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    Dopo molti anni c’è un nuovo promettente antibiotico

    Un nuovo tipo di antibiotico si è rivelato molto promettente nel trattare un batterio che causa spesso infezioni gravi, soprattutto in ambito ospedaliero, e che ha una forte resistenza agli antibiotici tradizionali. La scoperta è stata annunciata con due ricerche pubblicate sulla rivista scientifica Nature, che raccontano il lavoro dei gruppi di ricerca che se ne sono occupati per conto di Roche, azienda farmaceutica e di diagnostica svizzera tra le più grandi e importanti al mondo. Il nuovo antibiotico dovrà superare i test clinici per verificarne efficacia e sicurezza, quindi non sarà disponibile a breve, ma secondo gli esperti potrebbe rivelarsi molto importante nel trattare infezioni batteriche pericolose specialmente per le persone fragili.L’Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi (CRAB) è un batterio che può provocare gravi infezioni proprio a causa della sua alta resistenza in particolare ai carbapenemi, una classe di antibiotici con un ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea”, cioè trattamenti da adottare quando tutti gli altri hanno fallito. I batteri tendono a mutare facilmente in modo da resistere agli antibiotici, oppure occupano gli spazi lasciati dalle specie più esposte all’azione antibiotica: se gli antibiotici vengono usati estensivamente, come è avvenuto per decenni, si riduce via via la loro efficacia rendendo alcuni tipi di batteri più resistenti ai trattamenti disponibili. Questa “antibiotico-resistenza” è diventata un problema globale e pone seri problemi per il trattamento di infezioni batteriche che si possono rivelare letali.
    I CRAB hanno inoltre la capacità di resistere a lungo fuori dall’organismo, anche in ambienti relativamente secchi, e di conseguenza riescono a diffondersi facilmente tra le persone. Negli ospedali l’infezione può essere causata per esempio dai sistemi di ventilazione, se privi di purificatori adeguati, oppure dal contatto con superfici contaminate. I CRAB causano soprattutto polmoniti e sepsi (una anomala ed eccessiva risposta immunitaria all’infezione) che nei pazienti con altri problemi di salute possono rivelarsi letali, specialmente se in mancanza di una buona risposta agli antibiotici.
    I batteri sono organismi unicellulari, cioè costituiti da una sola cellula, e la maggior parte degli antibiotici scoperti e sviluppati fino agli anni Settanta (sostanzialmente gli unici di cui disponiamo) agisce nel citoplasma, la parte interna del batterio delimitata dalla membrana cellulare interna ed esterna. Gli antibiotici scoperti nel tempo appartengono quasi tutti a una quantità limitata di classi ed è raro che se ne aggiungano di nuovi tipi, con funzionamenti diversi.
    Consapevoli delle grandi limitazioni che da decenni hanno impedito di identificare nuovi antibiotici efficaci, i gruppi di ricerca si sono messi al lavoro esaminando decine di migliaia di molecole per individuare quelle che mostravano almeno un minimo di attività antibiotica. L’analisi ha permesso infine di identificare una molecola di partenza su cui lavorare per creare il nuovo antibiotico, il cui principio attivo è stato chiamato zosurabalpin (se supererà i test clinici, sarà venduto con un nome commerciale diverso) ed è altamente specifico nei confronti di Acinetobacter baumannii.
    Il zosurabalpin ha la capacità di limitare un processo molto importante che avviene all’interno del batterio e cioè il trasporto tramite un complesso di proteine (LptB2FGC) di sostanze dall’interno della cellula verso lo spazio tra le due membrane (“periplasma”) che servono a rafforzare le sue protezioni dagli agenti esterni. Compromettendo il sistema di trasporto, si verifica un accumulo all’interno del batterio intossicandolo e facendolo morire. È un approccio diverso da quello seguito con altri antibiotici e sembra funzionare bene, almeno nei test condotti finora in laboratorio: sia in vitro – quindi in contenitori in cui erano presenti colonie di Acinetobacter baumannii – sia in vivo con test su topi per i quali è stato possibile trattare con efficacia polmonite e sepsi, che avrebbero altrimenti causato la loro morte.
    Dopo le verifiche in laboratorio, Roche ha avviato i primi test clinici per valutare la sicurezza del nuovo antibiotico, in vista dei prossimi test che saranno invece orientati a verificare l’efficacia del zosurabalpin. Il suo meccanismo di azione è particolare perché interviene nella parte più periferica del batterio e non direttamente nel citoplasma, di conseguenza dovrebbe mostrare una buona efficacia e ridurre il rischio che il batterio accumuli mutazioni che gli consentano di evitare l’accumulo delle proteine che non riesce a trasportare verso il periplasma. Questa eventualità non può comunque essere esclusa e in laboratorio sono emersi casi di mutazioni che hanno ridotto sensibilmente l’attività antibiotica.
    Un altro problema che potrebbe presentarsi è legato alla capacità di A. baumannii di potere fare a meno, almeno per un certo periodo di tempo, del trasporto di proteine verso le proprie membrane cellulari. In alcuni casi il batterio riesce infatti a interrompere la produzione di quelle proteine, evitando proprio che il loro accumulo lo porti a intossicarsi e a morire. La riduzione del trasporto rende comunque meno infettivo il batterio e di conseguenza la capacità stessa di A. baumannii di produrre grandi colonie, che portano poi alle polmoniti difficili da trattare.
    Al di là del caso specifico, il nuovo antibiotico segna soprattutto l’esplorazione di un nuovo approccio per contrastare i batteri fermandosi alla loro parte periferica e, visto che diversi altri utilizzano un sistema simile di trasporto, in futuro potrebbero essere sviluppati antibiotici contro altre specie batteriche. Tra i possibili obiettivi potrebbero esserci Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa, le cui infezioni non sempre vengono trattate con successo utilizzando i tradizionali antibiotici.
    L’approccio seguito con il zosurabalpin dovrebbe inoltre rendere possibile lo sviluppo di trattamenti altamente specifici, perché l’antibiotico è in grado di intervenire quasi esclusivamente su A. baumannii. Questo significa che la sua somministrazione non dovrebbe portare alla distruzione della flora batterica (il “microbioma”), cioè del complesso di batteri che vivono nell’intestino e che svolgono un ruolo centrale nei processi digestivi e per l’assorbimento delle sostanze nutrienti da parte del nostro organismo. I comuni antibiotici hanno spesso l’effetto collaterale di distruggere anche i batteri che ci sono utili, rallentando di conseguenza il processo di guarigione.
    I risultati dei primi test clinici condotti sul zosurabalpin saranno comunicati nel corso di quest’anno, ma i test proseguiranno con le altre fasi per diverso tempo. Roche dovrà poi presentare tutta la documentazione sui test eseguiti alle autorità di controllo come la Food and Drug Administration negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali nell’Unione Europea, che se non riscontreranno anomalie daranno la loro approvazione per l’impiego dell’antibiotico. Il ricorso allo zosurabalpin sarà probabilmente molto limitato e indicato per i casi in cui non hanno funzionato altri approcci terapeutici, proprio per evitare che si verifichi velocemente una resistenza batterica anche al nuovo antibiotico.
    Infine, dovranno essere anche concordati prezzi e forniture del zosurabalpin, un aspetto centrale perché non sempre per le aziende farmaceutiche è conveniente lo sviluppo di nuovi antibiotici. La fase di ricerca e dei test clinici può comportare investimenti intorno al miliardo di euro, per un prodotto che viene poi utilizzato solo in casi estremi e che magari porta a ricavi di meno di 100 milioni di euro all’anno. LEGGI TUTTO

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    C’è un altro farmaco contro l’obesità

    La Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, ha approvato il Zepbound, un nuovo farmaco contro l’obesità prodotto dall’azienda Eli Lilly che farà concorrenza al Wegovy, il farmaco molto discusso e richiesto negli ultimi mesi per trattare la medesima condizione. L’approvazione è avvenuta contestualmente a quella dell’Agenzia regolatrice per i medicinali e i prodotti sanitari del Regno Unito, a conferma della grande attenzione intorno ai farmaci contro l’obesità, un problema sanitario che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha ormai raggiunto «proporzioni epidemiche» con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno.– Ascolta anche: L’obesità è una questione mondialeZepbound non è tecnicamente un nuovo farmaco: il suo principio attivo (tirzepatide) era già stato approvato in precedenza come trattamento contro il diabete con il nome commerciale Mounjaro, disponibile anche nell’Unione Europea. Il suo sviluppo era iniziato sei anni fa con una sperimentazione clinica che aveva coinvolto circa 300 persone affette da diabete di tipo 2 (la forma più diffusa della malattia e la cui causa principale è spesso l’obesità) che avevano assunto il farmaco per tre mesi. L’obiettivo era trattare il diabete, ma dal test era emerso che le persone volontarie avevano perso almeno il 13 per cento della loro massa corporea. Lo studio fu seguito da una serie di test clinici di maggiore durata, circa 72 settimane, e con il coinvolgimento di oltre 2.500 persone con problemi di obesità.Lo scorso anno Eli Lilly aveva annunciato i risultati, segnalando come la metà dei pazienti che avevano ricevuto il dosaggio più alto di tirzepatide una volta alla settimana avesse perso almeno il 20 per cento della massa corporea, un esito senza precedenti nella perdita di peso per un farmaco di quel tipo. Tra il 2017 e il 2022 l’azienda aveva accelerato la ricerca e lo sviluppo del principio attivo, focalizzandosi sull’obesità e facendo grandi investimenti sia per condurre test clinici in parallelo sia per ingrandire la propria capacità produttiva, scommettendo sul fatto di ricevere un’autorizzazione dalla FDA per l’utilizzo del farmaco.I dati conclusivi dei test clinici, consultati dalla FDA per valutare l’approvazione, dicono che le persone che hanno assunto Zepbound hanno perso in media il 18 per cento della propria massa corporea, un risultato paragonabile al 15 per cento ottenuto con il Wegovy (semaglutide). Anche quest’ultimo era stato sviluppato come farmaco contro il diabete ed è venduto come Ozempic per il trattamento di questa malattia, mentre il nome commerciale Wegovy riguarda una versione con un diverso dosaggio specificamente venduta per trattare l’obesità.Negli ultimi mesi la domanda di Wegovy è diventata molto alta al punto che Novo Nordisk, l’azienda danese che lo produce, non riesce a soddisfare le tante richieste con una conseguente carenza del farmaco e di Ozempic. Il processo produttivo richiede tempo perché Wegovy è una preparazione da iniettare. Anche Zepbound deve essere iniettato e questo oltre a complicare la produzione rende meno pratico l’utilizzo da parte dei pazienti. Sia Novo Nordisk sia Eli Lilly sono al lavoro per sviluppare una versione dei loro farmaci per uso orale, in modo da aumentare la loro capacità produttiva e raggiungere un maggior numero di pazienti. I test clinici della versione orale di Zepbound sono già in corso.Secondo esperti e analisti, i farmaci di nuova generazione contro l’obesità sono una delle più grandi occasioni per le aziende farmaceutiche, anche considerato l’aumento delle persone con questa condizione in tutto il mondo. Il loro impiego è comunque vincolato a una diagnosi medica di obesità o di forte sovrappeso con alcune condizioni di salute tipiche delle persone obese. Come tutti i farmaci, anche Zepbound e Wegovy hanno effetti collaterali e devono essere somministrati sotto supervisione medica, nell’ambito di un trattamento che comprenda anche una modifica degli stili di vita.Attualmente Zepbound non è disponibile nell’Unione Europea, ma Eli Lilly ha presentato domanda per l’approvazione all’Agenzia europea per i medicinali. L’approvazione negli Stati Uniti di solito implica una rapida autorizzazione anche in Europa. LEGGI TUTTO

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    Abbiamo usato per anni farmaci contro il “naso chiuso” inefficaci

    Dopo anni di studi, test clinici e ricorsi, la scorsa settimana una commissione della Food and Drug Administration (FDA, l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) ha definito inefficaci i farmaci orali che contengono fenilefrina, venduti da quasi vent’anni come una soluzione per alleviare la congestione nasale dovuta al raffreddore e all’influenza. I farmaci che la contengono sono molto diffusi negli Stati Uniti, ma alcune versioni simili sono vendute anche in Europa e in Italia, insieme ad altri principi attivi: come il Tachifludec, il prodotto da banco contenente fenilefrina per uso orale più venduto e pubblicizzato proprio per le sue proprietà decongestionanti.Sulla base delle conclusioni della commissione, la FDA dovrà decidere che cosa fare dei farmaci di questo tipo, che secondo la stessa agenzia negli ultimi anni hanno portato a vendite annuali intorno agli 1,7 miliardi di dollari, numero che probabilmente sottostima l’effettivo giro di affari di questi medicinali. In Italia si stima che nel 2022 siano stati venduti tra 3,5 e 4 milioni di confezioni di farmaci orali con fenilefrina indicati come decongestionanti. In entrambi i casi sono volumi di vendite ingenti per un principio attivo sul quale c’erano forti dubbi per lo meno sul suo impiego per via orale già da tempo.La fenilefrina era stata approvata dalla FDA a metà degli anni Settanta, ma aveva iniziato a essere presente nei farmaci contro il “naso chiuso” soprattutto dopo il Duemila, in seguito alla decisione di imporre maggiori limitazioni all’utilizzo della pseudoefedrina, una molecola dalla provata efficacia nel ridurre la congestione nasale. La decisione di limitarla, prima a livello statale e poi federale, derivava dal tentativo di ridurre la produzione illegale di alcune sostanze come le metanfetamine sfruttando i composti della pseudoefedrina. Messe davanti alle limitazioni che avrebbero reso più complicata la vendita dei loro prodotti, varie aziende farmaceutiche decisero di passare alla fenilefrina, nonostante circolassero già molti dubbi sull’efficacia della molecola nei prodotti orali (l’efficacia della molecola negli spray nasali è ancora dibattuta, invece).Le farmacie iniziarono a consigliare i decongestionanti con fenilefrina ai propri clienti e alcuni segnalarono ai loro medici di non avere trovato giovamento dalla terapia. Tra questi c’era Randy Hatton, oggi professore di farmacia all’Università della Florida, che fece richiesta per ottenere la documentazione utilizzata dalla FDA che aveva portato all’approvazione per quell’uso del principio attivo negli anni Settanta. Dall’analisi del materiale emerse che la FDA si era basata su 14 studi e che cinque di quelli che riportavano esiti positivi erano stati effettuati dallo stesso centro di ricerca, con risultati migliori rispetto alle altre ricerche. Escludendo quei cinque studi, la fenilefrina per uso orale ai dosaggi studiati non sembrava essere un decongestionante particolarmente efficace.Gli studi erano comunque datati ed era difficile trarre qualche conclusione più solida. Nel 2007 Hatton presentò insieme ad alcuni colleghi una petizione alla FDA, chiedendo che fosse rivista la dose di fenilefrina da impiegare arrivando a un dosaggio tale da sortire qualche effetto. La richiesta non era quindi di interrompere l’impiego della molecola, visto che il riesame delle analisi condotte negli anni Settanta aveva evidenziato qualche stranezza, ma nulla che facesse mettere completamente in dubbio il processo di approvazione o l’efficacia in assoluto della fenilefrina.In seguito alla petizione la FDA attivò un nuovo gruppo di lavoro per fare il punto sulla situazione. Furono presentati alcuni dati raccolti da un’azienda farmaceutica – poi confluita dentro Merck (al di fuori del Nordamerica è nota col nome Merck Sharp Dohme o MSD) – che voleva utilizzare la fenilefrina in un proprio prodotto contro le allergie. I dati erano a dir poco deludenti: il gruppo di ricerca per conto dell’azienda farmaceutica aveva rilevato che dopo l’ingestione buona parte della fenilefrina veniva disgregata nell’apparato digerente, con bassissime percentuali (intorno all’1 per cento) di principio attivo che finiva poi in circolazione nel sangue. La quantità di fenilefrina che raggiungeva le mucose nasali era quindi trascurabile al punto da non poter intervenire per ridurre la congestione. Erano stati inoltre segnalati studi nei quali era emerso come la fenilefrina non fosse meglio di una sostanza che non fa nulla (placebo) nel trattare la congestione nasale dovuta alle allergie da pollini.Nonostante i nuovi elementi, i lavori della commissione consultiva si conclusero senza decisioni sulla fenilefrina per uso orale: i farmaci che la impiegavano come decongestionanti potevano continuare a essere venduti, ma si richiedevano nuovi studi per capire se dosi maggiori del principio attivo portassero a qualche risultato, come già richiesto nella petizione inviata da Hatton e colleghi.I più interessati a proseguire le ricerche erano gli scienziati di Merck, alla ricerca di un prodotto per trattare le allergie. Effettuarono due test clinici i cui risultati furono pubblicati nel 2015 e nel 2016 dai quali emerse che anche aumentando molto i dosaggi, fino a quattro volte, non si riscontravano effetti nel ridurre la congestione nasale.Dopo la pubblicazione di quegli studi, Hatton e colleghi presentarono una nuova petizione alla FDA che ha infine portato alle conclusioni della scorsa settimana di un nuovo gruppo di lavoro dell’agenzia. Dei suoi sedici componenti, tutti hanno votato a favore del parere non vincolante sull’inutilità della fenilefrina. Sulla base di questa indicazione, la FDA nei prossimi mesi deciderà che cosa fare, ma secondo gli esperti appare improbabile che non siano assunte decisioni più incisive sulla questione rispetto al passato.Le decisioni della FDA potrebbero avere qualche conseguenza anche nell’Unione Europea, dove la responsabilità sui farmaci è dell’Agenzia europea per i medicinali e delle agenzie nazionali, come l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) in Italia. Nell’Unione Europea sono venduti vari prodotti decongestionanti che oltre alla fenilefrina comprendono altri principi attivi, come per esempio il paracetamolo o antinfiammatori non steroidei. In alcuni casi queste altre molecole hanno un blando effetto decongestionante, legato alla loro capacità di ridurre l’infiammazione: un minimo risultato c’è, ma non è legato alla fenilefrina.A differenza degli Stati Uniti, nell’Unione Europea sono inoltre reperibili con maggiore facilità i farmaci che contengono pseudoefedrina, la cui capacità decongestionante è nota da tempo. La molecola è presente in numerosi prodotti da banco come Actigrip e Aspirina Influenza e Naso Chiuso in Italia, con chiare indicazioni sui potenziali effetti indesiderati legati alla pseudoefedrina. Nel nostro paese questo tipo di farmaci ha fatto registrare più del doppio delle vendite rispetto a quelli con fenilefrina.In futuro anche la pseudoefedrina potrebbe essere limitata nell’Unione Europea come negli Stati Uniti, ma per motivi diversi. A febbraio di quest’anno, l’EMA ha infatti avviato una revisione in seguito a un piccolo numero di casi in cui l’assunzione di farmaci contenenti la molecola è avvenuta in persone che hanno sofferto di alcune patologie ai vasi sanguigni cerebrali. La valutazione è ancora in corso e richiederà del tempo per analizzare tutti i dati disponibili, le segnalazioni da parte della farmacovigilanza e le conoscenze maturate sulla pseudoefedrina. Al termine del processo, se necessario, la Commissione Europea adotterà nuove regole vincolanti per tutti gli stati membri. La procedura viene svolta per numerosi principi attivi e non sempre porta a nuove regole e limitazioni. LEGGI TUTTO

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    Gli Stati Uniti non lasciano in pace i limuli

    Negli Stati Uniti continuano a essere estratte grandi quantità di sangue blu dai limuli per effettuare test di sicurezza sui prodotti farmaceutici, nonostante sia disponibile ormai da tempo un’alternativa sintetica impiegata soprattutto in Europa. L’alta domanda del sangue dei limuli – che sono imparentati più con scorpioni, zecche e ragni che con i granchi – ha un forte impatto sulla popolazione di questi animali e sugli ecosistemi marini, anche perché la loro pesca non è sempre regolamentata a sufficienza.L’utilità del sangue dei granchi in ambito farmaceutico fu scoperta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal ricercatore statunitense Frederik B. Bang, che spiegò come la sostanza fosse utile per immobilizzare i batteri, senza ucciderli. Nel sangue del limulo c’è infatti un composto chimico che rende possibile l’identificazione dei batteri: la sostanza si aggrega intorno a loro e crea una sorta di barriera, evitando che si formi una colonia batterica più grande. Per questo il composto viene solitamente indicato come “coagulogen” e negli anni è diventato sempre più importante per le aziende farmaceutiche, perché rende possibile l’identificazione di contaminazioni batteriche nelle sostanze che dovranno entrare in contatto con il nostro organismo, come per esempio un vaccino. Se nella soluzione da testare si forma un coaugulo dopo avere inserito il coagulogen, significa che questa è contaminata e che deve essere scartata.Gli Stati Uniti sono tradizionalmente tra i principali produttori di sangue blu, anche perché per molto tempo i limuli abbondavano lungo la costa orientale del paese, quella che dà sull’oceano Atlantico. Gli animali vengono raccolti a mano dalle spiagge, oppure pescati dai fondali utilizzando le reti. Dopo essere stati ammassati a centinaia, vengono trasportati agli impianti che si occupano di effettuare il prelievo del loro sangue. In ogni limulo viene inserito un lungo ago fino al suo cuore e viene avviata l’estrazione, con gli animali ancora vivi. La procedura porta a estrarre circa la metà del sangue in circolazione in ogni limulo.Al termine dell’estrazione, gli animali vengono restituiti ai pescatori, che hanno il compito di metterli nuovamente in mare. In altri casi, i limuli vengono venduti per essere uccisi e utilizzati come esche. Il tutto avviene nel contesto di una grande area grigia, perché molte regole adottate per tutelare gli animali in altri processi industriali non si applicano strettamente ai limuli. Vengono pescati, ma non per essere mangiati; sono impiegati per il settore farmaceutico, ma non negli iper regolamentati test clinici; sono sì animali, ma non a sangue caldo, di conseguenza non sono soggetti a molte leggi per la tutela dell’impiego degli animali in ambito sanitario.(Insider Business via YouTube)Secondo i dati raccolti da NPR, la radio pubblica statunitense, solo nel 2021 cinque aziende sulla costa orientale hanno estratto sangue blu da oltre 700mila limuli, il dato più alto registrato dal 2004 quando si è iniziato a tenere traccia delle attività intorno a questo animali. Si stima che il sangue estratto venga impiegato in media in 80 milioni di test effettuati in giro per il mondo. Il settore ha dunque continuato a espandersi, ma non è stato regolamentato e soprattutto non sono state introdotte iniziative per usare il metodo alternativo, che si ottiene attraverso processi di clonazione e senza disturbare i limuli.Un primo test alternativo fu reso disponibile nel 2003, ma la sua adozione era progredita molto a rilento anche in attesa di ricerche sulla sua affidabilità. Nel 2020 l’azienda farmaceutica statunitense Eli Lilly fu tra le prime ad adottarlo, in concomitanza con la pandemia da coronavirus e la necessità di verificare la sicurezza dei propri prodotti a base di anticorpi. La società dovette però richiedere una particolare autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale che tra le altre cose si occupa di farmaci, perché il test non era e non è ancora presente nella Farmacopea degli Stati Uniti, il codice farmaceutico contenente regole comuni per la qualità delle medicine.In Europa le cose erano andate diversamente perché già nell’estate del 2020 la Farmacopea europea aveva autorizzato e aggiunto il nuovo test, definendolo utile per avere un’alternativa e soprattutto per ridurre l’impatto sui limuli del prelievo di sangue blu, e in generale sugli ecosistemi marini. Un comitato di esperti dell’organizzazione omologa statunitense decise invece di non cambiare le cose, sostenendo che fossero necessari ulteriori approfondimenti. Due anni dopo il comitato fu sciolto, ma i membri di quello successivo non cambiarono orientamento e ancora oggi non ci sono notizie su una revisione delle regole per riconoscere in maniera più ampia e diffusa la sostanza alternativa al sangue blu dei limuli.Le aziende farmaceutiche hanno comunque margini per cambiare i metodi con cui svolgono i loro test, con le adeguate autorizzazioni come avvenuto nel 2020 con Eli Lilly. La grande azienda farmaceutica Roche ha iniziato a utilizzare la versione alternativa in alcuni processi di produzione e ha detto di volere estendere i test in altri ambiti, in modo da ridurre la dipendenza dal sangue blu. Molte altre società del settore preferiscono invece proseguire con il vecchio metodo, come dimostrato anche dall’aumento dei limuli coinvolti nei prelievi degli ultimi anni.A differenza del nostro, il loro sangue non è rosso ma quasi trasparente e assume una colorazione azzurro-blu appena entra in contatto con l’aria. Il fenomeno è dovuto all’ossidazione del rame presente nel loro sangue (nel nostro c’è il ferro, da qui il colore diverso). Dopo il prelievo vengono effettuati alcuni trattamenti per estrarre il coagulogen vero e proprio, che sarà poi utilizzato per i test. Non è chiaro quanto sia traumatico il prelievo per questi animali, che sembrano comunque riprendersi del tutto a pochi giorni di distanza dalla procedura. Alcune ricerche hanno indicato però che i prelievi rendono meno reattivi i limuli con evidenti conseguenze sulle loro capacità di riprodursi.Il sistema circolatorio dei limuli ricorda molto quello dei ragni ed è quindi diverso dal nostro. I limuli hanno ampie cavità che mettono direttamente in contatto il sangue con i tessuti, varchi ideali per i batteri che si trovano nella sabbia e che sono alla ricerca di un ospite da colonizzare. Il coagulogen evita che questo possa avvenire, incapsulando immediatamente i batteri formando il coagulo. Questa condizione ha permesso ai granchi di crescere in ambienti ricchi di batteri senza particolari problemi e di esistere da circa mezzo miliardo di anni.(AP Photo/Kathy Willens)Ora le loro popolazioni lungo la costa orientale degli Stati Uniti rischiano di ridursi sensibilmente, a quanto sembra non tanto per la pratica in sé dei prelievi, ma per il modo in cui i limuli vengono catturati sulle spiagge o rigettati in mare. Secondo documenti e registrazioni raccolte da NPR che riguardano le aziende che se ne occupano, gli operatori prendono i limuli soprattutto dalla coda, perché è più pratico e rapido, ma è sconsigliato perché può causare danni. Se si feriscono alla coda, questi animali sono più a rischio di non riuscire a girarsi, nel caso in cui si ribaltino trovandosi con le zampe all’aria. Il ribaltamento è una circostanza che si può verificare soprattutto quando le femmine si spostano dal fondale per deporre le loro uova.Maneggiarli in modo scorretto fa quindi aumentare il rischio che i limuli si riproducano di meno, peggiorando ulteriormente la situazione. I regolamenti su come trattarli sono decisi a livello statale, di conseguenza cambiano molto a seconda dei luoghi di raccolta così come cambiano le eventuali sanzioni nei confronti di chi non li rispetta.La minore disponibilità di limuli ha inoltre effetti sulle popolazioni di altri animali, come il piovanello maggiore (Calidris canutus, un uccello migratore diffuso in molte aree del mondo, ma che negli Stati Uniti è stato indicato come specie minacciata). Circa il 94 per cento di questi uccelli è scomparso negli ultimi 40 anni, in parte anche a causa della mancanza di quantità sufficienti di uova dei limuli, una importante fonte di energia per le loro migrazioni verso l’Artico.In una fase storica in cui si parla molto di sostenibilità e di impatto ambientale delle attività industriali, secondo i naturalisti sarebbe opportuno stimolare il dibattito anche intorno ai limuli e alle conseguenze del prelievo del loro sangue blu. L’alternativa altrettanto efficace per i test dovrebbe essere promossa soprattutto dalle istituzioni, in modo da indurre un cambiamento in un settore essenziale legato alla salute di tutti. LEGGI TUTTO