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    Exxon sapeva del riscaldamento globale fin dagli anni Settanta

    Un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Science e basato su documenti interni della compagnia petrolifera Exxon rivela che l’azienda aveva a disposizione sin dagli anni Settanta un modello piuttosto accurato sugli effetti a lungo termine dei combustibili fossili sul clima.Per conto di Exxon alcuni ricercatori avevano previsto il riscaldamento globale, in misure simili a quelle effettivamente riscontrate finora. Oltre ad avere ignorato per decenni quei documenti senza renderli pubblici, l’azienda aveva a lungo contestato gli studi sul cambiamento climatico definendoli fino al 2013 «troppo incerti» e battendosi per evitare ogni limitazione all’uso dei combustibili fossili.Il nuovo studio pubblicato su Science, una delle più importanti riviste scientifiche al mondo, è stato condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard e dell’Istituto Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico e guidato da Geoffrey Supran. Quest’ultimo ha definito le conclusioni dello studio e alcuni grafici originali degli anni Settanta in esso contenuti la «pistola fumante», ossia la prova definitiva che Exxon fosse a conoscenza degli effetti a lungo termine dell’uso dei combustibili fossili, a cominciare proprio dal petrolio e dal carbone.Non solo nel corso degli anni Exxon «sapeva qualcosa» sulle cause del riscaldamento globale che ufficialmente negava, ma ha avuto a disposizione modelli e risultati scientifici prima dei ricercatori indipendenti.Uno dei grafici “interni” e la sovrapposizione con i dati reali (Supran et al.)Gli oltre cento documenti e ricerche, condotte da dipendenti della stessa Exxon o commissionate dall’azienda petrolifera a ricercatori esterni fra il 1977 e il 2003, prevedevano un aumento della temperatura media globale di circa 0,2 °C ogni dieci anni come effetto delle emissioni di gas serra riconducibili alla combustione di petrolio e carbone. Le analisi smentivano la teoria, che all’epoca aveva un certo sostegno, che il pianeta potesse andare incontro a una nuova glaciazione e invece prevedevano in modo piuttosto accurato un riscaldamento influenzato dalle attività umane e «indotto dall’anidride carbonica». Gli scienziati della compagnia avevano indicato anche i primi anni del Duemila come la data in cui gli effetti sarebbero stati universalmente riconosciuti e “scoperti” dal grande pubblico e indicavano una quota di utilizzo di combustibili fossili sotto cui sarebbe stato necessario rimanere per evitare un aumento della temperatura media globale superiore ai 2 °C.– Leggi anche: Da dove arrivano le emissioni inquinantiLo studio definisce i risultati a disposizione di Exxon in quegli anni più accurati e completi rispetto a quelli con cui gli scienziati della NASA, e in particolare James Hansen, avvertirono il mondo dei rischi anni più tardi, nel 1988. Non è la prima pubblicazione che evidenzia come le grandi società petrolifere e aziende energetiche fossero a conoscenza degli effetti sulle temperature globali della combustione di petrolio e carbone: l’esistenza di ricerche interne in questo senso fin dagli anni Cinquanta dello scorso secolo è già stata dimostrata, ma questo studio presenta risultati più completi e circostanziati.Exxon è una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo ed è proprietaria, fra gli altri, del marchio Esso con cui è sul mercato in Italia. Giovedì ha smentito queste conclusioni, contattata da BBC News: «La questione è già stata presentata più volte e in ogni occasione la nostra risposta è la stessa: chi dice che “Exxon sapeva” sostiene conclusioni errate».Exxon, così come altre grandi aziende del settore, per decenni ha respinto le conclusioni scientifiche sul riscaldamento globale causato dalle attività umane, definendole ora “speculative”, ora “cattiva scienza” e osteggiando fino a pochi anni fa ogni regolamentazione delle emissioni. Lo studio dell’Università di Harvard rivela invece che internamente la compagnia usava gli stessi modelli ed era a conoscenza degli effetti a lungo termine. LEGGI TUTTO

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    La COP27 non è finita benissimo

    A Sharm el-Sheikh, in Egitto, le delegazioni da ogni parte del mondo stanno lasciando la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27), terminata domenica 20 novembre con quasi due giorni di ritardo rispetto al previsto, a causa del protrarsi delle trattative per approvare il documento finale dell’incontro. Dopo lunghe discussioni, è stato approvato un accordo per istituire un fondo di compensazione per i paesi in via di sviluppo più esposti agli effetti del cambiamento climatico, preservando l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale. I rappresentanti dei paesi più poveri hanno parlato di un’importante vittoria, quelli dei paesi più sviluppati hanno usato toni meno enfatici mal celando una certa delusione per gli impegni contenuti nel documento finale.CompensazioniLa COP27 era iniziata un paio di settimane fa con un invito del segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, rivolto sia ai paesi sviluppati sia a quelli in via di sviluppo per evitare ulteriori divisioni e collaborare a un piano comune per contrastare il riscaldamento globale e mitigare i suoi effetti, ormai inevitabili e in parte già in corso. Nonostante le dichiarazioni di buoni intenti, fino da subito erano emersi forti contrasti sulla dibattuta istituzione di un fondo finanziato dai paesi ricchi per aiutare i paesi poveri, che spesso devono confrontarsi con eventi meteorologi estremi legati al cambiamento climatico, pur non essendo i principali responsabili delle emissioni di gas serra che rendono sempre più caldo il pianeta.Stati Uniti e Unione Europea erano inizialmente contrari al nuovo fondo, ritenendo che ci fosse già un numero sufficiente di strumenti di finanziamento tramite organizzazioni e istituzioni internazionali e nazionali. L’Unione Europea aveva cambiato il proprio approccio negli ultimi giorni della COP27, segnalando di essere disponibile a istituire il fondo a patto che contribuisse anche la Cina, ancora inquadrata come un paese in via di sviluppo, nonostante sia uno dei più grandi produttori di gas serra al mondo.Il cambiamento di approccio dell’Unione Europea aveva contribuito a sbloccare la situazione, portando infine all’istituzione del fondo di compensazione, ritenuto da molti commentatori il punto più rilevante del nuovo accordo sottoscritto dai paesi partecipanti alla COP27. Il denaro accumulato nel fondo potrà essere utilizzato per finanziare attività di gestione delle emergenze e messa in sicurezza dei territori nei paesi più poveri interessati da alluvioni, oppure da periodi di prolungata siccità.L’accordo è però vago su numerosi dettagli, a cominciare da quali dovranno essere i criteri che porteranno all’erogazione dei fondi. Non è inoltre chiaro come saranno raccolti i fondi e se ce ne saranno a sufficienza, considerato che in questi anni praticamente nessun paese sviluppato aveva mantenuto i propri impegni nel finanziamento di altre iniziative comuni, mirate più in generale a sostenere attività per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.Secondo esperti e osservatori, l’accordo sul nuovo fondo è soprattutto importante per ristabilire un certo livello di fiducia tra i paesi in via di sviluppo e quelli più ricchi, dopo quasi tre anni di pandemia nei quali si erano accentuate le differenze e le disparità di trattamento, per esempio sulla gestione e la distribuzione dei vaccini contro il coronavirus. L’accordo dovrebbe consentire di risolvere attriti e malumori, riportando al centro del confronto le politiche per ridurre le emissioni di gas serra ed evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare.Su questi temi, cruciali per il futuro di tutti, i progressi alla COP27 di Sharm el-Sheikh non sono però stati molti.(AP Photo/Peter Dejong)Combustibili fossiliIl documento finale della COP27 non contiene grandi progressi nella riduzione dell’impiego dei combustibili fossili, rispetto per esempio al testo approvato alla COP26 dello scorso anno a Glasgow, in Scozia. Molti dei paesi economicamente più sviluppati volevano chiari riferimenti alla riduzione dei consumi di petrolio e gas naturale, oltre a quelli sul carbone già inseriti lo scorso anno (quando fallì il tentativo di inserire nell’accordo una riduzione a zero dei consumi di carbone).Il testo finale contiene invece solamente un riferimento alla necessità di ridurre le emissioni, ma senza specificare in modo molto dettaglio rispetto al consumo di quali combustibili fossili. La formulazione vaga potrebbe essere sfruttata da alcuni paesi per aumentare il consumo di gas naturale, per esempio, che inquina meno del carbone, ma che contribuisce comunque a immettere nell’atmosfera enormi quantità di anidride carbonica.Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, delegato alla COP27, ha detto di essere deluso dal documento finale: «Gli amici sono veramente amici solo se ti dicono cose che non vorresti sentire. Siamo nel decennio in cui o si fa qualcosa o siamo spacciati, ma ciò che abbiamo davanti a noi non è passo avanti sufficiente per le persone e il pianeta».Kochi, Kerala, India (AP Photo/R S Iyer, File)Temperatura media globaleLe delegazioni alla COP27 si sono nuovamente impegnate a mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto al periodo preindustriale. Con le attuali politiche adottate dai vari paesi, si stima che l’aumento della temperatura media globale sarà di 2,1-2,9 °C per questo secolo, sempre rispetto ai livelli preindustriali. Per rimanere al disotto degli 1,5 °C sarebbe necessario dimezzare le emissioni di gas serra entro questo decennio, un obiettivo improbabile se non impossibile da realizzare.Il documento prevede un impegno senza che siano forniti dettagli su come mantenerlo, come già avvenuto in passato con le altre conferenze sul clima. Ormai da anni gli scienziati segnalano come un aumento fino a 2 °C potrebbe avere effetti gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.Le ultime ricerche indicano che c’è un 50 per cento di probabilità di superare la soglia degli 1,5 °C nei prossimi cinque anni, seppure temporaneamente. Con gli attuali andamenti, il superamento potrebbe essere annuale a partire dall’inizio dei prossimi anni Trenta. L’attuale testo, che di fatto non introduce impegni concreti e più drastici sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili, non è ritenuto sufficiente per evitare gli scenari più pessimistici.(AP Photo/Peter Dejong)Cosa succede oraSpesso le conferenze sul clima si concludono con un senso di pochi risultati ottenuti, ben al di sotto delle aspettative. L’impressione è che i partecipanti facciano spesso promesse che non vengono poi rispettate, o che i tempi di reazione non siano adeguati per affrontare l’emergenza climatica. Mettere d’accordo tutti i paesi del mondo su politiche per il medio-lungo termine non è semplice, anche se negli ultimi anni il senso di urgenza è aumentato, con azioni necessarie nel breve termine per evitare conseguenze disastrose per la sopravvivenza di milioni di persone.I prossimi mesi saranno importanti per verificare quanto sia credibile e attuabile l’accordo sul fondo per le compensazioni, mentre non ci si attendono molti progressi sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Complice la guerra in Ucraina e la situazione economica internazionale, molti paesi hanno aumentato il consumo di combustibili fossili molto inquinanti, come il carbone, o stretto accordi decennali con nuovi fornitori di gas naturale che dovranno essere mantenuti. I maggiori costi delle materie prime e l’inflazione che sta interessando Europa e Stati Uniti potrebbero complicare i progressi nella produzione e nell’installazione di sistemi sostenibili per la produzione di energia elettrica.La COP28 dell’anno prossimo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, sarà una prima occasione per verificare l’implementazione del fondo di compensazione, ma anche per fare il punto sull’andamento delle emissioni di anidride carbonica. LEGGI TUTTO

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    Alla COP27 si fatica a trovare un accordo

    Caricamento playerA Sharm el-Sheikh, in Egitto, si sta per concludere la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP27) e – come avviene sempre a ridosso della chiusura di eventi di questo tipo – le varie delegazioni sono in ritardo nella preparazione del documento condiviso tra i paesi partecipanti su come proseguire le attività per limitare il riscaldamento globale e mitigarne i danni. Per il secondo anno consecutivo, dopo la COP26 di Glasgow, in Scozia, c’è l’impressione tra gli osservatori che il documento finale non conterrà grandi sorprese e progressi, con il rischio di avere perso ulteriormente tempo prezioso per affrontare l’emergenza climatica, i cui effetti sono sempre più evidenti.Venerdì 18 novembre è formalmente l’ultimo giorno della COP27, ma come accaduto in passato i lavori proseguiranno almeno fino a sabato, prima di arrivare alla pubblicazione dei nuovi impegni. Il confronto si sta concentrando soprattutto su due argomenti: l’istituzione di un fondo compensativo per i paesi più poveri e che più subiscono gli effetti del cambiamento climatico; un impegno a ridurre sensibilmente l’impiego dei combustibili fossili oltre al carbone, in modo da immettere nell’atmosfera minori quantità di anidride carbonica e altri gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale.Combustibili fossiliLo scorso anno la COP26 di Glasgow era iniziata con un certo ottimismo circa la possibilità di stabilire un piano chiaro e condiviso sull’eliminazione del carbone come fonte per produrre energia. Il carbone è tra i combustibili fossili più economici, ma è anche tra i più inquinanti soprattutto in rapporto alla sua resa.I paesi economicamente più sviluppati erano pressoché concordi sull’eliminazione del carbone, anche perché negli ultimi anni il suo impiego si era sensibilmente ridotto. I paesi in via di sviluppo più grandi e potenti, come Cina e India, erano invece contrari, perché ancora oggi utilizzano numerose centrali a carbone per produrre l’energia elettrica, soprattutto per alimentare le loro attività industriali. Durante le trattative si arrivò a una situazione di stallo e l’unica soluzione fu cambiare una formulazione nel documento finale, non parlando più di “eliminazione” ma di “riduzione” dei consumi di carbone.A complicare le cose nell’ultimo anno c’è stato l’aumento significativo del prezzo del gas naturale, che ha reso in alcuni casi necessario un maggior ricorso al carbone per produrre energia elettrica. Nonostante la temporaneità di questa situazione, l’aumento ha comunque un impatto sulle politiche energetiche e il passaggio all’impiego massiccio di fonti sostenibili.(Spencer Platt/Getty Images)Alla COP27 si è discusso di estendere il concetto di riduzione non solo al carbone, ma anche agli altri combustibili fossili come il petrolio e il gas naturale. In questo caso sono l’India e diversi altri paesi a chiedere l’estensione, mentre altri paesi sviluppati che dipendono ancora molto da gas e petrolio vorrebbero trovare formulazioni diverse. È probabile che per questo il documento finale non contenga riferimenti sui combustibili fossili molto diversi da quelli degli accordi finali della COP26.CompensazioniOltre ai combustibili fossili, l’argomento che ha portato a maggiori divisioni e attriti tra le delegazioni alla COP27 è quello dell’istituzione di un sistema di compensazioni economiche per i paesi più poveri maggiormente esposti agli effetti del cambiamento climatico. La possibilità di istituire un fondo a questo scopo è discussa da vari decenni, ma finora non ha mai portato a qualcosa di concreto.I paesi più ricchi e sviluppati, cioè buona parte dell’Occidente, ritengono che un sistema di compensazioni potrebbe impegnarli per decenni se non per più di un secolo. L’idea è che siano infatti i paesi che più hanno inquinato finora a risarcire gli altri, che non potranno beneficiare delle medesime soluzioni inquinanti (e spesso più economiche di quelle sostenibili) per lo sviluppo delle loro attività produttive. Il fondo dovrebbe servire per finanziare le attività di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, come inondazioni, eventi atmosferici sempre più estremi o prolungati periodi di siccità, offrendo inoltre risorse per gestire la transizione energetica, cioè il passaggio a fonti di energia meno inquinanti.Gli Stati Uniti non sono a favore di un fondo vero e proprio: sostengono che siano più utili iniziative dirette di aiuto senza i vincoli che comporterebbe un’iniziativa collettiva, magari coordinata dalle Nazioni Unite. Il governo di Joe Biden ha in parte ammorbidito questa posizione, ma dalle trattative a Sharm el-Sheikh non sono emerse chiare dichiarazioni per un maggiore impegno.Conseguenze di un’alluvione a Sukkur, in Pakistan, nel 2010 (Daniel Berehulak/Getty Images)Dopo aver rimandato a lungo la questione, l’Unione Europea negli ultimi anni si è invece mostrata più aperta alla possibilità di istituire un fondo per gestire le compensazioni. La disponibilità è comunque vincolata alla partecipazione di altri grandi paesi all’iniziativa, a cominciare dalla Cina, uno dei più grandi produttori di anidride carbonica al mondo, proprio insieme a Stati Uniti e Unione Europea. Le richieste europee sono inoltre vincolate all’inserimento nel documento finale di chiari impegni sulla riduzione del consumo dei combustibili fossili e sul mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto degli 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale.1,5 °CAlla COP27 si è discusso molto anche del limite degli 1,5 °C, stabilito nell’accordo di Parigi sette anni fa come scenario auspicabile e preferibile a quello di un aumento di 2 °C. Alla COP26 si era deciso di mantenere l’obiettivo tra gli impegni, con una dichiarazione che indicava come questo fosse «vivo, ma con un battito molto debole». All’inizio della conferenza di quest’anno, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, aveva utilizzato toni molto più allarmati e netti, dicendo che l’umanità è «su un’autostrada verso un inferno climatico con un piede sull’acceleratore».Molti esperti e osservatori ritengono che sia sempre più improbabile rispettare l’obiettivo di non superare gli 1,5 °C, considerato che il cambiamento climatico è ormai inevitabile e in corso. Al tempo stesso c’è la consapevolezza che qualsiasi iniziativa per ridurre il più possibile uno sforamento sia preziosa, visto che già solo un aumento di 2 °C avrebbe effetti molto gravi per molti ecosistemi, con una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.La bozza del documento finale della COP27 su cui si stanno confrontando le delegazioni nelle ultime ore della conferenza non contiene riferimenti molto diversi rispetto all’accordo di Parigi in cui si parlava della necessità di rimanere «ben al di sotto» dei 2 °C e di impegnarsi il più possibile per tenersi sotto gli 1,5 °C. Una eccessiva enfasi nel documento sui 2 °C potrebbe portare alcuni paesi ad allentare le proprie politiche per ridurre la produzione di gas serra, con un ulteriore rallentamento verso l’obiettivo della “neutralità carbonica” o “emissioni zero”, per cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta.Groenlandia, 2021 (Mario Tama/Getty Images)Nella bozza del documento ci sono riferimenti che fanno intendere che i paesi industrializzati dovrebbero raggiungere le emissioni zero entro il 2030, invece del 2050 come stabilito da qualche anno. Appare però improbabile che simili riferimenti rimangano anche nella versione finale, considerato che già la scadenza del 2050 è vista dagli analisti come estremamente ottimistica. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, le emissioni globali di gas serra dovrebbero essere ridotte del 45 per cento nel 2030, rispetto ai livelli del 2010.I paesi più scettici sulla possibilità di mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto gli 1,5 °C sono India e Cina, entrambi con un forte impatto sulle politiche ambientali, anche per l’influenza che hanno su altri paesi. Già prima dell’inizio della COP27 molti esperti avevano espresso preoccupazioni su una possibile revisione degli obiettivi legati all’aumento della temperatura.CinaCome da diversi anni alle conferenze sul clima, la Cina è stata tra i paesi osservati con più attenzione alla COP27. Negli anni della forte contrapposizione con Donald Trump, quando era presidente, i rapporti con gli Stati Uniti erano peggiorati sensibilmente e di conseguenza era diventato più difficile trovare politiche comuni contro il riscaldamento globale. Ora con Joe Biden i rapporti hanno iniziato a migliorare, come si è visto nel recente incontro tra il presidente statunitense e quello cinese Xi Jinping, ma mancano ancora piani condivisi che possano fare da modello anche per altri paesi.La stretta di mano tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente statunitense Joe Biden, prima del loro atteso incontro avvenuto oggi a Bali, in Indonesia, a margine del G20 (EPA/XINHUA /LI XUEREN)Da tempo gli Stati Uniti vorrebbero che la Cina non fosse più considerata un paese in via di sviluppo, e che può quindi contare su un trattamento di un certo tipo per quanto riguarda le emissioni, ma come un paese sostanzialmente sviluppato e con una forte economia. Secondo alcune previsioni, entro l’inizio dei prossimi anni Trenta la Cina potrebbe superare gli Stati Uniti per quanto riguarda le emissioni complessive di anidride carbonica storicamente prodotte dai due paesi. Una ridefinizione della Cina si riallaccia alla possibilità che il paese dia maggiori contributi al fondo per le compensazioni, come chiesto anche dall’Unione Europea. LEGGI TUTTO

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    L’obiettivo degli 1,5 °C ha ancora senso?

    I capi di governo e le delegazioni che partecipano alla COP27, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima in corso da una settimana a Sherm El-Sheikh in Egitto, devono fare ancora una volta i conti con un numero che più di altri ha definito e condizionato le discussioni sul cambiamento climatico negli ultimi anni: 1,5. Indica il limite in °C entro il quale mantenere l’aumento della temperatura media globale rispetto all’epoca preindustriale per evitare gli effetti più gravi del riscaldamento globale, causato dalle attività umane e in particolare dall’emissione di gas serra come anidride carbonica (CO2) e metano.L’obiettivo di mantenersi sotto gli 1,5 °C è ancora oggi molto citato alla COP27, ma una quota crescente di esperti ritiene che sia ormai irrealistico e che sia arrivato il momento di accettare il fallimento, senza rassegnarsi e pensando a cosa fare per evitare ulteriori peggioramenti.La COP26 dello scorso anno a Glasgow si era conclusa con una dichiarazione che indicava metaforicamente come il limite degli 1,5 °C fosse «vivo, ma con un battito molto debole». All’inizio della conferenza di quest’anno i toni sono diventati ulteriormente pessimistici. Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha detto che l’umanità è «su un’autostrada verso un inferno climatico con un piede sull’acceleratore». Secondo alcune previsioni, l’aumento di 1,5 °C sarà superato nei prossimi anni Trenta, forse solo temporaneamente, ma con conseguenze che potrebbero essere gravi.L’obiettivo degli 1,5 °CPer lungo tempo i paesi partecipanti alle conferenze internazionali sul clima dell’ONU, avviate una trentina di anni fa, non si erano impegnati a mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di un certo limite: gli impegni, spesso generici e solo parzialmente mantenuti, erano per lo più dedicati all’adozione di misure per ridurre le emissioni di CO2. Mettere d’accordo tutti i partecipanti era difficile e solo dopo anni di mediazioni si arrivò alla COP21 di Parigi del 2015 con la proposta di impegnarsi a non superare una certa soglia di riscaldamento globale.La scelta di collocare un limite fu più politica che scientifica. La maggior parte dei paesi concordava su fissarlo a 2 °C, mentre alcuni paesi più esposti ai cambiamenti climatici, a cominciare dalle nazioni insulari a rischio per l’innalzamento dei mari, spingevano per un limite a 1,5 °C. Dopo due settimane di contrattazioni, il testo dell’accordo di Parigi fissava il limite a 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, ma al tempo stesso impegnava tutti i paesi a non superare un aumento di 1,5 °C. Considerato che qualsiasi frazione di grado in meno è auspicabile per ridurre gli effetti del riscaldamento globale, l’obiettivo condiviso degli accordi di Parigi divenne in breve tempo 1,5 °C.L’importanza di non superare gli 1,5 °C si rese ancora più evidente qualche anno dopo, quando nel 2018 un rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU mise a confronto quel limite con quello di 2 °C, per mostrare quali sarebbero state le differenze. Le analisi degli studi raccolti nel rapporto mostravano come mezzo grado in più fosse sufficiente a fare aumentare sensibilmente il rischio di eventi disastrosi, come inondazioni e prolungati periodi di siccità a livello regionale, con la devastazione di numerosi ecosistemi.Un aumento della temperatura media globale di 2 °C comporta una grande riduzione dei ghiacci polari, l’innalzamento del livello dei mari al punto da rendere inabitabili ampie zone costiere e contemporaneamente l’inaridimento di molte aree coltivate, inducendo milioni di persone a migrare, perché le coste sono tra le zone più abitate del pianeta.Tempo e obiettiviIl rapporto segnalava inoltre come ci fosse poco tempo per evitare l’aumento di 1,5 °C, indicando la necessità di arrivare al 2050 in una condizione di “neutralità carbonica” o “emissioni zero”, per cui per ogni tonnellata di CO2 o di un altro gas serra che si diffonde nell’atmosfera se ne rimuove altrettanta. In altre parole, non aggiungere gas serra nell’atmosfera oltre la quantità che si riesce a togliere.Le analisi sui differenti esiti tra un aumento di 1,5 o 2 °C e l’orizzonte temporale di circa 30 anni contribuirono a fissare un obiettivo comprensibile e tutto sommato facile da comunicare. Molte grandi aziende rilanciarono i propri progetti legati alle emissioni zero e i governi annunciarono nuovi piani, con traguardi intermedi e scadenze da rispettare fino al 2050. Qualche progresso ci fu e oggi siamo in una fase in cui i progressi verso la transizione energetica e la riduzione delle emissioni sono davvero notevoli, e in molti settori senza precedenti. Lo sforzo c’è, ma è inferiore al necessario come è diventato evidente alle conferenze sul clima degli ultimi anni.In un recente articolo l’Economist lo ha scritto chiaramente, riprendendo ciò che sostiene ormai un numero crescente di esperti, magari non sempre pubblicamente: «Sarebbe molto meglio ammettere che gli 1,5 °C sono morti. […] La maggior parte degli addetti ai lavori sa che è vero, quelli che non lo sanno dovrebbero saperlo. In pochi lo dicono in pubblico o alla stampa».Lo scorso aprile l’IPCC ha pubblicato un nuovo rapporto cui hanno lavorato centinaia di persone e basato su oltre 18mila studi e ricerche scientifiche, concludendo che il tempo per evitare gli scenari peggiori è quasi finito. Secondo il rapporto occorre invertire la tendenza delle emissioni di gas serra arrivando alla neutralità carbonica non oltre il 2025, per avere un 67 per cento di probabilità di mantenerci entro gli 1,5 °C. Il problema è che più ci spingiamo verso la scadenza, più drastico dovrà essere il taglio di miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Abbiamo un budget di CO2 da gestire, in pratica.The remaining carbon budget to limit global warming to 1.5°C, 1.7°C, 2°C is 380GtCO₂, 730GtCO₂, 1230GtCO₂, requiring net zero emissions with a linear decline in ~2040, ~2060, ~2080 assuming sufficient reductions in non-CO2 emissions.8/ pic.twitter.com/K4Gq6Gd4VA— Glen Peters (@Peters_Glen) November 11, 2022Improbabile o impossibileA oggi non abbiamo ancora invertito la tendenza e le emissioni di gas serra continuano ad aumentare, seppure a una velocità inferiore rispetto al passato, fatte le dovute proporzioni. Il limite degli 1,5 °C era stato concordato ritenendo plausibile l’impiego in breve tempo di tecnologie per sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, in modo da avere “emissioni negative”. Quelle tecnologie sono ancora in fase di sperimentazione e di sviluppo e non è chiaro se saranno pronte a breve termine per un compito enorme come la rimozione di un miliardo di tonnellate di anidride carbonica dall’atmosfera entro il 2030. I modelli di previsione dicono inoltre che per rimanere al di sotto degli 1,5 °C sarebbe necessario ridurre le emissioni di almeno il 43-45 per cento entro il 2030, uno scenario che viene ritenuto dagli esperti più impossibile che improbabile.Un’analisi diffusa dalle Nazioni Unite a fine ottobre ha segnalato come i nuovi sforzi per ridurre le emissioni di anidride carbonica porterebbero al massimo a una riduzione dell’1 per cento entro il 2030, una percentuale assai distante dal 43-45 per cento. Con le attuali regole e politiche, la temperatura media globale sarà entro fine secolo di 2,8 °C superiore rispetto al periodo preindustriale. Se i governi mantenessero seriamente tutti gli impegni dell’accordo di Parigi e delle COP successive, gli obiettivi di zero emissioni e adottassero nuovi impegni, secondo l’ONU si potrebbe arrivare a 1,8 °C, ma per ammissione degli stessi autori dello studio questo scenario ora come ora non è credibile.Attualmente la temperatura media globale è di 1-1,3 °C al di sopra di quanto fosse in epoca preindustriale. Secondo le principali organizzazioni e istituzioni che si occupano di clima, c’è una probabilità del 48 per cento che la temperatura media globale sia più alta di 1,5 °C per almeno uno dei prossimi cinque anni. Tra gli esperti questa eventualità è sempre più condivisa, ma per chi si occupa di cambiamenti climatici un solo anno non è necessariamente significativo. Ciò che davvero conterà sarà quante volte supereremo il limite nei prossimi anni e per quanto tempo, in modo da avere una serie storica di qualche decennio solida a sufficienza.Uno studio da poco pubblicato da Global Carbon Project, un’organizzazione che si occupa di quantificare le emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività umane, ha calcolato che entro la fine di quest’anno saranno emessi 36,6 miliardi di tonnellate di CO2, con un aumento dell’1 per cento rispetto al 2021, anno in cui la quantità di emissioni era paragonabile a quelle del 2019. Secondo i calcoli di Global Carbon Project, a questi ritmi c’è un 50 per cento di probabilità che tra nove anni si superi il limite degli 1,5 °C.Soluzioni drastiche o rischioseLe prospettive sempre più pessimistiche rendono più contemplabili, almeno per alcuni, soluzioni ipotizzate da tempo per ridurre temporaneamente e in modo piuttosto drastico il riscaldamento globale, guadagnando tempo prezioso in attesa di avere sistemi per rimuovere i gas serra in eccesso. Una delle proposte più discusse riguarda la possibilità di immettere nell’atmosfera grandi quantità di sostanze in grado di aumentare la capacità del nostro pianeta di riflettere la luce solare, in modo che si riduca la quantità di energia che raggiunge la Terra.Un fenomeno simile avviene dopo grandi e violente eruzioni vulcaniche. Si ipotizza che fu proprio l’attività di alcuni vulcani in Islanda a causare la gelida estate del 536, specialmente in Europa e in Asia. Una nebbia molto fitta oscurò per mesi il Sole, tanto che in Cina nevicò in piena estate; le coltivazioni ebbero una scarsa resa e milioni di persone dovettero confrontarsi con gli effetti di una grave carestia. Secondo il medievalista Michael McCormic, fu «il peggior anno in cui essere in vita».Disperdere grandi quantità di sostanze chimiche nell’atmosfera non sarebbe comunque semplice non solo dal punto di vista tecnico, ma anche politico e di relazioni internazionali. Nell’atmosfera non ci sono confini e gli effetti della dispersione riguarderebbero molti paesi, non necessariamente d’accordo con l’adozione di pratiche di questo tipo. Per essere a pieno regime il sistema richiederebbe grandi flotte di aerei in grado di volare ad alta quota e di disperdere le sostanze riflettenti, senza contare le basi a terra per coordinare le loro attività e naturalmente i costi.Opzioni di questo tipo sono viste con diffidenza da chi si occupa di riscaldamento globale perché potrebbero mascherare ulteriori peggioramenti, riducendo la sensazione di urgenza nel ridurre le emissioni di anidride carbonica. Non sono inoltre noti gli effetti nel medio-lungo periodo di interventi di questo tipo nell’atmosfera, di conseguenza è difficile fare stime accurate sui rischi e più in generale sul rapporto tra costi e opportunità sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale.SimboloNonostante risultati al di sotto delle aspettative e degli impegni assunti, l’obiettivo degli 1,5 °C in questi anni ha comunque avuto un ruolo molto importante nel motivare molte persone, anche per fare pressioni nei confronti dei governi. Per questo molti preferirebbero che si continuasse a mantenere il medesimo obiettivo, cercando di avvicinarsi il più possibile a quel risultato, anche nel caso in cui dovesse essere superato, come sembra ormai inevitabile. LEGGI TUTTO