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    Unicredit, Giorgetti-Tajani ai ferri corti

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    Nuovo incendio sul dossier Unicredit-Banco Bpm. Ieri il primo ad aprire il fuoco è stato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che incalzato dai giornalisti in Senato ha voluto ripercorrere i vari passaggi della vicenda: «C’è un golden power che prevede una procedura di monitoraggio. Questo monitoraggio è stato avviato. Nella procedura di monitoraggio Unicredit e Banco Bpm hanno fatto le loro osservazioni. Noi dovremo dare una risposta a queste osservazioni sempre nell’ambito del monitoraggio. Nel frattempo, è un loro diritto, hanno deciso di andare in tribunale, vanno tutti in tribunale in questo Paese, una causa non si nega a nessuno, quindi la cosa si incasina». Arrivano poi altri messaggi mirati, uno all’indirizzo di indiscrezioni di stampa che vorrebbero un disallineamento tra Palazzo Chigi e il ministero dell’Economia circa un ripensamento sulle prescrizioni Golden Power per timore di una reprimenda europea: «Noi andremo avanti nel monitoraggio e daremo le risposte che dovremo dare», ha proseguito Giorgetti, «in assoluto coordinamento tra Mef e Palazzo Chigi, assoluto, perché dall’inizio del primo giorno c’è coordinamento tra Palazzo Chigi e Mef, tra Giorgetti e Meloni. Se ci fosse un minimo di disallineamento, non troverete l’annuncio delle dimissioni troverete le dimissioni perché le dimissioni non si annunciano ma si danno, chiaro?». Una super bordata che lascia intendere clamorose dimissioni se al Mef fosse imposta una revisione del decreto sul Golden Power. Ma è certo una staffilata anche al presidente della Consob, Paolo Savona, che con il suo voto aveva fatto propendere l’Authority per la sospensiva di 30 giorni all’Ops di Unicredit su Bpm dicendosi pronto a dimettersi «se non gradito». Incalzato da altre domande sulle dimissioni, ha concluso: «Ho appena detto come si fa, non si annunciano, si danno».Nella maggioranza, però, c’è chi spinge, a costo di scontrarsi, per ammorbidire le prescrizioni di Unicredit. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a precisa domanda se fosse favorevole in Senato a rivedere alcuni passaggi del Dpcm ha risposto «Assolutamente sì». Del resto, già ad aprile, in Consiglio dei ministri, era stata inserita su richiesta di Forza Italia la tempistica dei nove mesi da concedere a Unicredit per abbandonare ogni attività in Russia. «La nostra priorità è la difesa delle imprese», ha detto Tajani riferendosi alle 270 aziende tricolori ancora operanti a Mosca che si appoggiano per operare proprio all’istituto guidato da Andrea Orcel. Realtà che «lavorano in Russia nel rispetto delle sanzioni», ha sottolineato. Pertanto, nell’ottica della difesa di queste aziende, compresa Unicredit, «una conditio sine qua non» per il leader di Forza Italia, «sono i nove mesi che devono essere almeno nove mesi effettivi». Il ragionamento di Tajani è che, visto che Unicredit si è appellata al Tar con la prima udienza in calendario il 4 giugno, la decorrenza dei termini dovrebbe partire dalla data di pronuncia del tribunale, con l’effetto di dare più tempo a Unicredit per uscire dalla Russia e alle imprese di riorganizzarsi. Sempre a proposito di Russia, è circolata l’indiscrezione – senza conferme – di un interesse di fondi d’investimento emiratini alla filiale russa di Piazza Gae Aulenti. In lizza ci sarebbero le società d’investimento Inweasta, Asas Capital e Mada Capital. Voci che tuttavia erano circolate in passato, sebbene con altri attori, e si erano dissolte in una bolla di sapone anche su presunte pressioni statunitensi. LEGGI TUTTO

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    Italia-Uzbekistan, affari per 500 milioni

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    Una visita ad alto valore strategico quella annunciata dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Uzbekistan e Kazakistan dal 28 al 30 maggio. Posticipato a causa della morte di Papa Francesco, l’incontro in Asia Centrale mira a rafforzare un asse politico ed economico in costante espansione, a conferma del crescente interesse dell’Italia per la regione. Al centro dell’agenda i rapporti economici tra Roma e Tashkent. Nel 2024 l’interscambio commerciale tra i due paesi ha toccato quota 500 milioni di euro. I dati confermano il dinamismo e la rapida crescita del rapporto bilaterale tra Italia e Uzbekistan. Nel corso del 2024, gli investimenti diretti italiani nel Paese centroasiatico hanno registrato un incremento del 160% rispetto all’anno precedente. I principali prodotti commercializzati includono articoli tessili, metalli, prodotti in pelle, prodotti alimentari, macchinari, apparecchiature elettriche, prodotti farmaceutici e veicoli.In Uzbekistan operano oltre 55 aziende italiane, tra cui 32 joint venture e 23 imprese a capitale interamente italiano, attive in settori chiave come energia, metallurgia, tessile e agroindustria. Tra i protagonisti società come Pietro Fiorentini, Terranova, Cotonella e FinOpera. Accanto a queste realtà consolidate, sono in corso di sviluppo progetti innovativi come la produzione di materiali in basalto di Gamma Meccanica e l’Orient Express di Arsenale Group, volto a rilanciare la storica rete ferroviaria transcontinentale. Significativo anche l’impegno ambientale di Sogesid, che guida interventi di recupero nel fragile ecosistema del Lago d’Aral.L’appuntamento segna un ulteriore passo avanti nel partenariato strategico siglato nel giugno 2023, quando il Presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev fu accolto a Roma dal Presidente Sergio Mattarella e dalla stessa premier Meloni. Da quel momento, le relazioni bilaterali hanno conosciuto una significativa accelerazione. A novembre dello stesso anno, è stato il Presidente Mattarella a recarsi in visita ufficiale a Tashkent, suggellando l’amicizia tra i due Paesi. Complessivamente, i due appuntamenti hanno prodotto la firma di quindici accordi intergovernativi e l’avvio di piani operativi per garantire la loro corretta attuazione.Roma guarda con grande interesse alle opportunità offerte dalla finanza sostenibile, tra cui emerge il ruolo centrale di Cassa Depositi e Prestiti nel supporto ai progetti dedicati alla transizione green.Il legame si sta rafforzando anche sul fronte culturale e fieristico. Solo nel 2024, più di 50 imprenditori uzbeki hanno esposto i propri prodotti dal tessile alla pelletteria, dall’agroalimentare all’artigianato alle fiere di Rimini e Milano, come Macfrut, Lineapelle e Artigiano in Fiera. A Prato, nel cuore del distretto tessile italiano, è stata inaugurata una casa commerciale del Made in Uzbekistan in collaborazione con T.I.S. Textile Innovation Sustainability Italy. LEGGI TUTTO

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    Energia, tre italiani su quattro sono disinformati

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    In un mondo segnato da tensioni geopolitiche, transizione ecologica accelerata e competizione sulle risorse, l’energia torna prepotentemente al centro del dibattito pubblico. Non solo come bene primario, ma come chiave strategica per il futuro. È in questo contesto che nasce la ricerca “Italia: energia sicura?”, realizzata da Gpf Inspiring Research per il Festival dell’Energia, che si svolge da giovedì 29 a sabato a Lecce, con l’obiettivo di indagare come i cittadini percepiscano la sicurezza energetica oggi.Percezione diffusa di incertezza, ma conoscenze fragiliI dati, raccolti tra il 30 aprile e il 5 maggio 2025 su un campione rappresentativo di 2.000 italiani, restituiscono un quadro complesso: il 91,8% degli intervistati percepisce l’attuale momento storico come incerto, e l’84,4% si dichiara sensibile alla sicurezza energetica. Tuttavia, solo il 23,8% afferma di conoscerne bene i meccanismi. A preoccupare maggiormente è la dipendenza dall’estero, percepita come il principale rischio per la sicurezza energetica nazionale, anche se spesso sottovalutata nella sua reale entità. Non stupisce quindi che il 42,9% degli italiani ritenga plausibile un blackout, pur considerandolo inaccettabile nel 2025 (72,4%).Tra fiducia nel pubblico e contraddizioni quotidianeIl 32,4% teme che i costi dell’energia possano diventare proibitivi, ma una larga maggioranza (67,6%) si affida comunque all’intervento statale per contenerli. Questa fiducia nel pubblico si accompagna, però, a una scarsa disponibilità a modificare le proprie abitudini: molti italiani sostengono a parole la necessità di ridurre i consumi, ma pochi sembrano pronti a farlo davvero. “C’è una frattura tra paura e conoscenza. La sensibilità è alta, ma spesso emotiva. Serve educazione energetica”, osserva Carlo Berruti, direttore scientifico di Gpf Research.Apertura verso nucleare e fossili: i giovani più ricettiviUno dei dati più sorprendenti riguarda il nucleare. Ben il 58,4% degli italiani si dichiara favorevole a reinvestire in questa tecnologia, con punte del 62,3% tra gli under 35. Anche le fonti fossili trovano una certa accettazione: il 75,2% si dice favorevole allo sfruttamento dei giacimenti italiani, purché nel rispetto dell’ambiente. Il fenomeno Nimby (“Not In My Backyard”) appare in calo tra i giovani: il 38,8% degli italiani accetterebbe un impianto vicino casa, una percentuale che sale proprio tra gli under 35. Al contrario, gli over 65 restano più restii sia sul nucleare sia sull’accoglienza di nuove infrastrutture sul territorio.Disinformazione sul mix energetico e sulle fonti domesticheLa ricerca evidenzia una forte confusione su dati e concetti chiave. Molti italiani sovrastimano il peso dell’elettricità nei consumi energetici complessivi, stimandolo oltre il 50% quando in realtà è intorno al 20%. Solo il 16,7% fornisce una stima corretta delle rinnovabili utilizzate in casa propria. Oltre la metà degli intervistati non sa da dove provenga l’energia che consuma quotidianamente. “L’energia non è solo un tema tecnico. È sempre più una materia di opinione pubblica, che influenza le scelte democratiche”, sottolinea Alessandro Beulcke, presidente del Festival dell’Energia. “Dobbiamo promuovere un’informazione consapevole e autorevole.”Relazioni internazionali e compromessi eticiIl 90,2% del campione ritiene fondamentale mantenere buoni rapporti con i Paesi fornitori per assicurare continuità e prezzi sostenibili. Tuttavia, solo un quarto (25,8%) sarebbe disposto a farlo a qualsiasi costo, anche a discapito di principi etici. LEGGI TUTTO

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    Lagarde pronta a lasciare la Bce? Ecco dove potrebbe andare

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    Christine Lagarde avrebbe preso in considerazione l’idea di lasciare anticipatamente la guida della Banca centrale europea per assumere la presidenza del World Economic Forum (Wef). A rivelarlo è Klaus Schwab, fondatore e ormai ex presidente del Wef, in un’intervista al Financial Times.Secondo quanto riportato, i colloqui tra Lagarde e Schwab andrebbero avanti da anni, con l’obiettivo di preparare una transizione alla guida dell’istituzione con sede a Ginevra, celebre per il suo appuntamento annuale a Davos che riunisce l’élite globale della politica e della finanza. L’ultimo incontro tra i due sarebbe avvenuto ad aprile a Francoforte, dove Lagarde avrebbe confermato l’interesse a subentrare “non oltre l’inizio del 2027”.Il mandato di Lagarde alla Bce scade formalmente a ottobre dello stesso anno e, secondo fonti a conoscenza dei fatti, la dirigente francese avrebbe dato la propria disponibilità a condizione di completare prima l’opera di contenimento dell’inflazione nell’Eurozona, riportandola in linea con il target del 2%. Obiettivo che – secondo le ultime proiezioni – sembra ormai vicino.Tuttavia, permangono dubbi sulla possibilità concreta di un’uscita anticipata, nonostante, sempre secondo Schwab, fossero già stati predisposti dettagli pratici come un appartamento a Villa Mundi, di proprietà del Wef, affacciata sul Lago di Ginevra, per consentire a Lagarde di iniziare a lavorare sul nuovo incarico.Una successione complicataL’eventuale partenza anticipata della presidente Bce aprirebbe uno scenario inedito per la governance monetaria europea, alimentando un’inevitabile corsa alla successione. La nomina del presidente dell’istituto di Francoforte è storicamente frutto di complessi equilibri politici tra i paesi membri dell’Unione. Lagarde sarebbe la seconda presidente della Bce a lasciare l’incarico prima della scadenza naturale, dopo Wim Duisenberg. La portavoce dell’istituto ha intanto ribadito che Lagarde “è pienamente impegnata a portare a termine il suo mandato”.Dopo Schwab, l’incertezzaIl Wef, intanto, si trova in una fase di transizione delicata. Schwab, che ha fondato l’organizzazione nel 1971, è stato costretto a dimettersi anticipatamente dopo nuove accuse di comportamenti impropri, che si sono aggiunte a quelle – archiviate – emerse nei mesi precedenti. Al suo posto è stato nominato in via provvisoria l’ex Ceo di Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe.“Ho paura che, se l’incertezza continua a gravare sull’organizzazione, Christine Lagarde possa decidere di non accettare la carica”, ha dichiarato Schwab, esprimendo il timore che il suo piano di successione possa naufragare. Al momento, però, il Wef ha chiarito che non esiste alcun accordo formale con Lagarde.Dal canto suo, la presidente della Bce non ha rilasciato commenti ufficiali. Ma le indiscrezioni sollevano interrogativi su come la leader europea intenda concludere il suo incarico e, soprattutto, sul futuro dell’istituzione che guida.Davos chiama, ma l’Europa guardaUn’eventuale transizione alla guida del Wef rappresenterebbe per Lagarde una nuova fase della sua carriera ai vertici delle istituzioni globali, dopo essere stata ministra dell’Economia in Francia, direttrice del Fmi e ora presidente della Bce. E anche dal punto di vista economico, l’incentivo non manca: la nuova posizione potrebbe valere circa il doppio del suo attuale stipendio annuale da 466mila euro. LEGGI TUTTO

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    La doppia sfida delle imprese

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    C’è chi ironicamente ha definito il fagiolo europeo di Giorgia Meloni e il tappo al collo delle bottiglie di plastica di Roberta Metsola, i momenti «più alti» dell’annuale assemblea di Confindustria svoltasi ieri a Bologna. Ironia sciocca, perché in quelle due battute, che insieme a una miriade di altre geniali idee partorite dagli euroburocrati di Bruxelles sono il portato legislativo di una stagione che vorremmo poter dimenticare, c’è il paradosso contro il quale il presidente della Confindustria, Emanuele Orsini, si è scagliato con parole nette, sostenuto da una premier che non ha mancato di ricordare quanti auto-dazi dovremmo rimuovere prima di pensare alle nuove tariffe targate Usa. Ma ciò che in particolare ha colpito è la veemenza con la quale la presidente del Parlamento europeo, in perfetto italiano, ha stigmatizzato le politiche perseguite dalla precedente Commissione, dichiarandosi pronta ad affiancare l’Italia nell’opera di riequilibrio legislativo nell’Unione. Del resto, l’aver anteposto l’ideologia al realismo e alla neutralità tecnologica, con tempi e obiettivi ambientali assurdi, sta presentando un conto salatissimo a famiglie e imprese. Per non dire del maggior costo che in particolare l’Italia subisce sul fronte dell’energia, la più cara in assoluto in Europa che non solo pesa sulle bollette domestiche, ma mette a rischio una voce fondamentale del nostro Pil: per vincere nella gara dell’export non basta sfornare le eccellenze che molti ci invidiano, se poi il prezzo per acquistarle non è concorrenziale per i costi di produzione più elevati. E qui le cause non sono solo le becere norme europee, ma anche scelte assai poco meditate da parte di un mondo politico italiano privo di visione, se non peggio, anche quando le soluzioni sarebbero alla portata. LEGGI TUTTO

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    Orsini: “Subito un Piano Straordinario: imprese italiane a rischio tenuta”

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    nostro inviato a BolognaUn Piano Industriale Straordinario per salvare la manifattura italiana e rimettere in moto la crescita del Paese. È la proposta lanciata dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, dall’assemblea annuale (che ieri si è tenuta per la prima volta non a Roma ma a Bologna per «valorizzare i territori») rivolgendosi direttamente al premier Meloni e alla presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola. «Servono almeno 8 miliardi l’anno per tre anni da destinare agli investimenti produttivi, utilizzando le risorse del Pnrr che non potranno essere spese entro il 2026», ha detto Orsini sottolineando che solo in questo modo si può evitare il rischio di deindustrializzazione in Italia. L’obiettivo è ambizioso: «raggiungere almeno il 2% di crescita del Pil nel prossimo triennio».«O si potenzia l’Ires premiale o si ripristina un’Ace (l’aiuto alla crescita economica abolito da quest’anno; ndr) per l’industria, strumenti più che mai essenziali per patrimonializzare e incrementare gli investimenti del sistema produttivo italiano», ha rimarcato il numero uno degli industriali. La produzione cala da due anni, e la crisi sta bloccando gli investimenti in impianti e macchinari. L’occupazione tiene solo grazie allo sforzo delle imprese. «Tra le grandi imprese industriali associate a Confindustria, due su tre (67,9%) stanno trattenendo i propri dipendenti nonostante il calo dell’attività. Di queste, oltre un terzo (34,8%) lo fa per mantenere le competenze già presenti in azienda, consapevole delle difficoltà nel reperire nuovo personale qualificato. Ma per quanto potremo ancora farlo?», si è chiesto retoricamente.Un’ampia parte del discorso è stata dedicata alla critica delle disfunzionalità delle regolamentazioni europee. «Non possiamo indebitare i costruttori europei costringendoli ad acquistare le quote di CO2 da Byd e Tesla per rispettare i vincoli europei che ci siamo autoimposti. È una vera pazzia», ha ribadito Orsini. «Non vogliamo buttare via gli investimenti miliardari fatti per trasformare il diesel in un motore pulito e performante. Come non vogliamo costringere gli automobilisti ad usare auto elettriche di altri continenti», ha affermato.Anche «il Patto di Stabilità deve consentire un grande piano di sostegno agli investimenti dell’industria, in ogni Paese europeo. Altrimenti, non è un patto per la crescita. È un patto per il declino dell’Europa», ha detto Orsini. Per questo, serve un nuovo orizzonte comune. «Bisogna lavorare seriamente alla creazione del mercato unico degli investimenti e dei risparmi, a maggior ragione visto che oggi importanti flussi finanziari potrebbero abbandonare gli Stati Uniti.Perché serve un nuovo patto per l’Europa? Se con la nuova temperie trumpiana, «anche solo 300 medie imprese decidesserodi spostare la produzione all’estero, le ricadute negative riguarderebbero almeno 100mila occupati», ha spiegato Orsini. Di qui l’appelloi a Metsola. «Mentre negoziamo con l’amministrazione americana, dobbiamo accelerare sugli accordi di libero scambio con altre aree del mondo per diversificare gli sbocchi del nostro export», ha rilevato. LEGGI TUTTO

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    Washington avverte Pirelli: “A rischio le vendite in Usa”

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    Pirelli Cyber Tyre, ovvero la tecnologia basata su pneumatici sensorizzati che, per la prima volta, è in grado di far dialogare le gomme con l’intelligenza dei veicolo, finisce al centro dell’ennesimo battibecco tra Stati Uniti e Cina. Il governo americano, infatti, avrebbe avvertito Pirelli sulla possibilità che i veicoli contenenti gli pneumatici con sistema hardware e software Cyber Tyre potrebbero essere soggetti a restrizioni nella vendita sul suo mercato. Il motivo: le preoccupazioni di Washington legate all’influenza del socio cinese, Sinochem, azionista al 37% del gruppo della Bicocca, davanti a Camfin (recentemente salita al 27% circa).Tutto questo solleva, infatti, interrogativi da parte dell’Authority americana a proposito della potenziale influenza cinese sulla tecnologia e sui dati raccolti dal sistema Cyber Tyre.L’avviso informale, descritto in una lettera datata 25 aprile dal Bureau of Industry and Security (Bis) del Dipartimento del commercio e riportato dall’agenzia Bloomberg, sostiene che i costruttori di vetture, che integrano la tecnologia Pirelli Cyber Tyre nei loro prodotti connessi, potrebbero dover richiedere un via libera specifico per poter vendere tali mezzi nel Paese.L’avviso del «Bis», per il gruppo capeggiato da Marco Tronchetti Provera, conferma la preoccupazione per i piani di sviluppo negli Stati Uniti. Dalla Bicocca, per ora, nessun commento. Da tempo il management di Pirelli aveva avvisato i soci dei possibili rischi derivanti dalle normative americane e avviato trattative con gli stessi soci per trovare una soluzione anche a livello di governance. Trattative che, in occasione della trimestrale, Pirelli aveva fatto sapere che si erano concluse senza esito positivo.Era stato Andrea Casaluci, amministratore delegato di Pirelli, a illustrare lo scorso anno al «Festival of Speed» di Goodwood, la nuova iniziativa della Bicocca, una vera rivoluzione hi-tech per il mondo degli pneumatici. «Tale sistema – le parole del top manager – aggiunge alle funzioni degli pneumatici, che rappresentano l’unico punto di contatto tra il veicolo e l’asfalto, quella di dialogare con i sistemi di controllo di stabilità del mezzo, tra i quali l’Abs, l’Esp e il controllo della trazione».La tecnologia Cyber Tyre, già proposta sperimentalmente su McLaren Artura e Audi Rs3 Anniversary, riguarda anche gli pneumatici P Zero Corsa, P Zero Trofeo Rs e P Zero Winter sviluppati appositamente per l’hypercar Pagani Utopia, prima auto al mondo ad avere di serie questa soluzione.Un caso al contrario, rispetto a quello che interessa Pirelli, ha riguardato l’americana Tesla di Elon Musk. Alle auto elettriche a stelle e strisce, che vengono prodotte anche nello stabilimento di Shanghai, il governo di Pechino aveva proibito il passaggio attraverso alcune zone definite sensibili. In questo caso le autorità cinesi non avevano digerito la presenza di troppi sensori e telecamere a bordo delle vetture. LEGGI TUTTO

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    La Perla salva, spunta un investitore

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    Dopo anni di lotte delle operaie e le complicate vicende che sono seguite al fallimento, uno dei simboli della moda Made In Italy è salvo: La Perla, marchio bolognese della lingerie di lusso, ha un acquirente che nelle prossime settimane presenterà il nuovo piano industriale per rilanciare un’azienda diventata simbolo della crisi del lavoro, ma anche dell’orgogliosa difesa di una manifattura super specializzata che dell’azienda è uno degli asset insostituibili.L’annuncio è arrivato dal ministro per le Imprese Adolfo Urso, che ha partecipato a un tavolo che si è tenuto nello stabilimento di via Mattei, alla periferia di Bologna. «Grazie all’impegno straordinario dei commissari – ha detto Urso – dei curatori italiani, dei liquidatori inglesi e dello staff del Mimit, abbiamo individuato una soluzione industriale per una delle crisi più emblematiche del settore moda, tra le più complesse mai affrontate dal ministero, per la prima volta alle prese con più procedure in diversi Paesi, con una complessità legale che appariva inestricabile. Un grande successo frutto di un lavoro di squadra». LEGGI TUTTO