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    Il diritto del mare ha sempre più limiti

    Caricamento playerPer lungo tempo, prima di essere codificato in una serie di trattati e poi in una Convenzione introdotta dalle Nazioni Unite nel 1982, il diritto internazionale che regola i rapporti tra gli stati in ambito marittimo si basava su una concezione del mare inteso come spazio libero, privo delle regole valide sulla terraferma. Fu inizialmente un principio funzionale agli interessi commerciali e strategici delle potenze coloniali europee, in particolare i Paesi Bassi, la cui supremazia economica all’inizio del Seicento dipese fortemente dai successi della loro marina mercantile e dal potere esercitato lungo le principali rotte d’oltreoceano.Qualsiasi tentativo di regolare i diritti di navigazione in quel contesto era per quelle potenze sostanzialmente sconveniente. Ma dalla seconda metà dell’Ottocento cominciò ad affermarsi una tendenza degli stati costieri a estendere progressivamente la propria giurisdizione sui mari adiacenti. E sia dalla normalizzazione di questa successiva tendenza che dal principio della libertà rimasto valido per il mare più distante dalle coste derivano in gran parte gli istituti del diritto internazionale del mare vigenti ancora oggi, che stabiliscono una serie di delimitazioni più o meno rigide degli spazi marini e regole sui poteri che gli stati possono esercitare su quegli spazi.In un lungo articolo sulla rivista The Dial, Surabhi Ranganathan, ricercatrice inglese e docente di diritto internazionale alla University of Cambridge, ha posto alcune questioni centrali riguardo alle evoluzioni più recenti del dibattito sul diritto del mare e quelle prevedibili nel prossimo futuro. E ha citato diversi esempi di come le categorie e le classificazioni su cui si basa la distinzione tra parti del mare giuridicamente assimilabili alla terraferma e parti che non lo sono siano diventate nel corso del tempo più incerte e problematiche a causa di molteplici fattori.Le innovazioni tecnologiche hanno permesso di rendere terra parte di ciò che prima era mare: è successo per esempio con gli ampi progetti di bonifica nello stretto di Singapore. Gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero anche rapidamente trasformare in mare ciò che prima era terra. E spazi oceanici di scoperta relativamente recente, come le “isole di plastica” e le sorgenti idrotermali, non sono né completamente mare né completamente terra. Questi fenomeni mettono in discussione non soltanto i modi in cui responsabilità e diritti sui diversi spazi del mare sono stati interpretati nei secoli, ma lasciano emergere parti sempre più ampie di questioni indefinite e complicano la nostra stessa immaginazione su cosa sia terra e cosa sia mare.– Leggi anche: La Terra è rotondaL’innalzamento del livello del mare avrà un impatto significativo sui territori più fragili ed esposti, incluse le molte zone portuali del mondo ricavate da attività di bonifica di territori a contatto con gli oceani. Ma in generale è uno dei fenomeni che mettono più a rischio l’esistenza di grandi centri urbani e la sopravvivenza di milioni di persone, tra cui molte che si sono faticosamente stabilite in quelle aree dopo aver già perso altrove la casa e i mezzi di sussistenza.Ci sono poi stati insulari che rischiano di scomparire del tutto, come Tuvalu, le isole Marshall, le Kiribati e le Salomone nell’oceano Pacifico, o le Maldive e le Seychelles nell’oceano Indiano. E la possibilità di una completa estinzione di questi territori solleva questioni giuridiche irrisolte. Se, come scrisse l’esperto australiano di diritto internazionale James Richard Crawford, la presenza di «una comunità territoriale governata» è uno dei criteri da soddisfare affinché uno stato possa esistere, «che fare delle isole che non avranno più comunità territoriali perché il loro territorio sarà stato reclamato dal mare?», si chiede Ranganathan, indicando anche un problema di definizioni. «Quelle popolazioni diventeranno apolidi, per aver perso non la cittadinanza o la nazionalità, ma piuttosto il terreno su cui si trovavano un tempo?».L’atollo di Tarawa, nelle isole Kiribati, il 30 marzo 2004 (AP Photo/Richard Vogel)In anni recenti alcuni stati insulari comprensibilmente preoccupati della propria sovranità e indipendenza a fronte degli effetti del cambiamento climatico hanno esplorato la possibilità di dislocare i propri territori. Nel 2014, dopo il parziale insuccesso di un programma di adattamento sostenuto dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, la Repubblica di Kiribati acquistò 20 chilometri quadrati di territorio perlopiù disabitato nelle isole Fiji pagando 8,77 milioni di dollari alla Chiesa anglicana, giunta in diverse regioni del Pacifico nell’Ottocento attraverso l’espansione dell’Impero britannico e l’attività dei missionari.«Speriamo di non trasferire tutti su quel pezzo di terra, ma se diventasse assolutamente necessario, sì, potremmo farlo», disse l’allora presidente di Kiribati Anote Tong riferendosi ai circa 110 mila abitanti delle isole del paese che potrebbero un giorno abitare nel territorio delle Fiji. Acquisti di questo tipo riguardano tuttavia la proprietà dei territori ma non la sovranità, che deve essere invece discussa con lo stato cedente e su cui di solito è molto più difficile trovare un accordo, come dimostra tra gli altri un caso storico tra l’Australia e la piccola repubblica di Nauru, analizzato dalla giurista australiana ed esperta di cambiamenti climatici Jane McAdam.A lungo colonia dell’Impero tedesco, Nauru divenne alla fine dell’Ottocento uno dei territori governati tramite un mandato della Lega delle Nazioni, l’organizzazione da cui poi nacque l’ONU, e la sua gestione fu affidata all’Australia, alla Nuova Zelanda e al Regno Unito. Dopo aver subito diversi danni ambientali a causa dell’estrazione di fosfato, una sostanza impiegata nella produzione di fertilizzanti e molto presente nei giacimenti del paese, Nauru propose un reinsediamento su una nuova isola. Nel 1963 l’Australia dichiarò la disponibilità a fornire a questo scopo Curtis Island, un’isola di 400 mila metri quadrati nello stato del Queensland, distante circa 3 mila chilometri da Nauru. Ma rifiutò categoricamente di trasferire a Nauru la sovranità dell’isola.Un altro problema posto dalla possibilità di reinsediamento degli stati insulari a rischio di estinzione territoriale, considerando questa estinzione un fenomeno graduale e già in corso, riguarda i confini da usare come riferimento per tracciare altrove i limiti di un eventuale nuovo territorio. Un’ipotesi valutata in anni recenti nel diritto internazionale e sostenuta da diversi paesi e territori dell’Oceania è di “congelare” le linee di riferimento, cioè fissare in modo definitivo nel tempo dei punti sulla base dei quali misurare l’estensione degli stati de-territorializzati.Questo approccio avrebbe il vantaggio di garantire che progressive riduzioni o estensioni dei territori, dipendenti dai confini mutevoli tra terra e mare, non abbiano alcun effetto sui diritti alle risorse reclamati dagli stati che stanno affondando, scrive Ranganathan. Ma ovviamente un eventuale trasferimento di massa risolverebbe solo una parte del problema, dal momento che le persone costrette a lasciare le loro case per l’innalzamento del livello del mare avrebbero comunque bisogno di nuove case e di prospettive per la loro sussistenza e per la sopravvivenza delle loro comunità politiche.– Leggi anche: Adattarsi male al cambiamento climaticoPer come si è sviluppato nel Novecento il diritto del mare ha posto una serie di problemi anche riguardo alla piattaforma continentale, cioè la parte sommersa dei continenti che si estende fino al punto in cui la pendenza del fondale marino aumenta nettamente (in corrispondenza della cosiddetta scarpata continentale). Su questo spazio, considerato da meno di un secolo il naturale prolungamento del territorio degli stati costieri, ciascuno degli stati può esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse minerali e viventi. Solo che alcune coste hanno una piattaforma continentale molto ampia e altre ne hanno una stretta, e quindi per convenzione si considera come zona di sfruttamento esclusivo un’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche (circa 370 chilometri) dalla costa, indipendentemente dalla struttura fisica del fondale e dalla profondità.A portare i paesi costieri verso questa convenzione furono soprattutto due fattori, scrive Ranganathan. Il primo fu la pressione delle compagnie petrolifere e le loro migliorate capacità di compiere estrazioni in acque più profonde, cosa che incoraggiò gli stati a estendere la giurisdizione su tratti più ampi della piattaforma continentale così da poter garantire alle società l’utilizzo esclusivo dei siti di trivellazione. E l’altro fattore fu la pressione degli stati con piattaforme poco ampie, come molti paesi latinoamericani, interessati a tenere in considerazione un criterio di distanza dalla costa anziché uno di profondità del fondale.La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare introdotta nel 1982, che riflette questo orientamento dei paesi, stabilisce che sia possibile per gli stati costieri affermare il controllo sui fondali marini anche oltre il confine convenzionale di 200 miglia nautiche. Ma per poterlo fare è necessario dimostrare a un’istituzione specifica delle Nazioni Unite – la Commissione per i limiti della piattaforma continentale – che la propria piattaforma si estenda oltre quel limite. Se le prove geologiche vengono accettate, la parte ulteriormente qualificata come piattaforma viene posta sotto la giurisdizione dello stato che ha presentato la richiesta e sottratta alle acque internazionali, cioè quelle su cui nessun paese ha giurisdizione né proprietà e a cui tutti hanno libero accesso.Un caso molto noto di disputa sulla piattaforma continentale riguarda parti dell’oceano Artico rivendicate da Canada, Danimarca, Norvegia, Stati Uniti e Russia: tutti paesi che possiedono solo una parte dell’Artide, mentre la maggior parte degli oltre quattro milioni di chilometri quadrati su cui si estende la regione non è sotto alcuna giurisdizione nazionale. I motivi delle rivendicazioni sono sia economici che politici, legati ai giacimenti di petrolio e gas naturale nell’Artico non ancora scoperti, e all’importanza strategica della possibilità di aprire rotte commerciali che potrebbero diventare più percorribili in seguito allo scioglimento dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale.Dopo aver formulato una richiesta alle Nazioni Unite già nel 2002, senza ottenere alcun risultato, nel 2007 la Russia posizionò una bandiera russa sul fondale del Mar Glaciale Artico, come gesto simbolico per reclamare la sovranità su quel tratto. «Questo non è il Quindicesimo secolo. Non puoi andare in giro per il mondo piantando bandiere, e dire: “Rivendichiamo questo territorio”», disse l’allora ministro degli Esteri canadese Peter MacKay contestando l’azione della Russia.Una bandiera russa sul fondale di un tratto del Mar Glaciale Artico, il 2 agosto 2007 (AP Photo/Association of Russian Polar Explorers)Sebbene le aspettative dei paesi siano che la Convenzione e la Commissione possano risolvere dispute come quelle sulla piattaforma continentale, scrive Ranganathan, bisognerebbe tenere presente che molte rivendicazioni in conflitto tra loro sono fondate proprio sul diritto del mare come regolamentato da questi strumenti, in una sorta di circolo vizioso. A questo si aggiunge che la Commissione non può pronunciarsi su rivendicazioni in conflitto tra loro: se più di un paese avanza richieste di possesso e sovranità sulle stesse zone, si devono mettere d’accordo tra loro quei paesi, con la supervisione di tutti i firmatari della Convenzione.Molti problemi sono cioè effetti a lungo termine di orientamenti espressi a monte di quegli accordi, in parte funzionali allo sfruttamento delle risorse naturali e, nello specifico, all’estrazione di combustibili fossili: che è a sua volta in relazione con il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico, origine delle dispute recenti.– Leggi anche: Come stanno cambiando le rotte articheUn fenomeno utile a chiarire quanto la definizione delle responsabilità nel diritto del mare possa essere tanto problematica quanto urgente sono le isole galleggianti di rifiuti di plastica che si raccolgono sulla superficie degli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano, provocando gravi danni ambientali e contaminazioni lungo la catena alimentare. Secondo le stime di uno studio del 2018 la quantità di plastica accumulata nelle acque subtropicali tra la California e le Hawaii ha un peso approssimativo di 79 mila tonnellate e un’estensione di 1,6 milioni di chilometri quadrati (quanto tutto l’Iran, oltre 5 volte l’Italia).Nonostante l’esistenza di diversi accordi che regolano la cooperazione internazionale in materia di protezione dell’ambiente marino, come la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi (Marpol 73/78) e la Convenzione di Londra del 1972, è difficile sia attribuire responsabilità specifiche per il problema delle isole di plastica, sia individuare quali paesi dovrebbero risolverlo nell’interesse collettivo. E non è chiaro nemmeno quanta responsabilità gli stati saranno disposti ad assumersi nel nuovo atteso trattato internazionale per ridurre i rifiuti di plastica che dovrebbe essere completato entro il 2024.Eventuali operazioni di rimozione e bonifica delle aree in cui è raccolta la plastica galleggiante, ricorda Ranganathan, presentano inoltre due grandi problemi pratici. Uno riguarda i costi, così ingenti da aver dissuaso dal sostenerli anche i paesi con una più forte e influente presenza di associazioni ambientaliste. E l’altro riguarda le tecnologie specificamente studiate per questo scopo, che secondo uno studio del 2020 metterebbero a rischio la vita di una quantità di animali compresa tra 0,8 e 40 miliardi per ogni ora di utilizzo, condizionando negativamente il rapporto tra costi e benefici.Un cumulo di rifiuti galleggianti sul lago Potpeć vicino a Priboj, in Serbia, il 22 gennaio 2021 (AP Photo/Darko Vojinovic)Per attirare l’attenzione sulla dimensione del problema della plastica in mare e sulle responsabilità collettive, nel 2017 il gruppo editoriale inglese LADbible e l’associazione statunitense non profit Plastic Oceans International avviarono una campagna piuttosto creativa per chiedere alle Nazioni Unite di riconoscere l’accumulo di plastica presente nel Pacifico come un paese autonomo e indipendente, chiamato Trash Isles (“Isole Spazzatura”). Ne progettarono la bandiera, la valuta, il passaporto e i francobolli, e invitarono le persone a richiederne la cittadinanza: l’appello fu accolto da oltre 225 mila aspiranti cittadini dell’isola, tra cui il famoso divulgatore scientifico inglese David Attenborough e l’ex vicepresidente statunitense Al Gore.In un articolo dedicato all’iniziativa, in cui ne descrivevano le implicazioni paradossali, i responsabili suggerirono che l’isola avrebbe potuto teoricamente soddisfare i criteri di territorialità, sovranità e altri necessari per essere considerata un paese. E diventando un paese delle Nazioni Unite avrebbe potuto chiedere agli altri paesi membri, sulla base del principio 7 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, di intervenire sull’isola «cooperando in uno spirito di partnership globale per conservare, tutelare e ripristinare la salute e l’integrità dell’ecosistema terrestre».– Leggi anche: È difficile sapere dove finisce tutta la plasticaEsistono infine, secondo Ranganathan, altri esempi concreti di attività umane o naturali che descrivono i limiti del diritto del mare nel definire responsabilità e diritti in acque internazionali. Uno di questi sono le reti di cavi sottomarini che, dopo varie evoluzioni ma attraverso vecchie rotte telegrafiche e telefoniche, collegano i continenti fin dalla seconda metà dell’Ottocento: «le arterie nascoste della globalizzazione», come le definisce Ranganathan. Si calcola che poche centinaia di cavi sottomarini, che appartengono perlopiù a grandi aziende private e coprono complessivamente una lunghezza di oltre 1,4 milioni di chilometri, siano attualmente responsabili di quasi tutto il traffico di dati transoceanico.La produzione e la posa di questi cavi ebbe un pesante impatto ambientale fin da subito, definito dallo storico australiano John A. Tully un «disastro ecologico vittoriano». Per ottenere l’isolamento dall’acqua necessario al funzionamento dell’infrastruttura, all’inizio, i fili dei cavi erano avvolti in un tipo di gomma naturale – la guttaperca – ricavata da alberi delle foreste pluviali del Sudest asiatico. Questa necessità, secondo Tully, portò alla distruzione complessiva di circa 88 milioni di alberi fino all’inizio del Novecento, quando la guttaperca cominciò a essere progressivamente sostituita da altri materiali, che ancora oggi comportano comunque costi ambientali estremamente elevati.Una serie di cavi telefonici sottomarini vengono posati lungo un tratto del fiume Charles a Boston, di fronte alla baia del Massachusetts, il 21 aprile 1952 (AP Photo)Oltre alle responsabilità dei costi ambientali esiste anche una questione relativa ai rischi di danni accidentali alla rete, provocati a loro volta dagli altri utilizzi intensivi degli oceani: spedizioni, pesca, estrazione di petrolio, gas e minerali in acque profonde, per esempio. Come esiste anche il rischio di danni provocati intenzionalmente, per atti di terrorismo o in contesti di guerra, o causati da eventi meteorologici estremi legati agli effetti del cambiamento climatico. Secondo Ranganathan e altri esperti il diritto del mare non offre sufficienti protezioni contro tutti questi rischi: perché l’infrastruttura si trova in quella complicata e indistinta zona del diritto a metà tra la proprietà privata e l’interesse pubblico, e perché le leggi sottolineano la libertà di posare cavi ma forniscono indicazioni molti limitate sui diritti e le responsabilità che ne derivano.– Leggi anche: Dobbiamo preoccuparci di più di cavi e tubi sottomarini?Un’altra questione rispetto alla quale gli strumenti forniti dal diritto del mare risultano limitati e inadatti riguarda le sorgenti idrotermali: fratture nelle profondità oceaniche da cui fuoriesce acqua riscaldata e in cui si trovano molti minerali preziosi, scoperte negli anni Settanta in corrispondenza di aree vulcaniche attive. Le sorgenti ospitano ecosistemi molto rari e forniscono sostanze essenziali per microrganismi che per sopravvivere in mancanza di luce solare non utilizzano la fotosintesi ma la chemiosintesi (un processo di conversione di sostanze inorganiche, derivate da particolari reazioni chimiche, in sostanze organiche ed energia).Queste parti del pianeta, che non ricadono sotto alcuna giurisdizione nazionale, rappresentano un punto di interesse per il possibile sfruttamento delle risorse: dalle fratture sgorgano minerali sempre più richiesti dall’industria mondiale, tra cui manganese, rame, ferro, nichel, cobalto, oro e argento, che precipitano e si depositano sul fondale formando lastre e tumuli. Ma rappresentano anche un’opportunità per la ricerca scientifica e una preziosa fonte di informazioni sulle condizioni in cui la vita potrebbe aver avuto origine. Proprio per questo, alcune aree in corrispondenza delle sorgenti idrotermali potrebbero ottenere protezione dall’UNESCO attraverso l’assegnazione del titolo di Patrimonio mondiale dell’umanità.Un veicolo della National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, esplora una formazione idrotermale in acque profonde vicino alle isole Marianne, nell’oceano Pacifico, il 28 aprile 2016 (NOAA/AP)Questo fenomeno naturale, scoperto troppo tardi perché la Convenzione del 1982 potesse tenerne conto e citarlo direttamente, secondo Ranganathan espone in modo molto chiaro una debolezza intrinseca nel trattato: quella di essere basato su «nette classificazioni binarie tra terra e acqua, vita e materia, mobilità e immobilità», e su disposizioni che suddividono l’oceano e il suo contenuto in regimi economici discreti.I minerali dei fondali marini indicati come patrimonio dell’umanità, per esempio, sono posti sotto la giurisdizione dell’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA), un ente indipendente istituito dalla Convenzione, peraltro non interessato a proibire l’estrazione mineraria ma solo a limitarne l’impatto ambientale. E per le forme di vita vige invece il principio di libertà del mare, e cioè le disposizioni generali in materia di pesca e, prossimamente, quelle contenute in un accordo sulla conservazione e l’utilizzo sostenibile della diversità biologica marina delle zone al di fuori della giurisdizione nazionale.È tuttavia improbabile, conclude Ranganathan, che le sorgenti idrotermali possano essere inquadrate correttamente nelle normative. In parte le classificazioni assecondano fin dall’origine, regolandolo, un orientamento incline all’estrazione di risorse. Ma le sorgenti idrotermali sfuggono per loro natura a qualsiasi classificazione. Sono luoghi in cui «solidi e liquidi si mescolano e si fondono in modo dinamico», in cui materia e vita sono entità intrecciate, e «mobilità e immobilità sono distinzioni prive di significato», in attesa di conoscenze più approfondite sui processi che avvengono all’interno delle sorgenti.– Leggi anche: Dragheremo gli oceani LEGGI TUTTO

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    Anna Tatangelo e il fidanzato modello Mattia Narducci fanno sempre più sul serio: domenica con la famiglia di lei, foto

    La cantante 36enne si regala un pranzo al mare col 26enne in totale libertà
    Al tavolo ci sono la sorella maggiore Silvia col marito, l’amica Claudia Ferri e…

    Non c’è alcuna crisi, come vociferato. Anna Tatangelo e il giovane fidanzato modello Mattia Narducci fanno sempre più sul serio. La domenica la 36enne e il 26enne (ha spento le candeline il 20 maggio) la trascorrono con la famiglia di lei. Per la coppia un bel pranzo al mare in totale libertà. Al tavolo con loro, rigorosamente all’perto, visto il caldo, ci sono la sorella maggiore della cantante, Silvia, classe 1979, il marito e alcuni tra gli amici più stretti dell’artista nata a Sora.
    Anna Tatangelo e il fidanzato modello Mattia Narducci fanno sempre più sul serio: domenica con la famiglia di lei
    Anna, mamma di Andrea, 13 anni, avuto dall’ex Gigi D’Alessio, approfitta di una pausa dal tour che la vede impegnata tra prove e ultimi ritocchi e della presenza di Mattia in Italia per godersi una giornata speciale. Narducci, richiestissimo, viaggia frequentemente all’estero per essere protagonista nelle passerelle più prestigiose del mondo del fashion. E’ anche impegnato sul set in numerosi spot o shooting.

    La cantante 36enne si regala un pranzo al mare col 26enne in totale libertà: lui fotografa la donna che ama e condivide sul social con tanto di cuore
    La Tatangelo è un vero splendore: porta un prendisole nero con scollatura provocante e uno spacco vertiginoso. Si lascia ammirare dai follower nelle IG Stories. Fotografa anche il bel fidanzato, poi reposta uno scatto che lui pubblica di lei con tanto di cuoricino.
    Anche Anna immortala il ragazzo a cui si è legata e aggiunge un cuoricino
    E’ la sorella di Anna, Silvia, a svelarli ‘vicini vicini’. Mattia manda baci all’obiettivo dello smartphone che li riprende. Sono complici e affiatati, divertiti, scherzosi, coinvolti dall’atmosfera serena che li circonda. Pizzicati per la prima volta insieme a metà febbraio, durante una vacanza a Parigi, alla fine dello stesso mese sono finalmente usciti allo scoperto anche su entrambi i loro profili. Da allora l’amore è andato in crescendo.
    A svelare la coppia, durante il pranzo a mare, seduta ‘vicina vicina’ al tavolo ci pensa la sorella dell’artista, Silvia, classe 1979
    Al mare con Anna c’è anche Claudia Ferri, 45 anni, make up artist della Tatangelo che all’età di 40 anni ha iniziato il suo percorso di transizione per diventare donna: prima era Claudio. E’ stata protagonista con la sua storia nel brano che la cantante portò a Sanremo nel 2008, “Il mio amico”. Sono legatissime. LEGGI TUTTO

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    I polpi assaggiano con i tentacoli

    Caricamento playerI polpi e i calamari hanno un modo particolare di assaggiare le loro potenziali prede e scoprire se corrispondono ai loro gusti prima di mettersele in bocca. Le immobilizzano con i tentacoli e usano poi le loro ventose per sentirne il sapore e decidere se valga la pena mangiarle. È una caratteristica nota da tempo tra chi studia questi animali, ma due nuove ricerche da poco pubblicate sulla rivista scientifica Nature offrono nuovi dettagli e informazioni su come un tentacolo si comporti più o meno come la nostra lingua, facilitando le attività di caccia e scoperta del cibo di numerose specie di polpi e calamari.I cefalopodi sono molluschi particolari: alcuni sono semplici da studiare perché facilmente osservabili in mare, mentre altri sono più sfuggenti e schivi come i calamari giganti. In particolare i polpi suscitano grande interesse perché hanno una sorta di cervello diffuso in tutto il loro organismo: la quantità di neuroni nei loro tentacoli, per esempio, è superiore a quella del loro cervello vero e proprio. Questa caratteristica fa sì che ogni tentacolo sia indipendente dagli altri e dal cervello stesso, con grandi capacità di autonomia e di controllo sulle proprie strutture.Le più evidenti in molte specie sono le ventose, utilizzate sia per manipolare prede e oggetti, sia appunto per assaggiare ciò che viene in contatto con la loro superficie. Nel corso dell’evoluzione, i polpi e i calamari hanno affinato questa capacità, con specie che sono in grado di distinguere facilmente il sapore dell’acqua in un certo tratto di mare da quello delle prede vere e proprie. Non è una capacità da poco e supera quella olfattiva di altri animali che vivono fuori dall’acqua e che talvolta si fanno ingannare da un profumo molto forte nell’aria, che maschera il sapore di qualcosa.Come spiega nella sua ricerca da poco pubblicata, il biologo Nicholas Bellono dell’Università di Harvard (Stati Uniti) stava studiando con il proprio gruppo di ricerca il polpo a due punti della California (Octopus bimaculoides) quando ha notato la presenza di particolari strutture sospettando che si trattasse di recettori sulla superficie delle cellule che costituiscono i tentacoli. I recettori sono strutture proteiche che rispondono alla presenza di una certa sostanza, portando poi a una risposta della cellula cui sono legati e a un effetto biologico di qualche tipo (i recettori olfattivi, per esempio, sono le proteine che innescano i meccanismi che ci consentono di percepire gli odori).Bellono si era quindi messo in contatto con un neurobiologo, Ryan Hibbs, dell’Università della California San Diego (Stati Uniti) e che in passato aveva condotto studi su alcune strutture proteiche simili. Una analisi del genoma, cioè di tutto il materiale genetico contenuto nelle cellule di quella specie di polpi, aveva portato all’identificazione di 26 geni coinvolti nella produzione di quei recettori, che possono essere moltissimi e diversi tra loro a seconda della combinazione dei 26 geni di partenza contenenti le istruzioni per produrli. Ogni combinazione porta a una diversa capacità per i polpi di assaggiare con i tentacoli ciò che stanno manipolando.Lo studio spiega che i recettori sono tarati in modo da reagire soprattutto alle sostanze grasse e oleose, che non si sciolgono nell’acqua, rendendo quindi più semplici gli assaggi escludendo il sapore dell’acqua marina. Questa caratteristica sembra essere inoltre ideale per assaggiare la pelle dei pesci, di solito grassa, ma anche per distinguere altri animali e sostanze sul fondale dove i polpi passano la maggior parte della loro esistenza.Un’ipotesi affascinante del gruppo di ricerca è che i tentacoli dei polpi siano autonomi nelle loro degustazioni: assaggiano e scoprono che cosa c’è intorno alle loro ventose senza necessità di inviare un segnale al cervello. In pratica i dati raccolti vengono tradotti istantaneamente in informazione, dando al polpo uno strumento più veloce e flessibile per capire che cosa gli accade intorno e cosa sta tenendo tra i tentacoli.Bellono e Hibbs hanno poi provato a ricostruire l’evoluzione di queste caratteristiche nella grande classe dei cefalopodi. Hanno messo a confronto i recettori nei tentacoli dei polpi con quelli del calamaro dal pigiama a righe (Sepioloidea lineolata), notando come quelli di quest’ultimo siano soprattutto specializzati nel riconoscere sapori che per i nostri gusti sono piuttosto amari. Questa specie di calamari potrebbe quindi decidere se nutrirsi o meno di ciò che ha tra i tentacoli in base a questo sapore, forse con un meccanismo meno elaborato rispetto a quello osservato in alcuni polpi.L’ipotesi è che i recettori sui tentacoli abbiano seguito percorsi evolutivi differenti quando i lontani parenti dei polpi e dei calamari iniziarono a differenziarsi circa 300 milioni di anni fa, dando origine alle sottoclassi che possiamo osservare oggi. E proprio nel corso dell’evoluzione le cose sono cambiate, secondo il gruppo di ricerca riflettendo le diverse attività di caccia tra calamari e polpi.In generale, i calamari passano la loro esistenza nuotando a una certa distanza dal fondale e quando sono in prossimità di una preda estendono repentinamente i loro tentacoli per immobilizzarla. Ciò significa che scoprono che sapore ha ciò che hanno cacciato già nel momento in cui c’è quel rapido contatto. I polpi vivono per lo più sul fondale e sondano costantemente l’ambiente che hanno intorno con i tentacoli, quindi recettori più differenziati e raffinati possono essere utili per distinguere ciò che sfiorano con i loro arti. LEGGI TUTTO