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    La più antica struttura in legno mai scoperta

    Una ricerca pubblicata mercoledì sulla rivista Nature sostiene che due tronchi incastrati insieme e trovati in un sito archeologico in Zambia, in Africa, costituiscano la più antica struttura in legno prodotta da una specie umana mai scoperta finora. Secondo lo studio hanno più di 450mila anni e precedono quindi di oltre 100mila anni i più antichi resti di Homo sapiens, l’unica specie umana attualmente esistente, la nostra. In precedenza la più antica struttura in legno mai trovata risaliva ad appena 9mila anni fa: si trattava dei resti di alcune piattaforme trovate in un lago nel Regno Unito. È ancora più vecchio il più antico oggetto manufatto di legno mai rinvenuto, il frammento di un’asse scoperto in Israele e risalente a 780mila anni fa, ma se l’abilità di altre specie umane estinte di realizzare piccoli strumenti era nota, non si sapeva che costruissero anche strutture più grandi e complesse.I due tronchi trovati nel 2019 in Zambia, e più precisamente nella riva del fiume Kalambo presso una cascata vicino al confine con la Tanzania, sono incrociati ad angolo retto. Secondo i ricercatori che li hanno studiati sono stati modificati dall’azione umana con degli strumenti di pietra, in modo che potessero incastrarsi. I risultati della datazione implicherebbero che la struttura possa essere stata costruita da ominini (il termine per definire le specie più vicine agli esseri umani moderni) come Homo erectus o Homo naledi, specie che si evolvettero dagli stessi antenati da cui proviene Homo sapiens. Si stima che la nostra specie sia comparsa circa 300mila anni fa, quindi successivamente alla realizzazione della struttura trovata in Zambia.Rispetto ai reperti in pietra, è molto più difficile che reperti in legno così antichi si conservino. In questo caso, i tronchi si trovavano immersi nell’acqua di una falda sotterranea, che ha permesso loro di preservarsi per quasi mezzo milione di anni senza andare incontro al decadimento naturale che interessa normalmente il legno. La datazione è avvenuta tramite lo studio della luminescenza dei sedimenti che li ricoprivano, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. Il noto metodo di datazione con il carbonio-14 permette di stimare l’età di materiale organico vecchio fino a 50mila anni fa.La struttura al momento della scoperta e in uno schema (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno analizzato la struttura – appartenenti a università e istituzioni britanniche, all’Università di Liegi, in Belgio, e al Museo Moto Moto di Mbala, in Zambia – sono quasi certi che i tronchi siano stati modificati dall’azione umana: per verificarlo sono state prodotte delle repliche degli utensili di pietra trovati nel sito sotto la cascata del Kalambo e le hanno usate per lavorare legni con caratteristiche simili a quello dei tronchi. I segni lasciati dalle repliche sono analoghi a quelli ritrovati sui reperti, per cui si pensa che furono fatti «intenzionalmente con utensili di pietra».La scoperta potrebbe significare che l’abilità di usare il legno per costruire degli oggetti è molto più antica di quanto noto finora e ampliare la nostra conoscenza di altre specie di ominini. Inoltre potrebbe mettere in dubbio la nozione che i primi esseri umani conducessero esclusivamente una vita nomade. Il più piccolo dei due tronchi è lungo 1 metro e mezzo: complessivamente le loro dimensioni indicano che probabilmente facevano parte di una struttura abbastanza grande. Anche se non è possibile dire con certezza che degli ominini si fossero stabiliti permanentemente nella zona della cascata, la realizzazione di una struttura come quella trovata avrà sicuramente richiesto sforzi notevoli, difficilmente spiegabili se il sito era solo un accampamento.La struttura (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno partecipato allo studio ritengono che la complessità della struttura implichi la possibilità che fu progettata e costruita da ominini che potevano collaborare in modo efficace grazie all’uso del linguaggio. Un’altra ipotesi del gruppo di ricerca è che la struttura non fosse parte di una vera e propria abitazione: poteva essere parte delle fondamenta di un riparo, di un camminamento o di una piattaforma per pescare nel fiume, ma è molto difficile giungere a conclusioni precise al riguardo.Al momento i tronchi sono conservati in Inghilterra, dove sono stati studiati, in una cisterna che replica le condizioni in cui sono stati preservati naturalmente per centinaia di migliaia di anni. Ma saranno riportati in Zambia per essere esposti al pubblico.– Leggi anche: La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi LEGGI TUTTO

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    Ötzi aveva la pelle più scura di quanto credessimo 

    Un gruppo di ricerca internazionale ha analizzato più approfonditamente il DNA di Ötzi, l’uomo vissuto oltre 5.300 anni fa i cui resti furono trovati nel 1991 sulle Alpi tra l’Italia e l’Austria. Le analisi hanno permesso di ricostruire in modo più accurato il genoma di Ötzi, che è la più antica mummia umana naturale mai trovata in Europa, e alcune sue caratteristiche fisiche: principalmente il fatto che avesse la pelle più scura di quanto si pensasse in base a precedenti studi meno approfonditi e che verosimilmente avesse sviluppato una calvizie più o meno pronunciata.Lo studio ha anche ricostruito che Ötzi – così chiamato dal nome austriaco della regione dove fu trovato, Ötztal – discendesse soprattutto da popolazioni agricole dell’Anatolia, più o meno nell’odierna Turchia. Sono informazioni importanti, che aggiungono nuovi elementi non solo alle conoscenze su Ötzi ma anche a quelle sulle origini delle persone europee, di cui contribuiscono a sfatare alcuni pregiudizi ancora esistenti su una presunta “purezza” delle popolazioni europee, associata a una serie di caratteristiche fisiche a partire dalla pelle chiara.L’analisi dei geni responsabili del colore della pelle della mummia dice che la sua pelle conteneva molta più melanina di quanto si pensasse, e che era mediamente più scura delle tonalità di pelle più scure oggi presenti in Europa. Per farsi un’idea più precisa Johannes Krause, genetista dell’Istituto Max Planck (Germania), uno degli enti di ricerca che hanno partecipato allo studio, ha spiegato: «Direi che basti guardare la mummia. Probabilmente rappresenta il colore della pelle di Ötzi piuttosto bene. È relativamente scura, anche più scura dei più scuri toni di pelle comuni nel sud dell’Europa odierno, ad esempio in Sicilia e in Andalusia. Non scura come quella delle persone originarie delle regioni a sud del Sahara».La scoperta spiega peraltro proprio l’attuale colore della mummia, che in passato si supponeva fosse legato al processo di mummificazione ma non era mai stato veramente spiegato. Rende inoltre imprecisa l’attuale ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano dove la mummia è conservata: tale ricostruzione è la seconda che sia mai stata fatta ed era stata realizzata dopo le prime analisi genetiche, poco più di dieci anni fa. In realtà da vivo Ötzi aveva la pelle più scura e probabilmente non molti capelli, dato che i suoi geni indicano una predisposizione per la calvizie e all’epoca della morte aveva circa 45 anni. Quest’ultimo dettaglio contribuirebbe a spiegare perché non furono trovati molti capelli attaccati alla mummia.La ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano (ANSA / UFFICIO STAMPA MUSEO ARCHEOLOGICO DI BOLZANO)Il ritrovamento di Ötzi (o “Uomo del ghiaccio”, come è anche chiamato) nel 1991 fu un evento straordinario per la gran quantità di informazioni che sono state ottenute studiandolo. Si stima che Ötzi sia vissuto tra il 3350 e il 3120 avanti Cristo. Secondo le ricostruzioni sarebbe morto colpito alla schiena da una freccia: il suo corpo rimase congelato nel ghiaccio, che contribuì alla sua conservazione. Fu trovato da alcuni escursionisti: aveva ancora addosso alcuni indumenti, oltre a un’ascia e un arco.Nel 2012 furono pubblicati i risultati del primo sequenziamento del genoma della mummia: secondo quelle analisi Ötzi aveva la pelle chiara, gli occhi marroni (in precedenza si riteneva che fossero azzurri) e ascendenze steppiche (aveva cioè antenati provenienti dall’Europa orientale e Asia centrale). Quest’ultimo dato era considerato abbastanza sorprendente: le ascendenze steppiche sono piuttosto comuni tra le odierne popolazioni dell’Europa meridionale, ma secondo le conoscenze attuali gli umani appartenenti a questa componente ancestrale comparvero in Europa ben dopo la morte di Ötzi.A sinistra la prima ricostruzione del volto di Ötzi, a destra la seconda: nessuna delle due mostra quello che era il vero colore della pelle di Ötzi (ANSA / ANDREE KAISER – NATIONAL GEOGRAPHIC)Le analisi appena pubblicate sono state svolte con tecnologie di sequenziamento più sofisticate, accurate e approfondite rispetto a quelle disponibili nel 2012, a partire dal DNA estratto dall’osso dell’anca di Ötzi: lo studio, accessibile e leggibile a questo link, è stato pubblicato sulla rivista Cell Genomics. Vi ha partecipato anche l’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research di Bolzano.Secondo lo studio, contrariamente a quanto si era pensato finora, nel DNA di Ötzi non ci sono tracce di ascendenze steppiche e il 92 per cento della sua ascendenza genetica è associato a quello di antiche popolazioni dell’Anatolia, probabilmente migrate verso il nord dell’Europa attraverso la penisola balcanica, che praticavano l’agricoltura.Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research, ha detto che lo studio potrebbe contribuire a decostruire l’erronea credenza di una qualche “purezza” della popolazione europea: «Sono proprio studi come questi che dimostrano che i nostri antenati sono tutti migrati in un momento o nell’altro, che siamo tutti un grande miscuglio genetico», ha detto.– Leggi anche: Ci sono altre mummie preistoriche come Ötzi sulle montagne? LEGGI TUTTO

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    Anche altri ominidi seppellivano i propri morti?

    Per quel che sappiamo i neanderthal (Homo neanderthalensis) furono l’unica altra specie animale oltre alla nostra (Homo sapiens) che seppelliva i propri morti, una pratica le cui testimonianze più antiche risalgono a 78mila anni fa. C’è però un gruppo di paleoantropologi che ha ipotizzato lo facessero anche gli Homo naledi, una specie estinta di ominini che è stata scoperta in Sudafrica solo nel 2013 e aveva cervelli grandi un terzo di quelli umani. Se confermata, questa teoria cambierebbe profondamente l’attuale conoscenza sull’evoluzione umana.A ipotizzare che l’Homo naledi seppellisse i propri morti è il gruppo di ricerca che lo studia fin dalla sua scoperta: è guidato da Lee Berger, paleoantropologo sudafricano dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, ed è finanziato dall’organizzazione scientifica statunitense National Geographic Society. Il 5 giugno Berger ha parlato pubblicamente per la prima volta dei ritrovamenti archeologici che giustificherebbero l’ipotesi e la rivista del National Geographic le ha dedicato un lungo articolo. Tuttavia gli studi del gruppo di Berger non hanno ancora completato il processo di revisione tra pari (peer review), che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, e finora hanno suscitato molto scetticismo tra gli esperti.I resti dell’Homo naledi furono scoperti nel 2013 da due speleologi sudafricani all’interno della grotta Dinaledi, che si trova poco lontano dalla cosiddetta “Culla dell’umanità”, un importante sito paleoantropologico a 50 chilometri da Johannesburg, ed è fatta di un complicato sistema di cunicoli che si estendono per centinaia di metri sottoterra. Nella grotta nel tempo sono stati trovati più di 1.800 frammenti di ossa appartenenti ad almeno 27 individui che hanno permesso di ricostruire che gli H. naledi erano alti in media circa 1 metro e 40 centimetri, avevano lunghe braccia e un cervello grande un terzo di quello di H. sapiens.I naledi erano ominini, cioè facevano parte della sottofamiglia di specie che comprende oltre all’essere umano moderno (Homo sapiens) le specie che gli sono più vicine come bonobo e scimpanzé (con la parola “ominidi” si intende invece un gruppo più ampio, di cui fanno parte anche gli oranghi e i gorilla). Si pensa che vissero tra 500mila e 240mila anni fa e che per almeno 50mila anni condivisero il proprio territorio nel sud dell’Africa con la nostra specie. Dovremmo discendere da un antenato comune: è stato stimato che i due rami evolutivi si separarono due milioni di anni fa.Lee Berger tiene una ricostruzione di un cranio di Homo naledi insieme al presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa, il 10 settembre 2015  (EPA/THAPELO MOREBUDI, ANSA)Berger e i suoi colleghi ritengono che gli Homo naledi seppellissero i propri morti per via del luogo in cui sono state trovate le loro ossa e della posizione di alcune in particolare.La camera della grotta Dinaledi in cui sono state rinvenute è la più profonda del complesso ed è collegata al resto attraverso un cunicolo verticale largo solo una ventina di centimetri: fin dai primi tempi dopo la scoperta, la squadra di ricercatori pensò che fosse improbabile che le ossa fossero arrivate nel fondo della grotta trascinate dall’acqua, data la ridottissima ampiezza del cunicolo e l’assenza di altri sedimenti, e ipotizzò che i resti degli ominini vi fossero stati portati intenzionalmente. Si considerarono anche le possibilità che a portarli nella grotta fossero stati dei predatori oppure degli Homo sapiens: la prima ipotesi fu esclusa perché sulle ossa non sono presenti segni di morsi, la seconda perché nella grotta non ci sono segni della presenza di umani.Un’ulteriore possibile spiegazione, che in passato l’accesso alla grotta fosse diverso e più facile, e che fosse diventato più ostico solo in seguito al crollo di una parete, fu scartata per assenza di riscontri.Invece secondo Berger e la sua squadra ci sarebbe una prova a sostegno dell’ipotesi della sepoltura: due scheletri quasi completi sono stati trovati all’interno di depressioni ovali nel terreno che per la loro forma sembrano scavate. I bordi infatti sono netti e ricoperti di fango.L’altra ragione per cui il paleoantropologo pensa che Dinaledi fosse un luogo di sepoltura è la presenza di altre cose all’interno della grotta: frammenti di carbone, ossa di tartaruga e coniglio bruciate e fuliggine sulle pareti apparentemente usata per tracciare dei segni. L’ipotesi di Berger è che gli ominini usassero dei tizzoni ardenti per farsi luce all’interno della grotta e portassero con sé legna o altri materiali per accendere dei fuochi.Sia la rivista del National Geographic che il New York Times, che ha dedicato a sua volta un articolo all’ipotesi di Berger, hanno intervistato vari paleoantropologi non coinvolti negli studi sugli Homo naledi per avere dei pareri terzi in merito. Maxime Aubert, archeologo dell’australiana Griffith University, è uno dei più scettici: ha detto al New York Times che per ora sembra «che la storia che si sta raccontando sia più importante dei fatti». Tutte le prove a sostegno della tesi potrebbero avere altre spiegazioni, in particolare il carbone e i segni fatti con la fuliggine potrebbero essere dovuti al passaggio di Homo sapiens dopo l’estinzione dei naledi.María Martinón-Torres, direttrice del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana (CENIEH) in Spagna, ha definito l’ipotesi di Berger prematura e ritiene in particolare che non ci siano gli elementi per parlare di sepoltura. Paul Pettitt, archeologo dell’inglese Durham University, non è convinto che si possa davvero escludere che sia stato un flusso d’acqua a spingere le ossa nella grotta Dinaledi.Per avere conferme bisognerebbe stimare l’età dei pezzi di carbone e della fuliggine, cosa che finora non è stata fatta anche perché richiede molto tempo. John Hawks dell’Università del Wisconsin, che fa parte della squadra di Berger, ha detto che in futuro sarà fatto ma che nel frattempo lui e gli altri studiosi dei naledi volevano condividere le proprie scoperte con il resto della comunità scientifica per via delle possibili conseguenze straordinarie che avrebbe la loro teoria, se fosse confermata.Finora si è sempre pensato che i comportamenti più complessi della nostra specie e dei neanderthal, come la coscienza della morte e i riti funebri, siano diventati possibili grazie alle dimensioni del cervello molto maggiori di quelle degli altri ominini. Se però anche i naledi erano in grado di scavare tombe e tracciare segni significherebbe che a essere essenziale per il pensiero complesso non sarebbe la dimensione del cervello, ma qualche altra caratteristica. LEGGI TUTTO

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    Ci sono altre mummie preistoriche come Ötzi sulle montagne?

    Il ritrovamento di una mummia di più di 5.300 anni sulle Alpi tra Italia e Austria, nel 1991, fu un evento straordinario non solo per la gran quantità di informazioni che abbiamo ottenuto studiandola, ma anche perché non è si più ripetuto. Si è sempre pensato che fosse perché le circostanze della morte e della conservazione del corpo di Ötzi, come è nota la mummia, furono un caso del tutto eccezionale, probabilmente irripetibile.Ora però un gruppo di ricercatori norvegesi, svizzeri e austriaci contesta quest’idea, e in un articolo pubblicato sulla rivista The Holocene sostiene che «le probabilità di trovare un altro corpo umano preistorico, in un contesto topografico simile a quello del giogo di Tisa, devono essere maggiori di quanto creduto in precedenza, dato che non serve una serie di eventi speciali per la conservazione di questo tipo di reperti, e dato che molte zone simili sono ora caratterizzate [per via del riscaldamento globale] da intensi fenomeni di fusione del ghiaccio».Per capire le argomentazioni dell’articolo è bene sapere che i reperti archeologici emersi dai ghiacci non vengono trovati dentro o sotto i ghiacciai. Infatti qualunque cosa cada nel crepaccio di un ghiacciaio, oppure venga abbandonata sulla sua superficie, per esserne poi assorbita, viene inevitabilmente stritolata e distrutta col passare del tempo: i ghiacciai sono enormi fiumi di ghiaccio e si muovono incessantemente, per quanto lentamente. I ritrovamenti avvengono invece in quelli che sono chiamati con le espressioni in inglese “ice patches” o “cold ice fields”: banchi di ghiaccio e neve perenni che invece sono stabili. Di solito si trovano in zone pianeggianti isolate o all’ombra della cima di una montagna, e possono essere spessi qualche decina di metri.Sui ghiacciai possono essere trovati degli oggetti, ma relativamente recenti: i resti umani più antichi mai rinvenuti risalgono al 17esimo secolo (peraltro non mummificati, ma scheletrizzati), più di frequente sono stati trovati alpinisti o soldati della Prima guerra mondiale.Proprio perché i ghiacciai distruggono ciò che si trova nel loro “percorso” o cade al loro interno, nei primi tempi dopo il ritrovamento di Ötzi era stato ipotizzato che la mummia si fosse conservata perché la conca di roccia di 3 metri per 7 dove era stata trovata avesse mantenuto stabile il ghiaccio che conteneva, mentre un ghiacciaio “scorreva” al di sopra. Secondo gli autori dell’articolo pubblicato su The Holocene però non andò così.Il primo firmatario è il norvegese Lars Pilø, uno dei maggiori studiosi della cosiddetta “archeologia dei ghiacciai”, l’ambito di ricerche di fatto sviluppatosi a partire dal fortuito ritrovamento di Ötzi. Lui e i suoi colleghi pensano che possa essere solo questione di tempo prima di trovare altri resti umani molto antichi nel ghiaccio perché, basandosi su un’analisi della conca rocciosa in cui fu trovata la mummia, e su una ricostruzione dei fenomeni storici di movimento e fusione di ghiaccio e attorno ad altri ghiacciai alpini nelle vicinanze, ritengono che Ötzi si sia conservato in un cold ice field che non si muoveva, cioè in un contesto analogo a quello dove sono state fatte tutte le altre scoperte archeologiche dei ghiacci degli ultimi decenni. Non si sarebbe insomma conservato in circostanze straordinarie, ma comuni per questo tipo di reperti.– Leggi anche: Il ritiro dei ghiacci ci può insegnare delle cose sul nostro passatoAndreas Putzer, archeologo e curatore del Museo Archeologico dell’Alto Adige, dove Ötzi è conservato, è però molto scettico su queste conclusioni. «Si trovano corpi umani in alta quota solo in due casi», ha spiegato: «Se c’è stato un incidente, oppure se, come nel caso di Ötzi, la persona è stata uccisa. I ritrovamenti di oggetti dimostrano che i passi di montagna erano utilizzati dall’uomo anticamente, ma i proprietari di quegli oggetti ci rimanevano solo in caso di incidenti mortali o se uccisi».Secondo Putzer, teoria di Pilø e dei suoi colleghi sul cold ice field non inciderebbe sulla probabilità di trovare altre mummie, che invece è soprattutto legata all’occasionalità di morti in alta montagna avvenute in solitudine. Putzer riconosce che è vero che gli ice patches sono i luoghi in cui la probabilità di trovare oggetti preistorici è più alta, «ma questo non vuol dire che ci siano anche i proprietari degli oggetti».Putzer contesta anche un altro aspetto dell’articolo su The Holocene. I suoi autori lamentano il fatto che le primissime teorie sulla morte e la mummificazione di Ötzi «siano ancora raccontate anche dopo che pubblicazioni scientifiche successive al 1995 ne hanno ripetutamente sottolineato l’implausibilità»: in realtà sia l’esposizione sulla mummia al Museo di Bolzano, sia la guida scritta dall’ex direttrice Angelika Fleckinger, sono aggiornate con le scoperte che si sono succedute negli anni. Ad esempio, quella che Ötzi morì alla fine della primavera o all’inizio dell’estate, e non in autunno come inizialmente ipotizzato: lo si sa dal 2003. «L’unica novità di cui parlano questi ricercatori è che il ghiacciaio, dove si trova il luogo di ritrovamento, non sarebbe mai stato in movimento», ha detto Putzer.C’è però anche un aspetto su cui la ricostruzione su The Holocene si discosta da quella del Museo di Bolzano: secondo Pilø e gli altri Ötzi non sarebbe morto nel punto in cui poi fu ritrovato, ma il suo corpo sarebbe stato trasportato nella conca dall’acqua di fusione della neve e del ghiaccio su cui morì.«Secondo noi è improbabile perché diversi oggetti sembra che siano stati depositati nella conca dall’uomo stesso», ha detto Putzer: «Soprattutto il suo arco che era appoggiato a una roccia in posizione verticale: è impossibile secondo noi che le acque dello scioglimento del ghiaccio abbiano trasportato l’arco fino alla posizione in cui è stato ritrovato migliaia di anni dopo. Questo non è spiegabile. La mummia stessa inoltre pesa 15 chili: per trasportare 15 chili ce ne vuole di acqua».Le ricerche sulla mummia comunque sono ancora in corso. In particolare stanno proseguendo le analisi genetiche, rese sempre più approfondite grazie al continuo progresso in questo campo. Al Museo di Bolzano inoltre hanno intenzioni di fare nuove datazioni al radiocarbonio e di dendrocronologia per ricostruire ancora meglio la storia di Ötzi. «E la Sovrintendenza continua a sorvegliare la zona del ritrovamento e altri passi alpini in cui il ghiaccio si sta sciogliendo», ha concluso Putzer: «Magari spunterà anche un’altra mummia, anche se secondo me è poco probabile». LEGGI TUTTO