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    8 persone su 10 vorrebbero che i loro governi facessero di più contro la crisi climatica

    Caricamento playerIl Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) ha pubblicato i risultati del Peoples’ Climate Vote 2024, il più grande sondaggio mai condotto dall’ONU sul tema del cambiamento climatico: sono state intervistate più di 75mila persone provenienti da 77 paesi che parlano 87 lingue diverse.
    Secondo i risultati aggregati globali la stragrande maggioranza di loro è insoddisfatta del modo in cui i governi stanno gestendo la crisi climatica: l’80 per cento delle persone intervistate, che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione globale, vorrebbe che i loro governi facessero di più per affrontare la crisi climatica, e l’86 per cento ritiene che sarebbe necessario mettere da parte le rivalità nazionali per lavorare a una soluzione comune. In Italia questi valori sono ancora più alti: il 93 per cento delle 900 persone italiane intervistate è d’accordo con entrambe le dichiarazioni.
    Altri risultati interessanti riguardano la cosiddetta “ansia climatica” e la transizione da combustibili fossili a energia rinnovabile. Il 56 per cento degli intervistati ha detto di pensare al cambiamento climatico quotidianamente o settimanalmente, un risultato a cui l’Italia si allinea, e il 53 per cento di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso per questo tema: in Italia a rispondere positivamente a questa domanda è stato il 65 per cento degli intervistati. Questi risultati arrivano però fino al 71 per cento nei nove Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS) in cui sono state condotte le interviste: sono quegli stati che rischiano di finire presto sotto il livello del mare e le cui popolazioni si stanno già parzialmente trasferendo in altri paesi. In generale, più persone che vivono in paesi meno sviluppati hanno detto che il cambiamento climatico sta già influenzando alcune importanti scelte di vita, come il luogo dove abitare o lavorare.

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    Il 72 per cento degli intervistati si è poi detto a favore di una rapida transizione dai combustibili fossili a fonti di energia meno inquinanti. Risultati molto alti si sono registrati in alcuni paesi che sono fra i principali produttori o consumatori di combustibili fossili: in Nigeria era d’accordo l’89 per cento delle persone intervistate (lo stesso risultato dell’Italia e della Turchia); in Brasile era l’81 per cento; in Cina l’80; in Iran il 79 per cento e in Germania, Regno Unito e Arabia Saudita, il 76. Risultati molto bassi in questa categoria sono stati invece registrati in Russia, dove solo il 16 per cento degli intervistati si è detto d’accordo con questa dichiarazione.
    È stato inoltre notato come le donne si siano dimostrate più favorevoli all’impegno pubblico per il contrasto del cambiamento climatico. In cinque grandi paesi (Australia, Canada, Francia, Germania e Stati Uniti) la differenza di genere era tra i 10 e i 17 punti percentuali.

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    Infine una domanda del sondaggio riguarda la responsabilità dei paesi più ricchi e con economie più sviluppate (che sono principalmente i paesi europei e gli Stati Uniti) nei confronti di quelli più poveri, che non hanno avuto la possibilità di industrializzarsi quando c’erano molte meno regole sull’inquinamento, e che in molti casi sono i più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico. A livello globale il 79 per cento degli intervistati ha detto che i paesi ricchi dovrebbero aiutare di più i paesi in via di sviluppo.
    Da anni questo tema è tra quelli al centro delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).
    Alla COP28 di Dubai del 2023 i paesi con economie sviluppate si sono impegnati per la prima volta a versare circa 380 milioni di euro in un fondo di compensazione per i danni e le perdite causate dal cambiamento climatico nei paesi più in difficoltà: si tratta di una cifra molto piccola, vista l’entità dei possibili danni. I paesi che hanno preso un impegno maggiore sono quelli dell’Unione Europea, mentre un contributo più piccolo è stato promesso dagli Stati Uniti, che non apprezzano che alcuni paesi, specialmente la Cina che è fra i principali produttori di combustibili fossili al mondo, vogliano ancora definirsi paesi in via di sviluppo.
    Proprio negli Stati Uniti il 64 degli intervistati si è detto favorevole all’aumento degli aiuti ai paesi poveri, mentre il 28 per cento ha sostenuto che i paesi ricchi debbano aiutare meno di quanto non lo stiano facendo adesso; nella media globale, solo il 6 per cento pensa che gli aiuti debbano diminuire. In altri paesi occidentali come la Francia, la Germania e il Regno Unito le persone che sostengono che i paesi ricchi dovrebbero fornire più aiuti sono le stesse degli Stati Uniti, ma quasi nessuno pensa che gli aiuti dovrebbero diminuire: un terzo degli intervistati sostiene piuttosto che dovrebbero rimanere uguali a quelli attuali. In questo quadro l’Italia si trova invece più d’accordo con i paesi in via di sviluppo, dato che oltre il 90 per cento degli intervistati è d’accordo con l’idea che i paesi ricchi forniscano più aiuti; solo il 5 per cento sostiene che questi debbano rimanere invariati e nessuno degli intervistati è d’accordo con una loro diminuzione.

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    Secondo la direttrice della sezione dell’UNDP che si occupa dei cambiamenti climatici, Cassie Flynn, i dati sulla volontà di abbandonare l’uso di combustibili fossili sono notevoli, ma in generale questo largo consenso non dovrebbe stupirci: «Gli eventi estremi fanno già parte della nostra vita quotidiana», ha detto Flynn. «Dagli incendi boschivi in Canada alla siccità in Africa orientale, fino alle inondazioni negli Emirati Arabi Uniti e in Brasile, le persone vivono la crisi climatica», ha aggiunto. Proprio in queste settimane per esempio migliaia di persone stanno morendo a causa del caldo in diversi paesi del mondo, specialmente in India, che sta attraversando una delle peggiori ondate di calore della sua storia da oltre un mese, e in Arabia Saudita, dove si è appena concluso lo Hajj, il consueto pellegrinaggio annuale dei fedeli dell’Islam verso la Mecca.

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    Il sondaggio è stato svolto dall’UNDP in collaborazione con l’Università di Oxford, nel Regno Unito, e la società internazionale di sondaggi GeoPoll. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno stilato una lista di 15 domande da porre durante le interviste e hanno poi elaborato le risposte, ponderando il campione per renderlo rappresentativo dei profili di età, genere e istruzione della popolazione dei paesi coinvolti. GeoPoll ha condotto le interviste tramite chiamate telefoniche randomizzate al cellulare, ampliando quindi più possibile le persone raggiungibili. La maggior parte dei paesi è rappresentata da un gruppo di intervistati che va dalle 800 alle 1.000 persone (in Italia sono state 900). Il numero di intervistati non è relativo alla grandezza dello stato, dato che per esempio la Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è rappresentata da 921 persone, circa cento in meno del Buthan, dove la popolazione si aggira intorno alle 790mila persone.
    Secondo gli autori le stime a livello nazionale hanno margini di errore non superiori ai 3 punti percentuali in più o in meno, che diventano molto più bassi quando si tratta di stime globali.
    Un problema piuttosto comune dei sondaggi di questo tipo è il fatto che a rispondere al telefono e ad accettare di partecipare alla ricerca siano spesso persone con un alto livello di istruzione e che sono già più informate della media sul tema. L’UNDP ha però tenuto a specificare in questo caso che oltre il 10 per cento del campione totale comprendeva persone che non sono mai andate a scuola. Di questi 9.321 intervistati, 1.241 erano donne over 60 che non avevano mai neanche frequentato le scuole elementari, uno dei gruppi più difficili da raggiungere.
    Una prima edizione del sondaggio, che aveva coinvolto 50 paesi, era stata realizzata nel 2021 ma le persone erano state raggiunte attraverso annunci pubblicitari in famose app di gioco per cellulari, che escludevano intere fasce della popolazione anche solo per il fatto che per usare queste app bisognava essere connessi a internet. I dati delle due ricerche non sono quindi comparabili. LEGGI TUTTO

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    Tokyo ha un problema di procioni

    Caricamento playerNell’ultimo decennio il numero di procioni catturati a Tokyo è aumentato di quattro volte. Nel 2012, secondo i dati dell’amministrazione della città, ne erano stati catturati 259: nel 2022 invece 1.282. È un problema perché questi animali sono una specie aliena invasiva che può fare grossi danni, e si pensa che i dati sulle catture indichino che il numero totale di procioni in circolazione sia cresciuto a sua volta – e non che le operazioni di cattura siano semplicemente diventate più efficaci.
    È stato stimato che nelle campagne giapponesi nel 2022 i procioni abbiano fatto danni alle coltivazioni per 450 milioni di yen, l’equivalente di 2,7 milioni di euro. Secondo alcune segnalazioni sembra anche che abbiano cacciato e ucciso salamandre a rischio di estinzione.
    I procioni sono originari del Nord America, ma negli ultimi decenni si sono diffusi anche in aree urbane di altri paesi del mondo dove erano stati portati come animali da compagnia o come attrazioni all’interno di zoo privati. Sono animali con grandi capacità di adattamento agli ambienti nuovi e sono rapidi a riprodursi per cui si trovano bene nelle città, dove mangiano dalle ciotole degli animali domestici e dai bidoni della spazzatura e fanno vari danni. In alcuni casi diventano aggressivi con le persone e possono diffondere malattie.
    Anche in Giappone i procioni si sono diffusi non intenzionalmente dopo che molte persone se ne procurarono come animali da compagnia, forse influenzate dalla popolare serie televisiva animata del 1977 Rascal, il mio amico orsetto. Il ministero dell’Ambiente giapponese ritiene che le attuali popolazioni di procioni presenti nel paese derivino da procioni da compagnia fuggiti o abbandonati. A Tokyo sono presenti soprattutto nelle zone collinari della parte occidentale dell’area metropolitana – che complessivamente ha quasi 14 milioni di abitanti umani. I procioni sono stati inseriti da tempo nella lista delle 156 specie aliene invasive presenti in Giappone.

    In molte zone del Giappone esistono piani per la cattura e l’uccisione dei procioni, a Tokyo in particolare dal 2013. Nel comune di Ome, una città che fa parte dell’area urbana di Tokyo, i residenti possono usare delle trappole per catturarli; a Fuchu invece chi subisce danni alle coltivazioni è invitato a segnalarli alle autorità. Finora tuttavia queste iniziative non hanno fermato lo sviluppo delle popolazioni di procioni, di cui non si conosce l’esatta estensione.

    Dal 2016 i procioni sono anche nell’elenco delle specie esotiche invasive di cui i paesi membri dell’Unione Europea devono cercare di evitare la diffusione per ragioni ecologiche, oltre che sanitarie. In Europa ci sono popolazioni di procioni in almeno 16 paesi e il gruppo più grande si trova in Germania. L’Italia è uno dei paesi dove sono presenti: c’è una popolazione tra Emilia-Romagna e Toscana. Dal 1996 sono considerati una specie che può «costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica» nel nostro paese e da allora ne è proibita la detenzione a meno che non si abbia una specifica autorizzazione. LEGGI TUTTO

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    Melinda French Gates lascerà la nota fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates

    Melinda French Gates, una delle imprenditrici e filantrope più famose al mondo, ha annunciato che dal 7 giugno lascerà la celebre fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates, la Bill & Melinda Gates Foundation.La fondazione era stata creata dai due nel 2000, quando erano ancora sposati, e oggi è considerata la più ricca e influente al mondo tra quelle private. Voci e ipotesi di un minore coinvolgimento di Melinda French Gates nella gestione della fondazione circolavano dal 2021, da quando la coppia si separò (in quell’occasione Melinda French Gates riprese a usare il cognome che aveva da nubile, cioè French).
    French Gates non ha spiegato le ragioni della sua decisione, ma ha precisato che continuerà a lavorare nel settore della beneficenza: gli accordi presi col suo ex marito Bill Gates prevedono infatti che per finanziare i suoi progetti personali French Gates abbia a disposizione 12,5 miliardi di dollari (circa 11,5 miliardi di euro) dal patrimonio condiviso che avevano accumulato durante il matrimonio. LEGGI TUTTO

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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    In Brasile e Colombia si è ridotta la distruzione delle foreste tropicali

    Caricamento playerNel 2023 sono stati abbattuti o bruciati circa 37mila chilometri quadrati di foreste tropicali, una superficie pari a quella di Toscana e Campania messe insieme, con una grave perdita per gli ecosistemi e in generale per il pianeta nel contrastare l’effetto serra. Secondo Global Forest Watch, l’iniziativa che ha diffuso i dati, il disboscamento continua a essere uno dei problemi ambientali più seri, ma ci sono stati comunque alcuni progressi, con una riduzione del 9 per cento del fenomeno tra il 2022 e il 2023, in particolare grazie ad alcune nuove politiche per la tutela delle foreste tropicali avviate in Sudamerica.
    Global Forest Watch offre una piattaforma online per tenere sotto controllo lo stato delle foreste del mondo e, insieme all’istituto di ricerca ambientale World Resources Institute, realizza periodicamente rapporti per confrontare negli anni la perdita di foresta pluviale primaria (cioè di foresta ancora incontaminata e non raggiunta dalle attività umane). Le analisi vengono fatte mettendo a confronto immagini satellitari di diversi periodi, in modo da verificare quali aree abbiano subìto attività di disboscamento anche in pochi mesi. Il sistema consente di verificare soprattutto le perdite dovute agli incendi, ma sono talvolta necessarie analisi successive per distinguere tra eventi naturali e fuochi appiccati intenzionalmente per guadagnare nuovo terreno per le coltivazioni.
    In Sudamerica si distruggono ogni anno grandi porzioni di foreste tropicali primarie per la costruzione di nuove strade e infrastrutture, oppure per rendere coltivabili i terreni. Il rapporto di Global Forest Watch segnala che nel 2023 sono stati distrutti circa 2mila chilometri quadrati di foreste tropicali in quella parte di mondo, un’area paragonabile a circa metà quella del Molise. La perdita è stata rilevante, ma inferiore del 24 per cento rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie ai progressi raggiunti dai governi di Brasile e Colombia per limitare la distruzione delle foreste.
    Confronto tra 2022 e 2023 della perdita di foresta tropicale primaria nei dieci paesi del mondo in cui il fenomeno è più diffuso (Global Forest Watch)
    Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, rieletto nel 2022, si è impegnato a fermare completamente la deforestazione entro il 2030, un obiettivo molto ambizioso che non potrà essere raggiunto solamente attraverso l’intensificazione dei controlli. Lula ha revocato buona parte delle leggi che aveva fatto approvare il suo predecessore, Jair Bolsonaro, che di fatto avevano reso più semplice la deforestazione a scopi di sviluppo e commerciali, e ha riorganizzato l’agenzia governativa per la protezione per l’ambiente. Il presidente brasiliano intende inoltre aumentare le aree definite territorio per le popolazioni native, in modo da renderle protette e quindi rendere più difficile il disboscamento. In circa un anno sono già stati aggiunti otto nuovi territori, arrivando quasi a 500: l’intenzione è di riconoscerne altri 200 nel corso dei prossimi anni.
    In Colombia il presidente Gustavo Petro, eletto nel 2023, ha annunciato una nuova serie di politiche per ridurre la deforestazione comprese alcune campagne con contributi economici per le popolazioni locali in modo da disincentivare l’abbattimento degli alberi.
    Altri progressi sembra siano stati raggiunti in seguito ad alcune iniziative di Estado Mayor Central (EMC), il più importante gruppo dissidente delle Forze armate rivoluzionarie colombiane (FARC). Il gruppo di guerriglieri controlla un’area importante dell’Amazzonia e dal 2022 impone multe dell’equivalente di svariate centinaia di euro a chi abbatte illegalmente gli alberi. Il gruppo sostiene di farlo per motivi ambientalisti, ma secondo gli osservatori l’iniziativa è uno dei modi per avere maggiori possibilità di contrattare con il governo colombiano la fine delle ostilità (nel 2016 l’EMC non aveva accettato gli accordi di pace tra governo e FARC). Stando ai dati forniti da Global Forest Watch, in Colombia nel 2023 la perdita di foresta tropicale è stata inferiore del 49 per cento rispetto al 2022.
    I progressi raggiunti in Colombia e Brasile si inseriscono comunque in un contesto ancora negativo legato alla deforestazione, se si considera che dal 2001 al 2023 in Sudamerica è andato distrutto quasi un terzo delle foreste tropicali. La perdita non implica solamente una riduzione nella capacità del pianeta di sottrarre anidride carbonica dall’atmosfera, uno dei principali gas serra. La riduzione delle foreste porta a una marcata riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente, con un ulteriore impoverimento di alcuni dei territori altrimenti più floridi del pianeta sia dal punto di vista della flora sia della fauna. LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

    – Leggi anche: Oscurare il Sole contro il riscaldamento globale è una buona idea? LEGGI TUTTO

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    Un malfunzionamento ai freezer ha distrutto decenni di ricerca di un’importante università svedese

    Il Karolinska Institutet, una delle più importanti università di medicina al mondo con sede a Stoccolma, in Svezia, ha reso noto questa settimana che un malfunzionamento ad alcuni dei suoi freezer durante le vacanze di Natale ha distrutto moltissimi campioni raccolti in decenni di ricerca. Il Karolinska Institutet – che è anche l’ente che ogni anno assegna il premio Nobel per la medicina – è uno dei più importanti centri di ricerca al mondo per le discipline biomediche.Non è ancora del tutto chiaro il motivo del malfunzionamento. I campioni erano conservati in vasche raffreddate con azoto liquido, a una temperatura di -190°C, quando fra il 22 e il 23 dicembre si è verificata un’interruzione nella fornitura di azoto liquido a 16 serbatoi. Questi contenitori possono resistere per quattro giorni senza azoto liquido aggiuntivo, ma anche a causa delle vacanze di Natale ne sono rimasti sforniti per cinque. L’innalzamento della temperatura al loro interno ha causato la distruzione dei campioni.
    I campioni distrutti provenivano da diverse istituzioni di ricerca, che spesso inviano il loro materiale a enti con macchinari più sofisticati per condurre alcuni test, ed erano principalmente quelli utilizzati per la ricerca sulla leucemia. La raccolta di alcuni gruppi di campioni durava da 30 anni, con l’obiettivo anche di studiare l’evoluzione della malattia e la risposta del corpo umano ai trattamenti.
    Alcuni giornali svedesi hanno scritto che il valore stimato dei campioni distrutti era di circa 500 milioni di corone (circa 44 milioni di euro). La polizia, che sta indagando sull’accaduto, ha detto che la perdita è sicuramente nell’ordine dei milioni, ma non è ancora stata fatta una stima ufficiale.
    Matti Sällberg, che è stato a capo del laboratorio di medicina del Karolinska Institutet per undici anni ed è tuttora un professore all’università, ha detto al Guardian che la denuncia alla polizia è stata fatta per poter prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, ma che «al momento non ci sono indicazioni che l’incidente sia dovuto a un intervento esterno». Si sta tuttavia cercando di capire come sia stato possibile che nessuno si sia accorto del malfunzionamento per così tanti giorni. Sällberg ha aggiunto che i campioni distrutti erano tutti relativi al dipartimento di ricerca e che quindi la loro perdita non influirà sulle cure dei pazienti che sono al momento ricoverati nell’ospedale legato all’istituto. Tuttavia, la perdita in termini di materiale di studio è grandissima. LEGGI TUTTO

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    Le foto della lava che si sta raffreddando, in Islanda

    La seconda eruzione vulcanica di Grindavík, in Islanda, si sta esaurendo, secondo le analisi dell’Agenzia meteorologica islandese. Questa mattina l’esperta di disastri naturali dell’ente Elísabet Pálmadóttir ha detto alla RÚV, la principale rete televisiva del paese, che anche dalla fessura più settentrionale che si era aperta domenica, quella più ampia, si è interrotto il flusso della lava poco dopo l’una di oggi. Nella notte sono stati registrati più di 160 piccoli terremoti dovuti al movimento del magma sotto terra e anche per questo non si può ancora dire che l’eruzione sia finita: c’è ancora la possibilità che si aprano altre fessure nelle prossime ore e per questo attualmente gli abitanti della cittadina non possono tornare nelle proprie abitazioni. LEGGI TUTTO