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    Perché i cani capiscono in che direzione indichiamo, ma non cosa?

    Caricamento playerAlle persone che vivono con un cane capita abbastanza spesso di voler attirare la sua attenzione puntando il dito verso un oggetto che si trova a una certa distanza, come succede anche in molte normali interazioni umane. Di solito non passa molto prima che il cane raggiunga l’oggetto indicato, se è un biscotto o un gioco che conosce. La maggior parte dei cani rivolge in generale l’attenzione nella direzione giusta, ma ci mette un po’ a capire quale sia l’oggetto indicato, e a volte non lo capisce affatto.
    In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Ethology un gruppo di ricerca ungherese del dipartimento di etologia dell’Università Eötvös Loránd, a Budapest, ha cercato di fornire una spiegazione al fatto che i cani, quando viene loro indicato un oggetto, capiscono di solito in che direzione concentrare l’attenzione ma non su cosa. Dopo aver condotto una serie di esperimenti, il gruppo ha ipotizzato che questo comportamento dipenda dalla priorità che i cani tendono ad assegnare alla posizione anziché alla forma degli oggetti.
    È una conseguenza non soltanto del modo in cui vedono, ma anche del modo in cui “pensano”. Alcuni individui con particolari abilità cognitive riescono infatti a cambiare il loro approccio e imparano a elaborare le informazioni in un modo più simile a quello umano, in modo da riconoscere gli oggetti anche dal loro aspetto oltre che dalla posizione.
    Riconoscere gli oggetti a partire da un segnale che ne indica la posizione è una capacità che emerge abbastanza presto negli esseri umani durante lo sviluppo. È generalmente descritta negli studi sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla pragmatica (lo studio della relazione tra i segni e i loro utenti) come un effetto della condivisione di un codice comune e soprattutto di un contesto linguistico, senza i quali qualsiasi definizione “ostensiva” rimarrebbe indeterminata. In mancanza di un simile contesto definire un tavolo indicandolo, per esempio, non permetterebbe all’interlocutore o all’interlocutrice di comprendere quale delle numerose informazioni meritevoli di elaborazione – il colore, la forma, una parte del tavolo (il piede) anziché tutto – è la più pertinente tra tutte le informazioni disponibili.
    La capacità di comprendere l’intenzione comunicativa alla base dei gesti che indicano la posizione di un oggetto è una delle differenze più evidenti nella reazione a quei gesti da parte dei bambini rispetto alla reazione dei cani, ha scritto il gruppo di ricerca ungherese. Mentre i bambini già a nove mesi interpretano il gesto come un’indicazione dell’oggetto specifico, i cani interpretano quello stesso gesto come un generico segnale direzionale. Indipendentemente dall’intenzione della persona che utilizza il gesto, il significato del gesto per i bambini e per i cani è diverso.
    I ricercatori e le ricercatrici hanno definito «pregiudizio spaziale» la propensione dei cani a dare priorità nell’elaborazione delle informazioni alla posizione, alla distanza e alle relazioni spaziali tra gli oggetti, spesso a scapito delle caratteristiche degli oggetti. Per studiare questo comportamento hanno condotto in una stanza vuota del dipartimento di etologia dell’università due diversi esperimenti su 82 cani (39 femmine e 43 maschi) di varie razze, tra cui Border Collie (19), Bracco ungherese (17) e Whippet (6), ciascuno dei quali accompagnato dal suo proprietario o dalla sua proprietaria, che partecipava agli esperimenti.
    Nel primo esperimento i cani dovevano reagire a un gesto del loro proprietario o della loro proprietaria e imparare in quale tra due piatti posizionati all’estremo opposto della stanza, uno a destra e uno a sinistra, veniva posizionato un premio (un bocconcino). Dall’inizio della prova avevano 15 secondi di tempo per raggiungere il piatto corretto, e un massimo di 50 tentativi per apprendere il compito che era stato loro assegnato.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    Un secondo esperimento prevedeva l’utilizzo di un solo piatto per volta, posizionato al centro all’estremo opposto della stanza. A ciascun cane veniva dato il bocconcino in un solo tipo di piatto: o uno rotondo e bianco, o uno quadrato e nero. L’alternanza dei due tipi di piatto era semi-casuale: non veniva mai usato lo stesso tipo di piatto per più di due volte consecutive. Il compito dei cani in questo secondo esperimento, in pratica, era imparare a riconoscere l’oggetto dalle sue caratteristiche (forma e colore) anziché dalla sua posizione. Sia nel primo che nel secondo esperimento i ricercatori e le ricercatrici hanno misurato la velocità con cui il cane correva verso il piatto “corretto”.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    I risultati hanno mostrato che i tempi di apprendimento dei cani nel primo esperimento erano più brevi rispetto a quelli nel secondo esperimento, in cui in generale i cani avevano più difficoltà a memorizzare l’oggetto giusto. Per ottenere informazioni sulla duttilità mentale dei cani i ricercatori e le ricercatrici hanno poi replicato gli esperimenti con quelli che avevano ottenuto i risultati migliori, invertendo però la collocazione del bocconcino rispetto alle prove precedenti. In un esperimento lo hanno posizionato nel piatto a destra, per tutti i cani che nel primo esperimento lo avevano nel piatto a sinistra. E in un altro esperimento lo hanno posizionato soltanto nel piatto nero quadrato, per i cani che in precedenza lo avevano ricevuto in quello bianco rotondo.
    Alcuni cani riuscivano più facilmente e velocemente di altri a superare il compito, dimostrando maggiore capacità di modificare sulla base delle nuove informazioni il comportamento precedentemente appreso. I cani che più facilmente degli altri riuscivano a riconoscere il piatto dalla forma e dal colore erano tendenzialmente quelli con più capacità di superare il pregiudizio spaziale, al quale contribuiscono variamente non soltanto le particolari capacità sensoriali dei cani – in particolare quella visiva, già studiata in precedenti ricerche – ma anche le capacità cognitive individuali.
    Gli autori e le autrici dello studio hanno spiegato che le capacità visive dei cani sono diverse a seconda delle razze, in base alla forma della testa. «I cani con la testa più corta, scientificamente definiti “brachicefali”, sviluppano una visione simile a quella umana», ha detto Zsófia Bognár, una delle coautrici dello studio, perché la struttura della loro retina implica una visione più nitida e a fuoco rispetto a quella dei cani di razze con la testa più lunga. Come misura approssimativa della qualità della vista nei cani viene infatti utilizzata una misura della forma della testa chiamata “indice cefalico”, che si calcola dividendo la larghezza del cranio per la lunghezza del cranio: più è corta la testa, più è alto l’indice.
    Sulla base dei risultati complessivi degli esperimenti e dalla valutazione di altre caratteristiche dei cani tramite test cognitivi sulla memoria, l’attenzione e la perseveranza, lo studio ha tuttavia concluso che i cani con prestazioni cognitive migliori riescono a superare i limiti sensoriali e associano le informazioni agli oggetti con la stessa facilità con cui le associano alle posizioni. Se i cani di solito non comprendono quale oggetto stiamo indicando ma soltanto la posizione in cui si trova, in definitiva, dipende in primo luogo da limiti di visione relativi alle caratteristiche fisiche della razza: limiti che determinano in generale una maggiore attenzione verso gli oggetti in movimento anziché verso quelli fissi. Ma dipende in secondo luogo anche da capacità cognitive individuali di ciascun cane. LEGGI TUTTO