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    A Tocaima, in Colombia, c’è un centro che si occupa di curare animali sequestrati dalla polizia, feriti o abbandonati, e da cui vengono le foto di due piccolissimi opossum, un porcospino, un gufo e due cappuccini dalla faccia bianca che fanno parte degli animali di questa raccolta. Ci sono anche un leone evacuato da uno zoo di Rafah a causa degli attacchi israeliani e spostato in un rifugio a Khan Younis e una gazzella in un campo di grano vicino al confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Per finire: api mellifere, una formica, e il cane di Demi Moore che è stato fotografato al photocall di The Substance al festival di Cannes. LEGGI TUTTO

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    Quella appena trascorsa è stata una settimana piena di cani, complice la storica mostra cinofila statunitense del Westminster Kennel Club Dog Show: più di duemila cani sono stati valutati da una giuria che ha espresso giudizi sulla loro bellezza in relazione agli standard delle razze cui appartengono e alle prestazioni nelle varie categorie in cui hanno gareggiato, e i fotografi hanno coperto estesamente l’evento con decine e decine di foto. A contribuire nella raccolta di chi valesse fotografare c’è anche Messi, il cane che compare nel film Anatomia di una caduta, al festival di Cannes, e per bilanciare un po’ la rappresentazione della specie si finisce con cani “normali” che sonnecchiano con un gatto. Poi una femmina di tordo che imbocca i suoi pulcini, una mamma cinghiale che guida in acqua i suoi cuccioli, e una foto che mostra quanto è lunga la lingua di una giraffa. LEGGI TUTTO

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    Nell’ultima settimana al Pier 39, una famosa attrazione turistica di San Francisco, sono stati avvistati più di mille esemplari di leoni marini, il gruppo più numeroso degli ultimi quindici anni: si trovavano lì attratti dalla presenza nelle acque della baia di grandi banchi di acciughe, di cui si cibano. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono un’anatra e i suoi anatroccoli su un tappeto rosso, un cinghiale che corre nei prati, maiali in discarica e pesci tra i coralli. LEGGI TUTTO

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    Questo orango si è medicato da solo una ferita

    Caricamento playerIn una riserva naturale dell’Indonesia, un gruppo di ricerca ha osservato per la prima volta un orango mentre si medicava una ferita al viso utilizzando alcune parti masticate di una pianta. Secondo gli autori, la scoperta si aggiunge alle osservazioni effettuate in precedenza in diverse altre specie note per utilizzare piante e altri rimedi per medicarsi, ma nella maggior parte dei casi ingerendole.
    Il particolare comportamento è stato osservato su un maschio di orango di Sumatra (Pongo abelii) di 35 anni chiamato Rakus, che vive nel Parco nazionale di Gunung Leuser, una grande area naturale protetta nella parte settentrionale di Sumatra. La riserva ospita migliaia di specie vegetali e centinaia tra specie di uccelli e mammiferi, compresi gli oranghi che vengono sorvegliati e seguiti per anni dai gruppi di ricerca per poterli studiare.
    Un gruppo ha da poco pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports uno studio che racconta il modo in cui Rakus si è medicato da solo una brutta ferita che aveva rimediato al viso alla fine di giugno del 2022. Nei giorni seguenti, Rakus aveva iniziato a masticare una pianta che viene chiamata “akar kuning” in parte dell’Indonesia e il cui nome scientifico è Fibraurea tinctoria. La pianta viene utilizzata da tempo nella medicina tradizionale indonesiana ed è nota per avere qualità antinfiammatorie e antibatteriche.
    L’akar kuning non ha un sapore particolarmente gradevole ed è raro che gli oranghi se ne nutrano, per questo quando il gruppo di ricerca ha notato che Rakus aveva iniziato a masticarla si è incuriosito. Oltre a ingerire la pianta, l’orango utilizzava parte della poltiglia ottenuta tramite la masticazione per coprire la propria ferita al viso. Cinque giorni dopo la prima osservazione, la ferita aveva iniziato a rimarginarsi e meno di un mese dopo era scomparsa, senza lasciare segni o infezioni che si sarebbero potute facilmente verificare considerata l’estensione e l’irregolarità del taglio.
    Rakus mentre mastica foglie di Fibraurea tinctoria (Scientific Reports)
    La storia di Rakus ha attirato l’attenzione di molti esperti perché sembra essere senza precedenti. In passato altri primati non umani erano stati osservati mentre applicavano insetti masticati su alcune ferite, ma non erano mai stati trovati primati che lo facessero con le piante. In precedenza era stato osservato un gruppo di oranghi del Borneo (Pongo pygmaeus) mentre si strofinava sulle braccia e sulle gambe le foglie masticate di alcune piante, apparentemente per avere un po’ di sollievo dalle infiammazioni e non per trattare ferite.
    Molti animali sono noti per ingerire piante quando hanno parassiti o infezioni all’apparato digerente, ma finora non erano stati osservati casi di trattamenti di ferite esterne seguendo un principio simile. Non è chiaro come Rakus sia arrivato a trattarsi da solo con l’akar kuning e negli studi di questo tipo è molto importante evitare l’immedesimazione, trasferendo o vedendo comportamenti umani in altre specie. Le ricerche sugli oranghi effettuate negli ultimi decenni hanno comunque evidenziato le grandi capacità di questi animali sia nel risolvere problemi relativamente complessi, sia nel relazionarsi tra loro in modi socialmente elaborati. LEGGI TUTTO

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    Nei giorni scorsi decine di globicefali sono stati trovati spiaggiati sulle coste dell’Australia occidentale, come mostra una delle foto di questa raccolta: con l’aiuto di ufficiali della marina e volontari, più di cento individui sono stati salvati e sono riusciti a tornare nell’oceano (circa trenta sono morti sulla spiaggia). Tra gli animali della settimana c’erano bovini ungheresi arrivati nelle praterie del Parco Nazionale di Hortobagy per il pascolo estivo, due leoni africani durante l’accoppiamento, un falco pescatore in azione, e corgi alla presentazione di una statua della regina Elisabetta II. LEGGI TUTTO

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    Il buco dell’ozono potrebbe essere ancora un problema per gli animali dell’Antartide

    Caricamento playerDa tempo ormai lo strato di ozono che avvolge la Terra ed era stato gravemente ridotto dall’inquinamento atmosferico si sta riformando: si stima che si ripristinerà completamente entro la fine di questo secolo. Tuttavia al di sopra dell’Antartide, dove si era rarefatto di più, il cosiddetto “buco” continua a svilupparsi periodicamente ogni anno, raggiungendo la sua estensione maggiore tra settembre e ottobre. Negli ultimi quattro anni, spiega un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Global Change Biology, è stato particolarmente persistente, rimanendo fino a dicembre. È un fenomeno che preoccupa gli scienziati per i danni che potrebbe fare agli animali antartici.
    Lo strato atmosferico di ozono infatti filtra i raggi ultravioletti dannosi del Sole. In quantità eccessive, questi raggi possono causare seri problemi di salute, tra cui un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori cutanei e malattie degli occhi come la cataratta, agli esseri umani e alle altre specie animali, oltre che danni ai vegetali. Tra settembre e ottobre in Antartide è ancora inverno e la maggior parte delle specie viventi del continente sono protette dalla neve o dal ghiaccio marino. A dicembre invece inizia l’estate australe e dunque gli animali e le (poche) piante presenti in Antartide subiscono una maggiore esposizione ai raggi ultravioletti.
    Il buco nell’ozono sull’Antartide venne scoperto nel 1985 da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico Joe Farman. Il 16 maggio di quell’anno sulla rivista Nature fu pubblicato l’articoli che lo fece conoscere al mondo: è considerato uno dei più influenti del secolo scorso, visto ciò che ne derivò. Due anni dopo una conferenza internazionale vietò i clorofluorocarburi (CFC), i gas responsabili del danneggiamento della fascia di ozono e contenuti nei frigoriferi del passato tra le altre cose. Adesso, quasi quarant’anni dopo, la fascia di ozono si sta lentamente ricostituendo. Quello causato dall’articolo di Farman fu uno dei pochi eventi nella storia recente in cui i leader mondiali riuscirono a prendere una decisione comune per il bene della Terra e ad agire di conseguenza.
    Le temperature particolarmente basse creano le condizioni ideali per generare la reazione chimica in grado di dissolvere l’ozono ed è per questo che ancora oggi i principali buchi dell’ozono (ce n’erano in realtà diversi) rimangono quello sull’Antartide e quello sull’Artico. Nonostante la messa al bando dei CFC continuano a esserci altri fattori che contribuiscono a ridurre la quantità di ozono nell’atmosfera. Ad esempio, si pensa che il fumo prodotto dai grandi incendi boschivi che ci sono stati in Australia tra il 2019 e il 2020 abbia avuto un ruolo nell’aumento della durata del buco sull’Antartide: le particelle disperse nell’atmosfera dagli incendi causano reazioni chimiche con effetto analogo a quelle dovute ai CFC.
    Non sappiamo ancora molto degli effetti di questa persistenza del buco dell’ozono sulla salute degli animali antartici perché la questione non è ancora stata studiata in modo approfondito, ma il nuovo articolo, firmato dalla biologa esperta di cambiamento climatico Sharon Robinson e da altri ricercatori, hanno messo insieme quello che sappiamo.
    Sono stati fatti degli studi ad esempio sulla capacità dei muschi antartici di produrre delle sostanze chimiche che li proteggono dagli effetti negativi degli ultravioletti. È una cosa rassicurante per l’ecosistema del continente, ma significa anche che dovendo usare parte della loro energia per produrre queste sostanze i muschi ne impiegano meno per crescere.
    È anche stato osservato che il cosiddetto “krill”, cioè i piccoli crostacei che vivono nell’oceano in gran numero e rappresentano la base della catena alimentare dell’Antartide, si sposta a maggiori profondità per evitare i raggi ultravioletti. Questa migrazione potrebbe danneggiare tutti gli animali che mangiano il krill, e in particolare le foche, i pinguini e gli altri uccelli marini che hanno bisogno di tornare in superficie per respirare. Ciò che vale per i muschi terrestri peraltro vale anche per il fitoplancton, le alghe microscopiche di cui si nutre il krill, ragione per cui pure la crescita dei piccoli crostacei e di tutti gli animali che li mangiano potrebbe essere influenzata dal buco dell’ozono.
    Per quanto riguarda i rischi per la pelle, è probabile che le pellicce e le penne che ricoprono i mammiferi e gli uccelli antartici siano una protezione efficace dagli ultravioletti. Può darsi che invece i problemi agli occhi siano più probabili.

    – Leggi anche: Nove mesi isolata in Antartide LEGGI TUTTO

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    Non è immediato capire il sesso di un ippopotamo

    La settimana scorsa lo zoo di Osaka, in Giappone, ha annunciato che uno degli ippopotami che ospita non è un maschio, come lo aveva sempre presentato ai visitatori, bensì una femmina. I gestori dello zoo se ne sono accorti dopo ben sette anni dall’arrivo dell’animale nella loro struttura: il motivo è che non è così immediato capire il sesso di un ippopotamo solo guardandolo.L’ippopotamo in questione si chiama Gen-chan e vive a Osaka dal 2017. In precedenza si trovava in uno zoo messicano, Africam Safari, dove era nata. Allo zoo di Osaka avevano sempre creduto che fosse un maschio perché così gli era stata presentata da Africa Safari e inizialmente non c’era ragione di pensare che non fosse vero. I maschi di ippopotamo non hanno uno scroto e i loro testicoli non scendono al di fuori della cavità addominale; il pene inoltre rimane ritratto all’interno del corpo quando non è eretto. E anche i genitali delle femmine sono nascosti.
    Gen-chan era arrivata in Giappone quando aveva 5 anni e i maschi di ippopotamo raggiungono la maturità sessuale intorno ai 7 anni e mezzo, quindi inizialmente anche il suo comportamento non dava indizi che contraddicessero lo zoo messicano.
    Lo zoo di Osaka ha cominciato ad avere dei dubbi perché col passare del tempo l’animale non faceva nulla di tipicamente maschile per un ippopotamo. Una portavoce ha spiegato all’agenzia di stampa AFP che tra le altre cose Gen-chan non spargeva le sue feci intorno a sé usando la coda, come fanno generalmente i maschi di ippopotamo per marcare il proprio territorio, né rivolgeva alle femmine di ippopotamo dello zoo dei richiami di accoppiamento. Inoltre gli addetti alla cura degli ippopotami non erano mai riusciti a vedere genitali maschili, per quanto di per sé questo non fosse risolutivo, perché gli ippopotami sono animali potenzialmente molto aggressivi e per questa ragione un’osservazione ravvicinata non era consigliabile.

    Per dirimere i propri dubbi alla fine lo zoo ha commissionato un test genetico a un’organizzazione esterna e ha appurato che Gen-chan è una femmina. Lo zoo ha deciso di non cambiare il suo nome e ha fatto sapere che alla luce di questa esperienza d’ora in poi eseguirà controlli indipendenti sul sesso dei suoi nuovi animali per evitare che succeda di nuovo qualcosa del genere.
    La conformazione dei genitali degli ippopotami da un lato e la loro aggressività dall’altro sono anche tra le ragioni per cui è parecchio difficile sterilizzare i circa 160 ippopotami che vivono in Colombia e che discendono dai 4 importati nel paese dall’Africa dal narcotrafficante Pablo Escobar, fra gli anni Settanta e Ottanta.
    In Colombia gli ippopotami hanno trovato condizioni ambientali molto favorevoli, oltre a un’assenza di predatori, e per questo si sono riprodotti in gran numero e sono diventati un problema: divorano la vegetazione, tolgono spazio agli animali locali, inquinano il terreno e l’acqua, scavano sentieri nella terra, cambiano il flusso e le condizioni dei corsi d’acqua, come l’acidità e l’ossigenazione. Tra le specie che danneggiano con la loro presenza ci sono ad esempio i lamantini. Il governo colombiano ha in programma di sterilizzare 20 ippopotami entro la fine del 2024 e 40 all’anno successivamente. Le operazioni chirurgiche per farlo sono costose, oltre che complesse: ciascuna costa l’equivalente di quasi 10mila euro.

    – Leggi anche: La sconcertante varietà di peni nel regno animale LEGGI TUTTO

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    Gli animali hanno una cultura?

    Un recente articolo scientifico sui bombi, un genere di insetti della stessa famiglia delle api, ha fornito alcune informazioni rilevanti a sostegno di un’ipotesi da tempo discussa nel campo dell’etologia, la parte della biologia che studia il comportamento animale. L’ipotesi è che la capacità tipicamente umana di imparare dagli altri più di quanto sia possibile imparare da sé nel corso di una vita – condizione necessaria per la formazione di quella che definiamo “cultura” – sia una capacità condivisa con altre specie animali.Pubblicato a marzo sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatrici e ricercatori della Queen Mary University of London e della University of Sheffield, l’articolo descrive i risultati di un esperimento in cui ai bombi era richiesto di risolvere un problema complesso su una specie di giradischi all’interno di una scatola. Per ottenere una ricompensa (una soluzione zuccherina) che percepivano ma non potevano raggiungere direttamente, i bombi dovevano compiere due azioni in sequenza: sbloccare un piatto girevole spingendo un fermo e poi ruotarlo in senso antiorario.
    I bombi, che sono considerati insetti prodigiosi nell’apprendimento sociale, non sono riusciti a risolvere il problema durante l’esperimento, nemmeno dopo un tempo di esposizione prolungata di 24 giorni. Alcuni ce l’hanno fatta solo dopo un addestramento: in pratica gli sperimentatori li hanno indotti ad apprendere il passaggio intermedio ponendo una prima ricompensa sul fermo che bisognava spingere per sbloccare la piattaforma. A quel punto i bombi sono riusciti a superare anche il secondo passaggio e ad arrivare alla soluzione zuccherina.
    Il risultato sorprendente e giudicato più significativo dai ricercatori è che un gruppo di bombi non addestrati, che come tutti gli altri non avevano inizialmente saputo risolvere il problema, è riuscito in seguito a capire come agire senza bisogno della prima ricompensa. Si è limitato ad apprendere dal comportamento di un bombo «dimostratore», cioè uno di quelli addestrati a superare il primo passaggio.

    La capacità degli animali non umani di compiere azioni nuove apprendendo dal comportamento dei propri simili è nota e studiata da decenni in specie come gli scimpanzé, i macachi, i corvi e le megattere. Il risultato descritto nello studio uscito su Nature è tuttavia considerato la prima prova della presenza di questa capacità sociale tra gli invertebrati, applicata alla soluzione di problemi particolarmente complessi: problemi cioè troppo difficili perché un solo individuo possa risolverli procedendo per tentativi ed errori.
    Alcuni commenti a questo esperimento e ad altri simili hanno interpretato i risultati come un’ulteriore prova della possibilità che la cultura, intesa come capacità di una specie di apprendere e diffondere comportamenti complessi in una popolazione, non sia un fatto unicamente umano. L’esempio dei bombi è significativo perché suggerisce che anche i comportamenti di insetti di cui sono note da tempo le sofisticate strutture sociali, come le api, potrebbero essere almeno in parte comportamenti appresi e non innati, che era l’ipotesi finora prevalente.

    – Leggi anche: Capiremo mai come ragionano gli animali?

    Sebbene nel linguaggio comune sia utilizzata in molti modi diversi, la parola “cultura” in etologia e in altre discipline affini ha un significato abbastanza preciso. Indica l’insieme di tradizioni comportamentali di una popolazione, cioè comportamenti tramandati attraverso l’apprendimento sociale e che persistono in un gruppo o in una società nel corso del tempo. I ricercatori hanno osservato nel regno animale numerosi comportamenti che soddisfano questa definizione di cultura cumulativa, contraddistinta da innovazioni sequenziali che si basano su altre precedenti.
    Quasi ogni parte della vita degli esseri umani si basa su conoscenze e tecnologie di questo tipo, troppo complesse per essere gestite da un individuo in modo indipendente e senza una tradizione culturale, appunto. Non sarebbe stato possibile altrimenti viaggiare nello Spazio, per esempio, ma nemmeno far funzionare un wc.
    Un articolo uscito a marzo sulla rivista Nature Human Behaviour ha presentato i risultati di un esperimento simile a quello con i bombi, ma condotto con gli scimpanzé da un gruppo di ricercatori dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania. Nel Chimfunshi Wildlife Orphanage, un rifugio per la fauna selvatica in Zambia, i ricercatori hanno lasciato a disposizione di una comunità di 66 scimpanzé, suddivisi in due gruppi, una scatola di noccioline che funzionava come una specie di distributore automatico.
    Gli scimpanzé potevano vedere e annusare le noccioline, ma per raggiungerle dovevano azionare il distributore raccogliendo una delle palline di legno lasciate dai ricercatori nelle vicinanze. La scatola aveva un cassetto a molla che bisognava aprire e tenere aperto, perché al suo interno si trovava un incavo in cui far scivolare la pallina per ricevere una manciata di noccioline. Dopo tre mesi in cui nessuno scimpanzé è riuscito a far funzionare il distributore, i ricercatori hanno selezionato in ciascuno dei due gruppi una femmina anziana per l’addestramento.
    «Non si può scegliere un animale a caso», ha detto Edwin van Leeuwen, uno degli autori dello studio, spiegando che per il successo dell’addestramento è importante selezionare individui audaci e di rango medio-alto all’interno del gruppo. Una volta finito l’addestramento delle due femmine, il distributore è stato riposizionato e lasciato di nuovo a disposizione dei due gruppi. Dopo due mesi trascorsi in presenza degli individui addestrati, 14 scimpanzé sono riusciti ad azionare il distributore osservando più volte il comportamento di un altro individuo che aveva capito come farlo funzionare.

    Sia lo studio sugli scimpanzé che quello sui bombi sono considerati importanti prove sperimentali dell’apprendimento sociale negli animali, di cui esistono da tempo numerose prove aneddotiche. La capacità di apprendere osservando e imitando il comportamento di altri individui è infatti ritenuto uno dei fattori che contribuiscono a determinare differenze comportamentali intraspecifiche tra gruppi diversi.
    Degli scimpanzé, per esempio, è ben nota la pratica di utilizzare dei bastoncini o dei fili d’erba per catturare le termiti, osservata e studiata fin dai primi anni Sessanta dall’etologa inglese Jane Goodall. Ma alla fine degli anni Novanta lo zoologo e psicologo Andrew Whiten scoprì insieme al suo gruppo di ricerca della University of St Andrews, in Scozia, e alla stessa Goodall che gli scimpanzé utilizzano le tecniche di cattura delle termiti in modo diverso a seconda del gruppo a cui appartengono. Quelli di alcune zone dell’Africa mangiano gli insetti direttamente dal bastoncino, mentre altri usano la mano libera per raccoglierli prima di mangiarli.

    – Leggi anche: Jane Goodall: dilettante, scienziata, attivista, simbolo

    In anni recenti è inoltre aumentata la quantità di prove dell’esistenza di comportamenti sociali, abitudini alimentari e persino canti e richiami diversi tra gruppi della stessa specie. Le differenze sono dovute a fattori ambientali, ma sono anche rese possibili dalla tendenza sociale ad accogliere e diffondere elementi di innovazione introdotti dai singoli individui all’interno dei gruppi. Prove di una simile evoluzione culturale sono state osservate tra le orche, i capodogli e altre cetacei, ma anche tra diverse specie di uccelli.

    Le differenze culturali all’interno di una stessa specie possono riflettersi anche in aspetti della vita sociale più stabili ed evidenti, come hanno mostrato alcuni ricercatori del dipartimento di biologia della Katholieke Universiteit Leuven, in Belgio, e del laboratorio di entomologia dell’istituto Embrapa, in Brasile, in un articolo pubblicato a marzo sulla rivista Current Biology. In un grande apiario a Jaguariúna, in Brasile, il gruppo di ricerca ha osservato 416 colonie di Scaptotrigona depilis, una specie di ape senza pungiglione diffusa in Sudamerica, per due lunghi periodi nel 2022 e nel 2023.
    Circa il 95 per cento delle colonie presentava favi costruiti in strati orizzontali sovrapposti, come torte nuziali su più livelli, il tipo di struttura preferita dalle Scaptotrigona depilis. Le restanti colonie presentavano invece una struttura a spirale: sia in un caso che nell’altro lo stile architettonico veniva mantenuto per molte generazioni di api. Inoltre non c’erano differenze nella velocità di costruzione, quindi nessun vantaggio in termini di efficienza nel seguire uno stile anziché l’altro.

    Per escludere che la differenza di stile derivasse da fattori genetici il gruppo di ricerca ha trapiantato alcuni individui da colonie i cui favi erano costruiti su più strati in colonie con favi strutturati a spirale, e viceversa. Prima di farlo ha svuotato le strutture ospitanti in modo da non lasciare adulti “indigeni” nella colonia, che avrebbero potuto influenzare il comportamento delle operaie importate. In breve tempo le api importate adottavano lo stile locale, che veniva ereditato anche dalle larve della colonia quando maturavano in adulti.
    Secondo il biologo Tom Wenseleers, a capo del laboratorio della KU Leuven che ha condotto la ricerca, le api potrebbero cambiare stile per far fronte all’accumulo di microscopici errori di costruzione commessi dai loro predecessori. Questo processo, in cui alcuni individui di insetti sociali influenzano indirettamente il comportamento di altri attraverso le tracce che lasciano nel loro ambiente, è definito stigmergia. Per avere conferma dell’ipotesi di Wenseleers il gruppo ha quindi introdotto micro-variazioni nella struttura di favi a strati orizzontali sovrapposti, e ha scoperto che in quel caso le api passavano effettivamente alla costruzione a spirale.
    I risultati dello studio sulle api a Jaguariúna suggeriscono che la trasmissione di differenti tradizioni nella costruzione dei favi attraverso le generazioni possa avvenire anche senza bisogno che gli individui siano direttamente istruiti dai loro coetanei. Permettono quindi di pensare alla cultura in termini più ampi, senza intenderla rigidamente come un insieme di comportamenti trasmessi da individuo a individuo fino a diventare caratteristici di un gruppo.
    Anche la trasmissione di comportamenti animali più complessi – come la costruzione delle dighe da parte dei castori o dei giacigli sugli alberi da parte degli scimpanzé – potrebbero avvenire in questo stesso modo indiretto, ha detto Whiten all’Economist. Ed è possibile che processi di stigmergia siano anche alla base della trasmissione di alcune tradizioni umane. LEGGI TUTTO