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    C’è un preoccupante aumento di tumori giovanili

    I casi di cancro tra i giovani adulti sono in marcato aumento da decenni e al momento gruppi di ricerca ed esperti di oncologia non riescono a spiegarne il motivo. Secondo un’analisi pubblicata lo scorso settembre sulla rivista medica BMJ Oncology, negli ultimi trent’anni l’incidenza di casi di cancro tra le persone con meno di 50 anni di età è aumentata di quasi l’80 per cento a livello globale, ma il problema era già stato segnalato in precedenza da altre ricerche concentrate soprattutto sull’impatto di questi tumori giovanili sui sistemi sanitari.Negli ultimi giorni un articolo del Wall Street Journal ha fatto il punto sulla situazione, integrando i dati raccolti nello studio pubblicato l’anno scorso con altre informazioni raccolte da medici e pazienti negli Stati Uniti. Nel paese, le diagnosi di nuovi tumori tra chi ha meno di 50 anni di età sono passate da 95,6 casi su 100mila persone nel 2000 a 107,8 casi sempre su 100mila persone nel 2019, un aumento di quasi il 13 per cento.
    A livello globale, dal 1990 è aumentata soprattutto tra i giovani adulti l’incidenza (cioè i nuovi casi in un determinato periodo di tempo) di casi di cancro alla trachea e alla prostata, ma sono aumentati anche i casi di tumori al seno, al colon-retto, allo stomaco e ai polmoni. Nel 2019 le diagnosi di tumore giovanile sono state 3,26 milioni con un aumento del 79,1 per cento rispetto alle diagnosi effettuate nel 1990. Almeno in parte, l’aumento è probabilmente dovuto a un miglioramento nelle diagnosi precoci, ma questo non è sufficiente per spiegare una crescita così marcata nell’incidenza di nuovi casi di tumore.
    I tassi più alti riguardano il Nordamerica, l’Europa occidentale e l’Australia. Nei paesi con reddito più basso, le diagnosi di cancro giovanile hanno avuto un impatto maggiore sulle donne, sia in termini di letalità sia di complicazioni e altri problemi di salute (il rischio di morire di tumore in età giovanile in generale si sta comunque riducendo).
    Distribuzione dei casi e dei decessi per i tumori a insorgenza precoce nel 1990 e nel 2019 (BMJ Oncology)
    Esistono numerose forme di tumori e numerose cause possono concorrere al loro sviluppo. In generale la malattia dipende da un comportamento anomalo di alcune cellule che a causa di mutazioni (errori nella decodifica del materiale genetico) iniziano a moltiplicarsi in modo incontrollato, senza che il sistema immunitario riesca a contrastarle. Non tutte le mutazioni determinano questo fenomeno, ma con l’avanzare dell’età le mutazioni si accumulano e può quindi aumentare il rischio di sviluppare un tumore. Per questo motivo l’incidenza dei tumori è solitamente più alta tra le persone anziane, mentre tende a essere più bassa nelle persone giovani, che di solito sono anche più in salute.
    In medicina ogni persona è sostanzialmente un mondo a parte, di conseguenza ci possono essere più combinazioni che determinano l’insorgenza di un tumore: da una certa predisposizione a livello genetico a stili di vita poco salutari, passando per eventi del tutto casuali. È un contesto in cui è difficile muoversi e soprattutto produrre analisi accurate per comprendere come mai in una certa fascia della popolazione aumenti l’incidenza di casi di cancro. È una difficoltà evidente soprattutto in questo caso: i dati indicano un aumento, ma non ci sono ancora elementi chiari per stabilirne le cause.
    Tra i principali sospettati ci sono gli stili di vita e per quanto riguarda i paesi occidentali alcune analisi si sono concentrate sul problema del sovrappeso e dell’obesità, definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come una questione di “proporzioni epidemiche” con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno. Le cause sono legate sia a una vita lavorativa più sedentaria sia a una dieta meno bilanciata, spesso basata sul consumo di prodotti preconfezionati ricchi di zuccheri e grassi. Altri fattori tenuti in considerazione sono il fumo e il consumo di alcol, soprattutto nei paesi le cui economie si sono sviluppate, rendendo questi prodotti più accessibili a un maggior numero di persone.
    Alcune forme di tumore, come quello al colon-retto, al pancreas e al seno possono avere come concausa l’obesità, che fa aumentare il rischio di sviluppare numerose patologie. In passato erano stati pubblicati studi che avevano provato ad analizzare l’incidenza di tumori giovanili tra le persone obese, con risultati non definitivi, ma che suggerivano comunque alcuni indizi.
    Obesità e stili di vita non sono però sufficienti per spiegare un aumento così significativo di diagnosi di tumore nell’ultimo trentennio tra chi ha meno di cinquant’anni. C’è una porzione rilevante di persone in salute e con buone abitudini alimentari che sviluppa ugualmente una forma di tumore da giovane, rendendo molto difficile l’identificazione di una causa.
    Un’ipotesi di alcuni medici, tutta da dimostrare, è che i pazienti con tumori in giovane età siano stati esposti a una o più sostanze cancerogene da bambini, che avrebbero fatto da causa scatenante. Capire quali possano essere queste sostanze è molto difficile e secondo i più critici questo approccio cerca semplicemente di replicare quanto scoperto nella seconda metà del Novecento, quando ci si accorse che la maggiore incidenza di alcuni tumori come quelli al polmone era causata dall’alto numero di fumatori e fumatrici.
    Per provare a capire qualcosa di più, diversi centri di ricerca – soprattutto negli Stati Uniti – hanno avviato programmi e progetti di monitoraggio della popolazione, concentrandosi sulle persone che sviluppano tumori in giovane età per ricostruire la loro vita dal punto di vista sanitario prima della diagnosi. Condurre questo tipo di analisi non è semplice e occorrono molti partecipanti per ottenere dati statisticamente rilevanti.
    Alcuni gruppi di ricerca si stanno concentrando su altri aspetti, legati per esempio alle pratiche mediche seguite negli ultimi decenni. In particolare si sospetta che il largo uso di antibiotici, che ha effetti sull’insieme dei microrganismi che vivono nell’intestino e favoriscono i processi digestivi e di assimilazione dei nutrienti, possa avere un qualche effetto non ancora misurato. Altri studi si stanno concentrando sull’inquinamento atmosferico, dovuto in particolare all’impiego dei combustibili fossili, e all’esposizione ad altre sostanze chimiche i cui quantitativi sono aumentati nella seconda metà del Novecento.
    Dalle analisi è comunque emerso che alcuni tumori sono in controtendenza, con una sensibile diminuzione della loro incidenza. È per esempio il caso del tumore al fegato, la cui diminuzione è probabilmente dovuta alla diffusione del vaccino contro l’epatite B, che riduce sensibilmente il rischio di sviluppare infiammazioni croniche che potrebbero poi causare il cancro. La maggiore incidenza dei tumori del naso-faringe potrebbe essere in parte legata al virus di Epstein-Barr (Herpesvirus umano 4), noto per essere coinvolto nella formazione di alcuni tumori e contro il quale non esiste ancora un vaccino.
    Comprendere le cause dell’aumento degli ultimi 30 anni non solo potrebbe aiutare a ridurre i nuovi casi di tumore, ma porterebbe anche a importanti benefici per i sistemi sanitari. Soprattutto grazie allo sviluppo di nuove terapie e alle diagnosi precoci, i tumori in giovane età sono relativamente meno letali, ma richiedono comunque screening periodici e analisi per assicurarsi che non si presentino recidive e ricadute. Un paziente giovane avrà probabilmente necessità di assistenza medica più a lungo rispetto a una persona anziana, la cui prospettiva di vita è più limitata. Tutto questo si traduce in costi più alti per i sistemi sanitari, che spesso faticano a soddisfare tutte le richieste anche per gli altri tipi di malattie e problemi di salute. LEGGI TUTTO

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    L’antibiotico-resistenza è un gran problema

    Caricamento playerIl recente annuncio dello sviluppo del zosurabalpin – un antibiotico di nuova generazione ritenuto efficace contro un batterio molto difficile da trattare – è stato accolto come un nuovo importante progresso nell’affrontare il problema dell’antibiotico-resistenza, cioè della capacità di alcuni batteri di resistere ai farmaci e di portare avanti l’infezione talvolta con esiti letali. Il fenomeno è noto da tempo e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è uno dei più grandi rischi per la salute pubblica perché, con il passare del tempo, rende sempre meno efficaci farmaci che nel corso del Novecento avevano permesso di salvare la vita di milioni di persone.
    In generale gli antibiotici sono sostanze prodotte da un microrganismo in grado di ucciderne un altro o di limitarne la moltiplicazione. Gli antibiotici propriamente detti sono quelli prodotti in questo modo da alcuni microrganismi per contrastarne altri, mentre gli antibatterici non-antibiotici sono sostanze ottenute in laboratorio. Entrambi hanno comunque la medesima caratteristica, cioè uccidere o prevenire la crescita di particolari batteri, di conseguenza si utilizza comunemente il termine ombrello “antibiotici” per tutte e due le tipologie di sostanze.
    Lo sviluppo degli antibiotici, a partire dai primi esperimenti di Alexander Fleming sulla penicillina alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ha portato all’identificazione di circa 15 classi dalle quali è derivata la produzione degli antibiotici che utilizziamo ancora oggi. La varietà di queste sostanze non è molto ampia e questa scarsità è diventata una delle cause dell’antibiotico-resistenza, insieme a un uso su ampia scala e spesso eccessivo degli antibiotici nella seconda metà del Novecento.
    Una certa resistenza antibiotica da parte dei batteri è sempre esistita ed è stata essenziale per scoprire gli antibiotici che utilizziamo. I batteri sono organismi unicellulari e devono difendersi dagli agenti esterni, che potrebbero danneggiarli e compromettere le loro colonie. Per farlo nel corso di milioni di anni hanno sviluppato la capacità di produrre propri antibiotici, cioè sostanze che danneggiano per esempio altre specie di batteri, che altrimenti potrebbero distruggerli e rimpiazzarli. È un processo che riguarda anche i funghi e fu alla base dei primi lavori di Fleming, che derivò la penicillina proprio da una muffa (le muffe appartengono al regno dei funghi).
    Lo studio dei batteri e delle loro difese ha portato allo sviluppo di una grande varietà di antibiotici: alcuni sono ad ampio spettro, cioè contrastano specie diverse di batteri, mentre altri sono più specializzati verso una sola o poche specie di questi microrganismi. Le diverse tipologie di antibiotici servono appunto per provare a eludere le difese dei batteri ed eliminarli, in modo da aiutare il sistema immunitario del paziente a superare l’infezione.
    I batteri si riproducono di continuo, anche più volte in una sola ora, e lo fanno copiando il loro materiale genetico. In questo processo può accadere che si verifichino delle mutazioni, cioè degli errori nel processo di copiatura del materiale genetico. La maggior parte delle mutazioni è innocua e non ha conseguenze, ma alcune possono invece determinare una maggiore resistenza del batterio a uno o più antibiotici. Un trattamento con antibiotici elimina quindi i batteri senza la mutazione, mentre si rivela inefficace contro quelli che casualmente hanno sviluppato una certa resistenza. Questi possono a loro volta mutare, producendo batteri dotati di un ulteriore tipo di resistenza e rendendo quindi ancora più difficile la loro eliminazione con gli antibiotici.
    Esempio semplificato di sviluppo dell’antibiotico-resistenza (Ufficio federale della sanità pubblica della Confederazione Svizzera)
    I batteri resistono agli antibiotici in modo diverso a seconda del modo in cui sono fatti e delle mutazioni che hanno accumulato. Alcuni espellono semplicemente l’antibiotico che si è inserito nel materiale cellulare, mentre altri rendono impermeabile la loro membrana in modo che l’antibiotico non possa andare oltre. Ci sono altri casi in cui i batteri modificano la struttura dell’antibiotico rendendolo inattivo oppure ancora modificano alcune delle proteine batteriche e sulle quali sarebbe dovuto intervenire l’antibiotico.
    Come abbiamo visto l’antibiotico-resistenza è una caratteristica tipica dei batteri legata al modo in cui mutano ed evolvono, tuttavia un uso eccessivo o inappropriato degli antibiotici può facilitare l’emergere di batteri sempre più resistenti. Gli antibiotici vengono spesso utilizzati in modo poco o per nulla adeguato, spesso per trattare malattie che non sono causate da batteri, ma da virus contro i quali un antibiotico non può fare nulla. Una certa tendenza a ricorrere agli antibiotici senza motivo era emersa piuttosto chiaramente nelle fasi più acute della pandemia da coronavirus, nonostante tutte le principali istituzioni internazionali invitassero a non utilizzare questo tipo di farmaci per trattare COVID-19, una malattia virale a tutti gli effetti.
    L’antibiotico-resistenza può anche essere favorita da un uso scorretto degli antibiotici, per esempio quando si decide di accorciare la durata della terapia, oppure di ridurre le dosi di antibiotico e di fare da sé, senza avere consultato un medico. L’effetto della maggior parte degli antibiotici è relativamente breve e per questo le terapie spesso prevedono l’assunzione di una dose due o tre volte al giorno, per avere una copertura completa durante il trattamento. Assumerne meno o in orari non regolari può facilitare la sopravvivenza dei batteri e la loro proliferazione, con un aumentato rischio di mutazioni.
    I batteri che sviluppano una marcata resistenza possono causare numerose tipologie di infezioni, che possono diventare croniche o nei casi più gravi letali. Tra le infezioni più ricorrenti e difficili da trattare ci sono quelle del tratto urinario, le polmoniti, le infezioni della pelle, alcune forme di diarrea e le infezioni a carico del sistema circolatorio. Le persone ricoverate in ospedale sono inoltre a più alto rischio di contrarre infezioni batteriche, a cominciare da quelle da Acinetobacter baumannii, un batterio che può avere una forte resistenza agli antibiotici, compresi i carpapenemi, una classe di antibiotici ad ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea” (cioè trattamenti da adottare quando gli altri hanno fallito).
    Trattare le infezioni dovute a batteri resistenti è spesso molto difficile e rende necessaria la somministrazione di tipi diversi di antibiotici, che possono essere via via più potenti e mirati, ma anche più costosi. Trovare la giusta terapia richiede tempo in una fase in cui qualsiasi ritardo è un problema per il paziente, che continua intanto a peggiorare a causa dell’avanzare dell’infezione e degli altri problemi connessi. Le complicazioni possono rivelarsi letali, soprattutto nel caso dei ceppi batterici che si rivelano resistenti a più classi diverse di antibiotici. Il rischio è che con il tempo alcuni batteri diventino resistenti a tutti gli antibiotici oggi disponibili, vanificando i progressi raggiunti nel Novecento in questo campo.
    I dati raccolti dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) indicano che l’antibiotico-resistenza sta diventando un problema in molti paesi dell’Europa. In particolare negli ultimi anni è stato osservato un aumento della resistenza di Escherichia coli agli antibiotici solitamente più usati, con un conseguente aumento dei casi di infezioni croniche al tratto urinario e infezioni ancora più gravi. Nei paesi meridionali dell’Europa il fenomeno sembra essere più diffuso rispetto ai paesi della Scandinavia e ai Paesi Bassi. In generale, i paesi dove storicamente si registra un ricorso più prudente agli antibiotici sono anche i paesi dove il fenomeno della resistenza agli antibiotici è meno presente.
    Il problema dell’uso eccessivo degli antibiotici è comunque globale e l’OMS ha avviato diverse iniziative e progetti per sensibilizzare i governi e le autorità sanitarie nazionali sul problema, con ripetuti inviti a ridurre l’impiego degli antibiotici. In molti paesi, compresa l’Italia, sono state rafforzate le limitazioni legate alla possibilità di acquisto degli antibiotici in farmacia senza una prescrizione medica proprio per evitare gli approcci fai-da-te.
    Gli antibiotici non sono consumati solo direttamente dagli esseri umani, ma anche indirettamente attraverso la catena alimentare. Negli allevamenti si fa spesso ampio uso degli antibiotici per assicurarsi una crescita rapida e in salute degli animali, riducendo il rischio di infezioni. Le sostanze utilizzate sono le medesime impiegate sugli esseri umani e ci sono studi che hanno rilevato un effettivo passaggio di alcune di queste in chi consuma carne. Le ricerche in tema sono ancora in corso, ma si ritiene che il trasferimento sia minimo se confrontato con quello dovuto ai trattamenti medici negli esseri umani.
    Un uso solo quando strettamente necessario degli antibiotici ed esami diagnostici più accurati per stabilire in fretta la giusta terapia antibiotica sono considerati gli strumenti più importanti per contenere il problema dell’antibiotico-resistenza. Ma secondo l’OMS un approccio integrato deve anche passare attraverso lo sviluppo di antibiotici di nuova generazione, in modo da trattare i casi più difficili come quelli da Acinetobacter baumannii. Come ha segnalato un recente editoriale pubblicato dalla rivista scientifica Nature, sviluppare nuovi antibiotici non è semplice e ha forti implicazioni economiche.
    Si stima che solo un candidato antibiotico su 30 superi la fase di verifica in laboratorio per poi iniziare i test sui pazienti. L’intero processo dallo sviluppo all’approvazione da parte delle autorità di controllo può arrivare a costare intorno a un miliardo di euro, ma poiché si cerca di utilizzare il meno possibile gli antibiotici proprio per evitare l’antibiotico-resistenza i ritorni per l’azienda farmaceutica che ha investito così tanto sono generalmente bassi, spesso inferiori ai 100 milioni di euro all’anno. Di conseguenza le aziende farmaceutiche sono restie a fare grandi investimenti nel settore, salvo non ci siano incentivi e promesse di acquisto da parte dei governi tali da rendere sostenibile la loro attività di ricerca e sviluppo.
    La questione sarà affrontata nel corso della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre, con una serie di incontri dedicati alla resistenza agli antimicrobici (il problema riguarda anche, in modo diverso, i funghi e i virus) dopo gli ultimi organizzati ormai otto anni fa. Gli incontri di questo tipo servono di solito a fissare impegni e regole comuni, ma anche per fare il punto della situazione dopo la prima serie di iniziative adottate nel 2016 da oltre 150 paesi per ridurre e rendere più responsabile il consumo di antibiotici. LEGGI TUTTO

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    Dopo molti anni c’è un nuovo promettente antibiotico

    Un nuovo tipo di antibiotico si è rivelato molto promettente nel trattare un batterio che causa spesso infezioni gravi, soprattutto in ambito ospedaliero, e che ha una forte resistenza agli antibiotici tradizionali. La scoperta è stata annunciata con due ricerche pubblicate sulla rivista scientifica Nature, che raccontano il lavoro dei gruppi di ricerca che se ne sono occupati per conto di Roche, azienda farmaceutica e di diagnostica svizzera tra le più grandi e importanti al mondo. Il nuovo antibiotico dovrà superare i test clinici per verificarne efficacia e sicurezza, quindi non sarà disponibile a breve, ma secondo gli esperti potrebbe rivelarsi molto importante nel trattare infezioni batteriche pericolose specialmente per le persone fragili.L’Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi (CRAB) è un batterio che può provocare gravi infezioni proprio a causa della sua alta resistenza in particolare ai carbapenemi, una classe di antibiotici con un ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea”, cioè trattamenti da adottare quando tutti gli altri hanno fallito. I batteri tendono a mutare facilmente in modo da resistere agli antibiotici, oppure occupano gli spazi lasciati dalle specie più esposte all’azione antibiotica: se gli antibiotici vengono usati estensivamente, come è avvenuto per decenni, si riduce via via la loro efficacia rendendo alcuni tipi di batteri più resistenti ai trattamenti disponibili. Questa “antibiotico-resistenza” è diventata un problema globale e pone seri problemi per il trattamento di infezioni batteriche che si possono rivelare letali.
    I CRAB hanno inoltre la capacità di resistere a lungo fuori dall’organismo, anche in ambienti relativamente secchi, e di conseguenza riescono a diffondersi facilmente tra le persone. Negli ospedali l’infezione può essere causata per esempio dai sistemi di ventilazione, se privi di purificatori adeguati, oppure dal contatto con superfici contaminate. I CRAB causano soprattutto polmoniti e sepsi (una anomala ed eccessiva risposta immunitaria all’infezione) che nei pazienti con altri problemi di salute possono rivelarsi letali, specialmente se in mancanza di una buona risposta agli antibiotici.
    I batteri sono organismi unicellulari, cioè costituiti da una sola cellula, e la maggior parte degli antibiotici scoperti e sviluppati fino agli anni Settanta (sostanzialmente gli unici di cui disponiamo) agisce nel citoplasma, la parte interna del batterio delimitata dalla membrana cellulare interna ed esterna. Gli antibiotici scoperti nel tempo appartengono quasi tutti a una quantità limitata di classi ed è raro che se ne aggiungano di nuovi tipi, con funzionamenti diversi.
    Consapevoli delle grandi limitazioni che da decenni hanno impedito di identificare nuovi antibiotici efficaci, i gruppi di ricerca si sono messi al lavoro esaminando decine di migliaia di molecole per individuare quelle che mostravano almeno un minimo di attività antibiotica. L’analisi ha permesso infine di identificare una molecola di partenza su cui lavorare per creare il nuovo antibiotico, il cui principio attivo è stato chiamato zosurabalpin (se supererà i test clinici, sarà venduto con un nome commerciale diverso) ed è altamente specifico nei confronti di Acinetobacter baumannii.
    Il zosurabalpin ha la capacità di limitare un processo molto importante che avviene all’interno del batterio e cioè il trasporto tramite un complesso di proteine (LptB2FGC) di sostanze dall’interno della cellula verso lo spazio tra le due membrane (“periplasma”) che servono a rafforzare le sue protezioni dagli agenti esterni. Compromettendo il sistema di trasporto, si verifica un accumulo all’interno del batterio intossicandolo e facendolo morire. È un approccio diverso da quello seguito con altri antibiotici e sembra funzionare bene, almeno nei test condotti finora in laboratorio: sia in vitro – quindi in contenitori in cui erano presenti colonie di Acinetobacter baumannii – sia in vivo con test su topi per i quali è stato possibile trattare con efficacia polmonite e sepsi, che avrebbero altrimenti causato la loro morte.
    Dopo le verifiche in laboratorio, Roche ha avviato i primi test clinici per valutare la sicurezza del nuovo antibiotico, in vista dei prossimi test che saranno invece orientati a verificare l’efficacia del zosurabalpin. Il suo meccanismo di azione è particolare perché interviene nella parte più periferica del batterio e non direttamente nel citoplasma, di conseguenza dovrebbe mostrare una buona efficacia e ridurre il rischio che il batterio accumuli mutazioni che gli consentano di evitare l’accumulo delle proteine che non riesce a trasportare verso il periplasma. Questa eventualità non può comunque essere esclusa e in laboratorio sono emersi casi di mutazioni che hanno ridotto sensibilmente l’attività antibiotica.
    Un altro problema che potrebbe presentarsi è legato alla capacità di A. baumannii di potere fare a meno, almeno per un certo periodo di tempo, del trasporto di proteine verso le proprie membrane cellulari. In alcuni casi il batterio riesce infatti a interrompere la produzione di quelle proteine, evitando proprio che il loro accumulo lo porti a intossicarsi e a morire. La riduzione del trasporto rende comunque meno infettivo il batterio e di conseguenza la capacità stessa di A. baumannii di produrre grandi colonie, che portano poi alle polmoniti difficili da trattare.
    Al di là del caso specifico, il nuovo antibiotico segna soprattutto l’esplorazione di un nuovo approccio per contrastare i batteri fermandosi alla loro parte periferica e, visto che diversi altri utilizzano un sistema simile di trasporto, in futuro potrebbero essere sviluppati antibiotici contro altre specie batteriche. Tra i possibili obiettivi potrebbero esserci Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa, le cui infezioni non sempre vengono trattate con successo utilizzando i tradizionali antibiotici.
    L’approccio seguito con il zosurabalpin dovrebbe inoltre rendere possibile lo sviluppo di trattamenti altamente specifici, perché l’antibiotico è in grado di intervenire quasi esclusivamente su A. baumannii. Questo significa che la sua somministrazione non dovrebbe portare alla distruzione della flora batterica (il “microbioma”), cioè del complesso di batteri che vivono nell’intestino e che svolgono un ruolo centrale nei processi digestivi e per l’assorbimento delle sostanze nutrienti da parte del nostro organismo. I comuni antibiotici hanno spesso l’effetto collaterale di distruggere anche i batteri che ci sono utili, rallentando di conseguenza il processo di guarigione.
    I risultati dei primi test clinici condotti sul zosurabalpin saranno comunicati nel corso di quest’anno, ma i test proseguiranno con le altre fasi per diverso tempo. Roche dovrà poi presentare tutta la documentazione sui test eseguiti alle autorità di controllo come la Food and Drug Administration negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali nell’Unione Europea, che se non riscontreranno anomalie daranno la loro approvazione per l’impiego dell’antibiotico. Il ricorso allo zosurabalpin sarà probabilmente molto limitato e indicato per i casi in cui non hanno funzionato altri approcci terapeutici, proprio per evitare che si verifichi velocemente una resistenza batterica anche al nuovo antibiotico.
    Infine, dovranno essere anche concordati prezzi e forniture del zosurabalpin, un aspetto centrale perché non sempre per le aziende farmaceutiche è conveniente lo sviluppo di nuovi antibiotici. La fase di ricerca e dei test clinici può comportare investimenti intorno al miliardo di euro, per un prodotto che viene poi utilizzato solo in casi estremi e che magari porta a ricavi di meno di 100 milioni di euro all’anno. LEGGI TUTTO

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    Lo stress fa cadere i capelli?

    Le cause della caduta dei capelli possono essere molto diverse tra loro e variano tra uomini e donne, ma si dice spesso che sotto forti condizioni di stress se ne possano perdere molti in poco tempo. È un fenomeno noto e studiato da tempo, ma non è ancora completamente compreso e non sempre viene diagnosticato con facilità, considerato che possono esserci appunto molti altri motivi per cui si perdono più capelli del solito.Una persona senza particolari problemi di salute perde tra i 50 e i 100 capelli al giorno. La maggior parte cade senza che ce ne accorgiamo, mentre di solito prestiamo più attenzione a quelli che rimangono nel piatto della doccia o su spazzole e pettini. Questa caduta è normale e dipende dal ciclo del capello, che passa attraverso quattro fasi principali: anagen, la crescita vera e propria che dura dai 2 a i 6 anni; catagen, l’inizio del distaccamento del follicolo pilifero dalla pelle; telogen, l’arresto della crescita del capello e infine esogen, l’espulsione del capello con la sua caduta. Moltissimi fattori possono influire su questo ciclo, portando al diradamento dei capelli e a varie forme di calvizie.In particolari condizioni si può verificare il cosiddetto “telogen effluvium”, una condizione in cui i capelli cadono con maggiore frequenza e in una quantità più alta rispetto al solito. Chi ne soffre si accorge del problema perché nota una maggiore quantità di capelli caduti dopo averli lavati oppure un progressivo diradamento in testa. Il telogen effluvium può essere cronico, quindi con un lungo periodo in cui i capelli continuano a cadere formando zone sempre più diradate, oppure può essere acuto. In questo secondo caso la caduta avviene molto velocemente, in circa tre mesi, e si assiste poi a una progressiva ricrescita dei capelli (il rinfoltimento varia molto da persona a persona).La frequenza in generale nella popolazione del telogen effluvium non è nota, proprio perché non sempre viene diagnosticata per tempo, oppure perché si risolve da sé dopo la fase acuta senza che la persona interessata cerchi assistenza medica. Dai dati parziali disponibili sembra comunque che sia più ricorrente tra le donne rispetto agli uomini, per via di alcuni meccanismi ormonali. La condizione si presenta talvolta dopo una gravidanza a causa dei cambiamenti legati ad alcuni ormoni, a cominciare dagli estrogeni che mantengono una certa azione protettiva.Sono invece meno chiari i meccanismi legati allo stress che possono portare al telogen effluvium, anche perché l’inizio della caduta non è immediato, ma richiede comunque un po’ di tempo. Da un forte evento causa di grande stress trascorrono solitamente tra le sei e le dodici settimane prima che inizi la caduta di una notevole quantità di capelli. L’ipotesi è che in questi casi la perdita sia innescata da un cambiamento nei livelli di cortisolo, un ormone responsabile di molte attività del metabolismo. Eccessi di questa sostanza incidono sulla produzione delle proteine e su vari altri ormoni come il testosterone e quelli legati alla crescita e allo sviluppo.Tra le cause di stress possono esserci un intervento chirurgico particolarmente importante, una malattia di breve durata magari associata alla febbre, oppure condizioni emotive molto forti come per esempio un lutto in famiglia.Si è osservato che in seguito a specifiche malattie virali si ha una perdita di capelli a diverse settimane dalla scomparsa dei sintomi principali, e che il fenomeno può essere più rilevante nel caso di nuove malattie. Uno studio del 2022 che si era occupato di casi di COVID-19 in Brasile, per esempio, aveva rilevato come molte persone guarite dalla malattia avessero comunque segnalato un aumento della perdita dei capelli a diverso tempo di distanza.Ci possono comunque essere casi di telogen effluvium legato a situazioni in cui lo stress è una costante, per esempio dovuto a particolari stili di vita. In questo caso l’organismo cerca di adattarsi ai cambiamenti nei livelli di cortisolo e di altri ormoni, ma non raggiunge comunque una buona stabilità (omeostasi). In queste circostanze c’è un maggiore rischio di non avere un recupero, che si verifica invece dopo una fase acuta della condizione. Nella sua versione cronica, il telogen effluvium può influire su altre condizioni legate alla perdita dei capelli, come per esempio su alcuni tipi di alopecia, anche se non sono ancora completamente chiari i meccanismi che lo determinano.Non c’è un unico trattamento contro il telogen effluvium perché molto dipende dal singolo paziente e dall’eventuale presenza di altri problemi di salute. In alcuni casi vengono consigliati integratori di vitamina D (anche se il loro impiego in generale è molto dibattuto) oppure l’applicazione di minoxidil, un farmaco impiegato da decenni per trattare alcune forme di calvizie e in particolare l’alopecia androgenetica.La diagnosi di un caso di telogen effluvium non è sempre semplice e per questo molti casi passano inosservati, o vengono inizialmente scambiati per qualche altro problema legato ai capelli. L’identificazione di un possibile evento scatenante avvenuto circa tre mesi prima dell’inizio della perdita può talvolta aiutare nella diagnosi, che viene poi confermata con esami di laboratorio come esame del sangue e delle urine per valutare i livelli ormonali. Viene anche analizzato lo stato dei follicoli piliferi, che può offrire qualche ulteriore indizio. LEGGI TUTTO

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    L’anomalo aumento di polmoniti infantili in Cina

    Nelle ultime settimane in Cina è stato rilevato un aumento anomalo di casi di polmonite infantile, le cui cause non sono ancora completamente chiare. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto maggiori informazioni e il governo cinese ha risposto dicendo di non avere rilevato «nuovi o strani patogeni» collegati alle polmoniti. La situazione al momento non suscita particolare preoccupazione, ma dopo la pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 iniziata proprio in Cina ci sono grandi attenzioni, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie internazionali.Ormai da qualche mese i medici cinesi segnalano un aumento dei casi di malattie respiratorie, attribuendole a varie cause note come i virus influenzali, il SARS-CoV-2 e il Mycoplasma pneumoniae, un batterio tra i più comuni nelle forme di infiammazione ai polmoni che chiamiamo genericamente polmoniti. L’infezione batterica interessa con maggior frequenza i bambini e causa di solito una malattia di lieve entità, che deve comunque essere trattata per evitare il peggioramento dei sintomi.Per i medici è quindi normale e atteso che si debbano occupare spesso di polmoniti di questo tipo tra i bambini, ma secondo le informazioni fornite dai media cinesi nelle ultime settimane i casi sono aumentati notevolmente. Per giorni ci sono state notizie di ospedali con decine di bambini ricoverati in varie zone della Cina, talvolta con seri problemi nel fornire loro assistenza a causa del grande afflusso di pazienti.In un ospedale nella provincia orientale di Anhui, i medici hanno effettuato 67 broncoscopie in un giorno rispetto alla media giornaliera di una decina di esami di questo tipo, che servono per valutare le condizioni e lo stato di infiammazione a livello polmonare. Un altro ospedale nella provincia costiera orientale dello Zhejiang ha stimato che le visite pediatriche siano triplicate rispetto allo scorso anno e che a circa un bambino su tre sia stata diagnosticata una polmonite da Mycoplasma pneumoniae.In seguito alle notizie sui molti ricoveri, mercoledì 22 novembre l’OMS aveva chiesto pubblicamente al governo cinese di fornire maggiori informazioni, utilizzando i canali appropriati per segnalare gli aumenti di particolari malattie. In seguito alla richiesta, l’agenzia di stampa Xinhua controllata dal governo aveva diffuso un articolo che segnalava le dichiarazioni di alcuni funzionari della Commissione nazionale di sanità, l’organismo che si occupa della salute pubblica in Cina. I funzionari avevano detto di essere al lavoro per analizzare le diagnosi di bambini con malattie respiratorie.Il giorno seguente, giovedì 23 novembre, l’OMS aveva poi comunicato di avere ricevuto nuove informazioni direttamente dal governo cinese, che aveva indicato di non avere rilevato la presenza di «nuovi o strani patogeni» legati alle polmoniti. Secondo le autorità sanitarie cinesi, la maggior quantità di malattie respiratorie sarebbe dovuta a più cause già note, a cominciare dai virus influenzali. L’ipotesi è che si siano diffusi più del solito in seguito alla rimozione delle forti limitazioni imposte nel paese negli anni scorsi per provare a ridurre la circolazione del coronavirus, con la cosiddetta “strategia zero-COVID”.Il lungo isolamento ha reso meno frequenti i contagi da influenza, contribuendo a una minore esposizione alla malattia e di conseguenza a una minore immunità nei suoi confronti rispetto ad altri periodi, specialmente nelle persone non vaccinate. Ciò ha fatto sì che i sintomi fossero più significativi e tali da rendere necessari accertamenti in ospedale per molti pazienti. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con altri virus e batteri che interessano con maggiore frequenza i bambini, come il virus respiratorio sinciziale (RSV) e il Mycoplasma pneumoniae.Le cause dell’attuale aumento di polmoniti tra i bambini sono comunque difficili da ricostruire sulla base delle informazioni fornite finora dal governo cinese, ritenute ancora insufficienti da molti osservatori. È forse anche per questo motivo che l’OMS ha scelto di chiedere pubblicamente spiegazioni, invece di seguire le vie della comunicazione interna.Un gruppo di lavoro dell’OMS si occupa infatti di sorvegliare le notizie che circolano sui giornali e sui social network, confrontandole con quelle fornite dalle istituzioni sanitarie dei singoli paesi, in modo da occuparsi il prima possibile di eventuali anomalie. Quando emergono stranezze, l’OMS invia una richiesta di maggiori informazioni al paese interessato, ma è raro che la procedura sia annunciata pubblicamente. Si preferiscono comunicazioni dirette e interne con le istituzioni coinvolte, arrivando a qualcosa di pubblico solo nel caso in cui ci siano elementi utili da condividere globalmente per esempio per ridurre i rischi di avere un’emergenza sanitaria.Nelle prime fasi di quella che sarebbe poi diventata la pandemia da coronavirus, l’OMS era accusata di essere troppo cauta nei confronti del governo cinese e di non avere richiesto da subito maggiore trasparenza sulla diffusione del SARS-CoV-2. La richiesta pubblica di chiarimenti mostra un cambiamento di approccio in un contesto in cui c’è più attenzione su questi temi da parte della popolazione in generale, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare grandi difficoltà e limitazioni.Al momento mancano dati più precisi e ufficiali sulla diffusione delle polmoniti tra i bambini, anche se la richiesta dell’OMS ha portato a qualche maggiore concretezza. Il fatto che non sia stato segnalato un aumento di malattie respiratorie simili tra gli adulti sembra comunque rendere meno probabile la presenza di un nuovo virus, ancora non conosciuto. Per avere maggiori informazioni, i bambini con sintomi dovrebbero essere sottoposti ai test per i patogeni che con maggiore frequenza causano malattie respiratorie, in modo da comprendere meglio la causa dei loro problemi di salute. Una grande quantità di test negativi su virus e batteri noti più diffusi e in circolazione in questo periodo potrebbe dare qualche indicazione su eventuali nuovi patogeni.Secondo alcuni osservatori, la vicenda mostra come l’approccio delle autorità cinesi nel comunicare in maniera trasparente con le istituzioni sanitarie internazionali non sia cambiata molto, nonostante la recente pandemia avesse avuto origine proprio nel paese. Tra il 2019 e il 2020 la Cina era stata relativamente solerte nel condividere le informazioni su quello che sarebbe stato poi chiamato SARS-CoV-2, ma emersero comunque ritardi e omissioni nella gestione della prima fase dell’emergenza sanitaria che si sarebbe poi diffusa in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    C’è un altro farmaco contro l’obesità

    La Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, ha approvato il Zepbound, un nuovo farmaco contro l’obesità prodotto dall’azienda Eli Lilly che farà concorrenza al Wegovy, il farmaco molto discusso e richiesto negli ultimi mesi per trattare la medesima condizione. L’approvazione è avvenuta contestualmente a quella dell’Agenzia regolatrice per i medicinali e i prodotti sanitari del Regno Unito, a conferma della grande attenzione intorno ai farmaci contro l’obesità, un problema sanitario che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha ormai raggiunto «proporzioni epidemiche» con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno.– Ascolta anche: L’obesità è una questione mondialeZepbound non è tecnicamente un nuovo farmaco: il suo principio attivo (tirzepatide) era già stato approvato in precedenza come trattamento contro il diabete con il nome commerciale Mounjaro, disponibile anche nell’Unione Europea. Il suo sviluppo era iniziato sei anni fa con una sperimentazione clinica che aveva coinvolto circa 300 persone affette da diabete di tipo 2 (la forma più diffusa della malattia e la cui causa principale è spesso l’obesità) che avevano assunto il farmaco per tre mesi. L’obiettivo era trattare il diabete, ma dal test era emerso che le persone volontarie avevano perso almeno il 13 per cento della loro massa corporea. Lo studio fu seguito da una serie di test clinici di maggiore durata, circa 72 settimane, e con il coinvolgimento di oltre 2.500 persone con problemi di obesità.Lo scorso anno Eli Lilly aveva annunciato i risultati, segnalando come la metà dei pazienti che avevano ricevuto il dosaggio più alto di tirzepatide una volta alla settimana avesse perso almeno il 20 per cento della massa corporea, un esito senza precedenti nella perdita di peso per un farmaco di quel tipo. Tra il 2017 e il 2022 l’azienda aveva accelerato la ricerca e lo sviluppo del principio attivo, focalizzandosi sull’obesità e facendo grandi investimenti sia per condurre test clinici in parallelo sia per ingrandire la propria capacità produttiva, scommettendo sul fatto di ricevere un’autorizzazione dalla FDA per l’utilizzo del farmaco.I dati conclusivi dei test clinici, consultati dalla FDA per valutare l’approvazione, dicono che le persone che hanno assunto Zepbound hanno perso in media il 18 per cento della propria massa corporea, un risultato paragonabile al 15 per cento ottenuto con il Wegovy (semaglutide). Anche quest’ultimo era stato sviluppato come farmaco contro il diabete ed è venduto come Ozempic per il trattamento di questa malattia, mentre il nome commerciale Wegovy riguarda una versione con un diverso dosaggio specificamente venduta per trattare l’obesità.Negli ultimi mesi la domanda di Wegovy è diventata molto alta al punto che Novo Nordisk, l’azienda danese che lo produce, non riesce a soddisfare le tante richieste con una conseguente carenza del farmaco e di Ozempic. Il processo produttivo richiede tempo perché Wegovy è una preparazione da iniettare. Anche Zepbound deve essere iniettato e questo oltre a complicare la produzione rende meno pratico l’utilizzo da parte dei pazienti. Sia Novo Nordisk sia Eli Lilly sono al lavoro per sviluppare una versione dei loro farmaci per uso orale, in modo da aumentare la loro capacità produttiva e raggiungere un maggior numero di pazienti. I test clinici della versione orale di Zepbound sono già in corso.Secondo esperti e analisti, i farmaci di nuova generazione contro l’obesità sono una delle più grandi occasioni per le aziende farmaceutiche, anche considerato l’aumento delle persone con questa condizione in tutto il mondo. Il loro impiego è comunque vincolato a una diagnosi medica di obesità o di forte sovrappeso con alcune condizioni di salute tipiche delle persone obese. Come tutti i farmaci, anche Zepbound e Wegovy hanno effetti collaterali e devono essere somministrati sotto supervisione medica, nell’ambito di un trattamento che comprenda anche una modifica degli stili di vita.Attualmente Zepbound non è disponibile nell’Unione Europea, ma Eli Lilly ha presentato domanda per l’approvazione all’Agenzia europea per i medicinali. L’approvazione negli Stati Uniti di solito implica una rapida autorizzazione anche in Europa. LEGGI TUTTO

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    Perché sveniamo è un mistero

    Nella Deposizione dalla Croce, una delle opere più famose e importanti del pittore fiammingo Rogier van der Weyden, la Vergine Maria perde i sensi alla vista del proprio figlio Gesù morto durante la crocifissione. Maria ha una posa simile a quella del figlio e viene sorretta mentre con gli occhi chiusi e le guance rigate dalle lacrime si accascia a terra. È una rappresentazione drammatica di uno degli eventi più importanti della cristianità, ma è anche tra i migliori esempi di un tema iconografico che si sviluppò a partire dal tardo Medioevo quando si diffuse la convinzione che Maria fosse svenuta dopo la crocifissione di Gesù. Nei secoli successivi il tema dello svenimento sarebbe stato ripreso in molti quadri, non necessariamente di carattere religioso, mostrando un particolare interesse per un fenomeno plateale e al tempo stesso misterioso.Ancora oggi le cause e il meccanismo dietro gli svenimenti non sono completamente chiari, anche se una recente ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Nature offre qualche nuova prospettiva che potrebbe aiutare a risolvere il mistero. A complicare da sempre le cose c’è il fatto che non tutti gli svenimenti sono uguali e che la loro classificazione può essere difficoltosa.Quello che comunemente chiamiamo “svenimento” è in termini medici una sincope, cioè una perdita di coscienza transitoria le cui caratteristiche principali sono la breve durata e la risoluzione spontanea. In generale la sincope è causata da un minore afflusso di sangue al cervello dovuto a una riduzione della pressione sanguigna (ipotensione), ma possono contribuire altri fattori come problemi cardiaci e nervosi. Chi sta per avere una sincope ha talvolta sintomi che precedono la perdita di sensi vera e propria: giramenti di testa, improvvisa sudorazione, pallore, vista sfocata, nausea e vomito. Nel caso in cui a questi sintomi non segua una perdita di conoscenza si parla di presincope, condizione che non dovrebbe comunque essere trascurata.Si stima che circa il 40 per cento delle persone abbia almeno una sincope nel corso della propria vita, a dimostrazione di quanto sia diffuso un fenomeno che nella maggior parte dei casi non lascia conseguenze. Nonostante la frequenza tra la popolazione, molti aspetti della perdita di conoscenza non sono ancora chiari e ciò è dovuto soprattutto alla grande varietà di situazioni in cui può verificarsi una sincope.Classificare le sincopi è di per sé complicato e a seconda dei manuali di medicina e del lavoro di ricerca dei medici si trovano diverse classificazioni. Secondo la Società europea di cardiologia, una sincope può avere cause: neuromediate (cioè legate alle attività del sistema nervoso), ortostatiche (dovute alla posizione eretta), cardiache o cerebrovascolari. La forma più diffusa, e che comunemente chiamiamo appunto svenimento, rientra nella prima categoria ed è la sindrome vasovagale.Una persona che vive una situazione di forte e improvviso stress emotivo, come nel caso della Vergine Maria di van der Weyden, sviene a causa di una sincope vasovagale. Il presupposto è di solito la bassa pressione sanguigna che può essere determinata semplicemente da come si è fatti o da condizioni ambientali, come una giornata molto calda che porta a una maggiore vasodilatazione per disperdere il calore (i vasi sanguigni si dilatano e di conseguenza diminuisce la pressione a cui circola il sangue al loro interno). Deve poi esserci una causa scatenante che può essere improvvisa, come la visione dell’ago della siringa per un prelievo o un evento spaventoso, oppure crescente come uno stato d’ansia o un attacco di panico.Davanti a una situazione percepita come di pericolo, il nostro organismo si prepara a reagire e come prima cosa fa aumentare il battito cardiaco per rifornire più velocemente l’organismo di ossigeno e altre sostanze attraverso il sangue, ma il cuore non riesce a soddisfare la richiesta perché la pressione sanguigna non è sufficiente. Il nervo vago – uno dei principali canali di comunicazione tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali – interviene e fa rallentare la frequenza cardiaca che si riflette in un minore afflusso di sangue al cervello che porta infine alla sincope.Su questo meccanismo già di per sé complicato possono intervenire numerose altre variabili e molti aspetti del fenomeno non sono ancora chiari. La ricerca da poco pubblicata su Nature offre però nuovi importanti elementi per comprendere meglio che cosa succede nel momento in cui interviene il nervo vago, determinando infine la sincope. Il gruppo di ricerca è infatti riuscito ad analizzare le interazioni tra cuore e cervello, superando le ricerche precedenti che si erano invece quasi sempre concentrate su uno dei due, analizzandoli come sistemi isolati.Lo studio è consistito nell’analisi genetica delle cellule di un tratto del nervo vago che ha permesso di identificare alcuni neuroni coinvolti nei processi che portano alla contrazione dei vasi sanguigni. Il gruppo di ricerca ha notato che questi neuroni formano intricate diramazioni intorno ai ventricoli, le due cavità nella parte inferiore del cuore, e sono poi in comunicazione con la postrema, una struttura che si trova nel tronco encefalico alla base del cervello.(Wikimedia)Identificate le strutture e i loro collegamenti, il gruppo di ricerca ha iniziato a fare qualche esperimento in laboratorio sui topi. Come spiega lo studio, hanno stimolato quegli specifici neuroni in vario modo tenendo nel frattempo sotto controllo il battito cardiaco, la respirazione, la pressione sanguigna e i movimenti degli occhi degli animali. Sapendo su quali strutture neuronali intervenire è stato possibile riprodurre in modo molto più accurato le condizioni che portano a una sincope e analizzare i loro effetti sull’organismo.Un topo libero di muoversi e normalmente attivo, per esempio, sveniva in pochi secondi non appena venivano stimolati i neuroni identificati dal gruppo di ricerca. La perdita di sensi era accompagnata da una marcata dilatazione della pupilla e da un movimento verso l’alto e all’indietro del bulbo oculare, un effetto che si osserva spesso anche nelle persone che hanno una sincope. Altri esami hanno permesso di rilevare una riduzione della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e respiratoria, nonché un ridotto afflusso di sangue verso la testa.Il gruppo di ricerca si è poi chiesto che cosa accade nel cervello quando si ha una sincope, visto che la mancanza delle sostanze portate dal sangue riguarda l’intero encefalo. Ad alcuni topi sono stati applicati elettrodi per rilevare la loro attività neuronale in varie aree del cervello mentre svenivano e si è notato che questa diminuiva praticamente ovunque, tranne che nel nucleo paraventricolare nell’ipotalamo, la struttura che ha tra le sue funzioni principali il controllo del sistema nervoso autonomo. Bloccando l’attività del nucleo, il gruppo di ricerca ha notato che i topi rimanevano privi di sensi più a lungo; una stimolazione permetteva invece di risvegliare rapidamente gli animali che tornavano a comportarsi normalmente.L’ipotesi è che i neuroni identificati dalla ricerca lavorino insieme al nucleo paraventricolare nel regolare le fasi della sincope, dallo svenimento al successivo processo di ripresa di conoscenza e delle attività cerebrali sospese per qualche secondo. Il cervello richiede una grande quantità di energia (glucosio) e di ossigeno portati dalla circolazione sanguigna: in loro assenza i neuroni smettono di funzionare e dopo 2-5 minuti iniziano a morire. La sincope dura molto meno e si risolve di solito entro un minuto, ripristinato il normale afflusso di sangue verso il cervello.La nuova ricerca è un importante progresso nella conoscenza del fenomeno, ma non offre spiegazioni su come quegli specifici neuroni siano stimolati in primo luogo, né spiega il perché della sincope. Che senso ha perdere i sensi quando vediamo il sangue o siamo sottoposti a una situazione di grande stress?Una delle teorie più dibattute sostiene che svenire sia un retaggio evolutivo del fingersi morti, una pratica diffusa tra diverse specie e che può accrescere le probabilità di sopravvivere quando si subisce un attacco da un predatore. A questa teoria è associata quella secondo cui una ridotta pressione sanguigna rallenterebbe la perdita di sangue nel caso di una ferita, aumentando anche in questo caso le possibilità di sopravvivenza. Un’altra teoria ancora ha legato lo svenimento al modo in cui interagivano i gruppi di esseri umani nel paleolitico. Le persone non coinvolte nei combattimenti che svenivano segnalavano che non costituivano una minaccia e avevano maggiori probabilità di sopravvivenza. La paura degli aghi potrebbe derivare da quella per gli oggetti che in un remoto passato potevano causare ferite e sanguinamenti. È una teoria affascinante, ma ancora dibattuta e difficile da confermare.Le teorie formulate nel tempo sono per lo più dedicate alla sincope vasovagale, la più comune e per certi versi misteriosa se confrontata con quelle legate a problemi cardiaci e circolatori. Mentre la prima si verifica di solito come un caso isolato, queste ultime possono essere ricorrenti e rendono quindi necessari esami perché potrebbero essere il sintomo di uno specifico problema di salute. Risalendo alle cause i medici possono prescrivere terapie o cambiamenti di abitudini nello stile di vita, in modo da ridurre il rischio che si verifichino nuovi episodi. Se è vero che quasi sempre la sincope si risolve da sé, lo svenimento può avere altre conseguenze come battere violentemente la testa da qualche parte mentre ci si accascia privi di senso.(Wikimedia)L’invenzione di particolari divani simili alle chaise longue e ai triclini degli antichi Romani in età vittoriana viene spesso attribuita alla necessità di ridurre proprio i rischi delle cadute dovute agli svenimenti, offrendo a chi subisce una sincope un comodo appoggio su cui accasciarsi e riprendersi. Quel tipo di divano viene chiamato “fainting couch”, letteralmente “divano da svenimento”, e divenne effettivamente molto diffuso nel Regno Unito durante il diciannovesimo secolo. Era spesso collocato all’interno delle “fainting room”, camere da svenimento, una stanza solitamente al primo piano delle case dove in sostanza ci si ritirava per fare un pisolino.Non è completamente chiara l’origine dei due nomi legati allo svenimento, ma fu proprio in età vittoriana che nacque lo stereotipo secondo cui le donne perdono facilmente i sensi davanti a una forte emozione. Per diverso tempo si disse che la presunta maggiore frequenza degli svenimenti fosse legata agli stretti corsetti della moda dell’epoca, che non permettevano di respirare bene e di conseguenza potevano portare a una sincope. In realtà non ci sono elementi storici e scientifici per ritenere che questo fosse il caso ed è probabile che quel tipo di divani si diffuse semplicemente per questioni di moda, in un periodo che si rifaceva spesso all’antichità. LEGGI TUTTO

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    È morto il secondo uomo a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato

    Il Centro medico dell’Università del Maryland ha detto che è morto Lawrence Faucette, la seconda persona a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato. Faucette aveva 58 anni ed era stato operato lo scorso 20 settembre: l’avanzamento della sua malattia non permetteva di attendere un trapianto di cuore tradizionale. I medici dell’Università hanno detto che inizialmente aveva reagito bene all’intervento, ma che negli ultimi giorni il suo corpo aveva mostrato segnali di rigetto, il processo in cui l’organismo non riconosce come proprio il nuovo organo e lo attacca ritenendolo una minaccia. Faucette è morto il 30 ottobre, circa sei settimane dopo il trapianto.La tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da innestare negli esseri umani, è ritenuta promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori umani. Il rigetto però è il rischio principale che si corre in questi interventi. Il 9 marzo del 2022 era morto David Bennett, il primo uomo a cui era stato trapiantato un cuore suino con un intervento andato a buon fine, sempre al Centro medico dell’Università del Maryland. Anche Bennett all’inizio aveva reagito bene, ma alla fine era sopravvissuto per circa due mesi dopo l’intervento.– Leggi anche: Il primo trapianto di cuore da un suino geneticamente modificato Lawrence Faucette prima del trapianto assieme alla moglie Ann (University of Maryland) LEGGI TUTTO