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    È morta a 95 anni Gao Yaojie, dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta

    È morta a 95 anni Gao Yaojie, una dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta. Gao scoprì che le scarse norme igieniche nelle cliniche per la donazione di sangue a pagamento avevano contribuito a diffondere l’AIDS anche nelle zone rurali della Cina. All’epoca in Cina era diffusa la convinzione che l’AIDS fosse trasmesso solo tramite i rapporti sessuali non protetti e dalla madre al feto durante la gravidanza. Gao, già in pensione, visitò cittadine e famiglie colpite dalla malattia, donò anche cibo e stampò volantini educativi sull’AIDS, spesso a sue spese.La vendita di sangue fu vietata negli anni Novanta, ma secondo Gao continuò in maniera illegale anche negli anni successivi. La dottoressa non fu la prima a scoprire l’epidemia, ma permise che fosse conosciuta in Cina e all’estero avvisando il New York Times. Nel 2009 Gao si trasferì a New York, negli Stati Uniti, a causa della crescente ostilità delle autorità cinesi nei suoi confronti, fra cui l’arresto e la detenzione per 20 giorni ai domiciliari da parte del governo provinciale dell’Henan, la provincia in cui fu più attiva, nel 2007. Il governo centrale in seguito annullò l’arresto.– Leggi anche: Dobbiamo parlare diversamente di HIVL’AIDS è una sindrome che porta il sistema immunitario a perdere la capacità di contrastare anche le infezioni più banali. Si raggiunge a uno stadio avanzato dell’infezione del virus HIV (Human Immunodeficiency Virus). Grazie alle moderne terapie antiretrovirali oggi chi è positivo al virus può condurre una vita quotidiana normale, anche dal punto di vista dell’attività sessuale. Le condizioni sono che l’infezione sia diagnosticata per tempo, e che ci sia la possibilità di accedere alle cure. (AP Photo/Greg Baker, File) LEGGI TUTTO

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    L’anomalo aumento di polmoniti infantili in Cina

    Nelle ultime settimane in Cina è stato rilevato un aumento anomalo di casi di polmonite infantile, le cui cause non sono ancora completamente chiare. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto maggiori informazioni e il governo cinese ha risposto dicendo di non avere rilevato «nuovi o strani patogeni» collegati alle polmoniti. La situazione al momento non suscita particolare preoccupazione, ma dopo la pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 iniziata proprio in Cina ci sono grandi attenzioni, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie internazionali.Ormai da qualche mese i medici cinesi segnalano un aumento dei casi di malattie respiratorie, attribuendole a varie cause note come i virus influenzali, il SARS-CoV-2 e il Mycoplasma pneumoniae, un batterio tra i più comuni nelle forme di infiammazione ai polmoni che chiamiamo genericamente polmoniti. L’infezione batterica interessa con maggior frequenza i bambini e causa di solito una malattia di lieve entità, che deve comunque essere trattata per evitare il peggioramento dei sintomi.Per i medici è quindi normale e atteso che si debbano occupare spesso di polmoniti di questo tipo tra i bambini, ma secondo le informazioni fornite dai media cinesi nelle ultime settimane i casi sono aumentati notevolmente. Per giorni ci sono state notizie di ospedali con decine di bambini ricoverati in varie zone della Cina, talvolta con seri problemi nel fornire loro assistenza a causa del grande afflusso di pazienti.In un ospedale nella provincia orientale di Anhui, i medici hanno effettuato 67 broncoscopie in un giorno rispetto alla media giornaliera di una decina di esami di questo tipo, che servono per valutare le condizioni e lo stato di infiammazione a livello polmonare. Un altro ospedale nella provincia costiera orientale dello Zhejiang ha stimato che le visite pediatriche siano triplicate rispetto allo scorso anno e che a circa un bambino su tre sia stata diagnosticata una polmonite da Mycoplasma pneumoniae.In seguito alle notizie sui molti ricoveri, mercoledì 22 novembre l’OMS aveva chiesto pubblicamente al governo cinese di fornire maggiori informazioni, utilizzando i canali appropriati per segnalare gli aumenti di particolari malattie. In seguito alla richiesta, l’agenzia di stampa Xinhua controllata dal governo aveva diffuso un articolo che segnalava le dichiarazioni di alcuni funzionari della Commissione nazionale di sanità, l’organismo che si occupa della salute pubblica in Cina. I funzionari avevano detto di essere al lavoro per analizzare le diagnosi di bambini con malattie respiratorie.Il giorno seguente, giovedì 23 novembre, l’OMS aveva poi comunicato di avere ricevuto nuove informazioni direttamente dal governo cinese, che aveva indicato di non avere rilevato la presenza di «nuovi o strani patogeni» legati alle polmoniti. Secondo le autorità sanitarie cinesi, la maggior quantità di malattie respiratorie sarebbe dovuta a più cause già note, a cominciare dai virus influenzali. L’ipotesi è che si siano diffusi più del solito in seguito alla rimozione delle forti limitazioni imposte nel paese negli anni scorsi per provare a ridurre la circolazione del coronavirus, con la cosiddetta “strategia zero-COVID”.Il lungo isolamento ha reso meno frequenti i contagi da influenza, contribuendo a una minore esposizione alla malattia e di conseguenza a una minore immunità nei suoi confronti rispetto ad altri periodi, specialmente nelle persone non vaccinate. Ciò ha fatto sì che i sintomi fossero più significativi e tali da rendere necessari accertamenti in ospedale per molti pazienti. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con altri virus e batteri che interessano con maggiore frequenza i bambini, come il virus respiratorio sinciziale (RSV) e il Mycoplasma pneumoniae.Le cause dell’attuale aumento di polmoniti tra i bambini sono comunque difficili da ricostruire sulla base delle informazioni fornite finora dal governo cinese, ritenute ancora insufficienti da molti osservatori. È forse anche per questo motivo che l’OMS ha scelto di chiedere pubblicamente spiegazioni, invece di seguire le vie della comunicazione interna.Un gruppo di lavoro dell’OMS si occupa infatti di sorvegliare le notizie che circolano sui giornali e sui social network, confrontandole con quelle fornite dalle istituzioni sanitarie dei singoli paesi, in modo da occuparsi il prima possibile di eventuali anomalie. Quando emergono stranezze, l’OMS invia una richiesta di maggiori informazioni al paese interessato, ma è raro che la procedura sia annunciata pubblicamente. Si preferiscono comunicazioni dirette e interne con le istituzioni coinvolte, arrivando a qualcosa di pubblico solo nel caso in cui ci siano elementi utili da condividere globalmente per esempio per ridurre i rischi di avere un’emergenza sanitaria.Nelle prime fasi di quella che sarebbe poi diventata la pandemia da coronavirus, l’OMS era accusata di essere troppo cauta nei confronti del governo cinese e di non avere richiesto da subito maggiore trasparenza sulla diffusione del SARS-CoV-2. La richiesta pubblica di chiarimenti mostra un cambiamento di approccio in un contesto in cui c’è più attenzione su questi temi da parte della popolazione in generale, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare grandi difficoltà e limitazioni.Al momento mancano dati più precisi e ufficiali sulla diffusione delle polmoniti tra i bambini, anche se la richiesta dell’OMS ha portato a qualche maggiore concretezza. Il fatto che non sia stato segnalato un aumento di malattie respiratorie simili tra gli adulti sembra comunque rendere meno probabile la presenza di un nuovo virus, ancora non conosciuto. Per avere maggiori informazioni, i bambini con sintomi dovrebbero essere sottoposti ai test per i patogeni che con maggiore frequenza causano malattie respiratorie, in modo da comprendere meglio la causa dei loro problemi di salute. Una grande quantità di test negativi su virus e batteri noti più diffusi e in circolazione in questo periodo potrebbe dare qualche indicazione su eventuali nuovi patogeni.Secondo alcuni osservatori, la vicenda mostra come l’approccio delle autorità cinesi nel comunicare in maniera trasparente con le istituzioni sanitarie internazionali non sia cambiata molto, nonostante la recente pandemia avesse avuto origine proprio nel paese. Tra il 2019 e il 2020 la Cina era stata relativamente solerte nel condividere le informazioni su quello che sarebbe stato poi chiamato SARS-CoV-2, ma emersero comunque ritardi e omissioni nella gestione della prima fase dell’emergenza sanitaria che si sarebbe poi diffusa in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    In Cina stanno scavando un buco profondissimo

    Alla fine di maggio in Cina è iniziata la perforazione del suolo per scavare un buco che supererà gli 11mila metri di profondità, nell’ambito di un’iniziativa scientifica che potrebbe avere esiti anche per la ricerca di gas e petrolio. Lo scavo è stato avviato in una zona del deserto del Taklamakan, nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest del paese. Una volta completato, il pozzo sarà il più profondo mai realizzato in Cina e uno dei più profondi mai scavati in tutto il mondo, per quanto con un diametro di poche decine di centimetri.L’attività di perforazione è sotto la responsabilità della China National Petroleum Corporation (CNPC) di proprietà del governo cinese e coinvolge Sinopec, altro grande gruppo petrolifero e petrolchimico della Cina. Secondo i responsabili dell’iniziativa, gli 11.100 metri di profondità previsti saranno raggiunti entro la fine di agosto del 2024, con poco meno di 460 giorni di scavo. I tempi previsti sono molto brevi, considerato che per perforazioni analoghe, ma a minori profondità, sono stati necessari anni.Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, sulla quale il governo cinese esercita un forte controllo, con la perforazione si potrà raggiungere lo strato di rocce che era in superficie durante il Cretaceo, il periodo compreso tra 66 e 145 milioni di anni fa. Altri esperti ritengono che l’iniziativa potrebbe consentire di arrivare ancora più in profondità, fino al periodo Cambriano, risalente a oltre 500 milioni di anni fa.Le perforazioni a grande profondità di questo tipo rendono di solito possibile il prelievo di campioni di rocce altrimenti inaccessibili, che vengono poi analizzati e studiati per ricostruire informazioni in generale su ere geologiche molto remote e per comprendere meglio le caratteristiche geologiche di un certo territorio. Il deserto del Taklamakan si trova quasi interamente nel bacino del Tarim, che si formò per la confluenza di acque superficiali in assenza di grandi corsi d’acqua (“bacino endoreico”). La sua storia geologica è particolare e la trivellazione potrebbe fornire nuovi spunti per il suo studio.La perforazione avviata dalla Cina non avrà necessariamente soli scopi di ricerca, come intuibile dal coinvolgimento di alcune delle più grandi aziende di idrocarburi del paese. Uno dei fini è scoprire se in strati così profondi ci sia comunque una quantità significativa di petrolio e gas, come riscontrato altrove e a profondità minori. Nell’area del bacino del Tarim sono già stati scavati alcuni pozzi molto profondi sfruttati da Sinopec, che negli anni ha affinato tecnologie e sistemi per scavare a svariati chilometri nel sottosuolo. Uno dei principali complessi di pozzi della società raggiunge gli 8mila metri di profondità.Il presidente cinese Xi Jinping ha in più occasioni esortato la Cina a condurre esplorazioni e ricerche in vari ambiti, non solo a scopo scientifico, ma anche per trovare nuove fonti da cui attingere per le materie prime. Il governo cinese ha l’obiettivo di rendere la Cina il più indipendente possibile sia nel settore dei combustibili fossili, sia dei minerali rari sempre più richiesti per l’elettronica. Per questo motivo per Xi la “Terra profonda” è da qualche anno uno dei principali obiettivi nella strategia di espansione economica della Cina.– Leggi anche: L’irresistibile fascino di scavare bucheCon 11.100 metri il buco nel deserto del Taklamakan diventerà uno dei più profondi al mondo, ma non supererà comunque il primato del pozzo superprofondo di Kola nella Russia nord-occidentale quasi al confine con la Norvegia. Il progetto fu avviato dall’Unione Sovietica nel 1970 e proseguì per quasi venti anni, fino a quando fu interrotto nel 1989 una volta raggiunta la profondità di 12.262 metri. La sua realizzazione ha reso possibile lo studio di alcune caratteristiche del cosiddetto “scudo baltico”, la grande massa continentale che comprende buona parte dei paesi scandinavi.Nel 1957 anche gli Stati Uniti avevano avviato un’iniziativa simile: era il Project Mohole, che aveva l’obiettivo di perforare il fondale oceanico nel Pacifico al largo della costa del Messico. Il progetto fu abbandonato dopo qualche anno per la mancanza di fondi, ma fu comunque importante per sperimentare tecniche impiegate in seguito in altre attività di esplorazioni del fondale oceanico. In Germania a Windischeschenbach, in Baviera, tra il 1987 e il 1995 fu scavato un pozzo fino alla profondità di 9.101 metri. LEGGI TUTTO

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    La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo

    Nel marzo del 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarò la pandemia da coronavirus, tra le critiche di chi riteneva che la dichiarazione dovesse essere effettuata prima considerati i numerosi casi di infezione riscontrati in molte aree del mondo. Nonostante siano passati tre anni e la situazione sia sensibilmente migliorata, non sappiamo ancora quali furono le origini del coronavirus e come iniziò a diffondersi tra gli esseri umani. Le teorie e le ipotesi non mancano, ma non ci sono prove chiare e secondo i più scettici non sapremo mai dove tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe però essere molto utile per ridurre il rischio che si verifichino in futuro nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze che abbiamo sperimentato in termini di morti e di cambiamenti di abitudini di vita in questi anni.Per provare a fare chiarezza, o per lo meno per rendere più trasparente il lavoro di ricerca intorno alle origini del SARS-CoV-2, lunedì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato una legge che richiede alle agenzie di intelligence statunitensi di rendere pubblico quanto più materiale possibile sulle indagini intorno alla pandemia. La documentazione riguarda in particolare le analisi sulle attività svolte presso l’Istituto di virologia di Wuhan, la città cinese da cui sarebbe poi iniziata la pandemia, e i sospetti circa un accidentale contagio tra le persone che ne frequentavano i laboratori, con una conseguente diffusione del coronavirus tra la popolazione.L’ipotesi di un errore di laboratorio è stata valutata da numerose agenzie di intelligence, non solo negli Stati Uniti, ma non ha portato a conclusioni certe. Alle difficoltà tecniche nella ricostruzione dei primi focolai si aggiungono le reticenze del governo della Cina, che non ha collaborato alle indagini e in alcuni casi le ha ostacolate non fornendo dati importanti su ciò che avvenne a Wuhan tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020.La scarsa collaborazione della Cina si è resa di nuovo evidente negli ultimi giorni, dopo la segnalazione da parte di un gruppo di ricerca di alcuni dati finora passati inosservati su un archivio online e in seguito rimossi dalle autorità cinesi. Secondo l’analisi dei ricercatori, anticipata all’OMS la scorsa settimana e pubblicata lunedì in una versione preliminare, i dati offrono nuovi elementi a sostegno dell’ipotesi su un primo focolaio di SARS-CoV-2 avvenuto in un mercato di Wuhan, dove si erano già concentrate le indagini all’inizio della pandemia.Florence Débarre del Centre nationale de la recherche scientifique (CNRS) in Francia, lo scorso 4 marzo aveva notato con alcuni colleghi la presenza di alcune informazioni genetiche, pubblicate da ricercatori cinesi su GISAID, uno dei principali archivi online per la virologia.I dati derivavano dalla raccolta di campioni effettuata presso il mercato del pesce Huanan, dove erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Oltre alle vendita del pescato, alcune bancarelle vendevano varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili dai clienti. Qualche giorno dopo la segnalazione della scoperta da parte di Débarre, i dati erano stati rimossi da GISAID su richiesta della fonte cinese che li aveva inizialmente pubblicati.Il mercato di Huanan durante un’ispezione del gruppo di indagine dell’OMS il 31 gennaio 2021, Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan, File)Débarre e colleghi avevano comunque fatto in tempo a salvare una copia dei dati, potendoli quindi analizzare. La decisione di rimuoverli aveva però fatto sollevare qualche perplessità nei confronti dei ricercatori cinesi che li avevano pubblicati, a cominciare da George Gao, il responsabile del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie. Interpellato dal sito della rivista scientifica Science, Gao ha risposto che quei dati non erano «nulla di nuovo» e che si sapeva già da tempo che ci fosse una vendita illecita di alcuni tipi di animali al mercato, circostanza che aveva poi portato alla sua chiusura.I dati pubblicati e poi rimossi risalgono ai primi giorni del 2020, quando Gao e colleghi avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato. Secondo le loro analisi, alcuni campioni erano risultati positivi al SARS-CoV-2 e avevano materiale genetico riconducibile agli esseri umani, mentre non erano state trovate relazioni tra il DNA di alcuni animali e la presenza del coronavirus. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva concluso che i dati raccolti suggerissero «fortemente» l’ipotesi che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e non viceversa.Le conclusioni avevano suscitato perplessità, soprattutto in Occidente, perché sembravano voler sollevare la Cina da ogni responsabilità sull’origine del coronavirus, che sarebbe potuto arrivare dall’estero come sostengono da tempo alcuni funzionari del governo cinese. Lo studio offriva inoltre nuovi elementi a sostegno delle ipotesi, altrettanto difficili da dimostrare, circa l’origine in laboratorio del coronavirus e non al mercato di Wuhan.La nuova ricerca condotta da Débarre, e anticipata al gruppo di lavoro dell’OMS che si occupa di indagare le origini di nuovi patogeni (virus o batteri, per esempio), segnala che alcuni campioni risultati poi positivi al SARS-CoV-2 sono compatibili con materiale genetico riconducibile a cani procione, zibetti e altri animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio da coronavirus.Un esemplare di cane procione appartenente alla specie Nyctereutes procyonoides (Wikimedia)Anche se si chiamano così, i cani procione non sono imparentati con i procioni. Sono semmai imparentati con volpi e cani, ma vengono definiti in quel modo per la loro apparenza che ricorda in effetti quella dei procioni. Mangiano di tutto e ne esistono diverse specie, originarie per esempio di alcune zone della Cina, delle Coree e del Giappone. Se ne trovano anche in Europa, dove hanno iniziato a invadere alcuni ecosistemi a danno delle specie che li popolano.I cani procione vengono da tempo allevati in Cina per sfruttare la loro pelliccia, ma sono talvolta venduti anche nei mercati di animali vivi per il consumo delle loro carni. Ci sono testimonianze e prove sul fatto che fossero venduti al mercato Huanan alla fine del 2019, quindi a ridosso del periodo in cui iniziarono a emergere i primi casi di infezioni da SARS-CoV-2.Al momento non è comunque chiaro se i cani procione possano avere diffuso il coronavirus. Dai test di laboratorio sappiamo che questi animali sono esposti alle infezioni e sono in grado di trasmetterle, ma non significa che costituiscano la riserva naturale per il coronavirus. Una possibilità è che alcuni cani procione al mercato fossero stati contagiati da un altro mammifero infetto, come i pipistrelli (noti per fare da riserva ai coronavirus), e che in seguito avessero infettato alcuni frequentatori del mercato vista la stretta vicinanza tra esseri umani e animali in quel contesto.Per lungo tempo le autorità cinesi avevano negato che al mercato fossero venduti animali vivi. Solo nell’estate del 2021 una ricerca aveva confermato che la pratica era alquanto diffusa e risaliva ad almeno un paio di anni prima dell’inizio della pandemia. Questa circostanza, unita ai nuovi dati analizzati da Débarre, porta elementi per rivalutare l’ipotesi del mercato rispetto a quella di un errore di laboratorio.Sulla base delle anticipazioni dello studio preliminare pubblicato ieri, la scorsa settimana il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva criticato la scorsa collaborazione della Cina dicendo: «Quei dati potevano essere – e dovevano essere – condivisi tre anni fa», invitando inoltre le autorità cinesi a fornire i dati con la comunità internazionale «immediatamente». Il gruppo di ricerca spera che la pubblicazione dello studio preliminare induca la Cina a condividere più informazioni e le sequenze complete raccolte all’inizio del 2020, ma ci sono forti dubbi.È opinione sempre più diffusa che la possibilità di scoprire davvero come ebbe origine il coronavirus dipenda esclusivamente dal governo cinese, che dopo un’iniziale collaborazione nei primi mesi del 2020 ha via via limitato la circolazione di informazioni anche tra i gruppi di ricerca internazionali. Per scoprire l’origine della SARS, altra malattia causata da un coronavirus, furono necessari circa 14 anni con indagini che portarono infine a identificare una caverna nello Yunnan, sempre in Cina, dove vivevano alcuni pipistrelli infetti. Per altri virus, la vera origine non è stata mai ricostruita, come nel caso di Ebola, identificato per la prima volta negli esseri umani a metà degli anni Settanta.All’inizio del 2003, il governo della Cina aveva limitato fortemente la circolazione delle informazioni sui primi casi di SARS. Solo quando i contagi raggiunsero Hong Kong, all’epoca soggetto a un minore controllo da parte del governo centrale cinese, divenne sempre più difficile nascondere l’estensione del problema. Quella vicenda avrebbe portato la Cina a dotarsi di maggiori strumenti per tenere sotto controllo la diffusione di nuove malattie, ma non cambiò alcuni approcci, a cominciare da quelli per evitare circostanze che mettano in cattiva luce il governo cinese.Nel caso del SARS-CoV-2 la scarsa collaborazione da parte della Cina ha impedito di fare progressi significativi nei tre anni di pandemia, con il mancato accesso a dati importanti o la negazione di fatti, come l’effettivo commercio di animali vivi nel mercato Huanan. In mancanza di una maggiore apertura da parte del governo della Cina, o di informazioni riservate passate da qualche ricercatore in Cina con tutti i rischi cui sarebbe esposto, difficilmente si potranno avere nuovi elementi per ricostruire le circostanze che tre anni fa causarono la più grande e grave pandemia degli ultimi tempi. LEGGI TUTTO