondo e una parte verrà esposta al pubblico temporaneamente a Washington, a Houston e a Tucson, in Arizona.Tra le altre cose il materiale proveniente da Bennu sarà confrontato con quello raccolto dall’agenzia spaziale giapponese JAXA su un altro asteroide, Ryugu. Alcune differenze sono già state notate: nei campioni di Ryugu c’era meno acqua. Poi verrà misurata la percentuale di deuterio al suo interno: il deuterio è uno degli isotopi dell’idrogeno, cioè una delle forme in cui questo elemento si presenta, e si vuole scoprire se è più o meno presente nell’acqua di Bennu rispetto all’acqua terrestre. Infine si cercheranno eventuali amminoacidi, quelle molecole biologiche che sono già state trovate all’interno di meteoriti caduti sulla Terra ma che potrebbero esservi arrivate a causa della contaminazione con materiali terrestri durante e dopo l’impatto sul pianeta. LEGGI TUTTO

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    Le cimici dei letti che infestano Parigi arriveranno anche in Italia?

    Le notizie sulla estesa infestazione di cimici dei letti a Parigi hanno suscitato qualche preoccupazione in alcuni paesi vicini o molto ben collegati alla Francia. Il 5 ottobre il ministero della Salute dell’Algeria ha annunciato l’introduzione di «misure preventive» su aerei e navi per evitare la diffusione degli insetti nel proprio territorio. E dopo che vari giornali del Regno Unito hanno parlato della possibilità che le cimici dei letti arrivassero da Parigi a Londra, Eurostar, il servizio ferroviario che collega le due capitali, ha fatto sapere che i suoi treni saranno controllati per verificare l’eventuale presenza dei parassiti.Anche tra Francia e Italia ci sono molti collegamenti, sebbene dal 27 agosto e fino alla prossima estate quelli ferroviari siano sospesi a causa di una frana, ma tra gli esperti di insetti e di disinfestazioni non c’è particolare preoccupazione. Per il momento infatti nelle città italiane non ci sono stati aumenti significativi di segnalazioni di cimici dei letti, e inoltre chi si occupa di disinfestazioni ritiene che i metodi usati in Italia per contrastarle siano più efficaci di quelli preferiti all’estero.Le cimici dei letti in Italia comunque ci sono già. Dopo essere quasi scomparse a metà Novecento in seguito al grande uso di DDT e al miglioramento delle condizioni igieniche delle case, è dai primi anni Duemila che hanno ricominciato a essere avvistate all’interno di abitazioni e alberghi sia nei paesi europei che negli Stati Uniti a causa dei viaggi internazionali. In Italia il numero di infestazioni è aumentato soprattutto tra il 2012 e il 2014 e poi è rimasto più o meno costante.«Sono abbastanza diffuse quindi la probabilità di incontrarle nelle città italiane c’è», dice Fabrizio Montarsi, biologo dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) che tra le altre cose si occupa di insetti e altri parassiti. «Ma non sono comuni come le mosche o le zanzare, il problema è comunque limitato per ora. Se si riesce a intercettare subito un’infestazione, il ciclo di diffusione si interrompe facilmente».Le cimici dei letti, il cui nome scientifico è Cimex lectularius, sono insetti ematofagi, cioè che si nutrono di sangue. I loro morsi sono fastidiosi, ma non costituiscono un pericolo a meno che non si sia allergici. In natura sono parassiti di uccelli e pipistrelli e creano le proprie colonie nei nidi o nei dormitori dei pipistrelli nelle grotte, ma nel corso della storia si sono trovate bene anche nelle abitazioni umane: soprattutto nei secoli passati era facile che nei tetti delle case si riparassero degli uccelli, e da lì le cimici potevano passare a infestare i materassi di una volta, fatti di paglia ricoperta da teli. Si chiamano “cimici dei letti” appunto per questo.Cimici dei letti (Uwe Anspach, ANSA-DPA)Di giorno si nascondono dalla luce e se infestano una casa si annidano nelle strutture dei letti e dei divani, ma anche tra i libri, dietro battiscopa, quadri o altri anfratti nascosti. Di notte escono per nutrirsi, quindi di solito la loro presenza viene scoperta dopo essersi svegliati con una serie di arrossamenti pruriginosi sulla pelle. Si possono diffondere o perché aumentano talmente tanto di numero da spostarsi da una camera di albergo a un’altra, o da un appartamento all’altro, oppure perché trovano riparo all’interno di valigie e borse e grazie a questi involontari mezzi di trasporto raggiungono treni, aerei, case o stanze d’albergo in altre città.«La diffusione delle cimici avviene quasi sempre tramite i bagagli, non sono come le zecche che rimangono addosso alle persone», chiarisce Montarsi, «quindi la cosa importante se si passa per un albergo infestato è “bonificare” i bagagli e il loro contenuto, con lavaggi ad alte temperature o usando il congelatore».Non c’è invece nessuna relazione tra la pulizia di un ambiente e la presenza di cimici, che si possono presentare anche in hotel di lusso estremamente puliti, perché l’unica condizione necessaria alla loro prosperità è la vicinanza di persone o altri animali da cui succhiare il sangue. È solo più facile che in luoghi in cui ci sono scarse condizioni igieniche una piccola infestazione venga trascurata e finisca per aggravarsi.Secondo Marco Leva, disinfestatore di Roma e consigliere dell’Associazione nazionale delle imprese di disinfestazione (ANID), a Parigi la situazione si è aggravata perché sono stati fatti degli errori: «A giudicare dalle immagini che sono state diffuse le infestazioni sono davvero estreme e se i letti sono pieni di cimici significa che la convivenza va avanti da tempo o che la ditta di disinfestazione che se ne è occupata ha sbagliato approccio».Leva spiega che all’estero contro le cimici dei letti si usano ancora molto gli insetticidi, che sono poco efficaci perché molto spesso questi insetti si rivelano resistenti alle sostanze che contengono. Gli insetticidi possono addirittura essere controproducenti, perché le operazioni per stanare le cimici ed esporle alle sostanze velenose possono spingerle a spostarsi e infestare altri spazi.L’approccio più efficace, che in Italia è stato adottato negli ultimi dieci anni e oggi è usato dalla stragrande maggioranza delle aziende che si occupano di disinfestazioni, si basa sull’uso di macchine per uccidere le cimici e le loro uova con un vapore ad alte temperature, fino a 180 °C. La prima macchina di questo tipo – prodotta dall’azienda italiana Polti – è stata sviluppata a partire dal 2011 proprio facendo degli esperimenti con le cimici dei letti, che hanno coinvolto lo stesso Leva e l’entomologo e disinfestatore Franco Casini. Da allora sul mercato sono arrivate anche altre macchine simili e il loro uso si è diffuso nel settore. «È un approccio più impegnativo rispetto a quello chimico, ma è apprezzato anche dai clienti che preferiscono che non siano sparsi insetticidi nelle camere da letto».Né l’ANID né Montarsi nelle regioni in cui lavora l’IZSVe hanno osservato un aumento dei casi di infestazioni da cimici dei letti negli ultimi mesi. Anche per questo «non c’è da creare allarmismo», per Leva: «Non ci sarà un’invasione delle cimici dei letti dalla Francia, così come non c’era stata da New York qualche anno fa». LEGGI TUTTO

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    La nuova altezza del Monte Bianco

    Il Monte Bianco attualmente è alto 4.805,59 metri, due metri in meno rispetto al 2021. Lo dice l’ultima misura della Chambre Départementale des géomètres-experts dell’Alta Savoia, che dal 2001 misura l’altezza della montagna più alta delle Alpi ogni due anni organizzando una spedizione alpinistica. La cima del Monte Bianco, che si trova tra Italia e Francia, non ha infatti sempre la stessa altitudine, dato che nel misurarne l’altezza si tiene conto della neve che ricopre il ghiaccio che sovrasta le rocce più alte. Lo spessore dello strato di ghiaccio è di una ventina di metri, quello della neve che lo ricopre invece varia.Giovedì, durante una conferenza stampa a Chamonix, il geometra Denis Borrel, presidente della commissione che si occupa delle misure del Monte Bianco, ha raccomandato cautela nel collegare la variazione di altezza al cambiamento climatico. «Anche se osserviamo una leggera tendenza in calo della calotta di neve sopra al Monte Bianco, i climatologi e i glaciologi ci dicono che serviranno circa 50 anni di misurazioni per trarre conclusioni sul possibile riscaldamento globale alla quota di 4.800 metri».Il 2023 è stato comunque un anno «eccezionale», ha detto Borrel, secondo il quale sul Monte Bianco ci sono 3.500 metri cubi di ghiaccio e neve in meno rispetto al 2021, l’equivalente di una piscina olimpionica. Una diminuzione «molto considerevole» rispetto a quelle misurate in precedenza. Non sarebbe comunque corretto dire che il Monte Bianco “si sta abbassando”. Luc Moreau, un glaciologo di Chamonix, ha detto al canale televisivo TF1 che «non è rappresentativo del cambiamento climatico» perché a influire sull’altezza della copertura della neve sulla cima del Monte Bianco è principalmente il vento, su quello che Moreau ha paragonato a un «complesso di dune».Se si considera solo la parte rocciosa della montagna, l’altezza è di 4.792 metri, ma generalmente quando si parla dell’altezza del Monte Bianco si considera anche la parte di ghiaccio e neve. Borrel ha spiegato che «in una notte può cadere un metro o un metro e mezzo di neve sulla cima, per cui l’altezza può cambiare da un giorno all’altro». A seconda delle precipitazioni e dei venti, insomma, l’altezza del Monte Bianco potrebbe tornare ad aumentare nei prossimi anni.L’altezza del Monte Bianco fu stimata per la prima volta nel Settecento con la triangolazione, una tecnica che permette di calcolare distanze fra punti in virtù delle proprietà geometriche dei triangoli. Nel 1775 il matematico britannico George Schuckburgh-Evelyn stimò che la montagna fosse alta 4.804 metri. Oggi per replicare la misura si usa la tecnologia GPS (Global Positioning System), il sistema di posizionamento e navigazione satellitare grazie al quale possiamo risalire alle coordinate geografiche di più o meno qualunque punto sulla Terra. E quest’anno per la prima volta i geometri francesi hanno usato anche un drone, che hanno portato con sé sul Monte Bianco durante una spedizione verso la cima, per rendere la misura più precisa.Le riprese del drone hanno permesso di realizzare velocemente un modello tridimensionale della cima della montagna. «Ci sono voluti dieci minuti per farlo», ha raccontato Borrel, «mentre nelle spedizioni precedenti dovevamo stare lassù per due ore per ottenere lo stesso risultato».Al di là della misurazione dell’altezza, il modello tridimensionale realizzato grazie al drone ha un valore scientifico perché permetterà di verificare i cambiamenti della calotta glaciale della cima della montagna nel tempo. I ghiacci sulla cima del Monte Bianco sono perenni, cioè non fondono mai, ma le ondate di calore degli ultimi anni, che sono legate al riscaldamento globale causato dalle attività umane e hanno effetti ad altitudini sempre più alte, potrebbero avere un effetto anche oltre i 4mila metri a lungo andare. Una sempre maggiore frequenza di temperature più alte della norma potrebbe compromettere lo stato del permafrost, cioè della parte di suolo ghiacciata. Rispetto a quote più basse comunque si prevede che l’effetto del cambiamento climatico sulla cima delle montagne più alte delle Alpi si vedrà più a lungo termine, e finora non c’è stato sulla cima del Monte Bianco.– Leggi anche: Il futuro dello sci col cambiamento climatico LEGGI TUTTO

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    Il settembre del 2023 è stato il più caldo mai registrato sulla Terra

    Il settembre del 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato secondo i dati del Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra. La temperatura media globale dell’aria è stata di 16,38 °C, che significa 0,93 °C in più della media per lo stesso mese tra il 1991 e il 2020, il trentennio di riferimento, e 0,5 °C in più rispetto al precedente massimo storico, registrato nel settembre del 2020. Più in generale tra gennaio e settembre le temperature globali sono state di 0,52 °C superiori alla media e di 0,05 °C in più rispetto allo stesso periodo più caldo mai registrato in un anno (il 2016).Secondo Samantha Burgess, vicedirettore del Copernicus Climate Change Service, le «temperature senza precedenti» di questi mesi fanno ipotizzare che con buona probabilità alla fine di dicembre il 2023 risulterà l’anno più caldo mai registrato.La temperatura media globale di settembre tra il 1940 e il 2023 (Climate Change Service di Copernicus)Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura. (AP Photo/Gregorio Borgia) LEGGI TUTTO

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    Sono state trovate altre due specie di granchi alieni nell’Adriatico

    Il granchio blu non è l’unica specie di granchi alieni presente nel mar Mediterraneo: ne sono state trovate almeno altre due. Mercoledì l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRBIM) ha annunciato il ritrovamento di un granchio della specie Charybdis feriata, chiamata anche “granchio crocifisso”, al largo delle coste di Senigallia, in provincia di Ancona. E uno studio pubblicato ad agosto da un gruppo di ricerca dello stesso istituto dava conto della presenza di una terza specie, il granchio blu del mar Rosso (Portunus segnis), sempre vicino ad Ancona e nel mar Ionio, vicino alle coste calabresi.Il granchio crocifisso è una specie originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e dell’oceano Pacifico e ha grandi dimensioni: i maschi possono arrivare a pesare un chilo. Come i granchi blu, vengono pescati e mangiati nelle zone di origine. Secondo i ricercatori dell’IRBIM potrebbe essere arrivato nel Mediterraneo nello stesso modo in cui si pensa sia arrivato il granchio blu: nelle acque di zavorra delle navi mercantili, cioè nell’acqua che le grandi imbarcazioni prelevano dal mare per mantenersi stabili durante la navigazione e che possono poi disperdere a migliaia di chilometri di distanza.Il granchio crocifisso trovato al largo di Senigallia è il primo individuo della specie segnalato nell’Adriatico, ma già nel 2004 ne era stato segnalato uno vicino a Barcellona, in Spagna, e più di recente altri vicino a Livorno (2015) e nel golfo di Genova (2o22): tutti insomma sono stati avvistati vicino a grandi porti, e dato che finora i ritrovamenti sono stati pochi si può pensare che per il momento la loro presenza sia sporadica e limitata ad alcuni individui.Il granchio blu del mar Rosso trovato nell’Adriatico (Ernesto Azzurro, CNR-IRBIM)– Leggi anche: Nei mari della Calabria sono stati avvistati due pesci scorpioneAnche per il granchio blu del mar Rosso è stata ipotizzata la stessa origine. Per entrambe le specie, almeno per il momento, i ricercatori dell’IRBIM non temono che si possa arrivare una proliferazione simile a quella del granchio blu (Callinectes sapidus), che in alcune zone d’Italia è diventato una specie invasiva e ha causato grossi danni alle specie autoctone e agli allevamenti di molluschi. Infatti le temperature dei mari che circondano l’Italia sono probabilmente troppo basse perché le due specie di granchi ci si possano trovare bene al punto da creare nuove popolazioni.«Considerate le caratteristiche ecologiche del granchio crocifisso e la sua tolleranza termica, non riteniamo che ci sia il rischio di un’invasione di questa specie in Adriatico», ha detto Ernesto Azzurro, biologo dell’IRBIM di Ancona, che aveva commentato in modo simile lo studio sul granchio blu del mar Rosso. Tuttavia Azzurro e i suoi colleghi hanno sottolineato che le cose potrebbero cambiare, dato che per via del cambiamento climatico causato dalle attività umane anche le temperature del mar Mediterraneo stanno aumentando: «L’attuale aumento delle temperature sta favorendo il successo di specie tropicali invasive, ed è molto importante monitorare la presenza e la distribuzione di questi alieni in stretta collaborazione con i pescatori».Al di là dei granchi nuotatori, negli ultimi anni si sono viste sempre più specie animali aliene nel Mediterraneo. Spesso si tratta di pesci e spesso arrivano dal mar Rosso attraverso il Canale di Suez: come nel caso del pesce scorpione (di cui quest’estate sono stati trovati due individui in Calabria). Il Mediterraneo e il mar Rosso sono collegati dal Canale fin dal 1869, ma è solo negli ultimi decenni che certe specie hanno cominciato a migrare dall’uno all’altro perché il cambiamento climatico ha reso il Mediterraneo più ospitale per certi animali del mar Rosso. Dal 1869 al 2008 sono state almeno 63 le specie che sono arrivate nel Mediterraneo dal mar Rosso.– Ascolta anche: Vicini e lontani, il podcast sulle specie aliene prodotto dal Post con Oikos LEGGI TUTTO

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    Il Nobel per la Chimica a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov

    Il Premio Nobel per la Chimica 2023 è stato assegnato a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov «per la scoperta e la produzione dei punti quantici». Il Nobel è uno dei premi più prestigiosi in ambito scientifico: quello per la Chimica viene assegnato dal 1901.I “punti quantici” (“quantum dots”) sono nanoparticelle così piccolissime che la loro stessa dimensione determina le loro proprietà. Questi componenti sono fondamentali in numerose applicazioni legate alle nanotecnologie, in oggetti che usiamo tutti i giorni come televisori e luci a LED.Nei primi anni Ottanta Brus ed Ekimov riuscirono a creare i primi punti quantici, particelle talmente piccole da avere caratteristiche strettamente legate agli effetti della meccanica quantistica. Una dozzina di anni dopo, Bawendi riuscì a trovare un sistema per produrre quantum dots ancora più efficienti, aprendo a grandi opportunità per il loro utilizzo nella vita di tutti i giorni.Se indaghiamo la materia nell’ordine dei milionesimi di millimetri si verificano infatti particolari fenomeni, chiamati effetti quantici, che sembrano contraddire ciò che intuitivamente sappiamo su tutto ciò che ci circonda e di cui in ultima istanza siamo fatti. Alla fine degli anni Trenta del Novecento le possibilità di questi fenomeni erano state già esplorate a livello teorico, con calcoli ed equazioni che consentivano di prevedere molti degli effetti quantici, ma passare dalla teoria alla pratica con gli strumenti dell’epoca non era semplice considerato che si dovevano creare strutture un milione di volte più piccole della punta di un ago.I primi risultati furono raggiunti negli anni Settanta con la produzione di alcune nanostrutture, che richiedevano però un ambiente con un vuoto pressoché totale e temperature vicine allo zero assoluto (0 K o -273,15 °C). Non sembravano quindi esserci grandi possibilità per delle applicazioni pratiche.Le cose cambiarono quando nell’Unione Sovietica di fine anni Settanta Alexei Ekimov iniziò a interessarsi a una particolare caratteristica ottica del vetro, cioè la sua capacità di assumere diverse colorazioni anche se viene prodotto con la stessa sostanza. Ciò dipende dal modo in cui viene scaldato e raffreddato nella fase di produzione: i colori derivano da come si formano le particelle al suo interno e in particolare dalle loro dimensioni. Ekimov condusse vari esperimenti verificando con analisi ai raggi X che effettivamente le dimensioni delle particelle nel vetro erano dovute alle modalità di produzione e che in alcuni vetri se ne potevano trovare di grandi appena due nanometri e in altri di 30 nanometri.A seconda delle dimensioni di queste particelle la luce veniva assorbita in modo diverso: più erano piccole più la luce virava verso il blu, perché lo spazio disponibile per gli elettroni intorno alle particelle diminuisce e ciò influisce sulle proprietà ottiche della particella. Ekimov si rese conto di essere davanti a un effetto quantico e di avere realizzato per la prima volta in modo consapevole dei punti quantici, cioè delle nanoparticelle che causano effetti quantici dipendenti dalle loro dimensioni.Quando le particelle hanno un diametro di solo alcuni nanometri, lo spazio disponibile per gli elettroni si restringe e questo influisce sulle proprietà ottiche della particella (Nobel Prize)Ekimov pubblicò i risultati delle proprie ricerche nel 1981 in Unione Sovietica, ma all’epoca le informazioni scientifiche circolavano con difficoltà anche nel blocco occidentale. Fu così che lo statunitense Louis Brus, completamente inconsapevole del lavoro di Ekimov, arrivò alle medesime conclusioni nel 1983 lavorando su alcune soluzioni in vista del loro utilizzo nella produzione di reazioni chimiche da produrre sfruttando l’energia solare. Come Ekimov, Brus si accorse che più piccole erano le particelle su cui lavorava, più la luce che assorbivano virava verso il blu.Non era una scoperta da poco, perché le proprietà ottiche di una sostanza dipendono dai suoi elettroni, che influiscono anche su altre proprietà come la capacità di condurre l’elettricità o di determinare la velocità di una reazione chimica. Il cambiamento nella capacità di assorbimento rendeva possibile la creazione di nuovi materiali, sfruttando una proprietà che si aggiungeva a quelle già note come il numero di elettroni.Il metodo sviluppato da Brus per produrre le nanoparticelle non funzionava però sempre a dovere e rendeva difficoltosa soprattutto la produzione di particelle tutte della stessa dimensione. Il problema fu risolto da Moungi Bawendi, che nel 1988 aveva iniziato il proprio dottorato al laboratorio di Brus trasferendosi poi al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Nel 1993 insieme al proprio gruppo di ricerca Bawendi riuscì a produrre nanocristalli di una dimensione specifica partendo da una soluzione che veniva saturata con le sostanze necessarie per produrre gli stessi nanocristalli. Il metodo fu ulteriormente perfezionato e rese possibile una produzione molto semplice e rapida rispetto alle esperienze precedenti.Oggi i punti quantici sono presenti in molti prodotti, a cominciare dai sistemi di illuminazione. Se vengono illuminati con luce blu, assorbono quel colore e ne emettono altri: modificando le dimensioni delle particelle diventa quindi possibile determinare il colore che produrranno. Negli schermi QLED dei televisori è questa tecnologia a rendere i colori e la “Q” sta proprio per “quantum dots”. La stessa tecnologia viene impiegata in alcuni tipi di lampadine a LED per rendere più “calda” o “fredda” la luce. In ambito medico, le caratteristiche dei quantum dots legate alla luce sono sfruttate per esami diagnostici per esempio per mappare alcune attività cellulari. Nella chimica, sono invece impiegati per controllare particolari reazioni chimiche. In futuro il loro utilizzo sarà fondamentale per realizzare sensori elettronici sempre più piccoli e probabilmente per nuove generazioni di sistemi informatici. Tutto grazie a un’intuizione su un materiale che usiamo da millenni: il vetro.Moungi G. Bawendi è nato nel 1961 a Parigi, in Francia, ha conseguito un dottorato nel 1988 presso l’Università di Chicago (Stati Uniti) ed è docente al Massachusetts Institute of Technology (MIT).Louis E. Brus è nato nel 1943 a Cleveland (Stati Uniti) e ha conseguito il proprio dottorato nel 1969 alla Columbia University, dove è docente.Alexei I. Ekimov è nato nel 1945 nell’ex Unione Sovietica, ha conseguito il proprio dottorato nel 1974 a San Pietroburgo e in seguito si è trasferito negli Stati Uniti per proseguire le proprie attività di ricerca. LEGGI TUTTO

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    Ci sono anche psicopatici di successo

    Caricamento playerNel linguaggio comune esiste una tendenza abbastanza diffusa a definire “psicopatiche” persone che presentano un insieme di caratteristiche eterogenee, ma che in generale sono percepite come problematiche, aggressive o pericolose, a seconda dei casi. E di solito l’utilizzo di questo aggettivo non ammette molte sfumature: o si è o non si è psicopatici. Ma in ambito scientifico la psicopatia è una categoria molto più generica e incerta, e non è considerata in sé una malattia mentale, pur essendo un potenziale indicatore di disturbi in grado di influenzare i comportamenti dell’individuo nella società e le sue condizioni psichiche.Da una quindicina di anni un gruppo di ricerche scientifiche con un approccio dimensionale anziché “binario” cerca di mettere in discussione l’idea che la psicopatia sia un attributo che può essere soltanto o presente o assente. E suggerisce che i tratti e i sintomi che la caratterizzano siano diffusi nella popolazione più di quanto si creda, associati alla personalità di ciascun individuo fin dall’adolescenza e dalla prima età adulta, e tendenzialmente distribuiti lungo ampie scale di intensità. Una persona, in altre parole, può essere lievemente o gravemente psicopatica. E non è detto che esserlo lievemente comporti un’alterazione psichica tale da compromettere la vita sociale dell’individuo.Secondo alcuni ricercatori e ricercatrici nel campo della psicologia e della psichiatria l’attenzione prevalente ai comportamenti psicopatici violenti e criminali nel Novecento ha reso marginale lo studio di un’altra categoria abbastanza ampia di persone psicopatiche, cioè quelle «di successo»: persone con tendenze psicopatiche ma la cui personalità nella maggior parte dei casi non genera sofferenza, e che anzi in alcuni casi riescono a trarre beneficio da quei tratti. Ma dal momento che non esiste un consenso riguardo alle caratteristiche che distinguono gli psicopatici di successo da tutti gli altri sta emergendo da alcuni anni una tendenza a studiare quei tratti con maggiore cautela, evitando sia di celebrarli che di stigmatizzarli.Nello stesso filone di ricerche recenti che hanno esteso la descrizione delle tendenze psicopatiche si inserisce peraltro una serie di studi già oggetto nel 2011 di un libro del giornalista e scrittore gallese Jon Ronson, Psicopatici al potere. Nel libro, risultato di conversazioni con psicologi, esperti e manager, Ronson sollevò una serie di dubbi sulla possibilità di tracciare confini netti nella definizione di psicopatia. Descrisse quindi il potere manipolatorio e di seduzione di cui si servono le persone psicopatiche per controllare le altre persone e soddisfare il proprio ego. E mostrò come alcuni di quei tratti permettano alle persone di trovarsi a loro agio in posizioni di potere politico o economico.– Leggi anche: Psicopatici al potereNelle attuali classificazioni internazionali la psicopatia non esiste in senso stretto, se non come indicatore di altri disturbi psichici. Nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V) è associata al disturbo antisociale di personalità (DAP), definito come «un quadro caratterizzato da inosservanza e violazione dei diritti degli altri». Come altri disturbi di personalità, il disturbo antisociale di personalità «esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta, è stabile nel tempo e determina disagio o menomazione», oltre che comportamenti marcatamente devianti rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo. Ma nonostante siano stati e siano ancora spesso utilizzati come sinonimi, disturbo antisociale di personalità e psicopatia non definiscono lo stesso quadro, da cui l’ambiguità della definizione stessa di psicopatia.Gli studi più recenti sugli psicopatici di successo richiamano in parte alcune tesi contenute in uno dei libri più importanti e citati nella storia della ricerca psichiatrica sulla psicopatia, scritto nel 1941 dall’influente psichiatra statunitense Hervey Cleckley: La maschera della salute. Secondo Cleckley la persona psicopatica è in grado di mostrare un normale «funzionamento sociale», quantomeno nella valutazione tramite criteri psichiatrici standard, ma è anche persuasiva, egocentrica, priva di scrupoli e impulsiva: possiede cioè diversi tratti di una personalità antisociale.A differenza di altri psichiatri che dopo di lui studiarono la psicopatia prevalentemente nelle carceri, contribuendo ad associarla a comportamenti criminali e violenti sia nell’opinione pubblica che nell’approccio accademico, Cleckley trasse molte delle sue intuizioni dall’osservazione di persone nei centri di cura psichiatrica. Lì incontrò persone in grado di nascondere e controllare gli aspetti peggiori della loro personalità e del loro comportamento, e ipotizzò che quella capacità fosse diffusa anche nella società e in diversi contesti professionali di prestigio. Delineò, per esempio, il profilo di un uomo d’affari psicopatico che lavorava alacremente e la cui vita sembrava del tutto normale, tranne che per i continui tradimenti coniugali, l’insensibilità verso le altre persone, la spregiudicatezza e l’alcolismo.Il lavoro di Cleckley fu in parte ripreso soltanto negli anni Settanta, dallo psicologo canadese Robert D. Hare, ideatore della PCL-R, la Psycopathy Checklist, un test per diagnosticare la psicopatia attraverso il punteggio ottenuto valutando 20 elementi del carattere di una persona. Hare associò all’individuo psicopatico comportamenti antisociali e specifici tratti di personalità, come il disprezzo per i diritti e i sentimenti delle altre persone e l’incapacità di provare compassione e rimorso.Le intuizioni di Cleckley e Hare sono considerate fondamentali e influenti nelle ricerche più recenti sulla psicopatia perché permisero di studiarla nella popolazione generale, selezionata per particolari tratti della personalità, e analizzare quindi anche il comportamento di persone con psicopatia lieve o di successo. «La maggior parte degli individui psicopatici vive intorno a noi», ha detto alla rivista Knowable Magazine Désiré Palmen, ricercatrice di psicologia clinica presso la Avans University of Applied Sciences nei Paesi Bassi.– Leggi anche: Le rage room servono davvero a gestire meglio la rabbia?Secondo l’approccio più comune la psicopatia è un insieme di diversi tratti di personalità che interagiscono tra loro. Nel modello tradizionale, in parte sviluppato a partire proprio dalle tesi di Hare, i due tratti fondamentali sono la disinibizione, cioè la mancanza di controllo degli impulsi, e la meschinità (meanness), cioè la ricerca aggressiva di risorse senza il rispetto per le altre persone. La presenza di alti livelli di disinibizione e meschinità induce le persone a provare un’empatia molto limitata o nulla, e ha spesso conseguenze violente.L’orientamento più recente, basato sul cosiddetto modello di psicopatia triadico (TriPM), suggerisce tuttavia l’integrazione di un terzo fattore nel modello tradizionale: l’audacia (boldness). Secondo lo psicologo clinico della Florida State University Christopher Patrick, autore di un articolo sulla psicopatia pubblicato nel 2022 sulla rivista Annual Review of Clinical Psychology, l’audacia del modello triadico sarebbe costituita da una forma di coraggio espresso nelle interazioni con le altre persone, e una tendenza a non essere facilmente intimiditi e a essere più assertivi e dominanti.Una persona audace non è necessariamente psicopatica, secondo questo modello, ma una persona con alti livelli di audacia, meschinità e disinibizione potrebbe essere in grado di usare la propria sicurezza sociale per nascondere gli altri tratti più estremi della sua personalità ed eccellere in posizioni di leadership. È possibile anzi che un alto livello di altri tratti tradizionalmente associati alla psicopatia, secondo questo modello, sia strettamente correlato alla capacità di ottenere successo in determinate professioni.La meschinità, per esempio, si manifesta spesso come una mancanza di empatia. E nelle aziende è spesso richiesta in alcuni ruoli la capacità di agire sotto pressione e prendere decisioni rapidamente e spietatamente, senza cioè mostrare alti livelli di empatia, ha detto a Knowable Magazine Louise Wallace, docente di psicologia forense alla University of Derby, in Inghilterra.– Leggi anche: Quanto è libero il libero arbitrio?Per dimostrare come alcuni tratti della personalità psicopatica possano fornire un vantaggio selettivo in alcuni ambienti aziendali, uno studio del 2016 analizzò il comportamento dei dipendenti di un’agenzia pubblicitaria australiana, misurando i livelli di psicopatia attraverso due diversi test di valutazione sviluppati a partire dal modello di Hare (il PCL-R). Scoprì che i dirigenti con più anzianità di servizio ottenevano punteggi più alti rispetto al personale più giovane nelle misurazioni dei comportamenti associati ai tratti psicopatici, tra cui essere persuasivi e affascinanti, ma anche egocentrici, spietati e incapaci di provare rimorso.Uno studio della Ontario Tech University, pubblicato nel 2019, analizzò una serie di annunci di lavoro di varie aziende – del settore sanitario, tecnologico, dei media, dei trasporti e di altri settori – e scoprì che in alcuni casi il linguaggio utilizzato per descrivere i candidati ideali era in grado di attrarre persone psicopatiche. In un caso eccezionalmente esplicito in un annuncio pubblicato nel 2016 un’azienda inglese aveva definito la posizione per cui ricercava candidati «psicopatica superstar responsabile delle vendite in una nuova azienda dei media». E più in basso aveva scritto: «Non stiamo cercando uno psicopatico, ma qualcuno con alcune delle qualità positive che hanno gli psicopatici».Alcune ricerche hanno poi ipotizzato che altri tratti comuni nelle tendenze psicopatiche, in particolare l’audacia e l’inclinazione a correre dei rischi, siano associati a un maggiore impegno in atti altruistici e di eroismo quotidiano. In uno studio del 2018 il personale di primo soccorso ottenne rispetto al resto della popolazione punteggi significativamente più alti nella misurazione dell’audacia, della tendenza alla leadership e alla ricerca di sensazioni forti, e di altre variabili associate alla psicopatia.– Leggi anche: L’espressione “salute mentale” è abusataL’idea che alcuni tratti della personalità psicopatica possano anche portare a comportamenti prosociali, e non soltanto antisociali, è tuttavia criticata in alcuni studi che contestano l’inclusione dell’audacia come tratto significativo. Per uno di questi, condotto nel 2021, un gruppo di ricerca della University of Georgia chiese a 1.015 studenti di esprimere accordo o disaccordo con affermazioni che misuravano i tratti del modello triadico della psicopatia: meschinità («Non mi importa se qualcuno che non mi piace si fa male»), disinibizione («Ho preso dei soldi dalla borsa o dal portafoglio di qualcuno senza chiedere il permesso») e audacia («Sono un leader nato»).I risultati mostrarono una correlazione significativa tra meschinità e disinibizione da una parte, e violenza, aggressività, violazione delle regole e comportamenti antisociali auto-riferiti dall’altra parte. Non trovarono però una correlazione tra quelle manifestazioni e l’audacia, che invece era correlata a un maggiore «funzionamento adattivo», cioè a comportamenti prosociali e a una emotività nella norma.Una contro-obiezione a questi studi è che persone con alti livelli di meschinità e disinibizione, secondo altre ricerche, riescono a non finire nei guai – e quindi a non avere comportamenti antisociali da riferire – proprio grazie alla concomitanza di un alto livello di audacia. Uno studio del 2022, per esempio, suggerì che tra gli psicopatici di successo l’audacia sia un fattore protettivo in grado di mitigare gli effetti negativi della meschinità e migliorare il benessere soggettivo.Secondo Wallace gran parte del dibattito accademico sulla psicopatia continua ancora oggi a subire l’influenza storica della letteratura basata sullo studio delle persone responsabili di crimini e atti violenti, utilizzate come metro per valutare e diagnosticare la psicopatia. «Una volta etichettata la psicopatia come un disturbo clinico caratterizzato da estrema violenza, tutti i tratti positivi dell’adattamento vengono messi da parte», ha detto Wallace a Knowable Magazine, descrivendo quegli aspetti come invece meritevoli di maggiori attenzioni. LEGGI TUTTO

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    Il Nobel per la Medicina a Katalin Karikó e Drew Weissman

    Caricamento playerIl Premio Nobel per la Medicina è stato assegnato a Katalin Karikó e Drew Weissman «per le loro scoperte sulle modifiche alle basi azotate dei nucleosidi che hanno reso possibile lo sviluppo di vaccini a mRNA efficaci contro COVID-19». Il Premio viene assegnato annualmente ed è uno dei più importanti riconoscimenti in campo scientifico.Il lavoro di Karikó e Weissman è stato essenziale per lo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus, che hanno permesso di salvare la vita di milioni di persone riducendo i rischi di soffrire di forme gravi di COVID-19. In particolare, i due premiati hanno permesso di comprendere meglio il modo in cui l’RNA messaggero (mRNA) interagisce con il sistema immunitario, applicando metodi innovativi per vaccini di nuova generazione versatili e relativamente semplici da aggiornare.I miliardi di cellule di ciascuno di noi esistono grazie al materiale genetico, che viene trascritto in continuazione per consentire alle cellule di replicarsi e di produrre le proteine che provvedono a buona parte del loro funzionamento. In questo processo l’mRNA ha un ruolo centrale e a partire dagli anno Novanta Karikó iniziò a chiedersi se la molecola potesse essere utilizzata per contrastare alcune malattie. Era un’idea molto difficile da realizzare e che stava costando alla ricercatrice numerosi rifiuti di finanziamento da parte di università, fondi pubblici e privati negli Stati Uniti.– Leggi anche: La grande scommessaL’idea di base di Karikó non era in realtà così impossibile: visto che le cellule ricevono istruzioni dall’mRNA per produrre le proteine che ci mantengono vivi e in salute, perché non realizzare dell’mRNA sintetico per indurre le cellule a creare particolari proteine a proprio piacere? Potrebbero essere enzimi per ridurre gli effetti di una malattia, fattori di crescita per ripristinare attività nel sistema nervoso, o ancora anticorpi per renderci immuni da specifiche malattie.Nel 1990 un gruppo di ricerca dell’Università del Wisconsin era riuscito a ottenere un risultato simile su alcune cavie di laboratorio, ma c’era un problema di fondo: il nostro organismo ha diversi sistemi di controllo e di difesa per evitare che istruzioni che ritiene scorrette nell’mRNA, come quelle modificate artificialmente, possano raggiungere le cellule facendo potenzialmente danni. La difesa comporta la distruzione delle informazioni, ma può anche portare a una risposta immunitaria.Dopo sei anni trascorsi presso l’Università della Pennsylvania, nel 1995 Karikó perse diverse possibilità di carriera proprio perché non aveva le risorse per portare avanti le proprie ricerche. Negli anni seguenti le cose iniziarono a cambiare: Karikó incontrò Drew Weissman, un immunologo dell’Università di Boston, e insieme elaborarono nuovi sistemi per eludere quelle attività di controllo del nostro organismo.I due ricercatori puntarono all’origine dell’mRNA: i nucleosidi, cioè i quattro mattoncini che lo compongono a livello molecolare e a che a seconda di come sono combinati forniscono le istruzioni alle cellule. Si resero conto che nelle versioni sintetiche – quindi realizzate in laboratorio – dell’mRNA uno dei mattoncini finiva per attivare le difese da parte dell’organismo, impedendo la trasmissione delle istruzioni alle cellule per produrre le proteine desiderate. Dopo numerosi esperimenti, Karikó e Weissman trovarono il modo di modificare lievemente il mattoncino che faceva da spia, in modo che l’mRNA sintetico riuscisse a passare inosservato e a essere trasportato nelle cellule.A partire dal 2005, i due iniziarono a pubblicare le proprie scoperte su diverse riviste scientifiche, ricevendo attenzione per lo più da altri ricercatori che avevano iniziato a lavorare all’mRNA. Il sistema funzionava, ma non era ancora molto raffinato e in pochi riuscivano a comprenderne a fondo le potenzialità. Tra questi c’erano ricercatori che avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella nascita di Moderna e BioNTech (con Pfizer), e che ora sono famosi in tutto il mondo per i loro vaccini contro il coronavirus.I primi tentativi di sviluppare vaccini a mRNA, per esempio contro il virus Zika e quello che causa la MERS, non portarono a risultati particolarmente incoraggianti. Le ricerche si intensificarono però a partire dal 2020 con l’emergere del SARS-CoV-2, il coronavirus responsabile dei casi di COVID-19. In poco meno di un anno dall’emergere del nuovo virus, fu possibile sviluppare vaccini altamente efficaci, che non impediscono l’infezione virale, ma riducono di molto i rischi di sviluppare forme gravi della malattia, che possono anche causare la morte.Secondo gli esperti, nei prossimi anni le piattaforme sulle quali sono stati costruiti i vaccini a mRNA renderanno possibile lo sviluppo di vaccini di nuova generazione per molte altre malattie, semplificando le attività di prevenzione e riducendo la letalità di alcuni virus.Katalin Karikó è nata nel 1955 a Szolnok in Ungheria, ha conseguito un dottorato nel 1982 e ha poi lavorato per alcuni anni all’Accademia delle scienze ungherese di Szeged. Si è poi trasferita negli Stati Uniti dove ha lavorato in diversi centri di ricerca universitari ed è ora tra i principali dirigenti di BioNTech.Drew Weissman è nato nel 1959 a Lexington nel Massachusetts (Stati Uniti) e ha conseguito un dottorato in medicina all’Università di Boston nel 1987. Ha lavorato in diversi centri di ricerca ed è responsabile della divisione che si occupa di innovazione legata all’RNA presso il Penn Institute. LEGGI TUTTO