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    Il lander statunitense Nova-C Odysseus è partito verso la Luna

    Giovedì mattina da una base NASA in Florida è stato lanciato verso la Luna il lander Nova-C soprannominato Odysseus: l’obiettivo della missione è quello di raggiungere la superficie della Luna giovedì 22 febbraio. Se riuscirà sarà il primo allunaggio fatto con mezzi statunitensi dopo quello della missione Apollo 17 del 1972. Non sarebbe solo il primo allunaggio controllato da allora (ossia fatto senza schianti), ma anche il primo nella storia fatto con un mezzo privato: il lander è stato costruito dalla società aerospaziale Intuitive Machines, che ha anche dato il nome alla missione, IM-1. Per il decollo è stato usato un razzo Falcon 9, della compagnia SpaceX di Elon Musk.[embedded content] LEGGI TUTTO

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    Dopo tre mesi la NASA ha infine aperto il suo barattolo

    Dopo quasi tre mesi di lavoro, i tecnici della NASA sono infine riusciti ad aprire completamente il contenitore che conserva al proprio interno i campioni dell’asteroide Bennu, portati sulla Terra alla fine dello scorso settembre dalla missione OSIRIS-REx dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Il contenitore era stato recuperato con grande cura e attenzione, ma dopo i primi tentativi di aprirlo erano emersi problemi a due elementi del sistema di chiusura, tali da rendere necessario lo studio di nuove procedure per aprirlo mantenendolo isolato per evitare contaminazioni dall’esterno.Nell’autunno del 2023 i tecnici della NASA erano riusciti a recuperare alcuni frammenti di Bennu, ma una parte significativa dei detriti era rimasta bloccata all’interno del contenitore: il componente più importante della missione. Il prelievo del materiale spaziale era avvenuto nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche istante sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico la cui apertura si era poi bloccata.
    Il sistema di prelievo era stato progettato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per generare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da fare sollevare i detriti, che venivano poi convogliati in una camera di raccolta lungo la circonferenza del dispositivo. Il prelievo era andato meglio del previsto, tanto da intasare parte dello strumento di raccolta. Il TAGSAM era stato poi collocato da un braccio robotico all’interno di una capsula, che dopo avere compiuto un lungo viaggio era rientrata nell’atmosfera terrestre finendo nel deserto dello Utah (Stati Uniti), dove era stata recuperata e trasportata al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.

    L’apertura della capsula era avvenuta dentro una teca isolata dall’esterno e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. Nella teca erano anche presenti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione. A ottobre dello scorso anno i tecnici avevano iniziato a rimuovere i 35 elementi che tenevano chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano raccolti i detriti di Bennu. Nel farlo si erano accorti che due elementi si erano incastrati e che non potevano essere rimossi, impedendo il sollevamento del coperchio per raggiungere il serbatoio con i pezzi di Bennu.
    Attività di apertura del TAGSAM (NASA)
    Disponendo solamente di una varietà limitata di strumenti, quelli testati e certificati per entrare in contatto con i detriti, i tecnici non erano riusciti a risolvere il problema e ad aprire completamente il contenitore. Nelle settimane seguenti gli ingegneri della NASA si erano quindi messi al lavoro per sviluppare nuovi strumenti fatti appositamente per sbloccare la chiusura del contenitore, utilizzando acciaio inossidabile non magnetico solitamente impiegato per la produzione degli strumenti utilizzati dai chirurghi nelle sale operatorie.

    It’s open! It’s open! And ready for its closeup. After successfully removing two final fasteners on Jan. 10, members of the @astromaterials team photographed the #OSIRISREx asteroid sample with a special technique to achieve super high-res images. https://t.co/bBrfFT3FoR pic.twitter.com/NTGMVFZCP3
    — NASA Solar System (@NASASolarSystem) January 19, 2024

    Dopo varie prove e tentativi, a metà gennaio i tecnici della NASA erano infine riusciti a sbloccare i due elementi, ottenendo circa 250 grammi di detriti di Bennu, che saranno studiati da vari gruppi di ricerca in giro per il mondo per estendere le conoscenze sui processi che portarono alla formazione del nostro Sistema solare. A ottobre dello scorso anno l’analisi dei frammenti che era stato possibile estrarre con maggiore facilità aveva portato a identificare indizi sulla presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo in cui si formò il Sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibili le prime forme di vita terrestri. LEGGI TUTTO

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    Perché la NASA ha rinviato i suoi piani per la Luna

    Caricamento playerLa NASA ha rinviato di almeno un anno il programma lunare Artemis, che nei progetti dell’agenzia spaziale statunitense dovrà riportare gli astronauti sulla Luna dopo le missioni Apollo di oltre 50 anni fa. Il rinvio era stato previsto da tempo da numerosi esperti e analisti considerati i ritardi in quasi tutti i settori del progetto, ma fino a ieri la NASA aveva mantenuto ufficialmente il calendario fissato anni fa e che prevedeva il primo viaggio intorno alla Luna di un equipaggio entro la fine di quest’anno. Il rinvio conferma le numerose difficoltà intorno ad Artemis, con ricadute non solo per la NASA, ma per le decine di aziende private e agenzie spaziali in giro per il mondo che collaborano al progetto, compresa l’Agenzia spaziale europea (ESA).
    A oggi il programma lunare avviato sette anni fa, sulla scia di precedenti iniziative, ha portato a termine una sola missione senza equipaggio: Artemis 1, un volo dimostrativo che nel novembre del 2022 aveva permesso di verificare il funzionamento del potente razzo SLS (Space Launch System) e di Orion, la capsula all’interno della quale viaggeranno un giorno gli astronauti diretti verso il nostro satellite naturale. Quella missione, arrivata dopo numerosi ritardi e rinvii a causa di problemi tecnici, era stata un successo, ma aveva comunque messo in evidenza numerosi problemi che secondo la NASA non potranno essere risolti entro la fine dell’anno, come inizialmente auspicato.
    Nel corso di una conferenza stampa organizzata martedì 9 gennaio, l’amministratore associato della NASA Jim Free ha pronunciato una frase che molti osservatori, non necessariamente i più critici, attendevano da tempo: «Dobbiamo essere realistici». Free ha ammesso che molti dettagli di Artemis devono essere ancora chiariti, ma soprattutto che alcune tecnologie non sono pronte per permettere al programma lunare di essere realizzato secondo i piani. Il progetto è del resto molto ambizioso e al tempo stesso complicato, se confrontato con il programma Apollo che per la prima volta portò gli astronauti sulla Luna.
    A differenza di come andarono le cose negli anni Sessanta, la NASA ha previsto per Artemis un forte coinvolgimento delle aziende private, affidando loro in appalto la gestione di numerose attività sulle quali sono richieste più autonomie rispetto al passato. La società spaziale SpaceX di Elon Musk, per esempio, ha ricevuto l’incarico di sviluppare un sistema per trasportare gli astronauti dall’orbita lunare al suolo della Luna, attraverso la sua nuova grande astronave Starship. Il veicolo spaziale è però ancora in fase di test, ha condotto due soli lanci e non ha mai compiuto nemmeno un’orbita intorno alla Terra. Musk sostiene che nei prossimi mesi ci sarà una rapida accelerazione nei test e nei progressi, ma servirà del tempo prima che Starship raggiunga i requisiti della NASA per essere certificata per il trasporto di esseri umani.
    Starship sulla rampa di lancio a Boca Chica in Texas (SpaceX)
    Artemis 2 non prevede l’utilizzo di Starship, perché l’equipaggio a bordo non compirà un allunaggio; nello sviluppo dei suoi sistemi sono comunque emersi problemi legati soprattutto a Orion. L’analisi della capsula dopo Artemis 1 aveva fatto riscontrare alcuni problemi allo scudo termico, la parte che la protegge durante il rientro nell’atmosfera in cui si sviluppano temperature molto alte, fino a 2.700 °C. Lo scudo in alcuni punti si è sfaldato, rimanendo ampiamente nei margini di sicurezza, ma in modo sufficiente da far staccare alcuni frammenti: la NASA vuole capire se questi avrebbero potuto colpire altre parti di Orion, costituendo un rischio per le missioni in cui ci sarà un equipaggio a bordo, a partire proprio da Artemis 2.
    Le analisi avevano inoltre messo in evidenza un altro problema legato al sistema di abbandono del lancio, fondamentale nel caso di un malfunzionamento del grande razzo SLS che spinge Orion oltre l’atmosfera terrestre e lo indirizza poi verso la Luna. La capsula è collocata in cima a SLS e c’è la possibilità di accendere alcuni razzi, molto più piccoli, per staccarsi dal lanciatore in poche frazioni di secondo se questo non dovesse funzionare come previsto. Le simulazioni e i test sul sistema di abbandono del lancio avevano dato i risultati attesi, ma era emerso un danneggiamento di alcune batterie della capsula, che potrebbe costituire un rischio per chi è a bordo e che devono quindi essere sistemate.
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    Altri problemi sempre legati a Orion sono emersi nella preparazione delle prossime missioni di Artemis, in particolare a causa di un errore di progettazione di un circuito che gestisce il funzionamento di alcune valvole all’interno della capsula impiegate tra le altre cose per ridurre i livelli di anidride carbonica al suo interno, mantenendo l’aria respirabile per l’equipaggio. I tecnici hanno dovuto smontare il modello di Orion realizzato per Artemis 2, in modo da poter sostituire i componenti difettosi. Questi lavori secondo le informazioni fornite dalla NASA sono stati una delle principali cause del rinvio.
    Il lancio di Artemis 2 era infatti previsto per settembre di quest’anno, ma si è deciso di rinviarlo a settembre 2025. Il rinvio fa sì che tutte le altre missioni di Artemis scalino di almeno un anno, con Artemis 3 – la prima missione con un allunaggio – che non avverrà prima di settembre 2026. L’amministratore della NASA, Bill Nelson, ha motivato in modo piuttosto perentorio, ripetendo un concetto che usa spesso quando si verifica qualche imprevisto nella programmazione delle missioni con equipaggi: «Non voliamo finché tutto non è pronto. La sicurezza è fondamentale».
    Artemis 2 prevede che a bordo di Orion ci siano quattro astronauti che dopo il lancio rimarranno in orbita intorno alla Terra per 24 ore, in modo da condurre vari test sulla capsula. Dopodiché inizierà il viaggio verso la Luna, ma senza che Orion entri in orbita intorno al satellite: lo supererà, sorvolerà la parte della Luna non osservabile dalla Terra a circa 7.400 chilometri di distanza e poi tornerà verso il nostro pianeta. La missione servirà per verificare buona parte delle strumentazioni, fatta eccezione per tutto ciò che sarà necessario per l’allunaggio, a cominciare da Starship.
    (CSA)
    La grande astronave di SpaceX servirà infatti per Artemis 3, una missione molto più complessa. Nei piani della NASA, Starship dovrà raggiungere autonomamente l’orbita lunare e attendere l’arrivo di Orion con quattro astronauti a bordo. I veicoli spaziali si uniranno, rendendo possibile il passaggio di due membri dell’equipaggio, una donna e un uomo, da Orion a Starship, che effettuerà poi le manovre per compiere l’allunaggio. Dopo avere trascorso alcune ore sulla superficie lunare, i due astronauti torneranno in orbita sempre con Starship e rientreranno su Orion, raggiungendo i due colleghi che li avevano attesi nel frattempo. L’equipaggio riunito potrà quindi tornare verso la Terra e concludere la missione.
    (NASA)
    Annunciando il rinvio, la NASA ha elencato le molte difficoltà ancora da superare per poter realizzare Artemis 3. La prima e più evidente è la mancanza a oggi di un sistema per effettuare l’allunaggio: Starship non ha mai raggiunto nemmeno l’orbita terrestre ed è ancora molto lontana dall’essere testata per il suo impiego con equipaggi, così come devono essere ancora sperimentati i sistemi di attracco tra Orion e l’astronave di SpaceX, essenziali per permettere ai due astronauti di effettuare l’allunaggio.
    C’è poi un dettaglio che preoccupa più di tutto molti esperti: dopo il lancio, Starship dovrà essere in grado di ricevere rifornimenti in orbita intorno alla Terra prima di poter iniziare il proprio viaggio verso la Luna. Il rifornimento di combustibile in orbita non è stato mai sperimentato e implica l’impiego di altre astronavi per poterlo fare. La procedura pone ulteriori difficoltà tecniche, senza contare che saranno necessari più rifornimenti per Starship per le missioni lunari.
    Ipotesi del sistema di rifornimento orbitale per Starship, in un’elaborazione grafica (SpaceX)
    In futuro la NASA sfrutterà altri sistemi per l’allunaggio commissionati ad altre aziende, ma in molti da anni si chiedono l’utilità di un sistema così complicato per Artemis, soprattutto se confrontato con quello del programma Apollo. Le missioni che portarono i primi astronauti sulla Luna utilizzavano un sistema relativamente più semplice, con il modulo per l’allunaggio (LEM) che viaggiava insieme all’equipaggio già dalla Terra e progettato insieme agli altri sistemi per il trasporto degli astronauti. Quella soluzione aveva però il difetto di limitare la quantità di materiale trasportabile, un problema che la NASA ha cercato di superare anche nell’ottica di costruire Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna.
    Artemis ha avuto inoltre una genesi alquanto travagliata. Ufficialmente il programma lunare fu avviato alla fine del 2017, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, chiese alla NASA di tornare a esplorare la Luna con astronauti il prima possibile. Il suo predecessore, Barack Obama, aveva invece deciso che la NASA si dovesse concentrare sulle esplorazioni con equipaggi di destinazioni molto più remote come Marte. SLS e Orion erano già in fase di sviluppo da tempo e con enormi ritardi: in un certo senso fu cambiata la loro destinazione d’uso.
    I piani iniziali di Artemis prevedevano che il primo allunaggio non sarebbe stato effettuato prima del 2028, cosa che però non piaceva all’amministrazione Trump. Nel 2019 il vicepresidente Mike Pence, che aveva le deleghe sulle attività spaziali, annunciò che sarebbe stata necessaria un’accelerazione dei progetti e tra lo stupore di molti disse che l’allunaggio si sarebbe verificato entro la fine del 2024. Trump all’epoca confidava di ottenere un secondo mandato e vedeva in Artemis la possibilità di terminare la propria presidenza con un grande evento.
    Pence disse che del resto tra il famoso discorso del presidente John F. Kennedy con l’annuncio di portare i primi astronauti sulla Luna e il primo allunaggio erano passati appena otto anni, di conseguenza si poteva ottenere un risultato simile se non migliore con Artemis. All’epoca però la NASA aveva ricevuto per anni finanziamenti enormi, incomparabili con quelli degli ultimi anni destinati all’agenzia. Poco tempo dopo gli annunci di Pence si concretizzarono i problemi previsti da numerosi osservatori, sulla base di come erano andate fino ad allora le cose con i grandi ritardi legati a SLS e Orion.
    Artemis 1 nei piani iniziali sarebbe dovuta avvenire alla fine del 2020, ma nella realtà dei fatti la missione fu pronta per partire solo a novembre del 2022, quando ormai Trump non era più presidente e al suo posto c’era Joe Biden. Artemis 1 fu comunque un successo e ciò convinse la nuova presidenza a mantenere i piani, anche perché ormai la NASA aveva stretto una grande quantità di contratti e avviato anche un piano di intenti internazionale, sottoscritto da numerose agenzie spaziali.
    La capsula da trasporto Orion della missione lunare Artemis 1 e sullo sfondo la Luna e la Terra, osservate da una delle telecamere del veicolo spaziale nel corso delle attività orbitali intorno al nostro satellite naturale. L’immagine è stata realizzata a fine novembre 2022 (NASA)
    Considerati i precedenti ritardi, anche le nuove date annunciate martedì dalla NASA sembrano difficili da rispettare, come hanno fatto notare alcuni giornalisti nel corso della conferenza stampa. Free ha risposto alle obiezioni ricordando che le società che lavorano in appalto per Artemis hanno concordato sulla definizione delle nuove scadenze: «Da come la vedo io, le persone coinvolte nell’industria spaziale sono qui per dirci che sono d’accordo. Per quanto riguarda il governo abbiamo firmato contratti che ci impegnano per quelle date, sulla base dei dettagli tecnici che ci hanno fornito, e che hanno valutato i nostri gruppi di tecnici».
    Il forte coinvolgimento delle aziende private non riguarda solamente le missioni con astronauti, ma anche la possibilità di raggiungere e trasportare sulla Luna materiale come robot e strumentazioni. La NASA vuole creare un ecosistema in cui i privati sono incentivati a essere il più autonomi possibile, riducendo in questo modo i costi per l’agenzia spaziale che potrà poi fruire dei loro servizi. Tra i progetti più importanti in tal senso c’è il Commercial Lunar Payload Services (CLPS) che ha di recente portato a Peregrine, una missione lunare privata gestita dalla società Astrobotic per portare sulla Luna strumentazioni di vario tipo, compresi alcuni sistemi per esperimenti scientifici della NASA. Dopo il lancio, la missione ha però avuto problemi tecnici e non sarà in grado di compiere un allunaggio.
    I progetti come CLPS consentono di accelerare i tempi delle missioni, ma come dimostra Peregrine non offrono le garanzie che di solito danno le iniziative gestite direttamente dalla NASA. I responsabili dell’agenzia ne sono consapevoli e dicono che i maggiori rischi sono comunque compensati dalla possibilità di avviare più di frequente nuove missioni verso la Luna. Le esplorazioni lunari sono del resto considerate essenziali sia per sperimentare soluzioni che un giorno potranno essere impiegate su destinazioni ancora più ambiziose, come Marte, sia per lo sfruttamento delle risorse lunari o per la produzione di nuovi materiali, sfruttando le diverse condizioni di gravità rispetto alla Terra. Prima, però, sulla Luna dobbiamo tornarci. LEGGI TUTTO

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    Il business delle sepolture sulla Luna

    Da lunedì 8 gennaio le ceneri di oltre 80 persone sono nello Spazio, trasportate dalla missione spaziale privata statunitense Peregrine. Avrebbero dovuto essere portate sulla Luna, dove sarebbero poi rimaste per sempre, ma a causa di un problema ai sistemi del veicolo spaziale non succederà: martedì sera Astrobotic, l’azienda che aveva organizzato la missione, ha detto che ci sono «zero possibilità» che Peregrine atterri sulla luna. Familiari e amici delle persone defunte erano preparati a un eventuale fallimento della missione, che nei mesi scorsi aveva suscitato qualche polemica e protesta da parte dei nativi americani della Nazione Navajo, una riserva nel sud degli Stati Uniti, per i quali la Luna è un luogo sacro che non può essere trasformato in un cimitero.Le società che organizzano queste missioni la pensano diversamente: per loro le sepolture sono un importante opportunità di affari, con prezzi intorno ai 13mila dollari per ogni partecipante.
    Peregrine era partita nella notte tra domenica 7 e lunedì 8 gennaio (in Italia era la mattina di lunedì) da Cape Canaveral in Florida, spinta da un nuovo razzo Vulcan della joint venture United Launch Alliance, al proprio volo inaugurale. Il lancio, considerato una delle parti più critiche della missione visto che Vulcan non era mai stato utilizzato prima, era andato come previsto e aveva permesso di collocare Peregrine nella giusta orbita per raggiungere la Luna. Nelle ore seguenti, però, Astrobotic aveva segnalato alcuni problemi nei sistemi per mantenere il veicolo spaziale stabile e nella giusta traiettoria verso la Luna, che avrebbe dovuto raggiungere a fine febbraio.
    Inizialmente sembrava che ci fossero margini per sistemare le cose, ma ulteriori analisi avevano portato all’identificazione di un malfunzionamento nel sistema di propulsione tale da compromettere l’arrivo sulla Luna. Martedì mattina Astrobotic ha confermato l’impossibilità di compiere un allunaggio, ma ha detto di essere comunque al lavoro per raccogliere quanti più dati possibile e cercare di fare avvicinare Peregrine alla Luna, prima di perderne il controllo.
    Peregrine era nata nell’ambito del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma avviato dalla NASA per inviare sulla Luna piccoli robot automatici per esplorarne il suolo, raccogliere dati sulle sue caratteristiche e prepararsi meglio alle future esplorazioni con esseri umani del programma lunare Artemis. A differenza di quanto avveniva un tempo, l’iniziativa prevede un forte coinvolgimento di aziende private, che hanno la diretta responsabilità sull’organizzazione della missione e che la finanziano attraverso contratti di appalto con la NASA e accordi con altre aziende e organizzazioni, interessate a trasportare sulla Luna robot, sensori, oggetti o, appunto, le ceneri di persone che in vita avevano espresso il desiderio di essere sepolte tra i crateri lunari.
    Il lander Peregrine nelle ultime fasi di preparazione prima dell’inserimento nel razzo per il lancio (Astrobotic)
    L’idea di avere una sepoltura spaziale non è nuova, anzi, è più longeva dell’era dell’esplorazione spaziale stessa, iniziata una settantina di anni fa. Tra i primi a immaginarla ci fu lo scrittore di fantascienza statunitense Neil Ronald Jones, che nel 1931 pubblicò il racconto The Jameson Satellite sull’ultimo essere umano sopravvissuto grazie a una capsula che lo aveva perfettamente conservato per 40 milioni di anni, in giro per lo Spazio.
    Si sarebbero però dovuti attendere più di sessant’anni prima che fosse effettuata una prima sepoltura spaziale, per quanto simbolica. Nel 1992 sullo Space Shuttle Columbia della NASA c’era un piccolo campione delle ceneri di Gene Roddenberry, diventato famoso per essere stato l’ideatore della serie televisiva Star Trek. Le ceneri furono riportate sulla Terra alla fine della missione, quindi formalmente il progetto servì più che altro per portare idealmente Roddenberry nello Spazio, l’ambiente che più aveva raccontato tramite la sua serie di fantascienza (oltre a essere una buona occasione per la NASA per farsi un po’ di pubblicità, risvegliando un certo interesse ormai sopito intorno alle missioni degli Shuttle).
    Le ceneri di Roddenberry tornarono nello Spazio cinque anni dopo, quando la società Celestis organizzò la prima sepoltura spaziale vera e propria, trasportando in orbita i campioni di 24 persone cremate. Per circa un mese, le ceneri orbitarono all’interno di una capsula intorno alla Terra, ma persero man mano quota fino a quando rientrarono nell’atmosfera finendo a nord-est dell’Australia.
    Il successo dell’iniziativa e l’interesse dimostrato da molte altre persone desiderose di avere le proprie ceneri nello Spazio portò Celestis ad ampliare le attività e a organizzare altri trasporti di campioni oltre l’atmosfera terrestre. Alla fine degli anni Novanta la NASA incaricò Celestis di organizzare qualcosa di diverso: portare le ceneri di una persona sulla Luna. Non una persona qualsiasi, ma Eugene Merle Shoemaker, geologo statunitense famoso per i suoi studi sugli impatti tra corpi celesti (identificò per tempo il grandioso impatto della cometa Shoemaker-Levy 9 su Giove), morto nel 1997 in un incidente stradale in Australia, dove stava studiando un cratere.
    Due anni dopo un campione delle sue ceneri raggiunse la Luna a bordo di Lunar Prospector, una sonda della NASA per lo studio del campo magnetico e del campo gravitazionale lunare, fatta appositamente schiantare in un cratere alla fine della sua missione. Il 31 luglio 1999, a poco più di 30 anni dal primo allunaggio con gli astronauti dell’Apollo 11, Shoemaker divenne l’unico essere umano le cui ceneri erano state sepolte su un corpo celeste diverso dalla Terra. Il primato sarebbe dovuto cadere il prossimo febbraio, con l’arrivo dei campioni delle ceneri delle 66 persone gestite da Celestis e trasportate da Peregrine, ma il fallimento della missione rende improbabile questa circostanza (a bordo ci sono inoltre le ceneri di una ventina di altre persone gestite da Elysium Space, un’altra società specializzata in sepolture spaziali).
    Celestis offre diversi pacchetti e opzioni per portare oltre l’atmosfera terrestre le ceneri di qualcuno e negli anni ha ampliato la propria offerta commerciale, rispondendo a una domanda crescente per i suoi servizi. La società prenota dalle aziende spaziali un piccolo spazio sui loro razzi come “carico secondario”, rispetto a quello “primario” che può essere un satellite o una sonda. I carichi secondari sono un’importante opportunità per i centri di ricerca e alcune aziende per trasportare qualcosa nello Spazio, per effettuare test ed esperimenti di vario tipo, ma negli ultimi anni sono diventati anche una risorsa per le società che promettono di portare qualcosa (oggetti, piccole opere d’arte o appunto le ceneri di qualcuno) oltre l’atmosfera terrestre come iniziativa simbolica.
    Le capsule utilizzate da Celestis per il trasporto nello Spazio dei campioni di ceneri (Celestis)
    Un carico secondario deve avere una massa contenuta (ogni grammo conta quando si deve usare un sacco di energia per portare qualcosa nello Spazio), di conseguenza Celestis non porta tutte le ceneri derivanti dalla cremazione di una persona, ma solamente un piccolo campione che viene conservato in una capsula grande più o meno quanto una batteria stilo (AA). Sulla capsula vengono incisi nome e cognome della persona defunta e una frase per ricordarla.
    L’opportunità è sia rivolta alle persone direttamente interessate, che prima di morire si premurano di esprimere la loro volontà e firmano un contratto con Celestis, sia ai familiari e agli amici che decidono di mantenere un ricordo particolare della persona che hanno perso. Le tariffe variano molto a seconda dell’esperienza: per un semplice rapido passaggio nell’ambiente spaziale prima di tornare sulla Terra si spendono circa 3mila dollari, per un lancio in orbita si arriva a 5mila, mentre per una sepoltura sulla Luna o alla deriva nello Spazio si spendono circa 13mila dollari. La possibilità di farlo è inoltre vincolata alle leggi sul modo in cui possono essere conservate e disperse le ceneri, che variano molto a seconda dei paesi. Altre opzioni prevedono di poter inviare nello Spazio un proprio campione di DNA, cosa che può anche essere fatta in vita attraverso un prelievo di saliva che viene poi analizzata per sequenziarne il materiale genetico.
    Il maggiore coinvolgimento dei privati nelle attività verso la Luna, favorito sia dai piani della NASA sia in generale da una riduzione nei costi di lancio dalla Terra, ha fatto sì che aumentasse l’interesse per le sepolture spaziali in un contesto dove ci sono pochissime regole.
    Molte delle cose che si possono o non si possono fare oltre l’atmosfera terrestre sono regolate dal Trattato sullo spazio extra-atmosferico (Outer Space Treaty), un documento internazionale sottoscritto da diversi paesi a partire dal 1967 dove si sancisce che l’uso dello Spazio è aperto a tutti, con qualche limitazione. Il trattato dice chiaramente che non si possono collocare armi atomiche e di distruzione di massa nello Spazio e che non si può nemmeno reclamare la sovranità su un territorio di un altro corpo celeste. Viene anche chiesto ai sottoscrittori di non causare contaminazioni che siano dannose per la Luna e i pianeti del sistema solare, specialmente nell’ottica di identificare eventuali tracce di vita riducendo il rischio che siano gli umani stessi a portarle dalla Terra.
    Sulle sepolture spaziali non ci sono indicazioni e il modo in cui sono state gestite finora rientra nei criteri del trattato, almeno secondo la maggior parte degli esperti. Celestis come le altre società del settore può quindi portare nello Spazio le ceneri, che del resto sono inerti e non possono comportare particolari contaminazioni. Ma su questo aspetto non tutti sono d’accordo e tra chi protesta da più tempo ci sono i rappresentanti della Nazione Navajo – la riserva indigena tra Arizona, Nuovo Messico e Utah – per i quali la Luna è sacra e non può diventare un luogo di sepoltura.
    La Luna vista da uno dei territori della Nazione Navajo (David McNew/Getty Images)
    Già alla fine degli anni Novanta quando era stata annunciata la sepoltura lunare di Shoemaker l’allora presidente della Nazione Navajo, Albert Hale, protestò con la NASA per la scelta di lasciare i resti di un essere umano in un luogo dalla valenza sacra per molte persone. All’epoca l’agenzia spaziale statunitense ammise che forse avrebbe potuto consultare più estesamente i membri di quella comunità, prima di procedere con l’iniziativa, e si impegnò a farlo nel caso in cui ci fossero state altre sepolture sulla Luna.
    Quella consultazione, hanno segnalato nei mesi scorsi i rappresentanti della Nazione Navajo, non è però poi avvenuta in occasione del lancio di Peregrine nonostante il problema fosse stato sollevato più volte in passato. I responsabili della NASA hanno risposto ricordando che tecnicamente la missione è interamente gestita da Astrobotic e che l’agenzia non ha alcun controllo su ciò che l’azienda decide di portare sulla Luna, al di là delle strumentazioni per le attività scientifiche gestite dalla NASA. La giustificazione è stata percepita come una sorta di scaricabarile spaziale, suscitando ulteriori malumori nella comunità.
    L’attuale presidente della Nazione Navajo, Buu Nygren, ha detto che: «L’atto di depositare sulla Luna resti umani e altro materiale, che potrebbe essere percepito come uno scarto in qualsiasi altro luogo, equivale a una profanazione di un posto sacro». Il CEO e cofondatore di Celestis, Charles Chafer, la pensa diversamente: «Penso che sia l’esatto opposto di una profanazione. È una celebrazione. Non capisco perché fare questa cosa su un corpo celeste “morto” sia una profanazione, mentre abbiamo letteralmente milioni di luoghi in cui vengono disperse le ceneri su un pianeta vivente come la Terra, e non lo consideriamo una profanazione».
    A inizio anno la NASA si era comunque offerta di avviare un ulteriore confronto sulla questione. La tendenza in generale è comunque normare il meno possibile iniziative di questo tipo, considerato che per ora riguardano pochissime aziende e che regole troppo rigide potrebbero fermare la crescita in generale del settore delle esplorazioni spaziali private. Il problema comunque esiste, perché man mano che ci saranno nuove opportunità di raggiungere la Luna a costi più bassi aumenterà anche la quantità di materiali trasportati sul suolo lunare, molti dei quali a un certo punto diventeranno rifiuti.
    Nei prossimi giorni si capirà che fine farà Peregrine e come proseguirà il viaggio nello Spazio delle ceneri che ha a bordo. Tra queste c’è anche un campione delle ceneri di Arthur C. Clarke, autore di fantascienza britannico famoso soprattutto per il romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968 e il film con lo stesso titolo diretto da Stanley Kubrick, nel quale immaginò tra le altre cose una base lunare prima ancora che i primi astronauti l’avessero raggiunta nella realtà. La sepoltura lunare di Clarke avrebbe avuto per molti appassionati un importante valore simbolico, ma l’autore è comunque già ricordato con un asteroide (4923) e con il nome informale dato all’orbita geostazionaria della Terra. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO

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    La NASA non riesce ad aprire questo barattolo

    Caricamento playerDa qualche giorno i tecnici della missione spaziale OSIRIS-REx della NASA hanno un problema: non riescono ad aprire completamente il contenitore che conserva al suo interno i campioni dell’asteroide Bennu, riportati sulla Terra alla fine di settembre dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Due elementi del sistema di chiusura si sono bloccati e per forzarli sarà necessario un nuovo strumento, non previsto dalle procedure che erano state definite per aprire il contenitore mantenendolo isolato, per evitare contaminazioni dall’esterno. Non è un problema insormontabile, ma richiederà diversi giorni per essere risolto.La sonda OSIRIS-REx aveva prelevato del materiale da Bennu nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche secondo sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico ora difficile da aprire, per la raccolta dei detriti. Era il componente più importante della missione e aveva richiesto diverso tempo per lo sviluppo e soprattutto per sperimentarne l’affidabilità qui sulla Terra, prima di utilizzarlo nello Spazio a grande distanza da noi.In un certo senso il sistema di prelievo era stato pensato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per creare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da far sollevare i detriti e farli confluire in una camera di raccolta, lungo la circonferenza del dispositivo. La parte inferiore del TAGSAM, quella entrata in contatto con la superficie di Bennu, è infatti parzialmente cava con un tronco di cono al suo centro, che favorisce il passaggio del materiale sollevato dall’asteroide verso una linguetta che fa da diaframma, impedendo che ciò che è passato oltre possa tornare indietro, perdendosi nuovamente nell’ambiente spaziale.Il prelievo tre anni fa era andato meglio del previsto, al punto da intasare parte del diaframma. Il braccio robotico aveva poi collocato il TAGSAM all’interno di una capsula, che a fine settembre di quest’anno aveva protetto il contenitore nel suo turbolento rientro nell’atmosfera terrestre. Il recupero nel deserto dello Utah (Stati Uniti) era stato un successo e la capsula con il suo contenuto era stata poi trasferita al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.Il momento del prelievo dall’asteroide, la struttura circolare al fondo del braccio robotico è il TAGSAMPer svolgere questa attività la NASA aveva predisposto vari sistemi di isolamento, in modo da evitare contaminazioni con l’ambiente terrestre, che renderebbero meno utili le analisi per scoprire che cosa c’è (o non c’è) su un asteroide come Bennu. Il contenitore era stato collocato in una teca isolata e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. All’interno della teca erano stati inseriti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione.Tecnici al lavoro intorno alla teca durante una simulazione (NASA)Ogni strumento era stato testato e certificato per essere presente all’interno della teca e questo spiega le difficoltà degli ultimi giorni per i tecnici della NASA. Dopo avere rimosso e raccolto il materiale in eccesso che si era depositato nel diaframma del TAGSAM, i tecnici hanno iniziato a rimuovere i 35 elementi che tengono chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano stati raccolti i detriti di Bennu. Sono riusciti a rimuoverli tutti tranne due, nonostante ripetuti tentativi: e questo impedisce di sollevare il coperchio per raggiungere il serbatoio con il resto dei pezzi di Bennu. Piegando il diaframma i tecnici sono comunque riusciti ad accedere almeno parzialmente ad alcune sezioni del serbatoio e hanno poi utilizzato pinze e altri strumenti per estrarre i detriti più piccoli, ma non sono riusciti a fare altrettanto con quelli più voluminosi.La parte inferiore del TAGSAM con alcuni detriti, l’anello scuro è il diaframma (NASA)Gli strumenti attualmente contenuti nella teca isolata non sono adatti per forzare i due elementi bloccati, di conseguenza si stanno studiando soluzioni alternative, che comporteranno o un uso più creativo degli strumenti già a disposizione o l’introduzione nella teca di nuove utensili (c’è una sorta di camera intermedia nella teca per evitare le contaminazioni). Prima di procedere, la NASA sperimenterà le nuove soluzioni con modelli del TAGSAM attraverso alcune simulazioni, in modo da poter poi procedere senza mettere a rischio l’integrità del contenuto.I responsabili della missione hanno atteso tre anni prima che OSIRIS-REx portasse sulla Terra alcuni frammenti di Bennu, quindi non hanno particolare fretta e la priorità rimane il recupero in sicurezza di quanto più materiale possibile. Il 12 ottobre nel corso di una conferenza stampa la NASA aveva intanto presentato i primi risultati raggiunti dall’analisi dei detriti accessibili nel TAGSAM, segnalando la presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo di formazione del sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibile la formazione della vita sulla Terra. LEGGI TUTTO

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    Sull’asteroide Bennu c’è molto carbonio

    I pezzi dell’asteroide Bennu portati sulla Terra dalla missione OSIRIS-REx della NASA contengono molto carbonio e molta acqua, secondo le prime analisi del materiale nella capsula recuperata un paio di settimane fa. È una scoperta importante perché queste sostanze sono necessarie allo sviluppo di esseri viventi e la loro presenza sugli asteroidi del sistema solare potrebbe aiutarci a capire come e dove ha avuto e può avere origine la vita.I campioni di Bennu sono atterrati nel deserto dello Utah alla fine di settembre all’interno di una capsula con un diametro di 81 centimetri e altezza di 50 e sono stati sottoposti a un esame preliminare al Johnson Space Center di Houston, in Texas. «Il campione di OSIRIS-REx è il pezzo di asteroide più ricco di carbonio che sia mai stato portato sulla Terra», ha detto l’amministratore dell’agenzia spaziale statunitense Bill Nelson nel presentare le prime scoperte mercoledì, «e aiuterà gli scienziati a indagare sulle origini della vita sul nostro pianeta».Gli asteroidi sono corpi spaziali rocciosi che orbitano nel sistema solare e hanno dimensioni molto inferiori ai pianeti e forme più irregolari. Secondo gli studi più condivisi, sono ciò che rimane del “disco protoplanetario”, l’enorme ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole dal quale miliardi di anni fa si formarono la Terra e gli altri pianeti del sistema solare, oltre ai satelliti naturali come la Luna. Per questo lo studio delle rocce raccolte su Bennu potrebbe darci informazioni aggiuntive sulle origini del sistema solare e sulla formazione degli elementi necessari all’origine della vita. Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona, che è lo scienziato a capo di OSIRIS-REx, ha definito i campioni di Bennu «una capsula del tempo» per ciò che potrebbe farci imparare sulla storia del sistema solare.L’interno della capsula della missione OSIRIS-REx, aperta all’interno di un contenitore trasparente al Johnson Space Center di Houston (Dante Lauretta/NASA via AP)La capsula che ha portato i pezzi di Bennu sulla Terra è stata esaminata dall’interno di un grosso contenitore sigillato costruito per evitare che i campioni fossero contaminati da sostanze di origine terrestre. Questo tipo di contenitore è chiamato “scatola a guanti” (in inglese glovebox) perché per manipolare il suo contenuto senza venire fisicamente in contatto con esso si usano dei guanti lunghi e robusti inseriti nella struttura della scatola.Mari Montoya, a sinistra, e Curtis Calva raccolgono dei pezzi dell’asteroide Bennu attraverso la scatola a guanti contenente la capsula di OSIRIS-REx, il 27 settembre 2023 (NASA via AP)Quando gli scienziati hanno aperto la capsula all’interno della scatola a guanti si sono accorti che probabilmente sono arrivati sulla Terra più dei 60 grammi di rocce di Bennu che erano state previsti dalla NASA: della polvere aggiuntiva dell’asteroide e alcuni piccoli pezzi di roccia sono rimasti al di fuori del contenitore interno per la conservazione del campione. Prima di procedere con l’osservazione del campione principale è stata studiata proprio questa polvere, che ammonta a 1,5 grammi di materiale. Il peso complessivo dei pezzi di Bennu portati sulla Terra invece non lo si conosce ancora, perché ritardati dallo studio della polvere gli scienziati non hanno ancora cominciato a studiare il campione principale.La parte esterna della capsula di OSIRIS-REx dove si è raccolta la polvere di Bennu (Erika Blumenfeld, Joseph Aebersold/NASA via APLa polvere è stata analizzata con un microscopio elettronico (cioè un microscopio che usa elettroni al posto della luce e così consente di “vedere” oggetti molto piccoli) e con altri strumenti che consentono di stabilire gli elementi chimici che compongono un campione.Così è stato scoperto che le rocce di Bennu sono ricche di carbonio. Uno dei pezzi esaminati è fatto per il 4,7 per cento di questo elemento, che è la base di tutte le macromolecole biologiche, le molecole fondamentali di cui sono fatti gli esseri viventi, umani compresi. Sono anche state trovate delle piccole quantità d’acqua all’interno dei cristalli che compongono i pezzi di Bennu analizzati finora. È possibile che all’interno del campione principale possano essere presenti anche maggiori quantità d’acqua.A sinistra la capsula di OSIRIS-REx aperta, a destra la polvere di Bennu presente nel riquadro bianco vista più da vicino (Dante Lauretta/NASA via AP)È previsto che lo studio dei pezzi di Bennu andrà avanti per i prossimi due anni: almeno il 70 per cento del campione resterà al Johnson Space Center, mentre il resto sarà analizzato da circa 200 scienziati in varie parti del mondo e una parte verrà esposta al pubblico temporaneamente a Washington, a Houston e a Tucson, in Arizona.Tra le altre cose il materiale proveniente da Bennu sarà confrontato con quello raccolto dall’agenzia spaziale giapponese JAXA su un altro asteroide, Ryugu. Alcune differenze sono già state notate: nei campioni di Ryugu c’era meno acqua. Poi verrà misurata la percentuale di deuterio al suo interno: il deuterio è uno degli isotopi dell’idrogeno, cioè una delle forme in cui questo elemento si presenta, e si vuole scoprire se è più o meno presente nell’acqua di Bennu rispetto all’acqua terrestre. Infine si cercheranno eventuali amminoacidi, quelle molecole biologiche che sono già state trovate all’interno di meteoriti caduti sulla Terra ma che potrebbero esservi arrivate a causa della contaminazione con materiali terrestri durante e dopo l’impatto sul pianeta. LEGGI TUTTO

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    La NASA è di nuovo in contatto con la sonda Voyager 2

    La NASA è tornata in pieno contatto con la sonda Voyager 2, che dal 21 luglio non era in grado di ricevere comandi o spedire dati all’agenzia spaziale. Il contatto era stato perso in seguito a un comando errato spedito dall’agenzia spaziale alla sonda, che aveva provocato un malfunzionamento dell’antenna.Inizialmente la NASA aveva detto che contava di ristabilire il contatto con la sonda il 15 ottobre, quando la sonda avrebbe automaticamente resettato i propri sistemi e recuperato il giusto orientamento verso la terra. È riuscita invece a farlo con varie settimane di anticipo, utilizzando un trasmettitore ad alta potenza per inviare un messaggio – detto in gergo “urlo interstellare” – alla sonda. Il 4 agosto l’agenzia ha confermato che i dati sono stati ricevuti dal veicolo, che funziona normalmente ed è rimasto sulla traiettoria pianificata.Attualmente Voyager 2 è lontana 19,9 miliardi di chilometri dalla Terra. È in viaggio dal 1977 e si trova all’esterno dell’eliosfera, la grande bolla magnetica prodotta dal Sole che contiene buona parte del Sistema solare: come Voyager 1 era stata progettata per esplorare Giove e Saturno, inizialmente con missioni della durata massima di 5 anni che però si sono decisamente prolungate. (NASA) LEGGI TUTTO