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    Referendum, con 12 milioni di voti sfratto a Meloni: il benchmark del Pd

    Ascolta la versione audio dell’articoloAlla vigilia dei referendum su cittadinanza e lavoro, il quorum non sembra più l’oggetto del contendere. L’obiettivo di raggiungerlo resta, ma anche la consapevolezza che sia impresa ardua. In tema di partecipazione, sta così trovando sempre più spazio un altro ragionamento. «La premier Meloni ha preso alle elezioni 12 milioni e 300 mila voti – ha spiegato il capogruppo Pd al Senato, Francesco Boccia – se al referendum andassero a votare 12 milioni e 400 persone, sarebbe un avviso di sfratto alla presidente del consiglio».Centrodestra per l’astensionePerché Giorgia Meloni, come praticamente tutte le forze di maggioranza (ad eccezione di Noi Moderati), sta facendo campagna per l’astensione, per scongiurare il raggiungimento del 50% degli elettori necessario a rendere la consultazione valida. Chi andrà alle urne – è il calcolo del Pd – disattende le indicazioni del governo e quindi, di fatto, lo sfiducia. «Ho detto che andrò al seggio perché sono un presidente del consiglio e penso sia giusto dare un segnale di rispetto nei confronti delle urne – ha spiegato Meloni – Ma non condivido i contenuti dei referendum e non votare è un diritto di tutti. Nella storia della Repubblica italiana tutti i partiti hanno fatto campagne per l’astensione quando non condividevano i referendum».Loading…Oltre 51 milioni gli aventi diritto al votoGli aventi diritto al voto sono oltre 51 milioni. Per il centrodestra conta il quorum. Nessun altro dato sull’affluenza potrà essere letto come un segnale politico. «Se non si raggiunge il 50% il referendum è nullo – ha tagliato corto il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo – Noi pensiamo che su certi temi importanti il luogo migliore per discuterne a livello democratico sia il Parlamento». Anche il presidente del M5s, Giuseppe Conte, non sembra investire troppo sul pallottoliere. «Non mi metto a fare previsioni – ha detto – La democrazia è un concetto che va alimentato ogni giorno, significa partecipazione. I governanti che dicono di non andare a votare stanno dicendo: state tranquilli, non esercitate i vostri diritti, fate fare a noi. Bisogna ribellarci, bisogna andare a votare». LEGGI TUTTO

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    Meloni: ai seggi per rispetto ma l’astensione è un diritto, contrarissima a dimezzare tempi per la cittadinanza

    Ascolta la versione audio dell’articolo«Perché ho scelto di dire che andrò al seggio ma non ritirerò la scheda? Banalmente ho detto che andrò al seggio perché sono un presidente del Consiglio e penso sia giusto dare un segnale di rispetto nei confronti delle urne e dell’istituto referendario. Poi non condivido i contenuti dei referendum e, come sempre nella storia della nazione, quando non si condividono c’è anche l’opzione dell’astensione. Perché come ci insegna un partito serio in Italia non votare al referendum è un mio diritto, è un diritto di tutti, dei lavoratori e non». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni, ospite della seconda edizione de “Il giorno de La Verità”, a Palazzo Brancaccio, a Roma.Meloni: contrarissima a dimezzare tempi per la cittadinanza Nel merito la premier ha dichiarato di essere «contrarissima a dimezzare i tempi della cittadinanza. La legge sulla cittadinanza in Italia è ottima, tra l’altro molto aperta. Noi siamo da svariato tempo tra le nazioni europee che ogni anno concedono il maggior numero di cittadinanze. Cosa diversa è accelerare l’iter burocratico una volta che si ha il diritto per accedere alla cittadinanza: è una cosa che ci interessa e ci lavoriamo. Ma non contribuirò con il referendum a portare a cinque anni i termini per concedere la cittadinanza alle persone straniere in Italia» ha spiegato MeloniLoading…Siamo compatti, a fine legislatura con questo governo Quanto alla tenuta del governo, «che si tenti di osteggiarlo mi sembra la cosa più naturale del mondo, che ci si riesca mi pare difficile, c’è una maggioranza compatta che lavora bene, la compattezza della maggioranza si vede dalla quantità di risposte che è in gradi di produrre al di là delle letture, mi pare che di risposte questo governo ne abbia date molte». E ancora; «Lavoro perché questa legislatura arrivi alla fine con questo governo, è la sfida più grande»Regionali non dirimenti per tenuta legislatura «Contiamo in un risultato positivo alle prossime regionali, si vota per cinque regioni, se dovessimo calcolare questo come un metro oggettivo di dove è la maggioranza degli italiani mi corre l’obbligo di ricordare che, da inizio legislatura, attualmente siamo 11 a tre. Faremo del nostro meglio con la nostra compattezza e la nostra dedizione per presentare delle candidature di persone credibili autorevoli e vincenti ma non è un elemento dirimente per la tenuta della legislatura» ha spiegato ancora la presidente del ConsiglioNessuno screzio, fiera del lavoro di Salvini e Tajani«Non c’è stato alcuno screzio, nessuno bacchettava nessuno non sono una maestra, sono fiera dei miei ministri, fiera del lavoro di Salvini in un ministero complesso e di quello di Tajani in un momento internazionale complesso» ha detto ancora la premier, smentendo alcune ricostruzioni sulla riunione di governo di ieri. LEGGI TUTTO

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    Referendum, tutte le informazioni per sapere come e cosa votare

    C’è un quorum da raggiungere perché il referendum sia considerato valido?Sì. Perchè il referendum sia considerato valido è necessario raggiungere il quorum, ovvero una partecipazione del 50%+1 degli aventi diritto.Cosa succede se non si ritirano le schede?L’elettore che «rifiuta di ritirare tutte le schede», come oggi ha annunciato che farà la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «non può essere considerato come votante e non deve quindi essere conteggiato tra i votanti della sezione. Non concorre cioè al raggiungimento del quorum.Cosa prevede il primo quesito su contratti a tutele crescenti e licenziamenti?La prima scheda è di colore verde. Si interviene su una parte centrale del Jobs act: le regole sui licenziamenti. A ricordare il legame con la riforma voluta da Matteo Renzi è anche il titolo della scheda: “Il contratto di lavoro a tutele crescenti”. Si tratta di una tipologia contrattuale introdotta nel 2015. Si applica ai nuovi assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo di quell’anno, relativamente alle aziende con più di 15 dipendenti. In caso di licenziamento illegittimo, è previsto il superamento del reintegro nel posto di lavoro, sostituito da un indennizzo economico “certo e crescente” commisurato all’anzianità di servizio. Si va da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 36. Il quesito referendario propone di cancellare la norma che consente alle imprese con più di 15 dipendenti di non reintegrare un lavoratore licenziato anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto. Con la vittoria del “sì”, viene abrogato il Dlgs 23/2015 e si torna alla disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, modificato dalla legge Fornero, la legge 92 del 2012. Con la vitoria del “no” resta l’attuale disciplina del Dlgs 23/2015, modificata da alcune sentenze della Corte Costituzionale (le più “impattanti” sono la n.128 e la n.129 del 2024) e da interventi della Corte di Cassazione.Cosa prevede il secondo quesito su licenziamenti e indennità nelle Pmi?Il secondo quesito (scheda arancione) sul lavoro promosso dalla Cgil chiede più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese. In particolare riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti: qui in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto di lavoro. Obiettivo del quesito referendario è innalzare le tutele di chi lavora, cancellando il limite massimo di sei mensilità e lasciando che sia il giudice a determinare il giusto risarcimento senza alcun limite, tenendo conto di diversi aspetti, come la capacità economica dell’azienda, i carichi familiari e l’età del lavoratore.Cosa prevede il terzo quesito sui contratti a termine?Il terzo quesito (scheda grigia) punta a eliminare alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine. I rapporti a termine possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. Con la vittoria del “sì” verrebbero introdotte causali specifiche anche per i contratti a termine di durata inferiore ai dodici mesi. LEGGI TUTTO

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    Meloni alla prova partecipazione, per Schlein test sulla linea del Pd e sulle alleanze

    Ascolta la versione audio dell’articoloTolto di mezzo dalla Corte costituzionale il quesito sull’autonomia differenziata targata Lega – a novembre con la riscrittura, di fatto, della legge Calderoli e a gennaio con lo stop vero e proprio al voto – l’appuntamento referendario dell’8 e 9 giugno ha indubbiamente perso il motore politico più forte, quello che avrebbe potuto mettere in crisi il governo Meloni e segnare forse il punto di inversione di tendenza tanto evocato dalla segretaria del Pd Elly Schlein («se il referendum avrà successo la premier dovrà riflettere sul fatto che il rapporto con il Paese si è definitivamente rotto, come si è già visto alle amministrative», è il refrain di queste ore).Il miraggio del quorum e l’asticella dei 12 milioni di votantiLa verità è che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, nessuno pensa che possa essere raggiunto il quorum del 50% più uno degli elettori (oltre 25 milioni) necessario per validare il referendum. Ed è così che lunedì sera non si conteranno tanto i sì e i no ai cinque quesiti – uno sulla cittadinanza e quattro sul lavoro contro quel che resta del renziano Jobs act – quanto i partecipanti al voto: secondo molti analisti politici per le opposizioni e la Cgil, che hanno promosso il referendum, sarebbe un successo politico se si sfiorasse almeno il 40% (20 milioni), ma nel Pd e nel sindacato di Maurizio Landini si è abbassata prudentemente l’asticella a 12 milioni: lo stesso numero di elettori che alle scorse politiche hanno scelto i partiti del centrodestra.Loading…L’attenzione di Meloni alla partecipazione in vista delle politicheDodici milioni, dunque. Il che sarebbe comunque un segnale di allarme per Giorgia Meloni. E probabilmente la convincerebbe a rompere gli indugi e cambiare la legge elettorale nazionale in modo da mettere il più possibile in sicurezza il vantaggio elettorale che ancora la maggioranza registra nei sondaggi con l’eliminazione dell’aleatoralità dei collegi uninominali e l’introduzione di un premio di maggioranza del 55% per la coalizione che supera il 40% dei voti. Non a caso la premier ha scelto un modo per così dire originale di invitare all’astensione per evitare che il numero dei votanti raggiunga un livello di guardia: andrà al seggio – ha annunciato – ma non ritirerà le schede. Un’astensione di fatto senza però correre il rischio dell’effetto Craxi (nel 1991 il leader socialista invitò ad andare al mare e il referendum sulla legge elettorale passò). Per l’astensione si sono schierati d’altra parte i partiti del centrodestra, da Fratelli d’Italia alla Lega a Forza Italia, con l’eccezione del piccolo Noi Moderati di Maurizio Lupi che invita a votare 5 no.Campo largo in libertà: le posizioni del M5s e dei centristiUna conta tra maggioranza e opposizione, dunque? Non proprio. Il problema, per Schlein, è che le posizioni sono variegate anche all’interno del campo largo, con il M5s di Giuseppe Conte che ha lasciato libertà di voto sul quesito presentato dal segretario di Più Europa Riccardo Magi che mira ad abbassare da 10 a 5 anni il tempo per richiedere la cittadinanza italiana ed è schierato per 4 sì ai referendum sul lavoro. All’opposta sponda del campo largo c’è Azione di Carlo Calenda che al contrario è per il sì al solo quesito sulla cittadinanza. Ma le divisioni sono soprattutto interne allo stesso Pd: a fronte della linea ufficiale ribadita dalla segretaria di 5 sì, come Alleanza Verdi Sinistra e Cgil, la linea prevalente dei riformisti della minoranza è per due sì (cittadinanza e infortuni sul lavoro) e tre no (i quesiti che riguardano vari aspetti del Jobs act).Il niet dei riformisti del Pd sul Jobs act: non abiuriamoLa maggior parte della classe dirigente che dieci anni fa, con Matteo Renzi segretario del Pd e premier, votò convintamente la riforma del lavoro non se la sente insomma di fare pubblica abiura e rivendica quella stagione: tra i nomi, per dire, ci sono l’ex premier Paolo Gentiloni e gli ex ministri Lorenzo Guerini, Graziano Delrio e Marianna Madia. E ci sono anche gli ultrariformisti di LibertàEguale di Enrico Morando, Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini che invitano a votare solo sulla cittadinanza e a non ritirare affatto le altre. Quanto a Renzi, “padre” del Jobs act, un po’ macchinosamente ha dato queste indicazioni di voto: sì al quesito sulla cittadinanza, no al quesito sui licenziamenti e i contratti a tutele crescenti e a quello sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato e libertà di voto sugli altri due quesiti, quello sulla responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e quello sui licenziamenti, e i relativi risarcimenti, nelle piccole imprese. LEGGI TUTTO

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    «Simbolo e nome del M5s sono miei»: Grillo va alla guerra, che cosa rischia Conte

    Ascolta la versione audio dell’articoloBeppe Grillo va alla guerra, e questa volta ci va fino in fondo: a circa sei mesi dal voto dell’assemblea costituente del M5s che ha cancellato la figura del Garante e superato l’ultimo tabù grillino, quello del limite del secondo mandato, dalle parti del fondatore si annuncia «a breve» «un’azione legale per riappropriarsi del simbolo e del nome del M5s».La sentenza di Genova del 2021 e la disputa sulla proprietà del marchio M5sDi Grillo si erano perse le tracce da quando, commentando l’esito della votazione che lo aveva “abolito”, aveva dichiarato che «vedere questo simbolo rappresentato da queste persone mi dà un senso di disagio: fatevi un altro simbolo, il movimento è stramorto ma l’humus che c’è dentro no». Ora ci siamo, l’appuntamento è in Tribunale. Ma a chi appartiene davvero il simbolo del movimento nato nel 2009? L’avvocato Lorenzo Borrè, che negli anni scorsi ha rappresentato gli iscritti esclusi dalle votazioni arrivando ad ottenere il famoso “congelamento” degli organi dirigenti da parte del Tribunale di Napoli tra l’estate del 2021 e la primavera del 2022, non ha dubbi: appartiene al fondatore e Garante tramite l’Associazione Movimento 5 Stelle. La riprova arriva dalla Corte d’Appello di Genova, che con la sentenza del 2021 ormai passata in giudicato relativa alla causa n.56/2020 – una delle tante che hanno tempestato la vita del movimento, emessa nel contraddittorio tra M5s del 2009, M5s del 2012 e M5s del 2017, quello oggi presieduto da Conte – «ha detto la parola definitiva sul punto: nome “movimento 5 stelle” e contrassegno originale appartengono esclusivamente a Grillo». Ecco il punto saliente della sentenza della sezione terza civile: «Dirimente in tal senso è la piana lettura dell’art. 3 del Regolamento ivi riportato, ove testualmente si legge che “il nome del Movimento 5 Stelle viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso”… Non vi è dubbio, come già correttamente argomentato dal Giudice di primo grado, che la diversa lettura data dall’appellante a tale disposizione appaia capziosa in quanto intenderebbe scindere l’uso del contrassegno da quello del nome, quando è evidente che i “diritti di uso”, posti alla fine del periodo, non possono che riferirsi tanto al nome quanto al contrassegno».Loading…Il nodo della scrittura privata e della manleva per GrilloC’è poi la questione della manleva. Se il contratto con cui Grillo riceveva dal M5s ben 300mila euro annui per la sua attività di comunicazione è stato rescisso nei mesi scorsi, resta sul tavolo la scrittura provata con cui Grillo si impegna a non promuovere «alcuna contestazione» nei confronti del M5s per quanto riguarda l’uso del nome e del simbolo, anche se in futuro il logo sarà modificato «in tutto o in parte». La contropartita per Grillo – che si impegna anche a «non prestare collaborazione funzionale e/o strutturale ad altre associazioni che hanno quale finalità quella di svolgere attività in contrapposizione e/o concorrenziale» – è appunto la manleva garantita dal movimento che lo solleva dalle conseguenze patrimoniali derivanti da eventuali cause giudiziarie. Certamente l’esistenza di questa scrittura privata, che non ha limite temporale, lega le mani a Grillo. Ma la decisione di andare in Tribunale significa che il fondatore, per una ragione o per l’altra, ha messo in conto di rinunciare alla manleva («le cause ormai sono pochissime», avrebbe confidato nelle scorse settimane ai fedelissimi). E paradossalmente – nota sempre l’avvocato Borrè – tale scrittura privata è la riprova che nome e simbolo appartengono prorio a Grillo: «Se il simbolo fosse del partito di Conte, infatti, perché riconoscere un corrispettivo per la non contestazione del diritto di utilizzo del contrassegno? E siamo proprio sicuri sicuri che il contratto blinda l’associazione? La prima certezza del Diritto, per chi lo pratica, è che non ci sono certezze assolute».Grillo proprietario? Curreri avverte: i partiti non sono marchi aziendaliMateria per gli avvocati ce ne è. Quel che è certo è che si tratta di un percorso lungo e dall’esito incerto: se Grillo può rivendicare la proprietà del simbolo, Conte punta dalla sua sul fatto che la giurisprudenza negli ultimi anni è cambiata e non considera più i simboli dei partiti alla stregua di marchi aziendali ma piuttosto appartenenti per loro natura alla comunità degli iscritti e dei simpatizzanti. Come sostiene il costituzionalista Salvatore Curreri, esperto di diritto dei partiti: «La tendenza a registrare i simboli dei partiti come marchi è contrastata sia a livello ministeriale, perché in contrasto con la normativa vigente in materia di proprietà industriale e potenzialmente elusiva della disciplina sull’uso dei contrassegni elettorali, sia a livello giurisprudenziale, dove si ritiene che il diritto di proprietà individuale sul marchio non può sacrificare integralmente il diritto al suo da parte di un soggetto collettivo come un partito politico». In particolare, spiega ancora Curreri, il Tribunale di Palermo (sezione imprese, ordinanza 4 marzo 2015) ha stabilito che il simbolo di un partito non può essere considerato alla stregua di un marchio d’impresa «perché espressione dell’identità personale del gruppo di individui che si associano per la condivisione di una determinata idea politica. In definitiva, il simbolo di un partito appartiene non ad un soggetto ma alla comunità politica che in esso si riconosce e che in tal senso può agire in sua tutela secondo l’art. 7 del codice civile».I 5 Stelle di Grillo potrebbero scippare a Conte un terzo dei consensiInsomma, sarà un’estate frizzantina. Ad ogni modo se Grillo, alla fine di quella che si prosepetta come una nuova via crucis giudiziaria, non si accontentasse di scippare a Conte il nome e il simbolo ma volesse correre alle politiche sotto le vecchie gloriose insegne, allora le cose per Campo Marzio potrebbero mettersi male. Antonio Noto, all’indomani del voto della costituente, aveva stimato che se ci fossero due partiti, uno di Conte e uno di Grillo, il 30% degli elettori del M5s sceglierebbe il secondo. Vero che in sei mesi ne è passata di acqua sotto i ponti, ma è anche vero che al tempo del sondaggio di Noto la scelta era tra due partiti “generici”: se Grillo si riappropriasse del simbolo e decidesse di correre con qualcuno della vecchia guardia (Toninelli? Raggi?) le conseguenze potrebbero essere ancora più pesanti per Conte. I simboli, si sa, in politica hanno il loro peso. LEGGI TUTTO

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    Il decreto Pnrr scuola è legge. Assunzioni, stop ai diplomifici e affitti ai fuorisede: ecco le novità

    Ascolta la versione audio dell’articoloVia libera finale della Camera dei deputati al ddl di conversione in legge del decreto Pnrr con 155 voti favorevoli, 78 voti contrari e 4 astenuti. Il provvedimento, sul quale a metà giornata il governo aveva incassato la questione di fiducia, è stato approvato in seconda lettura senza modifiche rispetto al testo approvato dal Senato e diventa quindi legge. Il decreto sarebbe scaduto il 6 giugno.Il testo era stato già approvato dal Senato. Molte le novità previste dal testo: un credito d’imposta per incentivare le imprese all’assunzione di ricercatori e dottori di ricerca. Un incremento di 9,5 milioni del Fondo affitti per gli studenti fuorisede, con particolare attenzione ai più meritevoli e ai diversamente abili. Nuove opportunità contrattuali per i ricercatori. Garanzia di prosecuzione delle attuali procedure concorsuali per i professori ordinari e associati in attesa del via libero definitivo della riforma del reclutamento dei docenti universitari, già approvata in Consiglio dei ministri.Loading…In arrivo 150 milioni per assunzione ricercatori in impreseSi rafforzano gli incentivi per l’assunzione stabile di ricercatori e dottori di ricerca attraverso un credito d’imposta maggiorato di 10.000 euro esteso a tutte le imprese e senza limiti numerici di assunzione per azienda. La misura è finanziata con un Fondo da 150 milioni di euro del Pnrr. L’obiettivo è creare fino a 15.000 posti di lavoro a tempo indeterminato nel settore privato e favorire l’innovazione di aziende e imprese.Più risorse al Fondo alloggiÈ incrementata di 9,5 milioni di euro la dotazione del Fondo affitti per gli studenti fuori sede. Le risorse sono destinate a sostenere i ragazzi con un ISEE sotto i 20.000 euro e che non godono di altri contributi pubblici per l’alloggio. Cambiano anche i criteri di accesso per valorizzare il merito ed evitare le inefficienze registrate negli anni passati: per accedere al beneficio, lo studente non deve aver accumulato più di un anno di fuoricorso.Contrasto ai diplomificiCapitolo scuola. Il provvedimento, su impulso del ministro Giuseppe Valditara, prevede interventi volti a contrastare il fenomeno dei diplomifici. Nello specifico, si introducono limiti più stringenti per l’attivazione delle classi terminali collaterali. Si vieta di sostenere, nello stesso anno, due differenti esami anche in istituti di tipo diverso e si dispone l’obbligo, per tutte le scuole statali e paritarie, di adottare la pagella elettronica, il registro online e il protocollo informatico. LEGGI TUTTO

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    Meloni ha ricevuto il presidente francese Macron a Palazzo Chigi: prove di convergenza su Ucraina e conti Ue

    Ascolta la versione audio dell’articoloSi è concluso intorno alle 22:00 di martedì 3 giugno a Palazzo Chigi, secondo quanto si è appreso, un “lungo” incontro bilaterale tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron. Il faccia a faccia è durato quasi tre ore. Al termine, una cena di lavoro allargata alle delegazioni.«È il parterre delle grandi occasioni, c’è molto interesse per questo bilaterale» ha scherzato Meloni rivolta al “plotone” di fotografi poco prima di accogliere a Palazzo Chigi Macron. Con grandi sorrisi, le mani strette a lungo, baci sulle guance e qualche parola sussurrata all’orecchio. A dividerli ci sono le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, i formati con cui approcciare a livello internazionale il cammino verso la pace e pure l’atteggiamento da tenere con Donald Trump sui dazi, per citare solo gli ultimi dossier su cui sono state macroscopiche le distanze tra Roma e Parigi. A unirli, la necessità di mettere in campo strumenti Ue per finanziare la difesa. Sia l’Italia sia la Francia sono Paesi caratterizzati da un elevato debito pubblico.Loading…Il “momento del disgelo”Ma ora è il momento del disgelo. E proprio per appianare divergenze finora complicate da ricomporre, e verificare che si possa «procedere insieme sulle questioni essenziali», come ha fatto sapere alla vigilia l’Eliseo, il presidente francese ha promosso la sua visita in Italia. Dedicata esclusivamente al bilaterale con la premier – che dura a lungo, oltre due ore – seguito da una cena di lavoro. Una tappa romana necessaria, aveva spiegato sempre l’Eliseo, per dare il tempo a Macron e Meloni di «parlare e approfondire» le materie più urgenti (c’è anche il Medio Oriente, tra l’altro, a vedere i due governi su posizioni non proprio allineate).Tra i due il colloquio sarà franco, e la premier, stando ai meloniani, chiederà al capo di una nazione che ha definito “amica”, oltre che alleata, di evitare di incorrere ancora in episodi, come l’oramai famigerata foto di Tirana, che hanno reso plastico lo scontro. «Pari dignità» se si vuole andare d’accordo, il messaggio recapitato al presidente francese, che si intrattiene a Palazzo Chigi fino a sera. Poi la ripartenza per Parigi, senza dichiarazioni alla stampa, e senza passaggi al Quirinale, che certo non può che approvare il riavvicinamento tra i due e che anzi, secondo alcuni avrebbe favorito l’incontro.Poco prima di ricevere il francese, Meloni aveva avuto uno scambio di circa un’ora con Robert Fico. Su Gaza e della necessità di un “cessate il fuoco” che vale altrettanto per Kiev. E che non tutti i Paesi europei, nella visione del primo ministro slovacco, sembrano volere davvero, convinti che «continuare la guerra sia il modo per danneggiare la Russia». Col leader nazionalista di Bratislava la premier aveva parlato anche della Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina – che si terrà a Roma a luglio – per la quale confida in una nutrita presenza internazionale. Magari anche dello stesso Macron. Vanno poste «le basi» per un «rafforzamento delle relazioni» tra due nazioni «fondatrici dell’Unione», avevano fatto sapere anche fonti italiane, sottolineando i «profondi rapporti bilaterali» e la «collaborazione economica di livello strategico» – magari sbloccando quel Trattato del Quirinale che, al di là dei contenuti, ben rappresenta la sintonia politica tra due paesi cugini. Sul tavolo anche nuove integrazioni tra le due economie con un focus su ricerca e tecnologie d’avanguardia. Ma si guarda anche alle comuni sfide europee, a partire dall’automotive, capitolo su cui Roma confida in una triangolazione con Parigi e Berlino. Alla premier italiana, oltre alla competitività, stanno a cuore anche i dossier difesa e migranti, senza scordare il “rafforzamento delle relazioni transatlantiche”. Il tutto, viene spiegato, con l’obiettivo di costruire “un’Europa più sovrana, più forte e più prospera”. Sul tavolo anche le modalità per reperire “le ingenti risorse” necessarie a finanziare le priorità strategiche europee. Con un “mix” che secondo Roma deve prevedere investimenti privati e fondi comuni. LEGGI TUTTO

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    Campo largo diviso dai ballottaggi al referendum: Schlein verso un week-end di passione

    Ascolta la versione audio dell’articoloUniti si vince! È passata poco più di una settimana dalla vittoria al primo turno del centrosinistra in formato extralarge (dal M5s ad Avs ai centristi di Azione e Italia Viva passando naturalmente per il Pd) a Genova con la civica Silvia Salis e a Ravenna con il dem Alessandro Barattoni. Eppure sembra ma già un’altra era. Basta volgere lo sguardo a Matera e Taranto, gli altri due capoluoghi dove invece si andrà al ballottaggio domenica e lunedì.A Matera il «niet», a Taranto il «ni» del M5s ai candidati demNella città lucana il dem Roberto Cifarelli, in testa al primo turno con oltre il 40% dei voti, non ha ricevuto né riceverà l’endorsement del candidato del M5s Domenico Bennardi (“non appoggeremo nessuno né faremo apparentamenti, lasciamo libero arbitrio ai nostri elettori”, si era premurato di dichiarare subito dopo aver incassato circa l’8% dei voti). E a Taranto il dem Piero Bitetti, avanti con quasi il 40% dei voti, è ancora in attesa dell’endorsement della candidata del M5s, la giornalista Annagrazia Angolano (10%). «Lo ribadisco: non c’è accordo né apparentamento con il candidato sindaco Bitetti, io resterò all’opposizione», ha detto nelle scorse ore Angolano. Lasciando tuttavia aperta la porta all’ipotesi di invitare gli elettori a votare per Bitetti se quest’ultimo dovesse accogliere tutta una serie di punti «per il bene della città».Loading…Almeno cinque sfumature di rosso al referendum Segnali che ricordano alla segretaria dem Elly Schlein, se ce ne fosse ancora bisogno, la resistenza del M5s a integrarsi in una alleanza stabile e l’ancor più forte resistenza a convergere su candidati del Pd. Ma quella dei ballottaggi non sarà l’unica prova del primo week end di giugno per Largo del Nazareno. Assieme ai ballottaggi si voterà anche per i cinque referendum rimasti in piedi dopo che la Corte costituzionale ha spazzato via il quesito sull’autonomia differenziata targata Lega: quello sulla cittadinanza per abbassare da 10 a 5 anni il tempo di residenza per la richiesta, quello sugli infortuni di lavoro e i tre che cancellano quel che resta del renziano Jobs Act. E anche qui le opposizioni di presentano in formazione per così dire libera: il leder del M5s Giuseppe Conte ha lasciato libertà di coscienza sulla cittadinanza e si è espresso per il sì sugli altri quattro quesiti, il contrario del leader di Azione Carlo Calenda. E se la linea ufficiale del Pd schleiniano è per cinque sì, ad essere diviso è lo stesso Pd. La linea prevalente dei riformisti della minoranza, che non se la sentono di abiurare la riforma del lavoro che dieci anni fa fu sostenuta da tutto il partito, è per due sì (cittadinanza e infortuni sul lavoro) e tre no (i quesiti che riguardano vari aspetti del Jobs act, appunto). Ma c’è anche chi, tra i dem, è per il solo voto favorevole sulla cittadinanza e per il non ritiro delle altre quattro schede. Con l’ex premier Paolo Gentiloni che addirittura non ha deciso se andare a votare. E con l’ex premier Matteo Renzi, “padre” del Jobs act, che un po’ macchinosamente ha dato queste indicazioni di voto: sì al quesito sulla cittadinanza, no al quesito sui licenziamenti e i contratti a tutele crescenti sui licenziamenti e a quello sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato e libertà di voto sugli altri due quesiti, quello sulla responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e quello sui licenziamenti, e i relativi risarcimenti, nelle piccole imprese.Il timore della bassa partecipazione: obiettivo del Nazareno 12 milioniMa a preoccupare Schlein, più che il dissenso interno, è il punto in cui si fermerà l’asticella della partecipazione al voto: dato ormai per perso il quorum del 50% più uno degli aventi diritto (oltre 25 milioni di persone), l’obiettivo è quello di portare al voto circa 12 milioni di persone, ossia lo stesso numero di elettori che alle ultime politiche hanno scelto il centrodestra. Un segnale al governo, insomma, che tuttavia si trasformerebbe un (brutto) segnale il Pd e il centrosinistra se la partecipazione dovesse fermarsi sotto o attorno ai 10 milioni.Divisi pure per Gaza: la piazza di Roma e l’evento di MilanoCome se non bastasse, a segnare le divisioni sinistra resta sempre la politica estera. Superando le divisioni sull’Ucraina, con il M5s e Avs ancora fermi nel no all’invio di armi, Schlein è riuscita a riunirsi con Conte e con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli sotto la bandiera di Gaza. Ma le iniziative sono subito diventate due: quella di Pd, M5s e Avs a Roma il 7 giugno e il contro-evento di Milano organizzato da Azione e Italia Viva in un teatro. A impedire un’unica manifestazione unitaria sono stati, dal punto di vista dei centristi, l’indisponibilità a esplicitare nella piattaforma scritta a sinistra una più dura condanna di Hamas nonché il timore che l’impronta data si presti ad accuse di antisemitismo. Senza un accordo sul punto, Renzi e Calenda hanno deciso di dissociarsi organizzando l’evento milanese. Con la conseguenza che tutta l’area riformista del Pd ha annunciato di partecipare a entrambe le iniziative, così come i radicali di Più Europa. LEGGI TUTTO