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    Che cosa sappiamo sulla “misteriosa” malattia in Congo

    Nella provincia di Kwango, nella parte occidentale della Repubblica Democratica del Congo al confine con l’Angola, dalla fine di ottobre sono state segnalate decine di morti a causa di una malattia non ancora identificata. L’area dove è avvenuto il contagio è remota e le notizie sono per il momento scarse, come ha spiegato l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nonostante la mancanza di dettagli, negli ultimi giorni sono stati pubblicati articoli con toni allarmati e si è creata una certa confusione intorno a una malattia definita “misteriosa” o causata dal “virus del Congo”, anche se al momento non si sa né se sia causata da un virus né se questo abbia avuto origine nel paese.Lo scorso 29 novembre, il ministero della Salute congolese aveva avvisato l’OMS segnalando un aumento anomalo di morti causate da una malattia non diagnosticata nell’area di Panzi, nella provincia di Kwango. Secondo il bollettino più recente, tra il 24 ottobre e il 5 dicembre i casi di contagio sono stati circa 400 e sono state registrate 31 morti. Nei giorni seguenti sono circolate notizie su ulteriori decessi con stime che variano tra 70 e 140 morti, ma non è stato ancora possibile avere conferme ufficiali.
    Circa il 70 per cento delle persone morte aveva meno di 17 anni e tutti i casi più gravi avevano seri problemi di malnutrizione. Le condizioni di vita nell’area rurale interessata sono infatti peggiorate negli ultimi mesi, con minore disponibilità di cibo e quasi totale assenza di assistenza sanitaria. Le cause sono riconducibili all’estrema povertà e alla stagione delle piogge, che ha complicato le possibilità di accesso nell’area. Da Kinshasa, la capitale del Congo, sono necessari quasi due giorni di viaggio su strade e piste maltenute per raggiungere la zona.

    I sintomi più ricorrenti segnalati finora sono febbre, tosse, spossatezza e naso che cola. In alcune persone la malattia evolve con lo sviluppo di complicazioni respiratorie, anemia e forte inappetenza. I sintomi sono compatibili con una grande quantità di malattie già note e presenti nella zona, dunque i casi più gravi potrebbero essere conseguenza di malattie diverse tra loro. Come spiega l’OMS:
    Sulla base dell’attuale contesto nell’area interessata e dell’ampio spettro di sintomi, una certa quantità di malattie sospette deve essere esclusa attraverso ulteriori approfondimenti e analisi di laboratorio. Sono prese in considerazione, tra le altre: morbillo, influenza, polmonite acuta, malattia renale da infezione da Escherichia coli, COVID-19 e malaria.
    In particolare la malaria è solitamente diffusa nella zona e le piogge potrebbero avere contribuito a un aumento della popolazione di zanzare che trasmettono i parassiti che causano la malattia. L’unico modo per capirlo è attraverso la raccolta di campioni tra le persone contagiate e la loro analisi in laboratorio, cosa che si sta però rivelando difficoltosa perché nell’area non ci sono strutture per effettuare i test. Le analisi di alcuni campioni trasportati a Kinshasa sono ancora in corso e nel fine settimana non sono state comunicate molte informazioni dalle autorità sanitarie.
    Un “gruppo di risposta rapido” (RRT da “rapid response team”) è attivo nella zona da fine novembre e sabato 7 dicembre si è aggiunto un ulteriore gruppo di lavoro, che comprende alcuni esperti dell’OMS, per indagare i casi segnalati nel territorio e offrire maggiori trattamenti sanitari. Le attività prevedono anche l’impiego di test rapidi per COVID-19 e malaria, in modo da escludere i casi di malattie già note e concentrarsi nella raccolta di campioni da persone senza una diagnosi chiara.
    L’OMS ritiene che il rischio sanitario per la popolazione locale sia alto, mentre per ora è moderato per il resto del Congo e basso per l’estero. I trasferimenti di persone dalla zona in cui sono stati riscontrati i casi sono rari e le poche strade disponibili possono essere tenute sotto controllo, secondo le autorità locali. La valutazione del rischio potrebbe comunque cambiare nei prossimi giorni, man mano che diventeranno più chiare le cause e l’estensione del problema.
    Alla fine della scorsa settimana alcuni paesi, compresa l’Italia, hanno annunciato di avere intensificato i controlli negli aeroporti e negli altri punti di ingresso al nostro paese, per chi proviene dal Congo. Al momento non ci sono comunque elementi per ritenere che il rischio sia aumentato, come del resto chiarito dall’OMS nel suo bollettino.
    Tra domenica e lunedì si è parlato molto sui giornali, anche in questo caso con qualche allarmismo, di una persona proveniente dal Congo che era stata ricoverata in ospedale a Lucca con sintomi simili a quelli di un’influenza lo scorso 22 novembre e dimessa una decina di giorni dopo, una volta guarita. Come da prassi e per precauzione, l’ospedale ha informato l’Istituto Superiore di Sanità e saranno effettuate ulteriori verifiche sui campioni prelevati da quel paziente. Non ci sono comunque elementi per ritenere un collegamento con i casi rilevati in Congo, anche perché la persona interessata aveva lavorato nel paese a diverse centinaia di chilometri di distanza dalla zona in cui sono stati finora rilevati i casi. LEGGI TUTTO

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    La grande base nucleare riscoperta sotto ai ghiacci della Groenlandia

    Caricamento playerDurante una ricognizione in Groenlandia, un aereo della NASA ha identificato per caso le tracce di “Camp Century”, una vecchia base militare costruita tra i ghiacci dall’esercito degli Stati Uniti ai tempi della Guerra Fredda. La base è abbandonata da quasi 60 anni, ma i veri scopi della sua costruzione sono diventati noti solo nella seconda metà degli anni Novanta, quando furono desecretati alcuni documenti su un più ampio progetto statunitense per installare migliaia di missili in Groenlandia, per rispondere a un eventuale attacco nucleare da parte dell’Unione Sovietica.
    Camp Century è ormai sepolta sotto la neve e il ghiaccio e non può essere osservata a occhio nudo sorvolando la zona. La NASA ne ha rilevato la presenza grazie a un particolare radar sperimentale (Uninhabited Aerial Vehicle Synthetic Aperture Radar, UAVSAR), che può essere utilizzato per ricostruire una versione tridimensionale degli strati più profondi dei ghiacci, in modo da studiarne le caratteristiche e l’andamento. I tecnici che stavano facendo la ricognizione hanno notato una strana discontinuità nella stratificazione dei ghiacci e si sono infine accorti che quello che avevano rilevato è ciò che resta di Camp Century, rilevata in precedenza con altri mezzi.
    L’idea di costruire una base in un’area della Groenlandia dove si raggiungono facilmente i -30 °C era stata valutata a partire dalla metà degli anni Cinquanta dagli Stati Uniti, interessati a realizzare un’ulteriore linea di difesa nei confronti dell’Unione Sovietica. C’era il timore che, nel caso di un attacco nucleare sovietico a sorpresa contro le principali basi di lancio di missili statunitensi, gli Stati Uniti fossero privati della loro capacità di rispondere efficacemente. Da queste valutazioni era nato “Project Iceworm”, un piano per costruire una rete sotterranea di basi di lancio in Groenlandia. I missili con le testate nucleari sarebbero partiti dal sottosuolo, avrebbero rotto lo spesso strato di ghiaccio e infine avrebbero raggiunto gli obiettivi sovietici.
    Camp Century era nata con lo scopo di verificare su piccola scala la fattibilità di un progetto di questo tipo, sperimentando nuove tecniche costruttive tra i ghiacci e perfino la possibilità di installare una piccola centrale nucleare per fornire l’energia elettrica necessaria alla base. Il progetto di per sé non fu tenuto segreto, ma fu promosso come un’iniziativa per lo più scientifica per valutare la possibilità di costruire basi di ricerca nell’Artico. Solo nel 1996, con la desecretazione di alcuni documenti, si ebbero le conferme sugli scopi più ampi e di natura bellica di Project Iceworm e di conseguenza di Camp Century.
    Benché sia dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la Groenlandia fa parte dei territori controllati dalla Danimarca, e per questo alla fine degli anni Cinquanta il governo degli Stati Uniti avviò alcuni contatti con quello danese per avvisarlo del progetto. Si disse che l’iniziativa sarebbe stata svolta nell’ambito delle attività della NATO, l’alleanza militare dei paesi occidentali, e di fatto le ricognizioni e la costruzione della base iniziarono senza che ci fosse un permesso esplicito da parte del governo danese.

    Dopo le prime ricognizioni, fu trovata un’area pianeggiante a quasi 250 chilometri da Qaanaaq (all’epoca nota come Thule), una delle città abitate più a nord del mondo, ben al di sopra del Circolo polare artico e a circa 1.300 chilometri dal Polo Nord. La costruzione iniziò nel 1959, con il materiale che veniva trasportato via nave fino a Qaanaaq e da lì su grandi slitte collegate tra loro e trainate da mezzi cingolati. Con le loro decine di tonnellate impiegavano quasi 70 ore per arrivare a destinazione, mentre il trasporto del personale avveniva su mezzi più piccoli e leggeri, e richiedeva circa mezza giornata di viaggio.
    Uno dei convogli per il trasporto del materiale (US Army)
    Camp Century era stata pensata come una classica base militare con una via centrale e le baracche costruite perpendicolarmente lungo i suoi lati, ma in profondità nel ghiaccio. Mezzi per romperlo e rimuoverlo (frese da neve) furono impiegati per scavare grandi trincee larghe e profonde 8 metri, con una lunghezza che variava a seconda degli scopi e che poteva superare i 300 metri. All’interno di questi grandi trinceroni venivano poi assemblati gli edifici, in legno e materiale isolante, con un volume lievemente più piccolo rispetto a quello ricavato nel ghiaccio. Le trincee venivano poi coperte con un tetto di lamiera ad arco, che in breve tempo si ricopriva di nuova neve e ghiaccio, rendendo invisibile la struttura dall’esterno.
    Rappresentazione schematica di Camp Century (US Army)
    Oltre alle zone che ospitavano i 250 soldati, c’erano aree di svago, sale riunioni, un piccolo centro medico, le cucine, la mensa e i bagni con docce. Le dotazioni interne erano paragonabili a quelle di altre basi militari in climi più miti e l’unica vera grande differenza era l’assenza di finestre. Per alcuni l’esperienza non era molto diversa dalla vita in un sottomarino, ma con maggiori agi.
    Completamento di una trincea di ghiaccio (US Army)
    In una seconda fase nel lontano e gelido pianoro di Camp Century fu trasportato un reattore nucleare, sviluppato nell’ambito del programma di ricerca delle tecnologie atomiche dell’esercito degli Stati Uniti. Era un reattore “semi mobile” PM-2A e il lavoro di installazione richiese grandi sforzi logistici, soprattutto per il trasporto delle parti più voluminose della centrale che arrivarono a Qaanaaq già prefabbricate. Il reattore fu regolarmente messo in servizio e permise per qualche anno di fare a meno dei generatori diesel, riducendo la domanda di gasolio e il suo difficoltoso trasporto.

    Camp Century sembrava funzionare meglio delle aspettative, un buon segno per l’espansione di Project Iceworm, ma nei primi anni Sessanta iniziarono a emergere alcuni problemi. Il più grande di tutti era la progressiva deformazione dei trinceroni di ghiaccio in cui erano stati collocati i prefabbricati. Inizialmente gli ingegneri militari avevano valutato che le temperature molto rigide avrebbero fatto sì che il ghiaccio si comportasse più o meno come il cemento, mantenendosi rigido e fermo e costituendo un involucro ideale per le costruzioni al suo interno. Dopo qualche anno notarono invece che il ghiaccio era tutt’altro che fermo e stabile.
    Nei processi di formazione del ghiaccio l’aria rimane intrappolata, soprattutto negli strati più superficiali. Questi premono su quelli sottostanti e col passare del tempo li compattano, rendendoli più densi. Il processo non è uniforme e sul suo andamento possono influire molte variabili, a cominciare dalla temperatura. Il risultato è che anche su una profondità di circa 8 metri il ghiaccio continua ad assestarsi, muovendosi e deformandosi: se trova degli spazi vuoti, come nel caso delle trincee scavate a Camp Century, la deformazione può essere ancora più marcata.
    In circa quattro anni le pareti di ghiaccio di diverse trincee si erano spostate verso l’interno, raggiungendo i limiti di progettazione previsti per poter mantenere al loro interno i prefabbricati. In alcuni casi la deformazione era di almeno un metro e mezzo e non sempre era possibile intervenire (manualmente con le pale) per correggerla e riguadagnare lo spazio perduto. I problemi di staticità del ghiaccio furono studiati e approfonditi, facendo arrivare alla conclusione che l’installazione di sistemi di lancio per i grandi missili intercontinentali con testate nucleari non sarebbe stata probabilmente possibile. Il problema riguardò anche la piccola centrale nucleare del campo, che dopo circa tre anni fu disattivata per il rischio di congelamento di alcune sue parti.
    Rappresentazione schematica della deformazione delle trincee negli anni (US Army)
    Nonostante le difficoltà, l’esercito degli Stati Uniti concluse che ci fossero buoni margini per costruire altre basi come Camp Century, anche se non ne furono mai realizzate altre. La base in Groenlandia aveva assolto al proprio scopo e nel 1967 fu abbandonata, mettendo fine di fatto agli ambiziosi progetti statunitensi di armare parte della grande isola. La dismissione avvenne nello stile dell’epoca, senza grandi valutazioni ambientali: l’infrastruttura e i rifiuti prodotti furono lasciati dov’erano, confidando che i ghiacci si sarebbero ripresi il loro spazio e avrebbero sepolto per sempre la base.
    Camp Century fu dimenticata per molto tempo e se ne tornò a parlare brevemente nel 1996, quando furono desecretati i documenti sul vero scopo della sua costruzione. Venti anni dopo, se ne tornò a parlare quando un gruppo di ricerca fece una nuova valutazione dell’impatto ambientale della base, segnalando che a causa della fusione dei ghiacci dovuta al riscaldamento globale ciò che resta di Camp Century inquinerà in futuro un’ampia zona. Lo studio diceva che entro il 2090 potrebbero finire nell’ambiente i 200mila litri di gasolio che l’esercito statunitense si lasciò alle spalle, così come 24 milioni di litri di liquami e gli altri rifiuti, comprese alcune scorie radioattive. Un’analisi condotta nel 2021 ha in parte rivisto le previsioni, spostando a dopo il 2100 il momento in cui riaffioreranno alcuni di quei rifiuti.
    Del resto osservare oggi a occhio nudo Camp Century è impossibile, ma il nuovo radar della NASA è comunque riuscito a cogliere buona parte di ciò che rimane sotto al ghiaccio ormai a quasi 30 metri di profondità. La ricognizione era stata effettuata lo scorso aprile, ma gli esiti delle osservazioni sono stati comunicati a fine novembre. L’immagine ottenuta è stata confrontata con le mappe realizzate negli anni Sessanta per trovare alcune corrispondenze.
    La rilevazione radar effettuata dalla NASA, in profondità nel ghiaccio sono stati raccolti dati su Camp Century (NASA)
    La portata scientifica dell’osservazione, del tutto casuale, è ancora da verificare, ma conoscendo la profondità che era stata raggiunta per costruire Camp Century si possono fare migliori calcoli sull’andamento dei ghiacci in Groenlandia, visto che in alcune zone dell’isola si è assistito a un’accelerazione nella fusione del ghiaccio. Il nuovo radar dovrebbe inoltre permettere di osservare con più precisione le stratificazioni di ghiaccio, utili per comprendere l’andamento delle stagioni passate e confrontarle con quelle più recenti.
    Camp Century è quasi dimenticata, ma non da chi si occupa proprio degli studi legati al cambiamento climatico. All’epoca, la base fu infatti utilizzata anche per prelevare campioni di ghiaccio in profondità, che hanno permesso di studiare le variazioni del clima nel corso dei decenni. La Danimarca gestisce un programma di ricerca nella zona, per verificare la temperatura del ghiaccio e della neve nel corso dell’anno e comprendere meglio come siano variate rispetto ai primi anni Sessanta, quando centinaia di persone vivevano tra quei ghiacci scaldati dall’energia prodotta da un reattore nucleare sopra al Circolo polare artico. LEGGI TUTTO

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    Il mondo non si mette d’accordo sulla plastica

    Caricamento playerManca meno di un mese alla fine di un anno che si sarebbe dovuto concludere con l’approvazione del primo trattato internazionale delle Nazioni Unite per ridurre l’inquinamento causato dalla plastica, ma qualcosa è andato storto. I paesi coinvolti non si sono messi d’accordo nel corso dell’ultima sessione di trattative a Busan, in Corea del Sud, soprattutto a causa dell’opposizione delle nazioni che producono grandi quantità di petrolio, la principale materia prima per produrre la plastica. Il confronto riprenderà il prossimo anno, ma al momento i programmi sono vaghi.
    Come dimostrato in questi anni dalle Conferenze contro il cambiamento climatico, mettere d’accordo molti paesi sul modo per affrontare i problemi ambientali non è semplice, soprattutto se alcuni provvedimenti si scontrano con gli interessi di certe nazioni. I principali produttori di petrolio, come l’Arabia Saudita, non vogliono regole troppo stringenti per la produzione di nuova plastica perché potrebbero incidere sulla domanda di idrocarburi, e di conseguenza sulle loro possibilità di sviluppo.
    In più occasioni il trattato sulla plastica era stato definito come la prima vera occasione per regolamentare meglio un settore che si è espanso molto velocemente nell’ultimo secolo, senza che fossero decise regole comuni tra le nazioni per lo smaltimento dei suoi rifiuti. L’iniziativa era nata poco meno di tre anni fa, nel marzo del 2022, quando 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per adottare un documento internazionale sulla plastica. Da quel momento erano state avviate le trattative ed era stato costituito un comitato intergovernativo, con l’obiettivo molto ambizioso di arrivare all’approvazione di un trattato entro la fine di quest’anno.
    L’incontro di Busan era considerato come l’occasione più importante per raggiungere un accordo, dopo gli alti e bassi delle trattative negli scorsi anni. Un centinaio di paesi, compresi quelli dell’Unione Europea e quindi l’Italia, aveva scelto di sostenere una proposta di Panama per inserire nel testo un chiaro riferimento alla necessità di ridurre la produzione di plastica portandola a «livelli sostenibili». La proposta non era però piaciuta ai rappresentanti dell’Arabia Saudita e di altri grandi produttori di petrolio, secondo i quali il trattato deve avere il solo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica nell’ambiente e non la sua produzione. (Le trattative sono segrete, ma più fonti interne ai negoziati hanno confermato la contrarietà dei produttori di petrolio guidati dall’Arabia Saudita.)

    I paesi che fanno parte della “High Ambition Coalition” (HAC), una coalizione internazionale che ha l’obiettivo di mettere fine all’inquinamento causato dalla plastica, avevano criticato già in passato i produttori di petrolio accusandoli di fare ostruzionismo durante le trattative. Tra i paesi che più o meno direttamente hanno ostacolato i lavori sono stati spesso segnalati la Russia e l’Iran, che come l’Arabia Saudita hanno economie che dipendono dall’estrazione dei combustibili fossili.
    La scelta degli Stati Uniti nel corso dell’estate di sostenere con maggior forza la riduzione della produzione di plastica sembrava che potesse condizionare i lavori di Busan, ma secondo alcuni analisti la vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi ha cambiato gli equilibri. Trump ha in più occasioni dimostrato di non avere un particolare interesse per le questioni ambientali ed è a favore di un potenziamento delle attività estrattive. Facendo fallire i negoziati, gli stati interessati hanno ottenuto di prendere tempo in attesa dell’insediamento di Trump all’inizio del prossimo anno.
    Anche la Cina, il principale produttore di plastica del mondo, non fa parte della HAC, ma ha comunque mantenuto un atteggiamento più aperto per lo meno nelle trattative sull’identificazione dei prodotti di plastica che inquinano di più. Sulla riduzione della produzione il governo cinese è invece contrario, sempre per l’impatto economico che potrebbe esserci per molti settori produttivi. Il coinvolgimento della Cina è però essenziale per intervenire sull’inquinamento da plastica.
    Le stime variano molto, ma secondo quelle delle Nazioni Unite ogni anno si producono mediamente circa 400 milioni di tonnellate di nuova plastica, e il suo impiego è più che quadruplicato negli ultimi trent’anni. Agli attuali ritmi di crescita, entro il 2040 si potrebbe arrivare a oltre 700 milioni di tonnellate di nuova plastica prodotta ogni anno, con un aumentato rischio di inquinamento dei corsi d’acqua e dei mari, dove finisce una parte importante dei rifiuti.
    Una sessione delle trattative a Busan, Corea del Sud, il primo dicembre 2024 (AP Photo/Ahn Young-joon)
    Le attività di riciclo sono importanti per ridurre l’inquinamento ed evitare che si produca nuova plastica, ma la raccolta e il corretto trattamento dei rifiuti per riciclarli sono ancora poco diffusi. A livello globale si stima che meno del 10 per cento della plastica venga riciclato, il resto finisce nelle discariche, viene incenerito oppure disperso impropriamente nell’ambiente. Si stima che negli ambienti marini circa l’85 per cento di tutti i rifiuti siano materie plastiche.
    Molti tipi di plastica impiegano decine di anni prima di iniziare a degradarsi e a separarsi in frammenti sempre più piccoli. Quelle con dimensioni inferiori a cinque millimetri sono definite “microplastiche” e si stima che abbiano contaminato praticamente qualsiasi ambiente conosciuto, con un impatto sulle specie viventi ancora in corso di valutazione, soprattutto per la salute umana.
    La plastica è tra i materiali più diffusi e utilizzati al mondo, ha reso possibili importanti attività di ricerca, lo sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti e ha migliorato la qualità della vita di milioni di persone. La conservazione e la sicurezza dei cibi sono strettamente legate allo sviluppo della plastica, per esempio, così come molte attività in ambito sanitario. Metterla al bando sarebbe impossibile e non è nemmeno l’obiettivo del trattato, il cui scopo è di trovare regole comuni per evitare il più possibile che la plastica contamini gli ambienti e che se ne faccia un uso non responsabile.
    Gli interessi economici sono però molto forti e sono diventati evidenti nell’aprile di quest’anno in Canada, durante alcune delle trattative per la stesura del trattato. Agli incontri erano presenti circa 200 lobbisti delle industrie petrolchimiche, più degli scienziati presenti per fornire dati e informazioni sull’impatto ambientale della plastica ai rappresentanti politici.
    Come per altri negoziati sul clima, anche per il trattato sulla plastica è prevista un’approvazione all’unanimità ed è quindi sufficiente l’opposizione di uno o più stati per rallentare il processo o fermarlo completamente. Alcuni paesi approfittano della mancanza di una votazione vera e propria per ostacolare i negoziati, al tempo stesso senza esporsi più di tanto. Difficilmente le regole di approvazione saranno modificate per i prossimi passaggi delle trattative.
    Il mancato accordo a Busan non è arrivato completamente inatteso, visti i tempi stretti che erano stati decisi per l’approvazione del trattato, ma avrà comunque conseguenze sulle prossime iniziative. Le trattative proseguiranno con nuovi negoziati, per i quali non sono ancora noti tempi e luogo. LEGGI TUTTO

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    Perché in Asia le intossicazioni da metanolo sono frequenti?

    Caricamento playerTra il 13 e il 22 novembre sei persone straniere che si trovavano a Vang Vieng, una località turistica nel nord del Laos, sono morte per una presunta intossicazione da metanolo, una sostanza simile all’alcol ma estremamente tossica per l’organismo umano.
    Non è ancora del tutto chiaro in che modo le sei persone – quattro giovani donne, di cui due danesi e due australiane, una donna britannica e un uomo statunitense – si siano intossicate, ma secondo le ricostruzioni dei giornali internazionali c’entrerebbero dei bicchierini (degli “shot”) di vodka di produzione locale, forse bevuti in un ostello della città. Martedì sei dipendenti della struttura sono stati arrestati e venerdì il ministero degli Esteri dell’Australia ha avvisato i cittadini del paese in vacanza nel Laos di non bere vodka e whisky del marchio laotiano Tiger.
    Il metanolo è un liquido incolore e insapore che viene usato come solvente in vari contesti industriali e tra le altre cose è contenuto negli antigelo. Se ingerito provoca danni agli organi interni e al cervello. Dieci millilitri di metanolo sono sufficienti a causare cecità permanente, mentre una dose tra i 30 e i 100 può essere letale – uno “shot” sono circa 20 millilitri. Dal punto di vista chimico il metanolo è simile all’alcol (o etanolo), ma quando arriva al fegato causa la produzione di formaldeide e successivamente di acido formico, che ad alte dosi provoca grossi danni. Infatti impedisce ai mitocondri, le strutture presenti nelle cellule del corpo che producono l’energia necessaria alle attività vitali, di ottenere ossigeno, causando così la morte delle cellule stesse. Anche nei casi in cui l’ingestione di metanolo non è fatale può avere effetti permanenti.
    Il metanolo può finire dentro una bevanda alcolica principalmente per due ragioni. Il primo caso riguarda gli alcolici fatti in casa: se il processo di distillazione non è corretto rimane infatti del metanolo. In altri casi, specialmente per quanto riguarda gli alcolici contraffatti, il metanolo viene aggiunto deliberatamente, spesso senza una vera consapevolezza dei rischi, per alzare la gradazione alcolica. Il metanolo infatti è più economico dell’etanolo.
    Secondo i dati di Medici Senza Frontiere, che documenta i casi di presunti avvelenamenti da metanolo nel mondo, i paesi asiatici sono quelli in cui avvengono più di frequente. Nell’ultimo anno 512 persone sono state intossicate in India, dove in molti non possono permettersi di comprare alcolici prodotti legalmente e in modo sicuro, 207 in Iran (dove la produzione di alcolici è vietata) e 187 in Indonesia. Nel Laos negli ultimi dodici mesi è stato registrato solo l’incidente per cui sono morti i sei turisti stranieri. Secondo un articolo di spiegazione di BBC News, si può ricondurre la presenza di alcol contraffatto sul mercato alla necessità di grandi quantità di bevande alcoliche a basso costo per soddisfare le esigenze delle strutture turistiche. Le regole e i controlli sui prodotti alimentari sono molto scarsi nel paese.
    Una bottiglia di Vodka Tiger nell’ostello dove avevano alloggiato le persone morte per presunta intossicazione da metanolo a Vang Vieng, il 19 novembre 2024 (AP Photo/Anupam Nath)
    In passato casi di avvelenamento da metanolo si verificarono anche in Italia, per ragioni simili. Quello che ottenne più risonanza avvenne nel 1986: 23 persone morirono per aver bevuto del vino da tavola prodotto da una cantina della provincia di Cuneo, in Piemonte; altre 15 persero la vista. Successivamente furono aumentati i controlli sui prodotti per il consumo alimentare.
    Inizialmente un’intossicazione da metanolo può essere confusa con gli effetti di una comune ubriachezza da alcol, ragione per cui spesso le cure arrivano tardi. In genere i medici capiscono di avere a che fare con gli effetti dell’assunzione di metanolo quando le persone coinvolte cominciano ad avere problemi di vista, dato che il nervo ottico è una delle parti del corpo più sensibili ai danni della sostanza. Un farmaco chiamato fomepizolo e l’alcol stesso possono essere usati come antidoti, se non è troppo tardi; le persone intossicate devono poi essere sottoposte a dialisi per rimuovere le sostanze tossiche dai reni. LEGGI TUTTO

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    Alle presidenziali degli Stati Uniti si vota anche dallo Spazio

    Alle elezioni statunitensi di novembre potranno votare anche gli astronauti che si trovano nello Spazio. È possibile grazie al sistema di comunicazione che permette il trasferimento di documenti dallo Spazio alla Terra e a una legge del Texas del 1997. Negli anni passati anche astronauti sovietici, russi e francesi hanno votato per le elezioni nei rispettivi paesi.Al momento nello Spazio si trovano 14 persone: 3 sono astronauti cinesi, 4 sono russi e 7 statunitensi. Questi sette per votare hanno dovuto fare richiesta anticipatamente al governo statunitense di poter votare a distanza, secondo la stessa procedura seguita dai soldati inviati nelle missioni all’estero. Hanno poi ricevuto una password da un impiegato della contea in cui risiedono, per criptare il documento di testo con il voto e garantirne la segretezza. Dall’inizio del periodo del voto anticipato (che in Texas inizia lunedì 21 ottobre) possono quindi inviare un messaggio riservato contenente il loro voto all’ufficio elettorale locale, dopo una serie di passaggi.
    Quasi tutti gli astronauti statunitensi risiedono nello stato del Texas, dove si trova il Johnson Space Center, il principale centro di addestramento per andare in orbita della NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti. Per questo è spettato al Texas approvare una legge per permettere loro di votare anche durante le permanenze sulle stazioni spaziali, i laboratori scientifici che viaggiano nell’orbita terrestre.
    Nel 1996 la NASA cercò di fare in modo che l’astronauta John Blaha potesse votare nelle presidenziali di quell’anno (in cui alla fine il Democratico Bill Clinton venne riconfermato alla presidenza). Il tentativo fu fermato dal Segretario di stato del Texas, dato che lo stato non permetteva alcun tipo di voto elettronico: Blaha non poté votare.
    L’anno seguente il parlamento del Texas approvò una legge che permetteva il voto elettronico per chi avesse i requisiti per votare «ma si trovasse nello spazio durante il periodo del voto anticipato e nel giorno delle elezioni». Il primo astronauta statunitense a votare dall’orbita terrestre fu quindi David Wolf, che nel 1997 votò per il sindaco di Houston (una città del Texas) mentre si trovava a bordo della stazione spaziale russa MIR.
    Gli astronauti attualmente sulla Stazione Spaziale Internazionale: 7 di loro (quelli vestiti di nero e quello in primo piano a destra) sono statunitensi (NASA via AP)
    Prima di votare veramente gli astronauti ricevono una scheda elettorale finta, che reinviano a terra per controllare che il processo funzioni e mantenga la segretezza del voto. Ricevono poi la scheda vera, un documento di testo che compilano e rispediscono a terra tramite una rete di satelliti e antenne che permette alla NASA di comunicare con i satelliti nell’orbita terrestre, la Near Space Network (“Rete per lo Spazio vicino”).
    Tramite questa rete le informazioni vengono trasmesse al centro di ricerca di White Sands, in New Mexico. Da lì sono poi trasferite al centro di controllo delle missioni spaziali del Johnson Space Center, in Texas, che a sua volta le invia agli uffici elettorali della contea di Harris, in cui si trova il centro: qui il documento viene stampato e conteggiato assieme a tutte le altre schede della contea.
    Dal 2004, quando Leroy Chiao divenne il primo statunitense a votare per il presidente dallo Spazio, gli astronauti della NASA hanno votato in 3 delle 4 elezioni presidenziali seguenti (nel 2008, 2016, 2020): nel 2012 gli astronauti che si trovavano in orbita poterono votare anticipatamente secondo le procedure ordinarie. In almeno un caso, nel 2019, votò anche un astronauta statunitense che non risiedeva in Texas: Andrew Morgan votò nelle elezioni locali della Pennsylvania, grazie alla collaborazione fra le autorità locali e la NASA. L’ultima astronauta a votare dalla Stazione Spaziale Internazionale è stata Kathleen Rubins, che è anche l’unica ad aver votato due volte: nel 2016 e nel 2020. LEGGI TUTTO

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    In Egitto è stata debellata la malaria

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che l’Egitto ha debellato definitivamente la malaria, una delle malattie più letali al mondo: ci è riuscito dopo quasi 100 anni, ossia da quando il paese cominciò a vietare la coltivazione di riso e altre colture vicino alle case con l’obiettivo di contrastarne la diffusione. La malaria è una malattia mortale particolarmente contagiosa trasmessa dalle punture di alcune zanzare. È diffusa soprattutto in Africa, dove uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno. In tutto finora sono 44 i paesi e i territori che hanno debellato la malattia. LEGGI TUTTO

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    Il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato a causa della fusione dei ghiacciai alpini

    Caricamento playerA causa della fusione dei ghiacci nelle Alpi, il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato di alcuni metri nell’area del Plateau Rosa, uno dei più ampi pianori perennemente ghiacciati a sud-est del Cervino. Alla fine della scorsa settimana il Consiglio federale svizzero ha approvato la firma della nuova convenzione sui confini, che entrerà in vigore non appena il governo italiano farà altrettanto. Negli ultimi anni la fusione dei ghiacciai, dovuta in primo luogo al riscaldamento globale causato anche dalle attività umane, ha modificato sensibilmente la geografia dell’arco alpino rendendo sempre più necessari aggiustamenti ai confini che riguardano l’Italia.
    Per praticità e per ridurre i contenziosi, spesso i confini sono definiti dalla linea spartiacque delle montagne, cioè da come fluisce l’acqua da una parte o dall’altra di un versante creando bacini idrografici diversi e separati. Lo spartiacque alpino determina buona parte del confine tra Italia, Francia, Svizzera e Austria, con alcune eccezioni dovute a scelte politiche ed eventi storici. Uno spartiacque può essere relativamente stabile e corrispondere a un crinale di roccia esposta, oppure può essere più dinamico se corrispondente al crinale di un ghiacciaio, di un nevaio o ancora di nevi perenni.
    In questo secondo caso, la fusione e il ritiro dei ghiacci a causa del cambiamento climatico possono determinare uno spostamento dello spartiacque, che col passare del tempo può diventare di decine o centinaia di metri. Proprio per questo negli anni passati Svizzera e Italia avevano iniziato a discutere sull’opportunità di rivedere parte dei loro confini, in modo da farli corrispondere al nuovo spartiacque o trovando soluzioni tali da tutelare gli «interessi economici delle due parti».
    Lungo il confine, e soprattutto in quella zona, ci sono numerosi impianti sciistici e rifugi, che a seconda dei casi sono entro il confine italiano, quello svizzero o sostanzialmente a metà. È per esempio il caso del rifugio Guide del Cervino: una sua parte è italiana, nel comune di Valtournenche, in provincia di Aosta, e la parte rimanente è a Zermatt, in Svizzera. Queste strutture riescono comunque a lavorare senza troppi problemi, grazie alla collaborazione tra Italia e Svizzera, ma una definizione più chiara dei confini può rendere più pratica la gestione di alcune attività e soprattutto la gestione degli imprevisti, che ad alta quota spesso corrispondono a necessità di dare soccorso a sciatori e alpinisti.
    Il confronto tra governo italiano e svizzero negli anni passati aveva portato a qualche attrito, che si era comunque risolto tra il 9 e l’11 maggio del 2023 quando il Comitato per la manutenzione del confine nazionale tra Svizzera e Italia aveva discusso la ridefinizione del confine nell’area del Plateau Rosa in corrispondenza della Gobba di Rollin, che lo delimita a sud, e della Testa Grigia che lo delimita invece a ovest. Il confronto aveva anche riguardato l’area del rifugio Jean-Antoine Carrel, che si trova nel comune di Valtournenche in Valle d’Aosta. La convenzione ha richiesto diverso tempo per essere ratificata da parte della Svizzera e si è ora in attesa che il governo italiano faccia altrettanto.

    Non ci sono ancora molti dettagli, ma in diversi punti il confine sarà spostato verso l’Italia di alcune decine di metri, portando quindi la Svizzera ad avere un po’ più di territorio. Il cambiamento non dovrebbe comunque avere particolari conseguenze per le strutture costruite negli anni, come funivie e teleferiche, in uno dei comprensori sciistici più grandi e articolati delle Alpi occidentali.
    Nel 2023 i ghiacciai svizzeri hanno perso circa il 4 per cento del loro volume rispetto all’anno precedente, la seconda perdita più grande mai registrata dall’Accademia delle scienze della Svizzera (il precedente record del 6 per cento era del 2022). In alcune zone dell’arco alpino i ricercatori svizzeri hanno interrotto le misurazioni perché non ci sono più quantità di ghiaccio significative da misurare. Si prevede che a causa dell’aumento della temperatura media globale le Alpi perdano una parte rilevante dei loro ghiacciai nei prossimi decenni, cosa che porterà a nuovi cambiamenti della geografia e probabilmente a nuovi spostamenti dei confini. Oltre che con l’Italia, la Svizzera è impegnata da tempo con la Francia per ridefinire le loro aree confinanti su parte delle Alpi. LEGGI TUTTO

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    In Brasile si indaga sulla moria di almeno 209 delfini di fiume

    Caricamento playerTra il 13 e il 23 agosto, nell’Amazzonia brasiliana, un gruppo di biologi, veterinari e pescatori ha catturato e poi liberato alcuni delfini di fiume per indagare sulle loro condizioni di salute e capire meglio come mai tra il settembre e il novembre del 2023 ci fu una moria di questi animali: ne furono trovati morti 209 tra il lago Tefé e il lago Coari, lungo il corso di due fiumi affluenti del Rio delle Amazzoni.
    In quei due mesi l’Amazzonia, la regione sudamericana in cui si trova la più grande foresta pluviale del mondo, fu interessata da una grave ed eccezionale siccità ricondotta a “El Niño”, l’insieme di periodici fenomeni atmosferici nell’oceano Pacifico che influenza il clima in gran parte del pianeta. Il livello dell’acqua nel Rio delle Amazzoni e negli altri fiumi della regione calò parecchio e ci furono numerosi incendi. Una conseguenza della scarsità d’acqua nei fiumi fu un inusuale riscaldamento di quella dei laghi: nel Coari si registrò una massima di 34 °C, nel Tefé furono misurati anche 40,9 °C, circa 10 gradi in più della media per quel periodo dell’anno. Si ritiene che siano state proprio queste alte temperature a causare la morte dei delfini – e di molti pesci.
    I delfini dell’Amazzonia appartengono a due diverse specie: ci sono le inia (Inia geoffrensis), che possono raggiungere 2 metri e mezzo di lunghezza e sono i più grandi delfini di fiume del mondo, e i tucuxi (Sotalia fluviatilis), che somigliano ai tursiopi di mare ma sono più piccoli, lunghi al massimo un metro e mezzo. Entrambe le specie sono considerate a rischio di estinzione come tutte le altre specie di delfini di fiume del mondo, danneggiate dall’inquinamento e dallo sfruttamento dei corsi d’acqua. La moria dell’anno scorso riguardò soprattutto le inie.
    Un delfino di fiume morto esaminato da alcuni ricercatori dell’Istituto Mamirauá sulla riva del lago Tefé, il 3 ottobre 2023 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Le inie si distinguono anche per il loro colore rosa, comune anche tra altre specie di delfini di fiume del mondo, come i Sousa chinensis di Hong Kong. Quando nascono hanno la pelle grigia, come la maggior parte dei delfini, ma con l’avanzare dell’età si sbiancano sempre di più: in realtà la loro pelle è bianca ma i vasi sanguigni la fanno apparire rosa (infatti gli individui morti sono bianchi). Si pensa che il colore di questi animali sia dovuto alla torbidità delle acque dei fiumi in cui vivono: restando perlopiù schermati dalla luce del sole, col tempo perderebbero la pigmentazione iniziale.
    L’esame di un delfino, il 19 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Durante le indagini svolte nelle ultime settimane alcuni delfini sono stati temporaneamente catturati per fare dei prelievi di sangue, un’ecografia e altri esami. Non è ancora stato escluso che nella moria dei delfini sia stata coinvolta una qualche sostanza inquinante. Agli individui coinvolti sono anche stati attaccati dei microchip e una specie di marchio di riconoscimento sulle pinne dorsali per permettere future identificazioni, in caso di ricatture o ritrovamento di animali morti.
    Nel corso della spedizione sono anche stati conteggiati gli avvistamenti di delfini per provare ad avere delle stime aggiornate del loro numero. Per il momento si ritiene che la moria del 2023 abbia ridotto la popolazione delle inie del 15 per cento.
    L’occhio di un delfino catturato, il 19 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Miriam Marmontel dell’Istituto Mamirauá per lo sviluppo sostenibile, l’ente di ricerca brasiliano che ha condotto la ricerca, ha spiegato a Reuters che si spera le informazioni ricavate dalle analisi sui delfini forniscano qualche informazione utile per cercare di evitare nuove morie. L’obiettivo dei ricercatori è stabilire un protocollo di azioni da seguire da parte di chi si occupa della conservazione delle due specie per aiutare le popolazioni di delfini in caso di grosse siccità.
    In Amazzonia sta per cominciare la stagione più secca dell’anno, le temperature stanno aumentando e si teme una nuova siccità. Attualmente l’acqua del lago Tefé ha delle temperature attorno ai 30 °C secondo le misurazioni dell’Istituto Mamirauá, ma il livello dell’acqua si sta abbassando.
    Due delfini di fiume che nuotano nel lago Tefé fotografati da un drone, il 17 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)

    – Leggi anche: Le tartarughe del Mediterraneo nidificano sempre più a nord e a ovest LEGGI TUTTO