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    Perché gli asparagi fanno puzzare la pipì

    Intorno al 1780 lo scienziato e politico statunitense Benjamin Franklin scrisse una lettera indirizzata all’Accademia imperiale di Bruxelles chiedendosi se non ci fosse il modo di trovare un rimedio per gli asparagi che «mangiati danno alla nostra urina un odore sgradevole». La lettera era sarcastica ed era stata scritta in seguito all’annuncio di una competizione in matematica che Franklin riteneva inutile e ridicola. Per questo poneva una questione scientifica piccola e all’apparenza insignificante, ma che potrebbe offrire nuovi spunti per comprendere come digeriamo alcuni alimenti e persino il modo in cui percepiamo certi odori.A quasi due secoli e mezzo dalla sua lettera, Franklin oggi sarebbe probabilmente sorpreso nello scoprire che la causa precisa di quell’odore che trovava così sgradevole – a differenza per esempio di Franco Battiato, che disse in una sua canzone di apprezzarlo – è ancora oggi un mistero. Che siano gli asparagi la causa non sfugge praticamente a nessuno vada in bagno qualche tempo dopo averli mangiati, ma non è ancora completamente chiaro quali siano le sostanze e i processi digestivi coinvolti nel nostro organismo.
    Esistono numerose varietà dell’asparago comune (Asparagus officinalis), utilizzate per lo più a scopo alimentare. La produzione raggiunge il picco tra la seconda metà di marzo e il mese di giugno, quando la pianta cresce e fuori dalla terra iniziano a svilupparsi i “turioni”, cioè i getti che vengono raccolti per essere poi consumati. Le varietà di asparago hanno pressoché la medesima composizione chimica e per questo si fanno sentire allo stesso modo nelle urine, con un odore caratteristico e pungente che alcuni trovano insopportabile e verso il quale altri sono del tutto indifferenti.
    (Daniel Kopatsch/Getty Images)
    Tra le prime sostanze sospettate di concorrere alla pipì da asparago ci fu il metantiolo, un composto che i chimici conoscono bene perché ha un odore tremendo simile a quello del cavolo marcio. Nel 1956 un gruppo di ricerca aveva riscontrato la sua presenza nelle urine della maggior parte dei volontari cui aveva chiesto di mangiare asparagi, anche se misteriosamente la sostanza non era presente nei campioni di alcuni partecipanti. La sola presenza del metantiolo non era però sufficiente per spiegare il fenomeno, anche perché un conto sono i composti presenti in un liquido, un altro il modo in cui da questo si producono composti volatili che determinano poi un odore.
    Grazie allo sviluppo di sistemi per analizzare le sostanze volatili, verso la fine degli anni Ottanta fu possibile confermare la presenza di almeno sei composti probabilmente responsabili del caratteristico odore della pipì dopo una mangiata di asparagi. Al metantiolo si erano infatti aggiunti il dimetil solfuro e il disolfuro di metile, il 2,4-ditiapentano, il dimetilsolfossido e il dimetilsolfone. La maggior parte di questi comprendono lo zolfo, elemento che quando si lega con l’idrogeno porta al caratteristico odore di uova marce (lo zolfo in sé è inodore).
    Per quanto odorosi, questi composti sono piuttosto delicati e difficilmente resisterebbero alla cottura degli asparagi, quindi secondo vari gruppi di ricerca emergono come il prodotto di un processo che avviene durante la digestione a partire da qualcosa di lievemente diverso. Si ritiene che quel qualcosa sia l’acido asparagusico, una sostanza non volatile che si trova unicamente negli asparagi. Quando viene digerito dal nostro organismo, entra in contatto con i succhi gastrici e gli altri prodotti della digestione portando a quei composti volatili e odorosi dai nomi complicati.
    La produzione dell’odore avviene piuttosto rapidamente, tanto che spesso inizia a sentirsi nelle urine entro 15-30 minuti dall’ingestione dei primi asparagi. Ne basta inoltre una quantità molto ridotta perché si senta l’odore, proprio per le caratteristiche dei composti volatili che lo causano. Oltre a iniziare quasi subito, il fenomeno si protrae a lungo perché i composti che lo causano restano in circolazione nell’organismo per diverso tempo. È stato calcolato che abbiano un’emivita di circa quattro ore: significa che la loro concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo quattro ore è meta, dopo altre quattro ore è metà della metà e così via, fino a quando la concentrazione diventa trascurabile).
    (AP Photo/Matthew Mead)
    C’è però una questione aggiuntiva che complica le cose: alcune persone dicono di non sentire nessun odore particolare quando fanno pipì dopo avere mangiato asparagi. Le stime variano a seconda degli studi, ma sembra che questa circostanza riguardi tra il 20 e il 40 per cento della popolazione (altre ricerche indicano percentuali ancora più alte). Non è però chiaro se con la digestione queste persone non producano le sostanze volatili odorose oppure se non abbiano la capacità di percepirle con l’olfatto.
    Negli anni Ottanta la questione fu affrontata da un paio di ricerche scientifiche che portarono più o meno alla medesima conclusione. Secondo i test, tutti i partecipanti producevano urina dal caratteristico odore del dopo asparagi, ma non tutte le persone riuscivano poi a percepirlo. Le persone che sentivano l’odore erano in grado di notarlo anche nell’urina delle persone che dicevano di non sentirlo, apparentemente a conferma del fatto che si trattasse di un problema di percezione e non di produzione delle sostanze odorose.
    Le conclusioni di quelle ricerche furono messe in dubbio alcuni anni dopo da nuovi studi che valutarono la possibilità che la questione non fosse solamente di percezione, ma anche di produzione. I test svolti in precedenza si erano infatti basati per lo più su test dove i volontari dovevano odorare la pipì prodotta dopo un pasto a base di asparagi e confrontarla con l’acqua o altre sostanze non odorose. In queste condizioni era probabile che alcune persone notassero un particolare odore dell’urina che però non c’entrava nulla con quello prodotto in seguito all’ingestione di asparagi.
    Nel 2011 un gruppo di ricerca del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia (Stati Uniti) elaborò un test più articolato per provare a superare i difetti degli esperimenti condotti in precedenza. A un gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare asparagi, preparati saltandoli in padella con un poco di olio e sale. Dopo un paio d’ore a ogni volontario fu chiesto di fare pipì in un recipiente, e tutti i contenitori furono poi messi in un congelatore. Il giorno seguente allo stesso gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare una pagnotta condita con la stessa quantità di olio e sale utilizzata in precedenza per la preparazione degli asparagi. Anche in questo caso furono attese due ore e fu poi chiesto ai volontari di raccogliere la loro urina.
    Ottenuti i due campioni si passò alla parte meno gradevole dell’esperimento. A ogni volontario fu infatti chiesto di odorare la propria pipì e quella di altri partecipanti, per vedere chi e come riscontrasse un odore particolare riconducibile al consumo di asparagi. Alcuni partecipanti si sottrassero alla prova, dicendo di non sentirsela o di non riuscire a sopportare l’odore della loro stessa urina dopo avere consumato asparagi. Al netto delle rinunce, il gruppo di ricerca riuscì comunque a calcolare che il 6 per cento dei volontari non fosse in grado di percepire l’odore particolare della pipì del dopo asparagi e che l’8 per cento non producesse urina con il classico odore dovuto al consumo di quella verdura.
    Dallo studio emerse inoltre che almeno una persona non era in grado né di produrre né di percepire il pungente odore di pipì post asparagi. Il gruppo di ricerca ipotizzò quindi che alcune persone non abbiano un particolare enzima coinvolto nel processo di digestione e trasformazione dell’acido asparagusico, ma a oggi non sono stati trovati molti elementi per confermarlo con certezza e l’ipotesi è ancora dibattuta.
    La capacità di percepire o meno quel caratteristico odore dell’urina potrebbe essere legato a un gene, che però non sembra essere coinvolto nei processi digestivi che portano in primo luogo alla produzione del medesimo odore. Indizi sul gene furono forniti una quindicina di anni fa dalla società privata di analisi del DNA 23andMe, che condusse uno studio chiedendo a 10mila dei propri clienti se fossero o meno in grado di percepire il caratteristico effetto degli asparagi sulla pipì. In questo modo fu possibile identificare il probabile gene coinvolto nell’incapacità per alcune persone di percepire quell’odore.
    (Getty Images)
    Nel 2016 un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard (Stati Uniti) condusse un sondaggio tra 7mila volontari chiedendo se fossero in grado di percepire il particolare odore della pipì dopo avere mangiato asparagi. Il 40 per cento circa disse di riuscirci senza problemi, mentre il restante 60 per cento diede risposte meno coerenti. Dalle analisi emerse che possono esserci quasi 900 mutazioni nel DNA che portano a versioni lievemente differenti di alcuni geni, coinvolti nel modo in cui vengono percepiti particolari odori. È però difficile stabilire con certezza quali mutazioni siano coinvolte più di altre nell’incapacità di percepire l’odore che assume l’urina dopo avere consumato asparagi.
    Non tutti i ricercatori sono comunque convinti che sia una componente genetica a determinare la capacità di produrre o meno quell’odore. Le cause potrebbero derivare da molte altre variabili, a cominciare dal modo in cui ciascuno digerisce gli alimenti e dai microbi presenti nella flora intestinale, che a seconda dei casi possono portare alla digestione e alla scomposizione di alcune sostanze e non di altre. Qualcosa di simile avviene del resto con altri alimenti, come l’aglio, che si rivelano essere poi molto odorosi una volta ingeriti per alcune persone e per altre no.
    Nel complesso gli studi condotti negli ultimi settant’anni hanno portato a conclusioni contrastanti segnalando l’esistenza di: persone che producono e percepiscono quel particolare odore nelle loro urine, persone che non producono quell’odore ma lo sentono nella pipì degli altri e persone che non riescono a percepirlo in assoluto. Considerato l’argomento e la sua minore importanza rispetto a molte questioni di salute, la letteratura scientifica intorno all’argomento non è molto ricca, ma l’argomento è stato comunque preso molto più sul serio di quanto avesse ipotizzato Benjamin Franklin a fine Settecento. LEGGI TUTTO

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    Iniziamo a capire qualcosa di più sul mercurio nei tonni

    Un’ampia ricerca da poco pubblicata sull’inquinamento da mercurio nei mari ha segnalato che in alcuni pesci – in particolare il tonno – la concentrazione di questo metallo è rimasta pressoché invariata dagli anni Settanta nonostante varie iniziative e un trattato per ridurre la sua dispersione nell’ambiente. La presenza del mercurio nel pesce può costituire un rischio nella fase di sviluppo del feto durante la gravidanza, ma può avere anche effetti sulla salute delle persone adulte. Secondo la ricerca, anche applicando più rigidamente i regolamenti internazionali potrebbero essere necessari decenni prima di rilevare una riduzione della concentrazione di mercurio nel tonno, tra i pesci più consumati al mondo.Mercurio e metilmercurioQuello che viene definito comunemente “mercurio nei mari” è in realtà il metilmercurio (o per meglio dire catione monometilmercurio), un composto che contiene un legame metallo-carbonio ed è quindi “metallorganico” (il carbonio è centrale nella produzione di composti organici e per la vita). Come suggerisce il nome, questa sostanza si forma a partire dal metallo attraverso l’attività di alcuni batteri anaerobi, cioè che vivono in assenza di ossigeno, e di altri microrganismi presenti soprattutto in laghi, fiumi, mari e sedimenti nelle zone umide. Più il mercurio è presente nell’ambiente, maggiore è la probabilità che una sua parte significativa venga trasformata in metilmercurio.
    Il mercurio si accumula nell’ambiente sia per fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani e gli incendi stagionali nelle foreste, sia a causa dell’attività umana in particolare tramite la combustione dei combustibili fossili e in alcuni processi industriali, per esempio per la preparazione dell’acetaldeide, impiegata in alcuni fertilizzanti, nei solventi e in numerosi altri prodotti chimici.
    Fu proprio la produzione di acetaldeide a portare a una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sui rischi legati alle contaminazioni di mercurio, dopo il disastro ambientale scoperto a Minamata, una città nell’estremo occidente del Giappone. Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’industria chimica sversò nelle acque di scarico grandi quantità di metilmercurio che si accumulò in numerose specie marine, entrando poi nella catena alimentare e causando l’avvelenamento da mercurio di molte persone che abitavano nella zona. L’intossicazione fu tale da portare alla scoperta della cosiddetta “sindrome di Minamata”, una malattia che causa gravi problemi al sistema nervoso e che in alcuni casi può essere mortale.
    Il disastro di Minamata e alcuni altri casi simili portarono alla Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato internazionale adottato nel 2013 da circa 140 paesi per limitare le emissioni di mercurio e dei suoi composti nell’ambiente. La Convenzione è dedicata in particolare alla preservazione degli ambienti marini, dove soprattutto il metilmercurio tende a causare contaminazioni su larga scala all’interno della catena alimentare.
    Salute e alimentazioneIl metilmercurio ha un tempo di permanenza negli organismi relativamente lungo, di conseguenza attraversa buona parte della catena alimentare degli ambienti marini (“bioamplificazione”). Batteri e plancton contaminati diventano il cibo dei pesci più piccoli, che diventano quindi un pasto contaminato per i pesci più grandi e così via fino alle specie ittiche di maggiori dimensioni. Ciò determina un aumento della concentrazione di metilmercurio man mano che aumenta la stazza dei pesci, in particolare di quelli predatori. Molte specie ittiche vengono consumate da altri animali, come gli uccelli o gli esseri umani, che finiscono a loro volta con l’ingerire quella sostanza.
    Rappresentazione schematica della bioamplificazione del metilmercurio (Wikimedia)
    La concentrazione del metilmercurio nei pesci varia a seconda delle specie, della loro stazza, della loro età e naturalmente del luogo in cui sono cresciuti, che potrebbe essere più o meno contaminato. In una stessa specie, i pesci più anziani hanno in proporzione più metilmercurio di quelli più giovani, semplicemente perché sono stati esposti più a lungo a questa sostanza che impiega molto tempo per essere smaltita. Il metilmercurio ha infatti un’emivita intorno ai due mesi e mezzo nelle specie acquatiche: significa che la sua concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo 2,5 mesi è metà, dopo altri 2,5 mesi è metà della metà e così via). I pesci in cui sono solitamente riscontrate le maggiori concentrazioni sono i pesci spada, gli squali e i tonni di grandi dimensioni e più anziani.
    Quando si mangia pesce contenente metilmercurio, questo viene assorbito dal sistema digerente e passa nella circolazione sanguigna, attraverso la quale si distribuisce in buona parte dell’organismo, compreso il sistema nervoso. La sua emivita nel sangue è di 50 giorni, ma è raro che con una normale alimentazione si raggiungano livelli da grave intossicazione, come avvenne per esempio a Minamata dove le concentrazioni erano molto alte.
    Le caratteristiche organiche del metilmercurio fanno sì che riesca a legarsi fortemente alle proteine, rendendo quindi più difficile la sua eliminazione da parte dell’organismo. Durante la gravidanza può avvenire il trasferimento al feto del metilmercurio assunto con l’alimentazione e sopra una certa soglia possono esserci rischi, legati per esempio a un minore sviluppo del sistema nervoso centrale; nelle persone adulte possono esserci maggiori rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari.
    Stabilire limiti per il metilmercurio non è semplice e ancora oggi le soglie da stabilire sono piuttosto discusse tra gli esperti. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha indicato una «dose tollerabile di assunzione» di 1,3 microgrammi per chilogrammo di massa corporea. È un indicazione che può apparire un poco criptica, considerato che nel momento in cui si consuma un piatto di pesce non si può sapere quale sia l’effettiva concentrazione (per il comparto alimentare ci sono comunque livelli massimi indicati nel regolamento dell’Unione Europea 2023/915). Per questo l’EFSA ha fornito indicazioni un poco più approssimative, ma utili nella vita di tutti i giorni.
    Il consiglio dell’EFSA, in linea con quelli di altre autorità ambientali e sanitarie in giro per il mondo, è di consumare pesce tra le due e le tre volte alla settimana, cercando di variare il più possibile i tipi di pesce e limitando il consumo di quelli di taglia medio-grande, che potrebbero avere un maggior contenuto di metilmercurio come pesci spada, naselli e tonni. Maggiori attenzioni dovrebbero essere mantenute per i bambini e dalle donne nel periodo della gravidanza, ma in generale l’EFSA invita comunque a mangiare pesce perché i suoi nutrienti sono comunque importanti nella fase della crescita e in età adulta. Come per molte altre cose che riguardano l’alimentazione, la questione di fondo è trovare un equilibrio tollerabile tra i rischi e i benefici portati dal consumo di un certo alimento.
    Emissioni e concentrazioneLe maggiori attenzioni portate dalla Convenzione di Minamata hanno contribuito negli ultimi decenni a ridurre la presenza di nuovo mercurio e nuovo metilmercurio negli ambienti marini, ma le analisi indicano che c’è comunque un certo accumulo che richiederà del tempo per essere smaltito. Lo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology Letters, ha riguardato ricerche pubblicate nei decenni scorsi e nuovi dati che insieme hanno permesso di avere a disposizione analisi su quasi 3mila campioni di tonni, raccolti tra gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano negli ultimi 50 anni, con particolare attenzione ai tipi di tonno più pescati e consumati (tonno pinne gialle, tonno obeso e tonno skipjack).
    Dalle analisi è emerso che nonostante una riduzione nelle emissioni di mercurio a partire dagli anni Settanta, i livelli di metilmercurio nel tonno sono rimasti sostanzialmente invariati. Secondo la ricerca, la causa è probabilmente il modo in cui gli accumuli di metilmercurio si sono distribuiti nelle acque oceaniche. Il moto ondoso e la differenza di temperatura nell’acqua fa sì che in alcune circostanze questa sostanza raggiunga profondità meno basse, dove vivono i pesci che diventano poi prede dei tonni. Il processo non è però completamente chiaro, ma evidenzia una certa inerzia del sistema legata alle grandi quantità di mercurio accumulate nei secoli passati sia naturalmente sia in seguito alle emissioni derivanti dalle attività umane.
    Anche se i livelli di metilmercurio non sono diminuiti (nel caso del tonno skipjack c’è stato un lieve aumento, probabilmente dovuto alle maggiori emissioni di mercurio in Asia), c’è comunque una notizia incoraggiante: nessuno dei campioni analizzati ha fatto registrare concentrazioni superiori ai limiti per il consumo del tonno. Lo studio segnala comunque che le emissioni di mercurio dovranno essere ridotte molto di più per vedere una riduzione nella concentrazione di mercurio negli oceani nei prossimi 10-25 anni. A quel punto, per rilevare una riduzione nella concentrazione di metilmercurio nella carne del tonno e di altri pesci predatori potrebbero essere necessari diversi altri decenni. LEGGI TUTTO

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    Cos’è questa storia del riso alla carne coltivata

    Caricamento playerLa notizia di un nuovo riso arricchito con carne coltivata ha portato ulteriori elementi al già ampio e talvolta agguerrito dibattito sulle nuove tecnologie per produrre carne in modo più sostenibile. La novità è stata ripresa da molti giornali italiani, talvolta con qualche titolo creativo o allarmato, con il rischio di portare ulteriore confusione in un argomento complesso e dalle numerose implicazioni che ci riguarderanno sempre di più.
    Sulla rivista scientifica Matter, che fa parte del gruppo editoriale che pubblica anche la più famosa Cell, un gruppo di ricerca della Corea del Sud ha annunciato di essere riuscito a utilizzare il riso come “impalcatura” per far crescere piccole quantità di tessuto muscolare e di grasso sui chicchi, ottenendo un alimento con valori nutrizionali lievemente diversi rispetto a quelli del riso normale.
    L’esperimento non ha quindi riguardato in alcun modo la modifica genetica della pianta del riso e di conseguenza non ha portato alla formazione di nessun “ibrido” propriamente detto, anche se da alcuni articoli su agenzie di stampa e giornali poteva sembrare il contrario. Il lavoro di ricerca è consistito nello sperimentare un sistema alternativo per far crescere la carne, rispetto a quelli esplorati finora in numerosi laboratori in giro per il mondo.

    – Ascolta anche: La puntata di Ci vuole una scienza sulla “carne sintetica”

    A causa della mancanza di prodotti alternativi che si avvicinino all’esperienza di mangiare della carne (in particolare di bovino, la cui produzione ha un alto impatto ambientale), da tempo si cerca di creare della carne in vitro, cioè partendo da cellule animali che vengono fatte crescere e differenziare per produrre tessuti, imitando ciò che avviene normalmente con la crescita di un essere vivente. Le tecniche più diffuse prevedono di partire da cellule staminali, che non sono quindi ancora specializzate e che hanno la potenzialità di differenziarsi nei vari tipi di cellule mature che costituiscono poi un tessuto.
    Le cellule non sono “sintetiche”, ma derivano da un prelievo effettuato da animali già vivi o da embrioni, a seconda delle tecniche utilizzate. Dopo essere state selezionate e isolate, le cellule staminali vengono inserite in contenitori nei quali è presente un terreno di coltura, di solito una soluzione che contiene sostanze nutrienti di vario tipo. In questo modo le cellule iniziano a crescere e a replicarsi, ma il procedimento non è sufficiente per arrivare a un tessuto paragonabile al muscolo di un animale, cioè alla carne che si consuma normalmente. Le cellule hanno bisogno di una sorta di impalcatura che le sostenga, che le aiuti a svilupparsi e a continuare a differenziarsi e proliferare.
    La costruzione di questa impalcatura si è rivelata il passaggio più difficile da realizzare nella produzione della carne coltivata e per questo, da diverso tempo, vari gruppi di ricerca sono al lavoro per trovare il giusto sistema per realizzarlo. Il gruppo di ricerca sudcoreano si è quindi chiesto se non fosse possibile cambiare approccio, rinunciando a una impalcatura troppo complessa e sfruttando un alimento molto diffuso come il riso, sul quale far crescere minuscoli pezzi di carne.
    Come spiega lo studio su Matter, un primo tentativo era consistito nel far crescere cellule di bovino direttamente nelle minuscole fessure e irregolarità di ogni singolo chicco di riso, ma non aveva portato ai risultati sperati perché le cellule non si fissavano sulla sua superficie. Il gruppo di ricerca aveva allora esplorato varie alternative per favorire il legame tra riso e cellule, scoprendo di poter ottenere buoni risultati con la colla di pesce e la transglutaminasi, un enzima molto utilizzato nelle preparazioni di alimenti come alcuni tipi di salsicce, würstel o nel surimi (l’imitazione della polpa di granchio).
    (Yonsei University)
    I chicchi di riso crudi erano stati quindi glassati con quei due ingredienti e poi sottoposti al processo di coltivazione, usandoli come impalcatura sulla quale far aggregare e crescere le cellule di muscolo e grasso animale. Il preparato era stato tenuto poi in un terreno di coltura per circa una settimana, dando il tempo alle cellule di espandersi.
    Terminato il periodo di coltura, il riso era stato lavato e fatto bollire, come per la preparazione di un normale piatto di riso. Il gruppo di ricerca ha poi assaggiato il risultato finale, segnalando di avere assaggiato chicchi con un sapore lievemente diverso dal solito, con note di frutta secca, probabilmente dovute alla presenza dei minuscoli pezzi di carne.
    Il riso è stato poi analizzato per calcolarne i valori nutrizionali rispetto a una porzione identica, ma non sottoposta all’aggiunta della carne coltivata. Le differenze riscontrate non sono state enormi, ma comunque non trascurabili: tra riso normale e trattato c’è una differenza del 9 per cento di proteine e del 7 per cento di grasso a favore del secondo. Mangiarne circa 100 grammi equivale a mangiare poco meno di un etto di riso e un grammo di bistecca di manzo. Il contenuto di carne è quindi minimo, probabilmente perché le cellule creano una sottilissima pellicola intorno a ogni chicco, ma secondo il gruppo di ricerca ci sono margini per aumentarne in modo significativo la quantità.
    La produzione potrebbe essere relativamente semplice, perché esclude buona parte delle complicazioni legate alla costruzione dell’impalcatura per produrre pezzi di carne più grandi e dalla giusta consistenza, paragonabili quindi a una normale bistecca. Il riso con carne coltivata sarebbe meno costoso e avrebbe inoltre il pregio di avere un basso impatto ambientale, soprattutto dal punto di vista delle emissioni, se confrontato con la carne ottenuta dagli allevamenti. Il riso è inoltre uno degli alimenti più consumati in Asia e potrebbe aiutare a risolvere i problemi della malnutrizione, legata a un’assunzione non adeguata di proteine. Ci sono però molti aspetti da chiarire sulla praticità del sistema, soprattutto se confrontato con alternative per rendere direttamente più proteico il riso, intervenendo con tecniche di editing genetico.
    Come avviene spesso in questo ambito, al momento il lavoro svolto in Corea del Sud è sperimentale e dimostrativo: sarà necessario ancora del tempo prima di una eventuale messa in vendita, anche perché al momento solamente Stati Uniti e Singapore rendono possibile la commercializzazione di prodotti contenenti carne coltivata. Secondo il gruppo di ricerca, una produzione su scala industriale potrebbe comunque consentire di contenere i costi e di avere un riso con carne coltivata che costa l’equivalente di pochi centesimi di euro in più al chilogrammo rispetto al riso non trattato. LEGGI TUTTO

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    In Europa le alghe a tavola andavano forte

    Le alghe sono un ingrediente importante nella cucina di molti paesi asiatici, mentre sono pressoché assenti dalla tradizione culinaria europea. La nostra esperienza a tavola raramente si spinge oltre le alghe utilizzate come guarnizione di un piatto o come sperimentazione di qualche estroso chef, eppure secondo uno studio condotto sui resti di alcuni nostri antenati sembra che tra l’età della pietra e il Medioevo il consumo di alghe fosse diffuso in buona parte dell’Europa. Il gruppo di ricerca ritiene che si utilizzassero sia le alghe di mare sia quelle di acqua dolce, seppure con qualche differenza a seconda della vicinanza o meno alle aree costiere.Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, ha preso in considerazione i resti di 74 individui provenienti da una trentina di siti archeologici in Europa, risalenti a migliaia di anni fa quando le società erano di cacciatori-raccogliotori, al successivo sviluppo dell’agricoltura e infine alle società più evolute e organizzate del Medioevo. Per capire quale fosse la loro dieta, il gruppo di ricerca ha analizzato i depositi di tartaro sulla loro dentatura, utilizzando un sistema per analizzarne la composizione molecolare.– Leggi anche: Perché non mangiamo tanto i fioriIl tartaro si forma a causa della placca batterica e dei sali presenti nella saliva, con depositi che si calcificano e al cui interno rimangono intrappolate altre sostanze la cui presenza può essere rilevata anche dopo molto tempo. Prelevando campioni di tartaro e analizzandoli, il gruppo di ricerca ha identificato molecole tipiche di alcune specie di alghe, che evidentemente erano state masticate ed era una costante nella dieta di quegli individui. Come prevedibile, la presenza di tracce molecolari delle alghe è risultata più marcata nei resti trovati in siti archeologici sulle zone costiere, ma sono stati comunque trovati indizi sul consumo di piante acquatiche anche nell’entroterra, dove si consumavano specie vegetali provenienti da laghi e stagni.(Nature Communications)In passato altri studi avevano indagato le abitudini alimentari delle persone vissute migliaia di anni fa, basandosi soprattutto sui resti di animali e molluschi – come ossa e conchiglie – che possono essere ritrovati con relativa facilità nei siti archeologici. Ricostruire la dieta legata ai vegetali è invece più difficile, perché raramente si trovano indizi sufficienti, per esempio sugli utensili e le suppellettili. L’analisi di carbonio e azoto sui reperti può rivelare la presenza di resti animali, mentre più raramente dà qualche indicazione sui vegetali. Il gruppo di ricerca ha quindi seguito un approccio diverso, cercando le “firme biologiche” dei vegetali con un sistema di analisi molecolare.Il consumo di alghe era stato ipotizzato in precedenti studi per le popolazioni europee vissute nel Mesolitico, il periodo intermedio dell’età della pietra tra i 12mila e i 10mila anni fa. Si riteneva che gli individui dell’epoca fossero grandi consumatori di alghe, ma che l’abitudine alimentare si sarebbe persa quando iniziò a diffondersi l’agricoltura e a ridursi la necessità di cacciare e raccogliere dagli ambienti naturali. Il nuovo studio mette fortemente in dubbio questa ipotesi, segnalando come il consumo di alghe fosse ancora continuato a lungo per svariati millenni.Non è chiaro che cosa determinò la fine del consumo di alghe in epoca medievale in Europa e la ricerca non fa ipotesi al riguardo. Non ci sono inoltre molte fonti sul loro utilizzo nei documenti del Medioevo, circostanza che spinge a qualche cautela e alla necessità di effettuare ulteriori approfondimenti per esempio analizzando ulteriori campioni da altri siti archeologici.Laverbread (Wikimedia)Alcune tracce dell’impiego delle alghe nella cucina europea sono comunque arrivate fino ai giorni nostri. Nel Galles si prepara ancora il “laverbread”, una pietanza a base di Porphyra umbilicalis e di Ulva lactuca, due specie di alghe che vengono fatte bollire fino a quando iniziano a disfarsi. Il risultato finale è una sorta di pasta gelatinosa che può essere mangiata da sola, oppure per accompagnare piatti a base di carne. In Asia diverse alghe appartenenti al genere Porphyra sono impiegate per numerose preparazioni, l’utilizzo più noto è quello per il sushi (nori).In generale, le alghe sono nutrienti e possono far parte della dieta, a patto di non eccedere a causa del loro alto contenuto di iodio. Sono disponibili durante tutto l’anno e spesso in grandi quantità, circostanze che probabilmente influirono sul loro consumo un tempo in Europa e che ancora oggi determina un loro ampio utilizzo nei paesi orientali. LEGGI TUTTO

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    Come funziona il “digiuno intermittente”, se funziona

    Complici alcune dichiarazioni di personaggi famosi e la pubblicazione di libri che se ne occupano, negli ultimi mesi è tornato di moda ed è diventato molto discusso il cosiddetto “digiuno intermittente”. Secondo chi lo pratica, non solo aiuterebbe a perdere peso velocemente, ma anche a mantenersi in salute e in generale a sentirsi meglio. Di recente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto di avere «perso 6 chili grazie al digiuno intermittente», aggiungendosi alla lista piuttosto lunga di persone che hanno detto di essere dimagrite seguendo questa pratica. In precedenza se ne era parlato molto in seguito ad alcune dichiarazioni di Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova, molto presente in televisione negli ultimi anni come esperta di cose intorno alla pandemia da coronavirus.Il digiuno intermittente ha ottenuto un certo successo perché viene spesso presentato come una soluzione per perdere rapidamente peso, con minori sacrifici rispetto a quelli richiesti dalle classiche diete. Chi lo pratica difficilmente si consulta prima con una persona che ha studiato nutrizione, ritenendo di dovere applicare solo qualche semplice regola per iniziare a dimagrire. È un approccio che può comportare qualche rischio, soprattutto per le persone con particolari problemi di salute, magari legati proprio al loro metabolismo e dei quali non sono pienamente consapevoli.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sul digiuno intermittenteA digiunoLa percezione di dover seguire regole molto semplici deriva probabilmente dal fatto che di per sé digiunare non è complicato: consiste nello smettere di mangiare e in alcuni casi di bere per un certo periodo di tempo. È una pratica che viene seguita da millenni, per motivi culturali e religiosi a seconda delle popolazioni e dei contesti interessati. Nell’antica Grecia si digiunava prima di consultare gli oracoli, mentre nello sciamanesimo in varie culture africane era praticato prima di poter “comunicare” con gli spiriti. Il digiuno è inoltre visto come una via per avere esperienze mistiche, come per esempio nel buddhismo. In molte religioni è un modo per fare penitenza, per meditare e per concentrarsi su necessità diverse da quelle terrene: durante il mese del Ramadan, centinaia di milioni di persone musulmane nel mondo digiunano nelle ore di sole. In un digiuno prolungato consiste anche lo sciopero della fame, forma di protesta adottata spesso dalle persone detenute.Uno degli effetti del digiuno prolungato è inevitabilmente il dimagrimento, perché in mancanza del cibo il nostro organismo prova a compensare utilizzando ciò di cui dispone, come le riserve di grasso e le proteine presenti nei tessuti muscolari. Partendo da questo presupposto, già all’inizio del Novecento alcuni gruppi di ricerca iniziarono a chiedersi se una versione attenuata con brevi periodi di digiuno potesse essere impiegata per trattare l’obesità. Erano i primi esperimenti e tentativi in genere poco sistematici e strutturati, che portarono a pochi studi e non molto rilevanti. Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta, quando iniziarono a essere pubblicate ricerche un poco più estese e articolate.Nelle prime esperienze documentate, erano previsti periodi di digiuno che variavano da un giorno a un paio di settimane a seconda dei casi. Già all’epoca si potevano trovare articoli entusiastici sul digiuno intermittente anche se non c’erano molti elementi per determinarne efficacia e sicurezza. Sperimentare e studiare le diete è sempre molto difficile, sia perché ogni persona è fatta diversamente e reagisce in modo diverso a trattamenti e terapie, sia perché seguire per lungo tempo un numero ragionevole di persone per determinare l’efficacia di una dieta richiede grandi risorse e soprattutto una certa dedizione da parte dei partecipanti allo studio. Questo spiega perché, a distanza di quasi un secolo dai primi studi, ancora oggi non ci sono elementi chiari sull’utilità del digiuno intermittente, come del resto è avvenuto per molti altri tipi di diete.I digiuni intermittentiNon esiste del resto un solo tipo di digiuno intermittente: ci sono più varianti e ognuno finisce col personalizzare le proprie abitudini alimentari come meglio crede, talvolta con qualche rischio per la salute. In linea generale, il digiuno intermittente consiste nell’astenersi dal cibo e dalle bevande caloriche per un certo periodo di tempo nel corso della giornata o della settimana. Frequenza e durata dei cicli di digiuno variano molto a seconda dei casi, ma si possono identificare due grandi categorie.La prima è quella delle diete a “digiuno periodico” nelle quali si alternano giornate intere di digiuno, o comunque di forte restrizione calorica, e giorni in cui si mangia normalmente. La seconda è la categoria delle diete con alimentazione a restrizione oraria: si mangia solo in alcune ore della giornata.In questi due filoni si inseriscono numerose diete che combinano fasi di digiuno alla normale alimentazione, in modi talvolta creativi e che ricordano un poco la regolazione del traffico a targhe alterne. C’è il digiuno a giornate, che prevede un giorno in cui si digiuna alternato a uno in cui si mangia; c’è la dieta 5:2 con due giorni di digiuno e cinque liberi; c’è la dieta “mima digiuno” dove viene consigliato il consumo soprattutto di verdure e che ha una durata di cinque giorni, nei quali si riduce progressivamente l’apporto calorico. Altri sistemi prevedono di mangiare in un intervallo di 8-10 ore e di digiunare per le restanti 16-14 ore: sono tra quelli più seguiti, semplicemente perché è relativamente più immediato saltare un pasto e sfruttare il sonno durante il quale già normalmente si digiuna.Roditori e umaniChi promuove il digiuno intermittente fa spesso riferimento agli studi effettuati su topi e altri roditori negli ultimi anni, dove si segnala come l’alimentazione a giorni alterni mantenga questi animali magri e più sani secondo alcuni parametri, per esempio con un aumento della durata della loro vita. Non è ancora completamente chiaro perché ciò avvenga, ma si ipotizza che in mancanza di nutrienti introdotti con l’alimentazione, l’organismo passi a utilizzare in modo più intensivo le risorse di glicogeno, una delle principali riserve energetiche dell’organismo, e il grasso corporeo.Negli esseri umani è più difficile replicare le medesime condizioni ottenute con i roditori e di conseguenza non ci sono elementi chiari per sostenere che il digiuno intermittente sia più efficace, o più sicuro e sano, rispetto alle classiche diete. Lo scorso anno un gruppo di ricerca aveva diviso 139 persone con obesità in due gruppi per sottoporle a due diversi tipi di diete: una di restrizione calorica classica, mangiando meno ai soliti pasti, e una di digiuno intermittente con pasti consentiti solo tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio. Per entrambi i gruppi era prevista nel complesso l’assunzione di 1500-1800 chilocalorie al giorno per gli uomini e di 1200-1500 chilocalorie per le donne.Al termine della sperimentazione durata circa un anno, il gruppo di ricerca ha riscontrato valori simili di perdita di peso tra i due gruppi, così come ha riscontrato dati paragonabili nella riduzione del grasso corporeo, della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. I due regimi calorici avevano in sostanza dato i medesimi risultati, suggerendo che non ci siano particolari differenze tra i due approcci e soprattutto che il digiuno intermittente non comporti miglioramenti significativi nella perdita di peso rispetto a una dieta normale.Mangiare menoCi sono vari elementi per ritenere che il digiuno intermittente funzioni solo quando porta a una riduzione delle calorie assunte ogni giorno rispetto alle proprie abitudini. È del resto una conclusione piuttosto intuibile, che sfata però uno dei miti o delle convinzioni di molte persone che seguono un digiuno intermittente, sostenendo di mangiare ciò che vogliono e nelle quantità che preferiscono nelle ore “consentite”, immaginando che in qualche modo il metabolismo cambi e provveda al dimagrimento nel resto delle ore della giornata.In realtà, se si verificano le dichiarazioni di chi sostiene il digiuno intermittente, per esempio tra persone con una certa visibilità pubblica, si nota che il principale motivo del dimagrimento è la riduzione della quantità di cibo assunta e che questa è molto più rilevante rispetto al periodo della giornata in cui si mangia o si digiuna. Renzi ha per esempio detto di avere ripreso a correre con maggiore assiduità, mentre Viola ha spiegato di avere eliminato quasi del tutto il consumo di bevande alcoliche, che sono particolarmente caloriche. In entrambi i casi ci sono stati cambiamenti nelle abitudini che vanno al di là dei giorni in cui si mangia o meno.Per molte persone il digiuno intermittente funziona meglio di altre diete perché si deve rispettare un programma orario rigido che riduce le possibilità di sgarrare, fare eccezioni o cedere a qualche tentazione. Gli orari di alcune versioni del digiuno intermittente favoriscono inoltre il salto o la riduzione di alcuni pasti, come la cena: se si deve fare l’ultimo pasto entro le 16 è probabile che si abbia meno fame essendo ancora sazi dal pranzo e che si vada a dormire prima che venga nuovamente fame, per esempio. Il numero inferiore di pasti aiuta ovviamente a mangiare meno ed è un’ulteriore dimostrazione che il digiuno intermittente è paragonabile a una dieta.Un dimagrimento sano passa di solito da una relativa riduzione delle calorie che si introducono con gli alimenti ogni giorno e dal praticare attività fisica. Diete con una marcata riduzione delle calorie dovrebbero essere seguite sotto la supervisione di medici e mediche, che a seconda dei casi possono raccomandare esami e accertamenti di vario tipo prima di prescrivere una dieta. LEGGI TUTTO

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    Com’è la giornata media di un essere umano nel mondo

    Caricamento playerUn gruppo formato principalmente da ricercatori e ricercatrici della McGill University a Montréal, in Canada, ha utilizzato un insieme molto ampio ed eterogeneo di dati e statistiche – demografiche, economiche e di altro tipo, nazionali e internazionali – per elaborare una stima di quanto tempo le persone dedicano in media ogni giorno ad azioni e attività comuni a tutti come nutrirsi, lavarsi, dormire e lavorare. Le informazioni ricavate sono sorprendenti per alcuni aspetti (lavoriamo “solo” 2,6 ore) e prevedibili per altri, e si spiegano principalmente perché a fare media è l’intera popolazione umana: circa 8 miliardi di persone, di ogni età e luogo geografico.I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e intitolata The global human day, sono considerati dal gruppo un’indicazione fondamentale per comprendere la ripartizione del tempo su scala mondiale nell’arco di una giornata. E si prestano a essere utilizzati in diversi ambiti di ricerca per studiare in dettaglio quali siano i fattori alla base delle differenze nelle ripartizioni tra un paese e l’altro, e su quali sia possibile intervenire per cercare di distribuire il tempo diversamente in modo da ridurre o contrastare eventuali rischi globali.La ricerca si basa sull’aggregazione di dati relativi a 145 paesi, raccolti da enti, agenzie e organizzazioni nazionali e internazionali (Banca Mondiale, OCSE, Unicef e altri), tra il 2000 e il 2019: il periodo successivo non è stato preso in considerazione per evitare condizionamenti dei risultati dovuti alla pandemia. I dati includono sondaggi sul tempo destinato alle varie attività quotidiane, statistiche sull’occupazione e sugli orari di lavoro degli adulti, e sull’istruzione e l’occupazione tra i giovani.La singola categoria più ampia nella ripartizione del tempo è quella del sonno e del riposo a letto: un essere umano trascorre in media circa 9,1 ore al giorno dormendo o riposando. È una media significativamente maggiore rispetto a quella del sonno tra gli adulti: che è 7,5 ore, secondo uno studio danese del 2020 che utilizzò dati ricavati tramite dispositivi indossabili su un campione internazionale di circa 70 mila adulti. Il motivo della differenza è che la ricerca della McGill University include nella stima il tempo trascorso a letto anche senza dormire, e soprattutto include il sonno e il riposo di bambini piccoli e neonati (12-16 ore al giorno).Un bambino dorme in una palafitta a Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni, in Brasile, il 29 luglio 2020 (Pedro Vilela/Getty Images)Le restanti 15 ore al giorno circa non destinate al sonno né al riposo sono state suddivise in tre macro-gruppi, ciascuno dei quali con diverse categorie e sottocategorie. Il macro-gruppo più grande (9,4 ore) riguarda le attività con «risultati umani diretti», cioè svolte dalle persone con l’obiettivo di ottenere un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro menti e sulle loro esperienze.Sono attività di questo tipo, per esempio, la pulizia personale e la cura del proprio aspetto e della propria salute, che occupano in totale poco più di un’ora al giorno. Alla consumazione dei pasti è dedicata in totale poco più di un’ora e mezzo, preparazione dei cibi esclusa (che rientra in un altro macro-gruppo e prende un’altra ora circa). La categoria che all’interno di questo macro-gruppo richiede più tempo di tutte – circa un terzo di tutto il tempo da svegli – sono le «attività passive, interattive e sociali»: occupano in media 4,6 ore al giorno e includono leggere, utilizzare dispositivi con schermi o display, giocare, passeggiare, socializzare e anche star seduti senza fare niente.Il tempo trascorso per l’istruzione e le attività scolastiche e universitarie è poco più di un’ora al giorno, e comprende la frequentazione delle lezioni, lo studio, la ricerca e la didattica a distanza. Circa 12 minuti al giorno è il tempo destinato alle pratiche religiose, incluse le cerimonie, le preghiere e le attività di meditazione: che è più o meno lo stesso tempo dedicato in media alle cure mediche e all’assistenza, inclusa quella domestica e non retribuita, alle persone che ne hanno bisogno.Un ragazzo si lava vicino a una fabbrica di mattoni a Islamabad, in Pakistan, il 27 dicembre 2011 (AP Photo/Muhammed Muheisen)Un altro macro-gruppo riguarda le attività con «risultati esterni», descritte come quelle che hanno lo scopo di produrre cambiamenti fisici nel mondo: occupano complessivamente 3,4 ore al giorno. Includono tutte le attività necessarie alla fornitura di alimenti (1,8 ore circa), inclusa l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, la lavorazione dei prodotti e la preparazione dei pasti. E includono anche l’estrazione di materie prime ed energia dall’ambiente (6 minuti circa), la costruzione di edifici, infrastrutture e manufatti (42 minuti circa), il mantenimento della pulizia e dell’ordine della casa e degli spazi abitati (48 minuti circa), e la gestione dei rifiuti (36 secondi circa).Il terzo e più piccolo macro-gruppo di attività – poco più di 2 ore al giorno – sono quelle con «risultati organizzativi», relative cioè all’organizzazione dei processi sociali e dei trasporti. Includono lo spostamento di persone (quasi un’ora circa) e di merci (18 minuti circa), e ogni attività commerciale, finanziaria, governativa, politica e, in generale, di gestione del tempo e dei diritti delle persone (un’altra ora circa).L’esterno di un locale nel quartiere Soho, a Londra, il 12 aprile 2021 (AP Photo/Alberto Pezzali)La prima grande classificazione utilizzata dai ricercatori e dalle ricercatrici della McGill University si basa quindi sul risultato e sull’obiettivo per cui le attività sono svolte, a prescindere che siano a pagamento oppure no. Per esempio: l’assistenza fisica all’infanzia, che fa parte del primo macro-gruppo e occupa circa 18 minuti al giorno, include sia il lavoro retribuito degli asili che quello non retribuito dei genitori. E la preparazione del cibo, che fa parte del secondo macro-gruppo, include sia cucinare a casa che lavorare in un ristorante.Tenendo invece in conto soltanto le attività economiche considerate un’«occupazione» dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), la media del tempo di lavoro su scala mondiale è di circa 2,6 ore al giorno: circa l’11 per cento della giornata, o un sesto delle ore di veglia. Potrebbe sembrare poco, scrivono gli autori e le autrici della ricerca, ma equivale a una settimana lavorativa di 41 ore per tutta la forza lavoro mondiale (che è circa il 66 per cento della popolazione in età lavorativa, cioè di età compresa tra 15 e 64 anni).Quasi un terzo delle attività economiche quotidiane in tutto il mondo riguarda la crescita e la raccolta di cibo (44 minuti circa), principalmente sotto forma di agricoltura. Circa un quarto (37 minuti circa) è formato dalle attività commerciali, finanziarie, politiche e gestionali. E circa un settimo (22 minuti circa) riguarda la produzione di manufatti, inclusa la fabbricazione di veicoli, macchinari, elettronica, elettrodomestici e tutti gli altri beni mobili e i loro componenti intermedi. Il tempo che resta è perlopiù suddiviso tra costruzione e manutenzione degli edifici, trasporto di merci e altri materiali, preparazione del cibo, istruzione e ricerca.Un contadino in una risaia a Bhaktapur, in Nepal, il 17 ottobre 2022 (AP Photo/Niranjan Shrestha)L’obiettivo della ricerca era ricavare, a partire da dati relativi a tutta la popolazione mondiale, una stima di quanta parte del loro tempo le persone dedicano in media alle diverse attività nell’arco della giornata. Ma i ricercatori e le ricercatrici hanno anche cercato di capire come la ricchezza (in termini di PIL pro capite) influenzi l’utilizzo del tempo, e hanno riscontrato alcune evidenti disparità, in parte prevedibili.Le persone che abitano nei paesi a più alto reddito, rispetto ai residenti nelle aree più povere, trascorrono in media circa 1,5 ore in più al giorno in attività ricreative, interattive e sociali come leggere, utilizzare dispositivi, giocare, passeggiare e altro. Viceversa, nei paesi più poveri le persone dedicano in media oltre un’ora alla coltivazione e alla raccolta del cibo: attività che nei paesi più ricchi occupa in media meno di 5 minuti al giorno.Dalla ricerca emergono anche attività che invece non variano in modo significativo con la ricchezza, come il tempo utilizzato per preparare il cibo, per il trasporto umano, per la pulizia personale e altre, per un totale del 30 per cento del tempo quotidiano delle persone da sveglie. Questo non implica che le parti di tempo dedicate a tali attività siano universali tra gli esseri umani, aggiungono gli autori e le autrici della ricerca: perché certamente variano da individuo a individuo. Solo che la variazione non è coerente con quella del PIL pro capite, e quindi la ricchezza materiale in questi casi potrebbe non essere influente.Una nave portacontainer passa davanti al castello Burg Pfalzgrafenstein, nel mezzo del fiume Reno a Kaub, in Germania, il 12 agosto 2022 (AP Photo/Michael Probst)Un altro aspetto colto dai ricercatori e dalle ricercatrici è la scarsa quantità di tempo dedicato alla gestione dei rifiuti fuori delle abitazioni rispetto al tempo dedicato a mantenere puliti e in ordine gli spazi abitati. «Sembra plausibile che molti problemi di rifiuti, tra cui l’accumulo di plastica negli oceani e la contaminazione tossica delle acque, potrebbero essere notevolmente ridotti attraverso una riallocazione relativamente piccola del budget totale del tempo umano».I risultati della ricerca costituiscono parte di un progetto più ampio, lo Human Chronome Project, che nelle intenzioni degli autori e delle autrici dovrebbe raccogliere e integrare dati tratti da altre fonti e servire come base per futuri lavori di ricerca sulle attività umane nel mondo. Questo approccio, concludono, potrebbe fornire una prospettiva empirica generale su ciò che la nostra specie sta facendo sul pianeta e prendere decisioni più informate su come ridistribuire il tempo per raggiungere obiettivi di sviluppo globale. LEGGI TUTTO

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    Che cos’è la “carne sintetica”

    In seguito alla presentazione di un disegno di legge del governo, da un paio di giorni si discute molto della cosiddetta “carne sintetica”, che come vedremo non è sintetica. Il provvedimento nasce col proposito di vietare la produzione e la vendita di «alimenti e mangimi sintetici» ed è stato fortemente voluto dal ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, Francesco Lollobrigida, che nei mesi scorsi si era detto in più occasioni contrario non solo alla “carne prodotta in laboratorio”, ma anche alle farine di insetti e alle etichette con avvisi per la salute sugli alcolici: tutti ambiti regolamentati o comunque sorvegliati dalle autorità di controllo dell’Unione Europea.– Ascolta anche: La puntata di Ci vuole una scienza sulla “carne sintetica”Il disegno di legge nella sua attuale forma contiene riferimenti a multe da 10mila a 60mila euro in caso di violazione dei divieti, che secondo Lollobrigida: «Intendono tutelare la salute umana e il patrimonio agroalimentare». Le nuove norme contengono però varie contraddizioni, compreso un divieto di produzione e vendita di prodotti ottenuti a partire da «colture cellulari o tessuti derivanti da animali vertebrati», una definizione che comprende di fatto anche la carne e i suoi sottoprodotti, consumati ogni giorno sia per scopo alimentare sia per i mangimi. Trattandosi di un disegno di legge, il testo riceverà probabilmente numerose modifiche nel corso dei vari passaggi in parlamento e ci sono dubbi sulla sua approvazione e applicazione.Un certo interesse verso la “carne sintetica” era stato sollevato nei mesi scorsi da Coldiretti, associazione di rappresentanza nel settore agricolo in Italia molto influente soprattutto in ambito politico. Lo scorso anno, Coldiretti aveva avviato una petizione che chiedeva esplicitamente di vietare il “cibo sintetico”, con una definizione piuttosto vaga e non priva di ambiguità. La petizione era stata firmata dai dirigenti di molti partiti e aveva ricevuto l’appoggio del ministro Lollobrigida, diventando molto discussa sui giornali e online.Per far conoscere la propria petizione, alcune sezioni di Coldiretti avevano preparato volantini nei quali si metteva a confronto il cibo “naturale” con quello “sintetico”. Il primo era illustrato con immagini bucoliche e idilliache, mentre il secondo con strumenti impiegati in laboratorio, uno scienziato in tuta da decontaminazione e scritte come «fa male all’ambiente» e «prodotto in un bioreattore». Il volantino diceva inoltre che il “cibo sintetico” «spezza lo straordinario legame che unisce cibo e natura», senza fornire però ulteriori spiegazioni.In questi casi la parola “sintetico” viene spesso contrapposta a “naturale”, anche se in realtà è molto difficile dire che cosa non sia naturale, considerato che per ciò che viene prodotto in laboratorio si parte in fin dei conti da quello che già esiste in natura. In generale il termine “sintetico” viene impiegato per indicare il risultato di una sintesi al di fuori degli organismi viventi: un tessuto sintetico, come quelli degli abiti sportivi, per esempio, differisce dal cotone o dalla lana che derivano rispettivamente da una pianta e dal vello di varie specie di animali.Nel caso della carne, a oggi nessuna delle alternative di cui parla il ministro Lollobrigida può essere considerata sintetica. Le ricerche nel settore proseguono da anni e con lo scopo di trovare metodi più sostenibili per produrla, che specialmente nel caso degli allevamenti di bovini comporta un grande consumo di energia e molte emissioni di gas serra. Questi allevamenti sono poco efficienti, di conseguenza si studiano possibilità alternative e a minore impatto ambientale, che ridurrebbero anche i problemi etici che si porta dietro l’attuale sistema di produzione di carne a livello industriale.Alcune alternative sono già disponibili, ma non hanno nulla di sintetico. La cosiddetta “carne vegetale” o “finta carne” è basata sulla lavorazione di ingredienti come grano, olio di cocco, patate e altri vegetali con l’obiettivo di farle avere consistenza e aspetto della carne vera. Gli hamburger e le bistecche di questo tipo si possono acquistare nei supermercati o in alcuni fast-food e sono famosi soprattutto grazie a marchi come Impossible Foods e Beyond Meat.Un altro metodo di produzione di carne alternativa prevede invece lo sfruttamento di alcuni funghi e microrganismi, che producono proteine sostituibili a quelle degli animali. Di per sé è una tecnologia nota da oltre un secolo e in origine era impiegata per produrre mangimi, partendo da lieviti che attraverso i loro processi di fermentazione producevano proteine. Tra i prodotti più conosciuti derivati da questa tecnica c’è il Quorn, che tecnicamente non è un vegetale, ma una sorta di muffa che viene poi impastata con albume d’uovo o con leganti derivati dalle patate nella sua versione vegana. Il Quorn se adeguatamente lavorato può assumere una consistenza che ricorda quella della carne, anche se il sapore e l’aspetto sono distanti da quelli di una bistecca.(Getty Images)Proprio per via della mancanza di prodotti alternativi alla carne che si avvicinino all’esperienza di mangiare della carne, soprattutto rossa, da tempo si cerca di creare della carne in vitro, cioè partendo da cellule animali che vengono fatte crescere e differenziare per produrre tessuti, imitando di fatto ciò che avviene normalmente con la crescita di un essere vivente. È un ambito di ricerca piuttosto articolato e che ha portato a qualche risultato concreto, seppure su piccola scala e con esiti non sempre incoraggianti. Ci sono aziende in Israele, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti che hanno avviato la produzione, per lo più con un approccio dimostrativo per verificare la sostenibilità dei loro progetti. In Italia non ce ne sono.Le tecniche più diffuse prevedono di partire da cellule staminali, che non sono quindi ancora specializzate e che hanno la potenzialità di differenziarsi nei vari tipi di cellule mature che costituiscono poi un tessuto. Le cellule non sono “sintetiche”, ma derivano da un prelievo effettuato da animali già vivi o da embrioni, a seconda dei casi e dei filoni di ricerca e sviluppo.Isolate le cellule staminali idonee, si procede a inserirle in particolari contenitori nei quali è presente un terreno di coltura, di solito una soluzione che contiene sostanze nutrienti di vario tipo. In questo modo le cellule iniziano a crescere e a replicarsi, ma il procedimento non è sufficiente per arrivare a un tessuto paragonabile al muscolo di un animale, cioè alla carne che viene normalmente consumata. Le cellule hanno bisogno di una sorta di impalcatura che le sostenga, che permetta loro di respirare, continuare a proliferare e a differenziarsi. In pratica si deve trovare il modo di ricreare la struttura tridimensionale della carne, che è ciò che dà la consistenza e la capacità stessa del tessuto di non sfaldarsi durante la cottura.Il processo deve essere poi ripetuto su una scala molto più grande e può coinvolgere l’impiego dei bioreattori, quelli citati nel volantino di Coldiretti. Nella sua forma più semplice, un bioereattore non è una novità: è un contenitore che mantiene una certa temperatura e a seconda dei casi garantisce un flusso costante di nutrienti. Viene impiegato da millenni in campo alimentare. La produzione di birra o di yogurt, che implica la presenza di microorganismi che rendono possibile la fermentazione, avviene in contenitori che sono di fatto bioreattori. Lo stesso vale per produzioni molto più sofisticate in ambito farmaceutico, per esempio per la produzione dell’insulina, molto importante per tenere sotto controllo alcune forme di diabete.Le aziende che vogliono produrre carne in questo modo hanno finora incontrato difficoltà nel passare dalla modalità su piccola scala in vitro a quella su scale più grandi, utilizzando bioreattori che consentano di produrre molti chilogrammi di carne. Gli investimento nel settore non mancano, proprio per le potenzialità del sistema e per l’interesse di chi vorrebbe continuare a mangiare carne, ma senza gli svantaggi ambientali e i problemi etici legati agli allevamenti tradizionali.In generale, tutte le alternative alla carne bovina hanno minori conseguenze in termini di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, i principali responsabili del riscaldamento globale. I prodotti come il Quorn o la “carne vegetale” hanno un impatto molto basso, inferiore anche a quello della carne prodotta in laboratorio. Stimare gli effetti sull’ambiente non è comunque semplice, e cambieranno probabilmente nel momento in cui alcune di queste soluzioni diventeranno più diffuse.Il settore è ancora piccolo, coinvolge numerose startup e ci sono dubbi sulla loro capacità di sopravvivere, considerato che per ora si finanziano soprattutto grazie ai fondi di investimenti, che scommettono sul loro futuro. L’eventuale passaggio alla carne prodotta in modo alternativo è quindi ancora distante e per questo il disegno di legge voluto dal ministro Lollobrigida sembra più una scelta di comunicazione, che non avrà un particolare impatto sul settore alimentare.Il riferimento per ciò che è considerato sicuro da consumare sono del resto i regolamenti dell’Unione Europea, che considerano novità alimentari (“novel food”) questo tipo di prodotti, cioè alimenti mai consumati all’interno dell’UE in quantità significative e tali da essere definibili “cibo”. Ogni nuovo specifico alimento deve quindi ricevere un’autorizzazione, vincolata a una valutazione da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). Non è chiaro quale sia stata la considerazione da parte del ministro Lollobrigida su un pericolo imminente tale da approvare un disegno di legge «con procedura d’urgenza».L’eventuale messa in vendita in futuro di prodotti di carne alternativa non implicherebbe inoltre la fine degli allevamenti tradizionali, ma aggiungerebbe una possibilità di scelta in più per chi consuma carne. Anche per questo iniziative di legge di questo tipo, che avrebbero un impatto su un settore emergente, potrebbero ricevere obiezioni da parte delle autorità europee. LEGGI TUTTO