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    La scomparsa dei crateri

    Caricamento playerFlagstaff è una città al centro dell’Arizona (Stati Uniti), ci vivono circa 66mila persone e non ha particolari attrattive se non quella di essere una delle vie di accesso per raggiungere il Grand Canyon, a un’ora di auto più a nord. L’enorme gola è la principale attrazione turistica nella zona, una delle migliori e più evidenti testimonianze dei lenti processi geologici che in milioni di anni plasmano la Terra. Ma c’è un’altra attrazione meno nota una sessantina di chilometri a est di Flagstaff che mostra invece come una grande area del nostro pianeta possa cambiare in pochi istanti. È il Meteor Crater, un grande cratere largo 1,2 chilometri e profondo 170 metri che si formò in seguito all’impatto di un meteorite circa 50mila anni fa.Il cratere si formò quando l’altopiano del Colorado aveva un clima più fresco e umido dell’attuale: era un ampio pianoro erboso popolato da molti animali compresi i mammut. Un giorno in cielo apparve una grande meteora, probabilmente con un diametro di una cinquantina di metri, che iniziò a sgretolarsi nell’atmosfera prima di raggiungere il suolo ad alta velocità. L’energia liberata al momento dell’impatto fu enorme (10 megatoni), produsse un’ampia depressione con un margine alto una sessantina di metri, un effetto che ricorda quello che si osserva nell’acqua nei primi istanti dopo aver lanciato un sasso in una pozzanghera.Complice la sua giovane età, il Meteor Crater è considerato uno dei crateri meglio conservati della Terra, anche se i processi di erosione hanno fatto sì che le creste lungo la sua circonferenza perdessero una ventina di metri di altezza. Lentamente, ma inesorabilmente, il cratere continuerà a modificarsi fino a diventare sempre meno visibile. Accadrà in tempi lunghissimi per noi umani, ma relativamente brevi per i processi geologici che in milioni di anni cambiano il nostro pianeta. E sono proprio questi fenomeni a rendere difficile lo studio degli impatti con meteoriti che hanno riguardato la Terra e che potrebbero aiutarci a comprendere molte cose del suo passato.(NASA)Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Geophysical Research: Planets ha segnalato che le tracce dei crateri più antichi, dunque molto più vecchi rispetto al Meteor Crater, stanno scomparendo e sono ormai difficili da studiare. Secondo l’analisi, i crateri più vecchi di due miliardi di anni sono probabilmente ormai indistinguibili dalle altre formazioni rocciose, soprattutto a causa dei fenomeni di erosione naturale. Due miliardi di anni sono una dimensione temporale difficile da immaginare per i nostri tempi umani, ma non sono moltissimi per un pianeta come il nostro che ha circa 4 miliardi e mezzo di anni.La ricerca cita in particolare il caso del cratere Vredefort, il più grande cratere meteoritico conosciuto della Terra, che si trova in Sudafrica. Quando si formò a causa del grande impatto, la struttura aveva un diametro massimo stimato tra i 180 e i 300 chilometri. Si formò poco più di due miliardi di anni fa nel Paleoproterozoico, la prima delle tre ere geologiche del Proterozoico, in cui i continenti iniziarono a stabilizzarsi e iniziarono a emergere i primi lontani parenti degli eucarioti, che avrebbero poi portato a buona parte delle forme di vita che conosciamo oggi.Ciò che resta del cratere Vredefort (NASA)Secondo i calcoli dello studio se il cratere si fosse formato 200 milioni di anni prima, oggi non sarebbero più visibili le sue tracce, già ampiamente ridotte rispetto a quanto poteva essere osservato nei milioni di anni dopo l’impatto. Il fatto che i crateri scompaiano non è certo una novità, ma soffermarsi sulle implicazioni del fenomeno può aiutare a mettere nella giusta prospettiva un pezzo importante della storia del pianeta.I dati satellitari, le ricognizioni aeree e lo studio dei minerali hanno permesso di identificare con certezza circa 200 crateri dovuti a un impatto con un meteorite. I più antichi hanno intorno ai 2 miliardi di anni, proprio come nel caso del cratere Vredefort, ma secondo gli autori dello studio è probabile che i crateri siano molti di più. Non sappiamo di preciso dove avvennero alcuni degli impatti più importanti, ma sappiamo che si sono verificati perché ancora oggi possiamo riscontrarne gli effetti per lo meno indiretti.Per capire quando l’erosione fa sì che un cratere non possa essere più definito tale, semplicemente perché sono scomparse le sue strutture più rilevanti e si sono modificate le caratteristiche geologiche del territorio interessato, il gruppo di ricerca ha studiato il cratere Vredefort, concentrandosi sui minerali che si trovano nella zona dell’impatto. I ricercatori hanno raccolto campioni per 20 chilometri, mettendo a confronto le caratteristiche fisiche delle rocce presenti nel cratere con quelle che non avevano invece subito gli effetti dell’impatto, con la produzione di alte temperature che modificano la struttura dei minerali.Dal confronto è emerso che ormai le rocce legate all’impatto sono indistinguibili da quelle che non erano state coinvolte dall’arrivo del meteorite. Nel corso di miliardi di anni di piogge, vento, altri processi di erosione e geologici le differenze sono scomparse. «A un certo punto, perdiamo tutte le caratteristiche che rendono un cratere un cratere» ha spiegato uno degli autori della ricerca.Su una scala ancora più grande del cratere Vredefort, la ricerca segnala che probabilmente una parte rilevante della storia geologica del nostro pianeta è persa per sempre. La riduzione delle differenze tra aree di impatto e non, fino al loro azzeramento, è la causa principale della grande difficoltà nell’identificare zone di impatto molto antiche che potrebbero aiutare i gruppi di ricerca a comprendere altri processi. Gli impatti non solo determinarono il repentino cambiamento di ampie aree, ma ebbero probabilmente un influsso sulla formazione dei primi esseri viventi, senza contare eventi più catastrofici come quello legato all’estinzione dei dinosauri, forse il caso di impatto meteoritico più conosciuto e ancora oggi molto discusso.È probabile che crateri molto antichi siano sommersi nelle profondità oceaniche, dove la raccolta dei minerali per compiere analisi e fare confronti è più difficoltosa e richiede importanti investimenti economici. I sistemi per rilevare a distanza le caratteristiche dei fondali, nell’ambito dei progetti per mapparli, offrono talvolta indizi sulla presenza di siti anticamente interessati da un impatto meteoritico. Come mostra il caso di Vredefort, comunque, più si va indietro nel tempo più diventa difficile distinguere quelle zone.Il cratere lunare Shackleton (NASA)Per trovare nuovi spunti di ricerca e comprendere meglio le caratteristiche dei crateri alcuni gruppi di ricerca preferiscono guardare verso l’alto, spingendosi oltre l’atmosfera terrestre. La Luna, il nostro satellite naturale, è famosa per avere una grande quantità di crateri che si sono formati in seguito a impatti con meteoriti di varie dimensioni. A differenza della Terra, la Luna ha un’atmosfera del tutto trascurabile ed è quindi meno interessata dai processi di erosione, circostanza che porta i suoi crateri a non modificarsi più di tanto nel corso del tempo. LEGGI TUTTO

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    Abbiamo usato per anni farmaci contro il “naso chiuso” inefficaci

    Dopo anni di studi, test clinici e ricorsi, la scorsa settimana una commissione della Food and Drug Administration (FDA, l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) ha definito inefficaci i farmaci orali che contengono fenilefrina, venduti da quasi vent’anni come una soluzione per alleviare la congestione nasale dovuta al raffreddore e all’influenza. I farmaci che la contengono sono molto diffusi negli Stati Uniti, ma alcune versioni simili sono vendute anche in Europa e in Italia, insieme ad altri principi attivi: come il Tachifludec, il prodotto da banco contenente fenilefrina per uso orale più venduto e pubblicizzato proprio per le sue proprietà decongestionanti.Sulla base delle conclusioni della commissione, la FDA dovrà decidere che cosa fare dei farmaci di questo tipo, che secondo la stessa agenzia negli ultimi anni hanno portato a vendite annuali intorno agli 1,7 miliardi di dollari, numero che probabilmente sottostima l’effettivo giro di affari di questi medicinali. In Italia si stima che nel 2022 siano stati venduti tra 3,5 e 4 milioni di confezioni di farmaci orali con fenilefrina indicati come decongestionanti. In entrambi i casi sono volumi di vendite ingenti per un principio attivo sul quale c’erano forti dubbi per lo meno sul suo impiego per via orale già da tempo.La fenilefrina era stata approvata dalla FDA a metà degli anni Settanta, ma aveva iniziato a essere presente nei farmaci contro il “naso chiuso” soprattutto dopo il Duemila, in seguito alla decisione di imporre maggiori limitazioni all’utilizzo della pseudoefedrina, una molecola dalla provata efficacia nel ridurre la congestione nasale. La decisione di limitarla, prima a livello statale e poi federale, derivava dal tentativo di ridurre la produzione illegale di alcune sostanze come le metanfetamine sfruttando i composti della pseudoefedrina. Messe davanti alle limitazioni che avrebbero reso più complicata la vendita dei loro prodotti, varie aziende farmaceutiche decisero di passare alla fenilefrina, nonostante circolassero già molti dubbi sull’efficacia della molecola nei prodotti orali (l’efficacia della molecola negli spray nasali è ancora dibattuta, invece).Le farmacie iniziarono a consigliare i decongestionanti con fenilefrina ai propri clienti e alcuni segnalarono ai loro medici di non avere trovato giovamento dalla terapia. Tra questi c’era Randy Hatton, oggi professore di farmacia all’Università della Florida, che fece richiesta per ottenere la documentazione utilizzata dalla FDA che aveva portato all’approvazione per quell’uso del principio attivo negli anni Settanta. Dall’analisi del materiale emerse che la FDA si era basata su 14 studi e che cinque di quelli che riportavano esiti positivi erano stati effettuati dallo stesso centro di ricerca, con risultati migliori rispetto alle altre ricerche. Escludendo quei cinque studi, la fenilefrina per uso orale ai dosaggi studiati non sembrava essere un decongestionante particolarmente efficace.Gli studi erano comunque datati ed era difficile trarre qualche conclusione più solida. Nel 2007 Hatton presentò insieme ad alcuni colleghi una petizione alla FDA, chiedendo che fosse rivista la dose di fenilefrina da impiegare arrivando a un dosaggio tale da sortire qualche effetto. La richiesta non era quindi di interrompere l’impiego della molecola, visto che il riesame delle analisi condotte negli anni Settanta aveva evidenziato qualche stranezza, ma nulla che facesse mettere completamente in dubbio il processo di approvazione o l’efficacia in assoluto della fenilefrina.In seguito alla petizione la FDA attivò un nuovo gruppo di lavoro per fare il punto sulla situazione. Furono presentati alcuni dati raccolti da un’azienda farmaceutica – poi confluita dentro Merck (al di fuori del Nordamerica è nota col nome Merck Sharp Dohme o MSD) – che voleva utilizzare la fenilefrina in un proprio prodotto contro le allergie. I dati erano a dir poco deludenti: il gruppo di ricerca per conto dell’azienda farmaceutica aveva rilevato che dopo l’ingestione buona parte della fenilefrina veniva disgregata nell’apparato digerente, con bassissime percentuali (intorno all’1 per cento) di principio attivo che finiva poi in circolazione nel sangue. La quantità di fenilefrina che raggiungeva le mucose nasali era quindi trascurabile al punto da non poter intervenire per ridurre la congestione. Erano stati inoltre segnalati studi nei quali era emerso come la fenilefrina non fosse meglio di una sostanza che non fa nulla (placebo) nel trattare la congestione nasale dovuta alle allergie da pollini.Nonostante i nuovi elementi, i lavori della commissione consultiva si conclusero senza decisioni sulla fenilefrina per uso orale: i farmaci che la impiegavano come decongestionanti potevano continuare a essere venduti, ma si richiedevano nuovi studi per capire se dosi maggiori del principio attivo portassero a qualche risultato, come già richiesto nella petizione inviata da Hatton e colleghi.I più interessati a proseguire le ricerche erano gli scienziati di Merck, alla ricerca di un prodotto per trattare le allergie. Effettuarono due test clinici i cui risultati furono pubblicati nel 2015 e nel 2016 dai quali emerse che anche aumentando molto i dosaggi, fino a quattro volte, non si riscontravano effetti nel ridurre la congestione nasale.Dopo la pubblicazione di quegli studi, Hatton e colleghi presentarono una nuova petizione alla FDA che ha infine portato alle conclusioni della scorsa settimana di un nuovo gruppo di lavoro dell’agenzia. Dei suoi sedici componenti, tutti hanno votato a favore del parere non vincolante sull’inutilità della fenilefrina. Sulla base di questa indicazione, la FDA nei prossimi mesi deciderà che cosa fare, ma secondo gli esperti appare improbabile che non siano assunte decisioni più incisive sulla questione rispetto al passato.Le decisioni della FDA potrebbero avere qualche conseguenza anche nell’Unione Europea, dove la responsabilità sui farmaci è dell’Agenzia europea per i medicinali e delle agenzie nazionali, come l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) in Italia. Nell’Unione Europea sono venduti vari prodotti decongestionanti che oltre alla fenilefrina comprendono altri principi attivi, come per esempio il paracetamolo o antinfiammatori non steroidei. In alcuni casi queste altre molecole hanno un blando effetto decongestionante, legato alla loro capacità di ridurre l’infiammazione: un minimo risultato c’è, ma non è legato alla fenilefrina.A differenza degli Stati Uniti, nell’Unione Europea sono inoltre reperibili con maggiore facilità i farmaci che contengono pseudoefedrina, la cui capacità decongestionante è nota da tempo. La molecola è presente in numerosi prodotti da banco come Actigrip e Aspirina Influenza e Naso Chiuso in Italia, con chiare indicazioni sui potenziali effetti indesiderati legati alla pseudoefedrina. Nel nostro paese questo tipo di farmaci ha fatto registrare più del doppio delle vendite rispetto a quelli con fenilefrina.In futuro anche la pseudoefedrina potrebbe essere limitata nell’Unione Europea come negli Stati Uniti, ma per motivi diversi. A febbraio di quest’anno, l’EMA ha infatti avviato una revisione in seguito a un piccolo numero di casi in cui l’assunzione di farmaci contenenti la molecola è avvenuta in persone che hanno sofferto di alcune patologie ai vasi sanguigni cerebrali. La valutazione è ancora in corso e richiederà del tempo per analizzare tutti i dati disponibili, le segnalazioni da parte della farmacovigilanza e le conoscenze maturate sulla pseudoefedrina. Al termine del processo, se necessario, la Commissione Europea adotterà nuove regole vincolanti per tutti gli stati membri. La procedura viene svolta per numerosi principi attivi e non sempre porta a nuove regole e limitazioni. LEGGI TUTTO

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    La giusta atmosfera per cercare vita aliena

    Caricamento playerQuando nel luglio del 2022 il James Webb Space Telescope (JWST) – il telescopio spaziale più potente mai realizzato – iniziò a mostrare stelle, galassie e nebulose in grande dettaglio fu immaginato che presto grazie ai suoi strumenti avremmo potuto trovare indizi su mondi lontanissimi da noi che potrebbero ospitare la vita. E in poco più di un anno di attività alcuni dati raccolti dal JWST mostrano in effetti che un pianeta che si trova al di fuori del nostro sistema solare (un “esopianeta”) ha nella propria atmosfera alcuni composti chimici noti per essere legati alla vita, qui sulla Terra.Siamo ancora molto distanti dal poter confermare l’esistenza di forme di vita diverse da quelle terrestri, almeno per come le conosciamo, ma i risultati ottenuti grazie al JWST confermano quanto sia promettente lo studio delle atmosfere degli esopianeti per rispondere alla domanda delle domande: siamo soli nella vastità del cosmo?È una questione che si sono posti pensatori, filosofi, scrittori, poeti e scienziati ben prima che iniziassimo ad avventurarci oltre l’atmosfera terrestre poco meno di 70 anni fa. Dare una risposta si è rivelato molto più complesso del previsto non solo nel caso di mondi così lontani illuminati da stelle la cui luce impiega un’enorme quantità di anni per raggiungerci, ma anche per i pianeti che si trovano nel nostro vicinato cosmico e che possiamo esplorare direttamente con sonde e robot, come Marte. Negli ultimi decenni chi si occupa di astronomia e astrobiologia ha raccolto indizi importanti, a volte convincenti e a volte meno, ma comunque insufficienti per dichiarare con certezza l’esistenza della vita fuori dalla Terra.La scoperta di una grande quantità di sistemi solari oltre al nostro, cioè di stelle con pianeti che orbitano loro intorno, ha permesso di rivedere analisi e modelli sulla probabilità che alcuni di quei mondi ospitino qualche forma di vita. Sono posti troppo distanti per essere raggiunti con le sonde, ma ci sono comunque modi per studiarli e andare alla ricerca di eventuali “firme biologiche”, cioè di sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. L’eventualità di riuscirci appare oggi molto più probabile di un tempo e per i più ottimisti è solo questione di tempo, e soprattutto di guardare nel punto giusto.K2-18b, l’esopianeta a 124 anni luce da noi osservato dal JWST, è un buon esempio di dove andare a guardare. Si chiama così perché orbita intorno a K2-18, la sua stella di riferimento. I sistemi solari sono tanti e catalogarli tutti con nomi particolari non sarebbe pratico, di conseguenza per convenzione si utilizzano combinazioni di lettere e numeri scelte con alcuni criteri. Uno di questi prevede di nominare i pianeti con il nome della loro stella di riferimento seguito da una lettera dell’alfabeto partendo dalla “b”. L’assegnazione della lettera avviene in ordine cronologico, quindi la “b” indica il primo esopianeta a essere scoperto in un sistema solare, la “c” il secondo e così via. K2-18b è stato quindi il primo esopianeta a essere scoperto in orbita a K2-18.K2-18b in una rappresentazione artistica (NASA)Trovare gli esopianeti non è semplice, ma negli ultimi decenni le possibilità di ricerca sono migliorate grazie ad alcuni telescopi spaziali realizzati per questo scopo, come Kepler della NASA. Non possiamo osservare direttamente questi corpi celesti perché sono troppo distanti da noi, ma possiamo rilevarne (o più correttamente “rivelarne”) la presenza calcolando come varia la luminosità della stella intorno a cui orbitano. Quando le passano davanti, rispetto al nostro punto di osservazione, fanno diminuire temporaneamente la luminosità apparente della stella dandoci un indizio sulla loro presenza. Rilevare questa debolissima oscillazione richiede strumenti molto precisi e messi a debita distanza dai disturbi dovuti all’atmosfera terrestre: per questo i telescopi sono “spaziali”, perché effettuano le loro osservazioni stando direttamente nello Spazio.K2-18b, che ha una massa otto volte quella della Terra, fu scoperto nel 2015 proprio grazie a Kepler e attirò presto l’attenzione di vari gruppi di ricerca per la sua posizione rispetto alla stella K2-18, una “nana rossa” meno luminosa e più fredda del Sole. Questo significa che per essere esposto alla stessa quantità di energia che riceve la Terra, l’esopianeta deve essere più vicino alla sua stella di quanto lo sia il nostro pianeta al Sole.K2-18b si trova infatti a una distanza media di circa 24 milioni di chilometri da K2-18, poco più del 15 per cento della distanza media Terra-Sole. Considerata l’energia prodotta dalla nana rossa, l’esopianeta riceve circa 1,22 kilowatt per metro quadrato, non molto distante dagli 1,36 del nostro pianeta. In altri termini: la stella è poco potente, ma la maggiore vicinanza permette comunque all’esopianeta di ricevere quantità di energia paragonabili alle nostre.Le stime sono derivate dalle conoscenze sulle caratteristiche di K2-18 e della distanza a cui si trova K2-18b, ma sono appunto stime e non possono fornirci informazioni molto più precise. Il calcolo è basato su un pianeta ideale e non tiene in considerazione numerose altre variabili, come per esempio quanto la sua superficie sia riflettente o se ci siano nuvole nella sua atmosfera, che a loro volta potrebbero riflettere una parte della radiazione solare come avviene qui sulla Terra.Distanza e caratteristica della stella ci dicono che K2-18b si trova in una “zona abitabile”, cioè a una distanza tale dalla sua stella da avere una temperatura superficiale media paragonabile a quella terrestre, di conseguenza potenzialmente idonea a ospitare acqua senza che questa sia sempre congelata o che si vaporizzi completamente. Dove c’è acqua sulla Terra c’è quasi sempre vita, di conseguenza l’indicazione di “zona abitabile” riceve sempre grandi attenzioni soprattutto da parte dei media, che rinnovano periodicamente le grandi aspettative sugli annunci legati alla vita aliena. La presenza di acqua è infatti una condizione importante, ma non necessariamente sufficiente per sostenere che su un mondo diverso dal nostro ci siano organismi viventi.Quella creazione di grandi aspettative aveva coinvolto anche K2-18b qualche anno fa. Rimasto un sorvegliato speciale dopo la sua scoperta, nel 2019 l’esopianeta era finito su tutti i giornali in seguito ad alcune osservazioni effettuate con il telescopio spaziale Hubble, che insieme ad altri dati avevano portato a ipotizzare la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera del pianeta, un indizio della possibile presenza di acqua sulla sua superficie.Ulteriori studi avrebbero poi portato a indicare K2-18b come un probabile “pianeta hycean”, cioè un pianeta in una zona abitabile ricoperto da un oceano e con un’atmosfera ricca di idrogeno, potenzialmente compatibile con la vita (hycean deriva dalle parole inglesi hydrogen e ocean). La presenza dell’oceano, l’esistenza di un grande strato di ghiaccio superficiale e le ipotesi sulla natura rocciosa del pianeta sono ancora dibattute, proprio a causa della quantità limitata di dati che possiamo raccogliere a così grande distanza.Un telescopio più potente può però aiutarci a capire qualcosa di più ed è quello che sta facendo il James Webb Space Telescope. Grazie ai suoi strumenti è stato possibile raccogliere nuovi dati su K2-18b, che sembrano indicare la presenza di gas a noi familiari, perché presenti nella nostra atmosfera, la cui composizione deriva in buona parte dagli organismi viventi che popolano il pianeta. Oltre all’anidride carbonica e al metano sono stati trovati indizi sulla presenza di dimetil solfuro (DMS), una sostanza organica che è prodotta per lo più dalle alghe marine: è, insieme ad altri composti, ciò che costituisce la salsedine, o più in generale l’odore del mare.Le firme biologiche rivelate dagli strumenti del JWST sono a oggi il più grande indizio su cosa potrebbe accadere su K2-18b a 124 anni luce da noi. La notizia dei nuovi dati è stata comunicata con una certa enfasi dai gruppi di ricerca che se ne sono occupati, ma è bene ricordare che al momento non possiamo sapere quanto siano corrispondenti alla realtà i risultati dei loro studi. L’incertezza dipende dalla tecnica che viene usata per trovare le firme biologiche e che ha sempre a che fare con l’impossibilità di osservare direttamente un mondo così lontano da noi con gli attuali strumenti.Il metodo consiste nello scegliere una fonte luminosa e misurare come cambia la luce quando questa attraversa l’atmosfera dell’esopianeta che le passa davanti. I vari composti atmosferici lasciano passare la luce in modo diverso, assorbendo solo alcune delle sue lunghezze d’onda, e queste differenze possono essere colte dagli spettrografi, speciali strumenti per osservare e analizzare la radiazione elettromagnetica emessa da una determinata sorgente. Potete immaginarli come una versione molto elaborata dei prismi che si usano negli esperimenti a scuola per “scomporre” la luce nei colori dell’arcobaleno. Il JWST è dotato di due spettrografi molto precisi e sensibili, per l’osservazione di sorgenti a grande distanza.(Wikimedia)Immaginate di osservare una lampadina con o senza un foglio di plastica trasparente di mezzo: noterete più o meno la stessa cosa. Aggiungete qualche decina di altri fogli sempre trasparenti, ma di colori diversi: la lampadina continuerà a essere visibile, ma la sua luce apparirà molto diversamente da prima. Ora immaginate di dover partire da quella luce e di dover ricostruire i vari colori dei fogli attraverso cui passa. Su una scala molto diversa, si fa qualcosa di simile con la spettrografia per capire quali sostanze siano presenti nell’atmosfera del pianeta, ma utilizzando una parte della radiazione elettromagnetica che non riusciamo a vedere a occhio nudo. Non è una cosa da poco e i dati lasciano spazio a stime e interpretazioni che possono poi essere smentite con la raccolta di nuove analisi e dati.La rivelazione del DMS, per esempio, è stata effettuata con due sole osservazioni di K2-18b da parte del James Webb Space Telescope, a dimostrazione delle potenzialità del nuovo telescopio. Ulteriori osservazioni potranno consentire di raccogliere nuovi dati e di affinare le analisi su un tipo particolare di pianeti, con caratteristiche diverse dai pianeti rocciosi. Per le loro caratteristiche, i pianeti hycean sono considerati ideali per le osservazioni atmosferiche.Risultato di una ipotetica analisi dello spettro dell’atmosfera di un esopianeta durante il transito davanti alla propria stella di riferimento (NASA)Per quanto ne sappiamo finora, le probabilità che ci sia vita su K2-18b continuano a essere molto basse, anche se l’eventualità non può essere esclusa del tutto. Lo studio delle caratteristiche del pianeta è comunque molto importante per affinare e sviluppare nuove tecniche di ricerca delle firme biologiche. Per vari esopianeti e per alcune lune del nostro sistema solare si ipotizzano condizioni ambientali estreme in cui gli organismi viventi avrebbero poche possibilità di resistere. Al tempo stesso, sulla Terra vengono scoperte spesso nuove specie in grado di sopravvivere a grandi profondità negli oceani, per esempio in prossimità dei getti caldissimi delle sorgenti idrotermali o tra i ghiacci dei Poli. Tra questi ci sono i microrganismi “estremofili”, sui quali si concentrano spesso gli studi di astrobiologia per capire come potrebbero essere fatte forme di vita su altri mondi all’apparenza poco ospitali.Capire come si è fatti è del resto fondamentale per capire gli altri. Qualcosa di analogo vale anche per la Terra e gli altri pianeti. Alla fine degli anni Ottanta, l’astrofisico e divulgatore scientifico statunitense Carl Sagan propose con alcuni colleghi di utilizzare la sonda Galileo della NASA per capire se si potesse rilevare la vita sulla Terra dallo Spazio utilizzando i sensori di una sonda. Galileo era stata progettata per avvicinarsi a Giove e alle sue lune per studiarle, sfruttando la spinta orbitale di altri corpi celesti compresa la Terra compiendo alcuni passaggi ravvicinati. Nel 1993 Sagan pubblicò i risultati del suo lavoro sulla rivista scientifica Nature, elencando ciò che era stato possibile rilevare con la sonda e che in seguito sarebbe diventato noto come i “criteri di Sagan per la vita”.Quella ricerca viene spesso indicata come una delle fondamenta dell’astrobiologia, disciplina che negli ultimi anni ha avuto una rapida evoluzione e che come abbiamo visto con K2-18b offre strumenti e prospettive importanti per la ricerca della vita in altri mondi. Sagan insieme al collega Frank Drake era del resto tra i più convinti sostenitori del “principio di mediocrità”, secondo il quale sulla grande scala dell’Universo non c’è proprio niente di particolare nella Terra e nello sviluppo dell’umanità, perché non c’è nulla che impedisca agli stessi fenomeni che lo hanno reso possibile di verificarsi altrove e in molte altre circostanze nel cosmo. È un principio che si contrappone all’ipotesi della rarità della Terra, secondo cui la vita sul nostro pianeta si è sviluppata grazie a un insieme estremamente improbabile di condizioni e per questo difficilmente replicabile. I due approcci sono discussi da tempo e contrastanti, ma condividono una possibile soluzione: continuare a cercare. LEGGI TUTTO

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    La tempesta delle alluvioni in Libia era un “medicane”?

    Le gravi alluvioni in Libia che secondo le autorità della parte orientale del paese hanno causato la morte di più di 3mila persone sono dovute alla tempesta Daniel, che in precedenza era passata sulla Grecia, provocando anche lì grandi allagamenti. Nell’attraversare il mar Mediterraneo la tempesta è probabilmente diventata più intensa, tanto che se ne è parlato come di un possibile ciclone simil-tropicale, o medicane (che si pronuncia “medichein”), un raro tipo di perturbazione che ha caratteristiche simili agli uragani, le tempeste che tipicamente colpiscono la costa orientale del Nord America. Pare tuttavia che non sia stato il caso di Daniel.Full timelapse of Storm #Daniel ⛈️Daniel brought devastating flooding to central Greece as the system stalled in the Mediterranean Sea.When the system finally moved south, it strengthened into a Medicane tropical-like system before landfalling near Benghazi, Libya. pic.twitter.com/nCs0icxua3— Zoom Earth (@zoom_earth) September 10, 2023L’espressione “ciclone simil-tropicale” è usata in meteorologia per descrivere delle tempeste che avvengono nel bacino del mar Mediterraneo, ma anche sul mar Nero, che condividono alcune caratteristiche con le tempeste tropicali e gli uragani, pur avendo dimensioni molto minori. “Medicane” invece è una crasi delle parole “mediterranean” e “hurricane” e per questo si pronuncia all’inglese. Nella comunità scientifica è un termine meno usato rispetto a “ciclone simil-tropicale”, e più o meno sono usati come sinonimi.I medicane hanno una forma simile a quella delle tempeste tropicali che si formano negli oceani, cioè spirali con un occhio al centro, ma al di là delle dimensioni i due fenomeni si differenziano per la loro diversa origine.Le tempeste tropicali nascono quando gli strati d’acqua superficiali dell’oceano hanno temperature particolarmente elevate, pari o superiori ai 26 °C. In queste condizioni, l’evaporazione aumenta e così la quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Il vapore poi condensa in grandi nubi: rilascia calore, produce un abbassamento della pressione e un’intensificazione del vento vicino alla superficie del mare. L’intera sequenza si ripete in un processo a catena creando la tempesta.I medicane invece non si formano a causa delle condizioni marine. La loro origine è atmosferica: si generano quando si incontrano una massa d’aria calda tipicamente di origine subtropicale e una massa d’aria fredda tipicamente di origine subpolare. Assumono però caratteristiche simili alle tempeste tropicali perché quando passano sul mare la loro parte centrale, più calda, “si carica” dell’acqua che evapora e la trasporta con sé. A quest’acqua si devono poi le precipitazioni legate alla tempesta.Non avendo origine marina, i medicane si verificano anche quando le temperature marine di superficie sono più basse, comprese tra i 15 e i 26 °C. È comunque più probabile che si formino in autunno, quando il mare risente ancora del riscaldamento estivo. Generalmente non sono più di uno o due all’anno e finora nel 2023 non ce n’è stato nessuno accertato.Nel caso di Daniel sembra che non si siano verificate condizioni tali da poter parlare di medicane (non tutti i cicloni del Mediterraneo lo diventano) secondo Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR).La tempesta Daniel, la cui dinamica precisa è ancora in corso di analisi, è stata molto intensa a causa del cosiddetto “blocco a omega” che negli ultimi giorni si è manifestato in Europa, spiega Sante Laviola: «È una struttura atmosferica con una forma che ricorda la lettera greca omega: nelle pieghe dell’omega, la sua parte inferiore, ci sono zone di bassa pressione, mentre nella parte centrale una zona di alta pressione. Noi in Italia eravamo nella zona di alta pressione, quindi abbiamo avuto bel tempo. Nella parti estreme, la Grecia da una parte, e la Spagna e il Portogallo dall’altra, ci sono stati bassa pressione e temporali». La zona di alta pressione è quella a cui si devono le alte temperature raggiunte sulle Alpi, che in alcuni casi hanno battuto dei record raggiunti nell’estate del 2003 e in quella del 2022, entrambe ricordate per il caldo estremo.The current #weather situation in Europe is a textbook Omega block. While central Europe will “enjoy” a #heatwave, Greece will face a #medicane with disastrous damages due to heavy rain and #floods fueled by an extremely hot #MediterraneanSea. #ClimateEmergency #heavyrain pic.twitter.com/qtkNTX9ZLg— Dr. Monica Ionita 🇷🇴 🇩🇪 🇪🇺🌡🌧💧🔥🌊 (@IonitaMoni) September 5, 2023Si parla di blocco a omega perché in concreto quello che succede è che la zona di alta pressione, cioè l’anticiclone, blocca per un periodo di tempo piuttosto lungo le perturbazioni delle pieghe dell’omega.Giulio Betti, meteorologo del CNR e del Consorzio LaMMA, il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale della Regione Toscana, aggiunge: «Quello che colpisce dei fenomeni degli ultimi giorni è la durata causata dalla configurazione a omega, che probabilmente è favorita dal cambiamento climatico. Le ondate di calore e gli anticicloni di blocco, come quelli che hanno fatto superare i record termici in Canada nel 2021 e che hanno causato la siccità nel 2022, sono favoriti dal cambiamento climatico».Per quanto riguarda i medicane, stando agli studi disponibili, con il cambiamento climatico potrebbero diventare meno frequenti ma più intensi in caso di formazione. È la stessa previsione che è stata fatta anche per gli uragani. Infatti il riscaldamento dell’atmosfera (dovuto alle emissioni di gas serra delle attività umane) dovrebbe indebolire i movimenti di aria fredda che contribuiscono alla formazione dei cicloni simil-tropicali, ma al tempo stesso le maggiori temperature marine dovrebbero aumentare l’evaporazione e quindi la quantità d’acqua trasportata dai cicloni che comunque continueranno a formarsi.Prossimamente sarà possibile avere più informazioni sulla tempesta Daniel e fare analisi più approfondite. Sicuramente ha causato raffiche di vento molto forti: da 160 chilometri orari, una velocità maggiore rispetto a quella raggiunta dalle raffiche del medicane Apollo, che tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2021 arrivò in Sicilia. Furono più forti invece le raffiche del medicane Ianos, che interessò la Grecia nel settembre del 2020: raggiunsero i 190 chilometri orari.Il ciclone Daniel si è intensificato attraversando il Mediterraneo perché lì ha raccolto molto vapore acqueo dagli strati superficiali del mare, che essendo caldi causavano una notevole evaporazione. I grandi danni in Libia sono stati causati principalmente dal crollo di alcune dighe e ora la tempesta si sta spostando sull’Egitto, ma dato che non si trova più sul mare si sta esaurendo: l’energia delle tempeste infatti deriva dagli scambi con il mare e diminuisce quando questi fenomeni sovrastano la terraferma. LEGGI TUTTO

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    Baciare gli animali domestici è rischioso?

    Una decina di anni fa una donna di 44 anni si presentò in un ospedale in Giappone dicendo di avere un forte mal di testa, nausea e rigidità al collo. Dopo averla visitata, i medici avevano riscontrato febbre alta, ma nessun indizio di una infezione e nemmeno segni di ferite o punture di insetto. I sintomi indicati dalla paziente sembravano comunque indicare qualche problema neurologico e le furono prescritti altri esami. Le fu infine diagnosticata una meningite di origine batterica, ma non fu possibile stabilire che cosa l’avesse causata fino a quando la paziente ammise di avere l’abitudine di baciare il muso del proprio cane, passandogli talvolta il cibo stringendolo tra le labbra. Il grande trasporto verso il suo animale domestico le era costato una pericolosa infezione batterica, diagnosticata comunque per tempo e trattata con successo con alcuni antibiotici.Casi come quello giapponese sono rari e nella maggior parte delle circostanze la convivenza e le effusioni con gli animali domestici non portano a sviluppare zoonosi, cioè malattie infettive che vengono trasmesse dagli animali agli esseri umani. Le zoonosi domestiche hanno un’incidenza relativamente bassa rispetto ad altre malattie, ma secondo gli esperti molti casi passano inosservati e di conseguenza falsano le stime del fenomeno. Per quanto piccolo, il rischio esiste e può essere utile avere qualche conoscenza in più su cosa cani, gatti e altri animali possono trasmettere a chi li accudisce e non solo.I patogeni – come virus, batteri e parassiti – noti per passare dagli animali domestici a noi sono una settantina e non sempre causano sintomi evidenti in cani, gatti e altri animali da compagnia. Le vie di trasmissione possono essere dirette, per esempio in seguito al contatto con saliva, feci e altri fluidi corporei, oppure indirette quando si maneggiano sostanze contaminate come acqua, cibo o i materiali con cui gli animali restano a lungo vicino, come lettiere e cucce.Il rischio è solitamente più alto con i contatti diretti, dove c’è una stretta interazione tra l’animale e la persona che lo accudisce. Senza arrivare a scambiarsi il cibo di bocca come nel caso della paziente giapponese, molte persone quando giocano con un cane si lasciano leccare la faccia, con la saliva che può raggiungere le mucose della bocca e del naso, oppure depositarsi sugli occhi. Nel cavo orale di un cane c’è una grande quantità di batteri e altri microrganismi tipici della specie canina (Canis familiaris) contro i quali non abbiamo sempre difese adeguate.Tra i batteri che i cani possono trasmetterci ce ne sono alcuni appartenenti al genere Clostidrium, ma anche E. coli e quelli responsabili delle salmonellosi, tutti con il potenziale di causare malattie gastrointestinali. Il Pasteurella multocida trovato nella paziente giapponese, è presente in molte altre specie oltre ai cani (uccelli, gatti, conigli, maiali e bovini) e sebbene porti molto di rado alla meningite, può causare problemi all’apparato respiratorio e cardiaco innescando una risposta immunitaria eccessiva che finisce per danneggiare i tessuti.(AP Photo/Sergei Grits)I gatti sono meno inclini a leccare gli umani con cui vivono, ma si lisciano di frequente il pelo con cui si entra inevitabilmente in contatto. I casi di zoonosi sono comunque legati più che altro al modo in cui viene gestita la lettiera: per buona pratica si dovrebbero utilizzare guanti usa e getta quando si cambia la sabbia, o per lo meno ricordarsi di lavare accuratamente le mani per almeno 20-30 secondi al termine della pulizia. La via oro-fecale è infatti tra le principali modalità in cui si può contrarre infezioni come salmonellosi, toxoplasmosi o giardiasi, una malattia dovuta a un protozoo che invade l’apparato digerente causando nausea, vomito e diarrea.I contatti diretti che possono portare a una zoonosi comprendono morsi e graffi, che spesso coi gatti più sensibili si verificano alla minima incomprensione. Molti di loro fanno da serbatoio naturale al Bartonella henselae, un batterio noto non a caso per causare la malattia “da graffio di gatto”. Dopo qualche giorno nel punto della ferita si forma una pustola talvolta accompagnata dalla febbre. Normalmente il sistema immunitario riesce da solo a superare l’infezione nel giro di 2-4 mesi, ma nelle persone immunodepresse la malattia può durare molto più a lungo e causare altri effetti, come problemi al fegato.In generale, più si vive a stretto contatto con i propri animali domestici maggiori sono i rischi di dover fare i conti con qualche imprevisto. Oltre a farsi leccare la faccia, dare libero accesso alla camera da letto a cani e gatti può essere problematico. Dormire in compagnia dei propri animali domestici prolunga inevitabilmente i tempi di esposizione a eventuali patogeni. Lo stesso vale per altre zone della casa, per esempio nel caso in cui si lascino i gatti liberi di saltare sui pensili della cucina, ammesso che ci sia un modo davvero efficace per impedirglielo.(Brooke Cagle su Unsplash)Mentre per le persone in salute i rischi sono tutto sommato bassi, per alcune categorie viene consigliata qualche precauzione in più. I bambini hanno occasioni di contatto più stretto con gli animali domestici: giocano con loro e si mettono le mani in bocca dopo averli toccati, con un maggior rischio di essere contagiati e sviluppare un’infezione. Altri soggetti a rischio sono le persone con problemi al sistema immunitario, che potrebbero avere complicazioni anche con un’infezione che per altri sarebbe banale e risolvibile in pochi giorni con o senza farmaci.Come segnalano due esperti sul sito The Conversation, non sono solamente i cani e i gatti a diffondere malattie tra gli esseri umani: «Gli uccelli domestici possono talvolta trasmettere la psittacosi, un’infezione batterica che causa la polmonite. Il contatto con testuggini domestiche è stato collegato a infezioni batteriche dovute al genere Salmonella, in particolare nei bambini. Anche i pesci da tenere in acquario sono stati ricondotti a una serie di infezioni batteriche negli umani».Tornando ai cani e ai gatti, è importante comunque ricordare che se si viene leccati su mani, braccia, gambe e piedi ci sono poche probabilità di trasmissione dei patogeni. La pelle è la prima e più importante barriera di cui disponiamo per difenderci dagli agenti esterni e fa un ottimo lavoro anche nello sbarrare la strada a molti dei patogeni trasportati dagli animali. Il rischio aumenta (sempre relativamente) se si hanno ferite o se saliva e altri fluidi entrano in contatto con le mucose. Per questo di solito viene sconsigliato di farsi leccare la faccia dal proprio animale domestico. Nel caso dei cani, basta ricordarsi dove mettono il muso, come ha spiegato un virologo: «Non è solo questione di ciò che è contenuto nella saliva. I cani passano buona parte della loro vita con il naso in angoli sudici o annusando gli escrementi di un altro cane, quindi il loro muso è pieno di batteri, virus e germi di ogni tipo».Oltre a virus e batteri ci sono poi i parassiti come i nematodi, chiamati spesso impropriamente “vermi cilindrici”, che infestano una grande quantità di animali. Si diffondono soprattutto attraverso le feci, che possono essere ingerite nei casi di coprofagia o quando i cani si annusano e leccano a vicenda. È comunque raro che il materiale fecale presente nella loro bocca causi la parassitosi in un essere umano, ma la contaminazione può comunque avvenire per via indiretta, per esempio quando viene accidentalmente ingerito qualcosa che era entrato a contatto con i bisogni di un cane infetto, se per esempio questo si era liberato nelle vicinanze di un orto domestico.Per ridurre i rischi e godersi lo stesso una certa affettuosa vicinanza con gli animali domestici possono essere sufficienti alcuni accorgimenti. Il primo, che vale per molte altre cose legate all’igiene e alla salute, consiste nel lavarsi bene le mani dopo avere giocato con loro e dopo essere entrati in contatto con i loro giocattoli, le lettiere, le cucce o ciò che usano per riposarsi. Il consiglio vale anche per i bambini, che dovrebbero essere sorvegliati per assicurarsi che si abituino a lavarsi le mani. Alcuni ambienti della casa come la cucina dovrebbero essere preclusi agli animali, specialmente se possono facilmente saltare sui ripiani e magari raggiungere del cibo. Assicurarsi di avere tutte le vaccinazioni in regola e di rispettare le scadenze per i rinnovi di questi trattamenti aiuta a ridurre ulteriormente alcuni rischi.In linea di massima è infine meglio non farsi leccare la faccia. LEGGI TUTTO

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    La formica di fuoco è arrivata in Europa, in Sicilia

    In un’area di 4,7 ettari in provincia di Siracusa, in Sicilia, sono stati trovati 88 diversi nidi di formica di fuoco (Solenopsis invicta), una delle specie più invasive al mondo: è la prima volta che la sua presenza viene individuata in Europa. È infatti una specie animale aliena, o alloctona, che l’azione diretta o indiretta delle persone ha spostato in zone diverse rispetto al suo ambiente abituale. Originarie del Sud America, le formiche di fuoco sono arrivate in Australia, Cina, Caraibi, Messico e Stati Uniti in meno di un secolo: potrebbero potenzialmente diffondersi in modo molto rapido in Italia come nel resto d’Europa, con possibili impatti gravi su ecosistemi e agricoltura. La velocità della diffusione della specie è dovuta alla creazione di cosiddette supercolonie, che prevedono la presenza di più formiche regine.– Ascolta anche: Storie di granchi blu e altre specie invasive, nell’ultima puntata di Ci vuole una scienzaLa presenza in Europa delle formiche di fuoco è stata certificata in uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology e condotto dall’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica, in collaborazione con l’Università di Parma e l’Università di Catania. In precedenza i ricercatori avevano trovato formiche di fuoco in prodotti importati in Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ma non era mai stata individuata una colonia sul territorio europeo. Quella siciliana, secondo le analisi genetiche, potrebbe essere composta da insetti provenienti da Stati Uniti o Cina.Le formiche di fuoco sono di colore bruno rossastro e hanno una lunghezza che va dai 2 ai 4 millimetri. Sono dotate di un pungiglione velenoso, che provoca punture molto dolorose, simili a una scottatura con una piccola fiamma, caratteristica da cui hanno preso il nome. Secondo lo studio gli abitanti della zona della provincia di Siracusa dove sono stati trovati i nidi segnalano punture di questo tipo già del 2019, cosa che fa pensare che l’ampiezza delle colonie potrebbe essere anche superiore a quella stimata.(Wikicommons)Uno degli autori dello studio, Mattia Menchetti dell’Istituto spagnolo di Biologia evoluzionistica (IBE), ha spiegato all’Ansa che i «principali tipi di danni per l’uomo riguardano le apparecchiature elettriche e di comunicazione, e l’agricoltura». Le formiche di fuoco possono infatti infestare apparecchiature elettriche presenti anche in automobili e computer, possono danneggiare i raccolti ma soprattutto hanno un impatto sulle specie autoctone degli ecosistemi in cui si diffondono: «È un predatore generalista, e nei luoghi in cui si insedia causa la diminuzione della diversità di invertebrati e piccoli vertebrati».Secondo uno studio pubblicato su Nature la formica di fuoco è la quinta specie invasiva per danni economici causati nel mondo: negli Stati Uniti sono stati stimati in 6 miliardi di dollari ogni anno. Secondo lo studio dell’IBE, anche in ragione del riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra dovute alle attività umane, il 7 per cento del territorio europeo e il 50 per cento delle città del continente presentano un ambiente con condizioni adatte alla diffusione della specie, che predilige i climi caldi. La Regione Sicilia ha messo in atto un piano di monitoraggio e di eradicazione di questa specie di formica: come per altre specie alloctone questa operazione può però essere complessa.– Ascolta anche: Vicini e lontani, un podcast sulle specie aliene LEGGI TUTTO

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    È morto il biologo britannico Ian Wilmut, aveva guidato il gruppo di ricerca per la clonazione della pecora Dolly

    È morto a 79 anni il biologo Ian Wilmut: aveva guidato la ricerca per la clonazione della pecora Dolly, primo caso in cui fu clonato un mammifero usando una sua cellula adulta. Con le sue attività di ricerca, Wilmut ha reso possibili importanti sviluppi e progressi nella ricerca sulle cellule staminali, le cellule non specializzate in grado di differenziarsi e svolgere funzioni diverse all’interno di un organismo.La clonazione di Dolly divenne un argomento estremamente discusso, anche al di fuori degli ambienti scientifici: a suscitare interesse e qualche timore fu la possibilità, che ai tempi appariva particolarmente concreta e vicina, di clonare gli esseri umani. In varie occasioni Wilmut disse di essere contrario perché sarebbe inutile, oltre che moralmente discutibile, sostenendo invece che la ricerca debba concentrarsi sullo sviluppo di nuove cure per migliorare la vita delle persone.– Leggi anche: A che punto siamo con la clonazione (AP Photo/Michael Probst, File) LEGGI TUTTO

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    Che cos’è l’infertilità secondaria?

    Caricamento playerSecondo diverse ricerche l’infertilità secondaria, cioè la difficoltà a rimanere incinte di nuovo o a portare a termine una gravidanza dopo che si è già partorito, è molto comune ed è un problema di salute pubblica che ha conseguenze significative sulle persone coinvolte e sulla società in generale.L’infertilità può dipendere sia dalla donna che dall’uomo. Quella primaria viene definita come l’incapacità di concepire di una coppia in relazione da almeno cinque anni che ha avuto per un determinato periodo di tempo regolari rapporti sessuali non protetti. Il periodo di tempo di sesso non protetto che viene considerato per arrivare a parlare di infertilità può variare, ma è generalmente pari a un anno e diminuisce con l’aumentare dell’età. L’infertilità secondaria è invece l’incapacità di concepire o di portare a termine una gravidanza dopo almeno una precedente gravidanza andata a buon fine senza trattamenti per la fertilità. I medici solitamente diagnosticano l’infertilità secondaria dopo che una coppia ha tentato di concepire per 6-12 mesi senza successo.Secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, l’infertilità secondaria riguarda il 6 per cento delle donne in una relazione fissa tra i 15 e i 49 anni che, dopo aver partorito una prima volta, hanno difficoltà a rimanere incinta di nuovo dopo un anno di tentativi. Il 14 per cento ha difficoltà a rimanere incinta di nuovo o a portare a termine una gravidanza. Intervistato dallo Huffington Post, il ginecologo e specialista in endocrinologia riproduttiva Banafsheh Kashani ha anche fornito un’indicazione sui tempi: l’infertilità secondaria «si verifica se si sta cercando di rimanere incinta da più di un anno e si hanno meno di 35 anni o se si sta provando da più di 6 mesi e si hanno più di 35 anni». Questa situazione non è comunque rara, dicono gli esperti: l’infertilità secondaria è comune quasi quanto l’infertilità primaria.Uno studio del 2022 condotto da un gruppo di ricercatori e ricercatrici iraniane e pubblicato sull’International Journal of Reproductive BioMedicine (IJRM) ha analizzato il fenomeno dell’infertilità a livello globale basandosi sulle informazioni del Global Burden of Disease (GBD) che raccoglie i più recenti dati epidemiologici di 195 paesi nel mondo per valutare qual è il peso sulla salute delle diverse malattie e fattori di rischio. Lo studio copre gli anni che vanno dal 1993 al 2017 e prende in considerazione sette regioni del mondo. I risultati hanno dimostrato che, in tutte le regioni studiate, i tassi di infertilità secondaria sono molto più alti nelle donne che negli uomini e che nei paesi ad alto reddito, che comprendono anche l’Europa, sono inferiori che altrove, molto probabilmente a causa di un migliore e di un maggiore accesso a medici specializzati e a cliniche per il trattamento del problema.Media dei tassi di infertilità ogni 100mila persone in varie regioni del mondo nel periodo 1993-2017Le cause dell’infertilità secondaria possono essere diverse e sono simili a quelle dell’infertilità primaria: endometriosi, squilibri ormonali, sovrappeso o sottopeso, ostruzione delle tube uterine, cicatrici nell’utero dovute a un taglio cesareo, patologie che colpiscono il sistema riproduttivo maschile, alterazioni del tratto genitale, uso di alcol o tabacco. Ma una delle cause più comuni è l’età avanzata, oltre cioè i 35 anni. In Italia, ma anche in molti altri paesi, l’età media delle madri alla nascita del primo figlio è aumentata: poiché nell’infertilità secondaria si tratta di concepire un secondo figlio, l’età è di conseguenza ancora più alta e il passare del tempo influisce sul numero e sulla qualità sia degli ovociti che degli spermatozoi. L’infertilità secondaria, proprio come l’infertilità primaria, può essere però diagnosticata come inspiegabile.L’infertilità è un problema di salute pubblica che ha un forte impatto sulle persone coinvolte. E questi effetti collaterali negativi rappresentano a loro volta un onere sociale. Jonah Bardos, direttore di una clinica della fertilità a Miami, ha spiegato che l’infertilità secondaria può causare diversi disagi: può far nascere la sensazione «che prima tutto funzionasse» e che poi qualcosa non funzioni più, mentre in altre persone ancora crea un forte senso di colpa dovuto al desiderio di volere un altro figlio quando altri non sono stati in grado di concepire nemmeno il primo. «Essere presenti e sostenere i propri cari durante questo processo è una parte importante», dice il medico che ha dato anche alcuni semplici suggerimenti. È ad esempio importante evitare di fare alcuni commenti molto comuni che non sono però affatto «innocui»: chiedere a una coppia quando avrà il secondo figlio, quando darà un fratello o una sorella maggiore al bambino che già c’è o dire: «Non vorrai viziare tuo figlio facendolo rimanere figlio unico».Priyanka Ghosh, che lavora presso il centro di fertilità della Columbia University, dice che «l’infertilità secondaria può essere un’esperienza frustrante» ma spiega anche che «molte persone riescono ad avere un secondo figlio dopo una valutazione e un trattamento». Il suggerimento degli specialisti è dunque quello di rivolgersi a dei centri specializzati: «Spesso le persone rimandano il consulto», spiega Banafsheh Kashani: «Questo perché potrebbero essere occupate con il figlio che già hanno o perché sono convinte che, visto che ha già funzionato, funzionerà ancora». I controlli vengono dunque ritardati, riducendo la probabilità che gli interventi possano poi essere efficaci.I test che vengono fatti per diagnosticare l’infertilità secondaria sono gli stessi dei casi di infertilità primaria: storia clinica delle persone coinvolte, studi ormonali, ecografie, esami delle tube, valutazione della qualità del seme e altri esami ancora che possono poi consentire di scegliere i trattamenti e le tecniche più adatte. LEGGI TUTTO