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    Il coronavirus fu sequenziato due settimane prima che la Cina ne desse notizia

    Secondo alcuni documenti diffusi da una commissione del Congresso degli Stati Uniti, alla fine del 2019 una ricercatrice cinese pubblicò informazioni sul coronavirus due settimane prima che queste fossero ufficialmente diffuse dal governo della Cina, un probabile indizio del fatto che il governo cinese fosse a conoscenza del SARS-CoV-2 già da diverso tempo prima di comunicarne l’esistenza alle autorità sanitarie internazionali. Il ritardo nella notifica avvenne in un momento cruciale nel quale iniziavano a emergere diversi casi di polmonite in Cina, senza che ci fosse una spiegazione convincente sulle loro cause.Il 28 dicembre 2019 la virologa Lili Ren dell’Accademia delle Scienze mediche cinese inviò un sequenziamento del SARS-CoV-2 (cioè informazioni sulle caratteristiche genetiche del virus) a GenBank, una banca dati sulla quale vengono condivise sequenze di materiale genetico, mantenuta dai National Institutes of Health degli Stati Uniti. Tre giorni dopo, il lavoro di Ren fu segnalato perché incompleto e fu quindi richiesto alla ricercatrice di condividere maggiori informazioni. Secondo la ricostruzione della commissione del Congresso, Ren non rispose e in mancanza di informazioni sufficienti il suo lavoro fu rimosso da GenBank il 16 gennaio 2020. Quattro giorni prima, un altro gruppo di ricerca cinese aveva pubblicato sempre su GenBank un sequenziamento del SARS-CoV-2 sostanzialmente identico a quello proposto da Ren.
    Non è chiaro perché Ren avesse inviato le informazioni a GenBak e avesse poi deciso di non rispondere alle sollecitazioni di chiarimenti. La banca dati contiene oltre 3,8 miliardi di annotazioni, quindi è probabile che in mancanza di altri dettagli i dati forniti da Ren fossero passati inosservati o per lo meno non ricondotti alle prime notizie – al tempo piuttosto confuse – su che cosa stesse accadendo in alcuni ospedali di Wuhan, la città cinese dove furono registrati i primi casi della nuova malattia poi chiamata COVID-19.
    La commissione che ha diffuso la documentazione si sta occupando per conto del Congresso di indagare le origini del SARS-CoV-2, per provare a capire se questo si sviluppò naturalmente nel passaggio da alcuni animali agli esseri umani oppure in seguito a un errore di laboratorio. I lavori della commissione sono sotto la responsabilità di un gruppo di parlamentari Repubblicani, ma le nuove informazioni sul ritardo nella segnalazione non forniscono elementi aggiuntivi sull’origine del coronavirus.
    Secondo i membri della commissione e alcuni osservatori, il mancato riconoscimento dell’importanza della segnalazione di Ren e il ritardo con cui il governo cinese informò la comunità internazionale fecero perdere tempo prezioso, in una fase in cui si iniziavano a registrare i primi morti dovuti alla malattia, sulla quale c’erano ancora pochissime informazioni. Le notizie sul lavoro di Ren potrebbero inoltre dimostrare che alla fine di dicembre 2019 diversi gruppi di ricerca in Cina fossero già impegnati a sequenziare il coronavirus e che avessero provato a condividere le loro scoperte, fino a quando non era intervenuto il governo cinese per limitare la diffusione di informazioni. All’inizio della pandemia la Cina era stata accusata di essere poco trasparente sulla diffusione del coronavirus a Wuhan e in altre aree del paese.
    Il fatto che il sequenziamento fosse disponibile su una banca dati internazionale, e accessibile liberamente, pone inoltre alcune domande sull’efficacia dei sistemi per la rapida identificazione di nuovi patogeni.
    Da tempo si discute di adottare soluzioni per migliorare la condivisione di informazioni su malattie emergenti a livello internazionale, in modo da prevenire nuove pandemie. Se ne parlerà il prossimo maggio nel corso della 77esima Assemblea mondiale della salute, nella quale i 194 paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si confronteranno su un nuovo importante trattato sulle pandemie, per adottare linee guida comuni per prevenirle e gestirle meglio partendo anche dalle esperienze e dalle conoscenze maturate negli ultimi anni. LEGGI TUTTO

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    Perché c’è una certa attenzione per una nuova variante del coronavirus

    Da alcune settimane le principali istituzioni sanitarie stanno tenendo sotto controllo una nuova variante del coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia iniziata nel 2020, che presenta numerose mutazioni ed è stata rilevata in almeno tre continenti. È stata chiamata BA.2.86 ed è alquanto diversa dalle varianti già in circolazione, con differenze soprattutto nella proteina “spike”, che il virus utilizza per legarsi alle cellule e replicarsi portando avanti l’infezione.Per ora la variante non suscita particolari preoccupazioni, considerati i livelli di immunizzazione ormai raggiunti tra la popolazione, ma offre comunque nuovi elementi sulla circolazione del coronavirus in una fase in cui pochissime persone fanno ancora i test e sono state ridotte al minimo le attività di rilevazione delle nuove infezioni da parte delle istituzioni.L’identificazione di BA.2.86 ha qualcosa in comunque con quanto avvenne con la variante Omicron nella seconda metà del 2021. All’epoca quella versione del virus si era fatta notare in alcuni paesi dell’Africa meridionale per avere caratteristiche molto particolari, tali da determinare nei mesi successivi nuove ondate di COVID-19 in buona parte del mondo. Le cose da allora sono però cambiate enormemente grazie all’immunizzazione offerta dai vaccini o a quella naturale (e molto più rischiosa) ottenuta con la malattia: secondo gli esperti è improbabile che BA.2.86 possa causare ondate simili a quelle di Omicron.BA.2.86 è stata legata ad almeno 6 casi in quattro paesi: Regno Unito, Stati Uniti, Israele e Danimarca. Il numero di infezioni dovuto alla variante è sicuramente più alto, ma non essendoci più sistemi di rilevazione paragonabili a quelli di un paio di anno fa è difficile fare stime sull’effettiva diffusione della variante. Anche per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha definita «variante da tenere sotto controllo», in attesa che siano effettuati nuovi studi e analisi sulle sue caratteristiche e sulla sua presenza tra la popolazione.Stando alle prime analisi, comunque, la proteina “spike” di BA.2.86 ha almeno 34 differenze significative rispetto a BA.2, una delle subvarianti di Omicron già nota da tempo. L’ipotesi è che il virus sia mutato in seguito a un caso di COVID-19 durato a lungo, come avvenuto in passato con altre varianti con numerose mutazioni. Le differenze riguardano alcune aree della proteina “spike” cui si collegano gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal nostro organismo per impedire al virus di legarsi alle cellule. C’è quindi la possibilità che la nuova variante riesca a eludere parte delle difese immunitarie maturate con precedenti infezioni o in seguito alla vaccinazione.Per fare valutazioni più accurate sarà necessario raccogliere un maggior numero di campioni da persone infettate da BA.2.86, ma la loro ricerca potrebbe non essere semplice. La maggior parte delle persone ha smesso di fare tamponi e test quando ha sintomi simili a quelli influenzali, di conseguenza è probabile che negli ultimi mesi molte persone abbiano avuto un’infezione da coronavirus senza saperlo, e che magari l’abbiano trasmessa a qualcun altro. Il fatto che la variante sia stata identificata in posti distanti tra loro e con casi all’apparenza non collegati suggerisce inoltre che BA.2.86 sia già particolarmente diffusa.Nonostante qualche titolo allarmato sui giornali, è comunque presto per trarre qualche conclusione o preoccuparsi più di tanto, considerato che BA.2.86 potrebbe fare la fine di diverse altre varianti rilevate nell’ultimo anno, che sono sostanzialmente scomparse nel giro di qualche mese. Nel caso di un’infezione, la maggior parte delle persone dovrebbe comunque sviluppare sintomi molto lievi grazie all’immunità ormai acquisita, ma è bene ricordare che ci sono persone fragili più a rischio di altre, che potrebbero avere complicazioni anche a distanza di quasi quattro anni dall’inizio della pandemia.Per ora in Italia la situazione continua a rimanere sotto controllo. Negli ultimi giorni si è rilevato un minimo aumento dei casi rilevati, dei pochi che ancora si sottopongono ai test, comunque non paragonabile all’aumento dei casi (comunque contenutissimo se paragonato alle ondate dei primi tempi) rilevato tra aprile e maggio. LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea e Pfizer-BioNTech si sono accordate per ridurre la fornitura di vaccini contro il coronavirus

    La Commissione Europea si è accordata con l’azienda farmaceutica Pfizer-BioNTech per rinegoziare il contratto di fornitura di vaccini contro il coronavirus (SARS-CoV-2): l’accordo prevede che vengano inviate ai paesi dell’Unione Europea meno dosi di quelle che erano originariamente previste dal contratto, in virtù del miglioramento della situazione epidemiologica e della minore necessità di vaccini per la popolazione europea.Il contratto in questione era stato stipulato nel maggio del 2021 e prevedeva la consegna di 900 milioni di dosi di vaccino all’Unione Europea fino al 2023 e altre 900 milioni di dosi opzionali, per un costo massimo stimato in 35 miliardi di euro, a carico dei singoli stati.Con la diminuzione generale dei contagi e la fine dell’emergenza dovuta alla pandemia, negli ultimi mesi diversi paesi, soprattutto dell’Europa centrale e orientale, avevano chiesto che si rinegoziasse il contratto, giudicato ormai eccessivo nei costi e nelle dosi da fornire.Il nuovo accordo riguarda 450 milioni di dosi che devono essere ancora consegnate all’Unione Europea entro la fine dell’anno. La Commissione Europea non ha comunicato quanto saranno diminuite le forniture, né i termini economici dell’accordo: ha detto però che le dosi originariamente previste dal contratto saranno convertite in ordini facoltativi «dietro pagamento di una compensazione», di cui non ha specificato l’entità. (AP Photo/Rogelio V. Solis, File) LEGGI TUTTO

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    Per l’OMS la pandemia da coronavirus non è più un’emergenza internazionale

    Il Comitato di emergenza sul coronavirus dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – l’agenzia dell’ONU che si occupa di salute – ha stabilito che la pandemia da COVID-19 non è più un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale. La scelta è stata condivisa dal direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha ufficializzato la decisione.L’emergenza era stata dichiarata nel gennaio del 2020: da allora ci sono stati almeno 6,8 milioni di morti ufficiali riconducibili alla pandemia (il bilancio è sicuramente più alto), che però ormai da mesi è tenuta sotto controllo in varie parti del mondo. La stessa decisione dell’OMS era attesa da settimane: diversi funzionari dell’agenzia avevano anticipato che il 5 maggio sarebbe arrivata questa decisione.Ghebreyesus ha sottolineato che questa decisione non dovrebbe indurre le persone a ritenere finita la pandemia: «il virus è qui per rimanere, sta ancora uccidendo e mutando. Rimane il rischio che la nascita di nuove varianti causi aumenti di casi e di morti», ha detto nella conferenza stampa con cui ha annunciato la decisione dell’OMS.L’OMS dichiara un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale quando ci si trova di fronte a «un evento straordinario che può comportare rischi per la salute pubblica in altri stati». L’Organizzazione ha dichiarato questo tipo di emergenza altre sei volte: nel 2009 con l’epidemia di influenza H1N1, nel maggio del 2014 per la poliomielite, nel 2014 e nel 2019 per Ebola e nel 2016 per il virus Zika. Nell’estate del 2022 lo ha fatto anche per il cosiddetto vaiolo delle scimmie. LEGGI TUTTO

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    Il più importante studio cinese sull’inizio della pandemia

    Un gruppo di ricercatori cinesi ha pubblicato un nuovo studio sui dati relativi ad alcuni campioni raccolti all’inizio del 2020 nel mercato di Wuhan, la città cinese dove ormai più di tre anni fa erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Lo studio era molto atteso ed è stato molto commentato perché è il primo effettuato sui prelievi fatti nel mercato di Wuhan a essere sottoposto a una revisione esterna: i dati sui prelievi, finora, erano stati trattati dalla Cina con scarsa trasparenza, cosa che aveva contribuito ad aumentare le polemiche.Lo studio non offre comunque conclusioni definitive: non chiarisce se il coronavirus abbia iniziato a diffondersi proprio dal mercato né se la diffusione dei contagi sia partita dagli animali. Secondo i ricercatori, i campioni raccolti dalle superfici del mercato contenevano sia tracce di materiale genetico degli animali selvatici venduti al mercato sia tracce di coronavirus: sono dati importanti perché lo studio cinese fornisce gli indizi più solidi finora del fatto che nelle primissime fasi della pandemia gli animali venduti al mercato di Wuhan fossero venuti a contatto con il coronavirus, anche se non ci sono ancora prove certe del fatto che gli animali fossero infetti.Le analisi sono state svolte da alcuni ricercatori del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie e sono state pubblicate mercoledì sulla rivista scientifica Nature. La sua pubblicazione era attesa anche perché a lungo la Cina non era stata particolarmente collaborativa nelle ricerche internazionali sulle origini del coronavirus.I dati derivano dalla raccolta di campioni effettuata nei primi giorni del 2020 al mercato del pesce Huanan di Wuhan. Oltre a vendere pesce, alcune bancarelle del mercato vendevano anche varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili ai clienti. I ricercatori avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato, ma anche da scaffali, gabbie e macchinari all’interno.L’analisi dei ricercatori era stata anticipata all’Organizzazione Mondiale della Sanità e pubblicata in una versione preliminare nelle scorse settimane, ma senza rendere note le informazioni genetiche relative ai campioni raccolti, che sono invece contenute nello studio completo. Secondo le analisi, alcuni campioni risultati poi positivi al coronavirus erano compatibili con materiale genetico riconducibile ad animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio, tra cui zibetti e cani procione (che non sono imparentati con i procioni ma sono chiamati così perché gli assomigliano).Secondo alcuni scienziati, questa potrebbe essere un’ulteriore prova che l’origine della pandemia derivi dalla trasmissione (spillover) del virus dagli animali alle persone. Altri invece invitano a usare grande cautela, anche perché non è chiaro come mai i risultati delle analisi siano stati condivisi più di tre anni dopo la raccolta dei campioni, i cui dati peraltro erano stati pubblicati e poi rimossi dalle autorità cinesi da uno dei principali archivi online per la virologia.Gli stessi ricercatori cinesi chiariscono che i campioni «non confermano» che gli animali fossero effettivamente infetti, e che di conseguenza lo studio non offre «prove definitive» per determinare che l’origine della pandemia sia dovuta a uno spillover, un passaggio tra specie diverse. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva anzi ipotizzato che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e che si fosse semplicemente diffuso da lì.A più di tre anni dall’inizio della pandemia ci sono ancora diverse teorie e ipotesi sull’origine del coronavirus, ma non ci sono prove sufficienti per chiarire dove e come tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe essere molto utile per ridurre il rischio che in futuro si verifichino nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze sperimentate in questi anni sia in termini di morti che di cambiamenti di abitudini di vita.Sull’origine del coronavirus ci sono ancora ampie polemiche. Alcune agenzie statunitensi (ma non tutte) ritengono che l’origine della pandemia possa essere legata a un incidente di laboratorio avvenuto in Cina, un’ipotesi che era già emersa nell’ottobre del 2021, quando erano stati resi pubblici alcuni documenti dell’intelligence americana. Altre agenzie di intelligence statunitensi continuano invece a sostenere ipotesi diverse sull’origine del coronavirus e ritengono che le valutazioni che hanno portato a quelle considerazioni siano deboli. La Cina ha sempre respinto con forza l’ipotesi di un incidente di laboratorio, citando anche le conclusioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che l’ha definita «molto improbabile».– Leggi anche: La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo LEGGI TUTTO

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    La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo

    Nel marzo del 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarò la pandemia da coronavirus, tra le critiche di chi riteneva che la dichiarazione dovesse essere effettuata prima considerati i numerosi casi di infezione riscontrati in molte aree del mondo. Nonostante siano passati tre anni e la situazione sia sensibilmente migliorata, non sappiamo ancora quali furono le origini del coronavirus e come iniziò a diffondersi tra gli esseri umani. Le teorie e le ipotesi non mancano, ma non ci sono prove chiare e secondo i più scettici non sapremo mai dove tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe però essere molto utile per ridurre il rischio che si verifichino in futuro nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze che abbiamo sperimentato in termini di morti e di cambiamenti di abitudini di vita in questi anni.Per provare a fare chiarezza, o per lo meno per rendere più trasparente il lavoro di ricerca intorno alle origini del SARS-CoV-2, lunedì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato una legge che richiede alle agenzie di intelligence statunitensi di rendere pubblico quanto più materiale possibile sulle indagini intorno alla pandemia. La documentazione riguarda in particolare le analisi sulle attività svolte presso l’Istituto di virologia di Wuhan, la città cinese da cui sarebbe poi iniziata la pandemia, e i sospetti circa un accidentale contagio tra le persone che ne frequentavano i laboratori, con una conseguente diffusione del coronavirus tra la popolazione.L’ipotesi di un errore di laboratorio è stata valutata da numerose agenzie di intelligence, non solo negli Stati Uniti, ma non ha portato a conclusioni certe. Alle difficoltà tecniche nella ricostruzione dei primi focolai si aggiungono le reticenze del governo della Cina, che non ha collaborato alle indagini e in alcuni casi le ha ostacolate non fornendo dati importanti su ciò che avvenne a Wuhan tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020.La scarsa collaborazione della Cina si è resa di nuovo evidente negli ultimi giorni, dopo la segnalazione da parte di un gruppo di ricerca di alcuni dati finora passati inosservati su un archivio online e in seguito rimossi dalle autorità cinesi. Secondo l’analisi dei ricercatori, anticipata all’OMS la scorsa settimana e pubblicata lunedì in una versione preliminare, i dati offrono nuovi elementi a sostegno dell’ipotesi su un primo focolaio di SARS-CoV-2 avvenuto in un mercato di Wuhan, dove si erano già concentrate le indagini all’inizio della pandemia.Florence Débarre del Centre nationale de la recherche scientifique (CNRS) in Francia, lo scorso 4 marzo aveva notato con alcuni colleghi la presenza di alcune informazioni genetiche, pubblicate da ricercatori cinesi su GISAID, uno dei principali archivi online per la virologia.I dati derivavano dalla raccolta di campioni effettuata presso il mercato del pesce Huanan, dove erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Oltre alle vendita del pescato, alcune bancarelle vendevano varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili dai clienti. Qualche giorno dopo la segnalazione della scoperta da parte di Débarre, i dati erano stati rimossi da GISAID su richiesta della fonte cinese che li aveva inizialmente pubblicati.Il mercato di Huanan durante un’ispezione del gruppo di indagine dell’OMS il 31 gennaio 2021, Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan, File)Débarre e colleghi avevano comunque fatto in tempo a salvare una copia dei dati, potendoli quindi analizzare. La decisione di rimuoverli aveva però fatto sollevare qualche perplessità nei confronti dei ricercatori cinesi che li avevano pubblicati, a cominciare da George Gao, il responsabile del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie. Interpellato dal sito della rivista scientifica Science, Gao ha risposto che quei dati non erano «nulla di nuovo» e che si sapeva già da tempo che ci fosse una vendita illecita di alcuni tipi di animali al mercato, circostanza che aveva poi portato alla sua chiusura.I dati pubblicati e poi rimossi risalgono ai primi giorni del 2020, quando Gao e colleghi avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato. Secondo le loro analisi, alcuni campioni erano risultati positivi al SARS-CoV-2 e avevano materiale genetico riconducibile agli esseri umani, mentre non erano state trovate relazioni tra il DNA di alcuni animali e la presenza del coronavirus. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva concluso che i dati raccolti suggerissero «fortemente» l’ipotesi che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e non viceversa.Le conclusioni avevano suscitato perplessità, soprattutto in Occidente, perché sembravano voler sollevare la Cina da ogni responsabilità sull’origine del coronavirus, che sarebbe potuto arrivare dall’estero come sostengono da tempo alcuni funzionari del governo cinese. Lo studio offriva inoltre nuovi elementi a sostegno delle ipotesi, altrettanto difficili da dimostrare, circa l’origine in laboratorio del coronavirus e non al mercato di Wuhan.La nuova ricerca condotta da Débarre, e anticipata al gruppo di lavoro dell’OMS che si occupa di indagare le origini di nuovi patogeni (virus o batteri, per esempio), segnala che alcuni campioni risultati poi positivi al SARS-CoV-2 sono compatibili con materiale genetico riconducibile a cani procione, zibetti e altri animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio da coronavirus.Un esemplare di cane procione appartenente alla specie Nyctereutes procyonoides (Wikimedia)Anche se si chiamano così, i cani procione non sono imparentati con i procioni. Sono semmai imparentati con volpi e cani, ma vengono definiti in quel modo per la loro apparenza che ricorda in effetti quella dei procioni. Mangiano di tutto e ne esistono diverse specie, originarie per esempio di alcune zone della Cina, delle Coree e del Giappone. Se ne trovano anche in Europa, dove hanno iniziato a invadere alcuni ecosistemi a danno delle specie che li popolano.I cani procione vengono da tempo allevati in Cina per sfruttare la loro pelliccia, ma sono talvolta venduti anche nei mercati di animali vivi per il consumo delle loro carni. Ci sono testimonianze e prove sul fatto che fossero venduti al mercato Huanan alla fine del 2019, quindi a ridosso del periodo in cui iniziarono a emergere i primi casi di infezioni da SARS-CoV-2.Al momento non è comunque chiaro se i cani procione possano avere diffuso il coronavirus. Dai test di laboratorio sappiamo che questi animali sono esposti alle infezioni e sono in grado di trasmetterle, ma non significa che costituiscano la riserva naturale per il coronavirus. Una possibilità è che alcuni cani procione al mercato fossero stati contagiati da un altro mammifero infetto, come i pipistrelli (noti per fare da riserva ai coronavirus), e che in seguito avessero infettato alcuni frequentatori del mercato vista la stretta vicinanza tra esseri umani e animali in quel contesto.Per lungo tempo le autorità cinesi avevano negato che al mercato fossero venduti animali vivi. Solo nell’estate del 2021 una ricerca aveva confermato che la pratica era alquanto diffusa e risaliva ad almeno un paio di anni prima dell’inizio della pandemia. Questa circostanza, unita ai nuovi dati analizzati da Débarre, porta elementi per rivalutare l’ipotesi del mercato rispetto a quella di un errore di laboratorio.Sulla base delle anticipazioni dello studio preliminare pubblicato ieri, la scorsa settimana il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva criticato la scorsa collaborazione della Cina dicendo: «Quei dati potevano essere – e dovevano essere – condivisi tre anni fa», invitando inoltre le autorità cinesi a fornire i dati con la comunità internazionale «immediatamente». Il gruppo di ricerca spera che la pubblicazione dello studio preliminare induca la Cina a condividere più informazioni e le sequenze complete raccolte all’inizio del 2020, ma ci sono forti dubbi.È opinione sempre più diffusa che la possibilità di scoprire davvero come ebbe origine il coronavirus dipenda esclusivamente dal governo cinese, che dopo un’iniziale collaborazione nei primi mesi del 2020 ha via via limitato la circolazione di informazioni anche tra i gruppi di ricerca internazionali. Per scoprire l’origine della SARS, altra malattia causata da un coronavirus, furono necessari circa 14 anni con indagini che portarono infine a identificare una caverna nello Yunnan, sempre in Cina, dove vivevano alcuni pipistrelli infetti. Per altri virus, la vera origine non è stata mai ricostruita, come nel caso di Ebola, identificato per la prima volta negli esseri umani a metà degli anni Settanta.All’inizio del 2003, il governo della Cina aveva limitato fortemente la circolazione delle informazioni sui primi casi di SARS. Solo quando i contagi raggiunsero Hong Kong, all’epoca soggetto a un minore controllo da parte del governo centrale cinese, divenne sempre più difficile nascondere l’estensione del problema. Quella vicenda avrebbe portato la Cina a dotarsi di maggiori strumenti per tenere sotto controllo la diffusione di nuove malattie, ma non cambiò alcuni approcci, a cominciare da quelli per evitare circostanze che mettano in cattiva luce il governo cinese.Nel caso del SARS-CoV-2 la scarsa collaborazione da parte della Cina ha impedito di fare progressi significativi nei tre anni di pandemia, con il mancato accesso a dati importanti o la negazione di fatti, come l’effettivo commercio di animali vivi nel mercato Huanan. In mancanza di una maggiore apertura da parte del governo della Cina, o di informazioni riservate passate da qualche ricercatore in Cina con tutti i rischi cui sarebbe esposto, difficilmente si potranno avere nuovi elementi per ricostruire le circostanze che tre anni fa causarono la più grande e grave pandemia degli ultimi tempi. LEGGI TUTTO